Archivio di marzo 2021

THE DIRTY KNOBS – Wreckless Abandon

di Paolo Crazy Carnevale

28 marzo 2021

Dirty Knobs - Wreckless Abandon (1)

THE DIRTY KNOBS – Wreckless Abandon (BMG 2020)

Nostalgia di Tom Petty? E chi non ne ha…. Anche se a dire il vero, da quando è mancato la sua famiglia non ha certo lesinato in pubblicazioni d’archivio.

Il sano rock’n’roll all’americana di cui Petty è stato l’alfiere, anche più di taluni suoi maestri, continua ad essere linfa vitale per tutti gli amanti del genere. I Dirty Knobs sono la side band di Mike Campbell, chitarra e di tanto in tanto sparring partner di Tom in sede di composizione, nonché il pard più presente anche nei dischi pettyani al di fuori della famiglia Heartbreakers. Una side band per altro non di recentissima formazione che avrebbe dovuto uscirsene con questo disco (prodotto da George Drakoulias) proprio un anno fa e che poi per pandemici motivi è rimasta lì col disco finito, come tanti altri, senza possibilità di promozione. Così la BMG ne ha ritardato l’uscita per un po’ di mesi, quando è stato evidente che comunque la promozione rimaneva una cosa aleatoria, si è decisa a pubblicarlo.

Per fugare ogni dubbio diremo subito che è un buon disco, un disco di rock’n’roll come si deve, con le chitarre e il cuore al posto giusto, i riff, il sound e tutto il resto. Certo, nelle note di copertina Campbell parla di canzoni che salvano la vita, e onestamente parlando, nei dischi degli Heartbreakers ce n’era più d’una, qui forse la cosa è un po’ pretenziosa, d’altronde non è detto che ad una canzone si chieda proprio quello, ci si accontenta anche solo che la renda un po’ migliore.

Campbell è stato l’ossatura degli Heartbreakers per tutta la loro esistenza, ma non è Tom Petty, anche se , va da sé, i punti di riferimento sono gli stessi.

Così questo album (doppio vinile) è un buon disco, una dozzina di canzoni di varia ispirazione, qualcuna notevole, qualcuna un po’ più risaputa.

L’inizio è sicuramente da incorniciare, i Dirty Knobs infilano una dietro l’altra due delle cose migliori del disco, due brani di sicura (ma non facilmente scontata) presa: si comincia con la lunga title track, che dopo un’overture psichedelica sfodera un possente riff degno dei migliori Rolling Stones (o dovremmo dire del miglior Keith Richards?) e poi si assesta su un asse sonoro in perfetto equilibrio tra gli Stones e i Byrds, dimostrando la maestria di Campbell nella scelta delle sonorità.

Sempre gli Stones, ma quelli di Honky Tonk Women, con tanto di campanaccio da mucche, sembrano il riferimento di Pistol Packing Mama, border song che beneficia del Farfisa di Augie Meyers e della voce di Chris Stapleton in rinforzo a quella di Campbell. Nulla a che vedere con la classica song country & western dal medesimo titolo, bensì un contagioso riff e ed un altrettanto piacevole refrain, sicuramente una delle cose migliori del disco.

Il primo lato si chiude sul più scontato rock da FM intitolato Sugar, cantato con Petty in mente ma dalla struttura più hard. La seconda facciata si apre col boogie Southern Boy che prosegue sui binari del brano precedente, con più fantasia e con una parte centrale ed un finale che mettono in risalto tutto il talento di Campbell alla sei corde. Sembra esserci una tastiera, ma le note di copertina ne tacciono il suonatore. I Still Love You è una robusta slow ballad che ancora una volta deve molto a Petty ma anche all’AOR in generale. Anche in questo caso il lavoro della chitarra solista è spettacolare, quasi in odor di ballata metal.

Le atmosfere si fanno più intime con il brano che chiude il primo vinile, un brano quasi acustico intitolato Irish Girl, con tanto di armonica (anche qui il suonatore è stato omesso dalle note di copertina), un po’ alla Dylan, o quanto meno al Dylan secondo Petty con echi di McGuinn.

Il secondo disco comincia con Fuck That Guy, breve composizione che mette in evidenza le doti di Mike alla slide, poi c’è un sostanzioso omaggio a John Lee Hooker, con Don’t knock That Boogie, lunga (quasi sette minuti) composizione che partendo da un classico riff alla Hooker sfocia poi in una robusta iniezione di elettricità sfoderata dalla sei corde del leader: e a questo punto lo avrete ben capito, il vero punto di forza del disco è proprio le la chitarra elettrica in tutte le sue manifestazioni.

Anche Don’t Wait si snoda su un riff già sentito, qui siamo dalle parti di Howlin’ Wolf, ma la voce di Campbell non è così ululante. Di nuovo però il chitarrista ci spiazza con la parte centrale in cui di nuovo la sei corde impazza. Anna Lee apre l’ultima facciata in odor di ballata acustica, quasi i Dirty Knobs volessero farci riposare le orecchie, prima del tour de force finale introdotto da Aw Honey, con qualche richiamo ai Del Fuegos, con ospite Benont Tench al piano e di nuovo l’armonica non accreditata, e concluso con Loaded Gun che col duo di brani posti in apertura si attesta tra le cose migliori del disco, ancora rock’n’roll sferragliante e ispirato, ancora chitarre incendiarie.

In fondo al disco troviamo una breve coda in chiave slide di Don’t Knock That Boogie.

Paolo Crazy Carnevale

HAT CHECK GIRL – Kiss Me Quick

di Paolo Baiotti

26 marzo 2021

Hat-Check-Girl-Kiss-Me-Quick-

HAT CHECK GIRL
KISS ME QUICK
Autoprodotto 2020

Musicisti rodati con notevoli esperienze alle spalle, Peter Gallway e Annie Gallup condividono da dieci anni il progetto Hat Check Girl, avviato nel 2010 con Tenderness, giunto all’ottavo capitolo.
Peter è un cantautore e polistrumentista attivo già negli anni sessanta nel Greenwich Village. Ha inciso tre dischi per la Warner/Reprise e in seguito una trentina di album per varie etichette, da solista o con dei gruppi (The Fitfh Avenue Band, The Real Band, Parker Gray). Come produttore ha seguito numerosi dischi, tra i quali la raccolta Bleecker Street: Greenwich Village in the ‘60s, nominata per un Grammy e l’ultimo album di Laura Nyro.
Annie è una cantautrice cresciuta con la passione per il country-blues, che ha inciso una dozzina di album per etichette indipendenti, molto attenta all’uso delle parole e all’aspetto poetico delle canzoni.
Kiss Me Quick è una raccolta di duetti cantati e suonati senza altri aiuti con Peter alla chitarra, fisarmonica, tastiere, basso e batteria e Annie alla chitarra, dobro e lap steel, incisi nello studio di Peter a Rockland in Maine. E’ un disco di folk prevalentemente acustico, dai toni moderati ed eterei, in cui si nota una grande attenzione per i testi e per il modo in cui le parole si fondono e scorrono, con le frasi spesso iniziate da una voce e concluse dall’altra. Spiccano le curate armonie vocali specialmente in Second Monday Of The Week e My Dream Last Night, le atmosfere jazzate di Kiss Me Quick, la delicatezza di He Loved Horses, il country appena elettrificato di Moving West e il mix di narrazione e cantato di Memory.
Il disco è raffinato e soffuso, arrangiato con cura e adatto ad un ascolto serale e notturno, pur risultando a tratti un po’ monocorde.

Paolo Baiotti

SCOTT McCLATCHY – Six Of One

di Paolo Baiotti

25 marzo 2021

2. FINAL Front Cover

SCOTT McCLATCHY
SIX OF ONE
Lib Rec 2020

Scott è rimasto fermo dieci anni, anche per motivi di salute, prima di incidere Six Of One in cui alterna sei brani autografi e sei covers che ne chiariscono le influenze e le passioni, da The Band a Graham Parker, da Steve Forbert a Butch Walker. Partito come cantante, autore e chitarrista di The Stand, band di Filadelfia, ha lasciato la città d’origine per New York nel 2000, dove ha collaborato con Scott Kempner e Manny Caiati dei Del-Lords per il suo esordio solista Blue Moon Revisited, seguito da Redemption e Burn This, dischi caratterizzati da un energico blue-collar rock. In seguito ha pubblicato A Dark Rage, scritto e prodotto con Billy Lee, autore dell’area di Nashville. Dopo il quarto album si è dedicato con lo stesso Lee a scrivere brani per altri artisti e per colonne sonore, in area country-roots; ha anche suonato come session man e in tour con Dion e Dave Kinkaid.
In passato ha definito la sua musica Americana, Rock And Roll, Folk…un mix di impronta cantautorale rock influenzato oltrechè dai nomi sopra indicati, da maestri del genere come John Fogerty, Bob Seger e Bruce Springsteen.
Six Of One è un ritorno caldo e riuscito, in cui i brani del cantautore non sfigurano rispetto alle covers che potrebbero sovrastarli. Registrato tra New York, New Jersey, Ohio e Nashville con una band basata sulle chitarre di Chris Erikson e Dave Consiglio, la batteria di Jeff Pancoast e il basso di Roy Fisher, con frequenti inserimenti della sezione fiati degli High School Horns, l’album scorre veloce e pieno di entusiasmo, trainato dalla voce sporca di Scott, perfetta per un repertorio chitarristico che raggiunge l’apice nelle autografe Summer of ’89 e Roving Eye in cui fanno la loro figura le chitarre vibranti di Scott Kempner e Eric Ambel (la metà dei Del-Lords), poste quasi in chiusura del disco, prima della cover folk di Grand Central Station di Steve Forbert in cui si inserisce l’armonica di Tommy Womack.
Quanto alle altre tracce, tra le cover spiccano l’accoppiata della dolente e rallentata Smoke di Ben Nichols (Lucero) e di una vivace Ophelia (Robbie Robertson), entrambe bagnate dalla giusta dose di fiati, nonché l’errebi di Heat Treatment (Graham Parker), mentre tra i brani di McClatchy la vigorosa Rock And Roll Romeo, l’irish-rock di Wedding Day Dance con il violino di Rosie MacNamara e la ballata Break Even meritano di essere citate, anche se il disco non ha momenti di vera debolezza.

KERRY PATRICK CLARK – What A Show

di Paolo Baiotti

23 marzo 2021

kerry clark

KERRY PATRICK CLARK
WHAT A SHOW
Autoprodotto 2020

Cantante, autore, narratore, psicologo, poeta, intrattenitore: non è facile definire l’ambito delle attività di Kerry, che si fondono nei suoi spettacoli dal vivo pieni di umanità e di humour. Mischiando generi attuali e del passato, dal pop al folk, dal country alla musica tradizionale, con dei testi basati su esperienze personali di vita che spesso riesce a far sembrare universali, Clark è un artista multiforme originario dell’Ohio, che ha iniziato il suo percorso con il gruppo folk The New Christy Minstrels, dedicandosi in seguito ad una carriera solista che, avviata con A Simple Man, è giunta al nono capitolo, con momenti di discreta popolarità in ambito roots specialmente con In A Perfect World e His Story-My Story.
In What A Show torna con la memoria all’infanzia e alla passione per il circo e le attività correlate partendo con la morbida title track, seguita dalla pianistica Clown Car basata su Bag O Rags, un ragtime del 1912, con riferimenti a due famosi gruppi di clown americani, The Keystone Cops e The Ringling Bros. e dalla bluesata Everyone’s Welcome Here in cui la voce assume tonalità confidenziali. La delicata ballata A Father’s Love è caratterizzata dalla fisarmonica di Nomad Ovuc che nel disco suona anche le tastiere e che affianca Kerry (voce, chitarra, percussioni, banjo, armonica) insieme a Chad Watson (basso, trombone, mandolino) e offre un messaggio positivo, ribadito dalla mossa Ain’t No Stopping Us Now influenzata dal soul della Motown.
Nella seconda parte del disco, meno convincente e più scontata, emergono la ritmata The Walls Come Tumbling Down, la disinvolta You Matter e la drammatica Borrowed Bones. L’album è chiuso da una versione dal vivo acustica di Circus Town, la prima canzone scritta da Clark nell’adolescenza, appesantita da una parte narrata troppo lunga.

THE GRAND UNDOING – In A Vigil State

di Paolo Baiotti

21 marzo 2021

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THE GRAND UNDOING
IN A VIGIL STATE
Secret Candy Rock 2020

The Grand Undoing è un collettivo di musicisti dell’area di Boston che ha come leader ed elemento unificatore il cantante e chitarrista Seth Goodman, che ha scritto e prodotto (con Ted Powers) il nuovo album In A Vigil State, il quarto della loro storia, a quattro anni da Sparks Rain Down From The Lights Of Love. Se questo album, come i precedenti Appeasing The Sick del 2011 e White Space Flavors And Parties On Tv del 2014, aveva incardinato il suono in un mix di power-pop, prog, psichedelia e punk (le 5P come amano definirle loro), il nuovo disco sterza decisamente verso il power pop, sempre un po’ stralunato, specialmente quando la voce di Seth sembra riecheggiare le tonalità di David Byrne, una delle sue influenze principali con David Bowie ed Elvis Costello.
L’opener Into The Glitter è un’esemplare canzone pop con melodie accattivanti intessute dalle chitarre e un’atmosfera rilassata. A Little Piece Of Ground è più ritmata ed energica, mentre Highway (You Can Ride Away) è una ballata con echi psichedelici nell’assolo di chitarra dai sapori pink floydiani. Il power-pop di Wave, la deliziosa ballata See All I See, il pop di Darkness debitore degli XTC con la pedal steel di BJ Cole e il pop in stile sixties di Sunsetter rendono il disco molto scorrevole, mentre Step In richiama nuovamente le influenze psichedeliche meno presenti rispetto al passato e Silver Songs ha un coro che sembra preso di peso da un disco di Bowie degli anni settanta.
Un disco di pop intelligente e melodico, ben scritto e cantato discretamente, forse a tratti un po’ ripetitivo, concepito, scritto e inciso in un periodo piuttosto lungo con l’aiuto determinante di Ted Powers che, oltre a produrre, ha arrangiato alcuni brani e organizzato le parti corali e della sezione ritmica formata da Dave Westner (basso) e Andy Plaisted (batteria).

DAVID BROMBERG BAND – Big Road

di Paolo Crazy Carnevale

18 marzo 2021

David Bromberg Band - Big Road Blues (1)

David Bromberg Band – Big Road (Red House Records 2020)

A quattro anni di distanza dal bel botto di The Blues, The Whole Blues And Nothing But The Blues, Bromberg si è chiuso in studio con la sua rodata band e il produttore Larry Campbell per consegnarci un altro disco eccellente.

Se nel predecessore il filo conduttore era il blues, qui l’approccio è più roots, con strizzate d’occhio al country. Non cambia però la sostanza: David Bromberg, a più di cinquant’anni dalle sue prime esperienze come turnista, si conferma un’autentica forza della natura, sia sul palco che in studio, attorniato da musicisti all’altezza della sua fama e capaci di spaziare tra i generi senza sbavare, senza eccedere, con interventi misurati di bellezza estrema.

Il disco si apre con la title track, un brano sorretto dalla sezione fiati in cui Bromberg e il suo compare Mark Cosgrove si divertono con le chitarre elettriche, poi nella seguente Lovin’ of The Game il disco vira al country, grazie alle belle intuizioni di Cosgrove al mandolino e alla pedal steel del produttore, mentre il titolare si occupa dell’acustica.

La chitarra elettrica di Bromberg è invece il marchio di fabbrica dello slow Just Because You Didn’t Answer insieme al violino di Nate Grower, uno dei pilastri della formazione con il batterista Kanuski e Cosgrove che qui provvede magnificamente ai cori insieme al bassista Suavek Zaniesienko; per l’occasione qui al piano troviamo Dan Walker. Poi si torna al country col brano autografo George, Merle & Conway, con un grande lavoro di Campbell alla pedal steel, dell’acustica di David e del pianista, ottimo tributo a George Jones, Merle Haggard e Conway Twitty.

Il primo lato, come accadeva nel disco precedente, si chiude con un gioiellino acustico, Mary Jane, eseguito in punta di chitarra e cantato come Bromberg sa ben fare quando si accosta a materiale di questo tipo. La seconda parte del vinile si apre con uno di quei medley che sono la specialità di Bromberg, Maiden’s prayer/Blackberry Blossom/Katy Hill è uno strumentale in cui la formazione rende al meglio, con inserti di violino, chitarre acustiche e ben tre mandolini (Bromberg, Cosgrove e Grower), cucendo in maniera splendida, e sottolineiamo splendida, blues, old time music, bluegrass, sonorità irish.

Poi è di nuovo slow blues, Who Will The Next Fool Be di Charlie Rich, in versione big band, con i fiati arrangiati da Birch Johnson e un lavoro di fino di Bromberg e Cosgrove con le chitarre acustiche.

The Hills Of Isle Le Haut è una notevole composizione di Gordon Bok, resa dalla David Bromberg Band in versione molto corale, sia per quanto riguarda le voci, sia per l’arrangiamento in cui c’è spazio per tutti, da Cosgrove all’acustica a Grower col suo violino. David va di elettrica in stile folk rock e a rafforzare l’aspetto melodico c’è la fisa di Dan Walker.

Il finale vede di nuovo la band in formato acustico con una rilettura del classico Roll On John, riletta in versione molto accorata.

Come per il disco precedente, la versione in CD contiene tre brani in più, ovviamente non da meno, che l’edizione vinilica regala nel formato download: Standing in the Need of Prayer, Diamond Lil e Take This Hammer di Huddie Leadbetter.

Paolo Crazy Carnevale

SU ANDERSSON – Train Stories

di Paolo Baiotti

11 marzo 2021

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SU ANDERSSON
TRAIN STORIES
Firma Su 2020

Le traiettorie della vita sono misteriose…a volte capitano le cose più strane. Così può succedere che un architetto di successo della costa ovest della Svezia, nonché amministratore delegato di una società con alle spalle una carriera nel mondo del lavoro di 35 anni, a un certo punto si ricordi della passione giovanile per la musica e decida di mollare tutto per dedicarsi ad una nuova avventura. Questo è successo a Su Andersson intorno al 2015: qualche registrazione, la partecipazione a serate per apprendisti folksingers in Svezia e a New York e poi l’ascolto di un disco della cantautrice Laura Gibson, Empire Bulding, basato su un viaggio in treno negli Stati Uniti. Anche Su ha deciso di viaggiare coast to coast da Chicago a San Francisco e ritorno, raccontando sensazioni di viaggio, episodi, storie di altri passeggeri e sogni con un accompagnamento musicale che miscela elementi di folk e pop-rock cantautorale con qualche influenza country e una voce sufficientemente sicura, seppur non particolarmente originale, nella quale si possono ritrovare echi di Chrissie Hynde, Kate Campbell e Rosanne Cash. Sul suo sito c’è anche una mappa con l’indicazione dei luoghi visitati, mentre il libretto del cd aggiunge ai testi in inglese alcune foto del viaggio.
Così l’opener For Roses And Rain descrive l’attesa per la partenza, On The Train part 1 racconta le prime due giornate di viaggio e la swingata e bluesata On The Train part 2 le ultime ore. In mezzo ci sono gli incontri: quello con un pescatore e suo figlio o con il sindaco di Cameron in Arizona, le sensazioni dei fiori a San Francisco, il risveglio in un’alba nebbiosa raccontato dalla deliziosa ballata Early Morning Alleys, la scoperta di una cittadina in Hibiscus Margaritas, la grandezza di Los Angeles in The City Of Dark And Bright Angels.
Prodotto con Henning Sernhade e Frida Claeson Johansson e registrato quasi interamente a Goteborg con un ristretto gruppo di musicisti, Train Stories è un esordio più che discreto che conferma il fascino dell’Americana per molti musicisti svedesi

GUNTHER BROWN – Heartache & Roses

di Paolo Baiotti

11 marzo 2021

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GUNTHER BROWN
HEARTACHE & ROSES
Autoprodotto 2020

Gunther Brown è un sestetto di roots-rock proveniente da Portland nel Maine. Uno di quei gruppi nati e cresciuti alla periferia dell’impero, in uno stato lontano dai centri della musica americana, che sono riusciti comunque a crearsi una nicchia di appassionati grazie alla passione e alla determinazione. Pur essendo attivi dal 2009 (all’epoca pubblicarono un demo), hanno esordito nel 2014 con Good Nights For Daydreams, seguito due anni dopo da North Wind. Tra il 2017 e il 2020 hanno avuto una lunga pausa con dei ripensamenti sulla line-up, rinnovata con l’inserimento alla seconda voce e chitarra di Greg Klein, già leader dei Dark Hollow Bottling Company, altra band di alternative-country e lo spostamento alla chitarra di Mark McDonough sostituito al basso da Drew Wyman. Questi elementi si sono aggiunti alla voce solista del leader Pete Dubuc, alla batteria di Derek Mills e alle tastiere e chitarra di Joe Bloom.
Heartache & Roses è un disco di rock energico e melodico con venature country, sulle tracce dei Jayhawks e degli Old’97, con armonie vocali curate e pregevoli, notevoli break strumentali e una scrittura sincera e credibile, con quel tocco provinciale che rappresenta spesso il meglio dell’universo musicale americano. Tra i brani spiccano ballate toccanti come Garden, la dolente Rudderless che mi ha ricordato nella voce e nello sviluppo il southern-soul di JJ Grey & Mofro, la soffusa One For Every e la cadenzata Same Place, Same Time in chiusura del disco, che si alternano a tracce più scorrevoli con intrecci vocali e tocchi di armonica come la title track, Remember con qualche sentore di REM, l’ironica New Man e la trascinante Unlearned, caratterizzata da un testo e da un video di critica politica e sociale.
Gunther Brown è un gruppo intrigante, una realtà del roots rock americano meritevole di essere approfondita.

MARBIN – Russian Dolls / Ten Years In The Sun

di Paolo Crazy Carnevale

8 marzo 2021

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Marbin – Russian Dolls / Ten Years In The Sun (Marbin Music 2020)

Un doppio? Due dischi ben distinti! Questo CD uscito lo scorso anno sotto il nome del gruppo formato da Danny Markovitch e Dani Rabin e allargato di volta in volta a differenti sezioni ritmiche è il frutto di due progetti solisti, ciascuno ascritto ad uno dei due musicisti, progetti covati a lungo nel tempo ma che solo a causa dell’isolamento forzato imposto dalla pandemia hanno visto la luce.
I due Marbin (il nome è un’evidente crasi tra i cognomi dei due leader) infatti, costretti al caserma rest e allo stop dell’attività concertistica hanno ciascuno dato sfogo alla propria vena compositiva con questi due brevi lavori (avrebbero potuto stare entrambi su un solo disco, ma data la diversità e la paternità dei progetti sono stati giustamente pubblicati su due supporti), rigorosamente improntati il primo sul sax di Markovitch ed il secondo sulla chitarra di Rabin.
I due musicisti di Chicago, come per i dischi in gruppo si affidano al miscuglio tra jazz e tradizione, fedeli all’adagio che il miglior jazz ha un piede nella tradizione ed uno nell’innovazione: questo in particolare accade nel primo dei due dischetti, in cui Markovitch e il suo sassofono sono protagonisti lasciando il contributo di Rabin all’accompagnamento sia con chitarra che con il basso, lasciando piuttosto spazio al batterista Antonio Sanchez (titolare di quattro Grammy) nei momenti in cui il jazz si fa più preponderante, come in Years That Ask Questions o nella speculare Years That Answer. Ma altrove, When There Becomes Here e Yellow Roman Candles lo stile legato alla musica ebraica sviscerato molto bene nei dischi dei Marbin emerge con prepotenza, Ship At A Distance è per contro una slow ballad d’effetto, mentre il brano che conclude il disco, Things Of Dry Hours vira verso il tango argentino virato yiddish.
Il discorso cambia col disco accreditato a Rabin, un disco per sola chitarra, più staccato dalle sonorità Marbin, stessa durata del disco del socio ma i brani sono il doppio, più brevi, più intimi. Un viaggio sonoro differente: se nelle matrioske di Markovitch il concept di fondo era legato appunto alle bambole russe viste non come una famiglia ma come una serie di ego differenti che si contengono uno nell’altro, nei piccoli viaggi acustici incastonati da Rabin nel suo Ten Years In The Sun il chitarrista mette insieme una raccolta di appunti musicali messi insieme in dieci anni di viaggi musicali, quasi dei brevi sketches resi mirabilmente col solo aiuto di una cristallina chitarra acustica, For Soraya, Down And Out In Barcelona, Sandbox World, Polish Winter sono esempi di brani senza classificazione, senza età; altrove, come Strong Wind o Mom’s Song ci troviamo al cospetto di frammenti molto raccolti, November Guest ha nascosti in sé vaghi richiami di quella musica della tradizione ebraica così evidente nel suono Marbin. E non mancano le composizioni marcatamente jazz, dalla finale The Last Thing alla title track, a Shadow Waltz.
I due dischi, venduti in forma solida come doppio, sono acquistabili in forma liquida anche separatamente.

Paolo Crazy Carnevale

KAURNA CRONIN – Aloft In Blue

di Paolo Baiotti

3 marzo 2021

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KAURNA CRONIN
ALOFT IN BLUE
Autoprodotto 2020

Kaurna Cronin è un cantautore australiano più volte premiato in patria, che ha girato a lungo in Europa (speciamente in Olanda, Belgio e Germania), Canada e Stati Uniti con una band prevalentemente acustica di stampo folk, anche se negli ultimi dischi ha accentuato l’aspetto melodico e le influenze pop. Ha alle spalle cinque album a partire dal 2012 con Feathers
Aloft In Blue è un disco in cui pop, folk e rock e un pizzico di soul vengono miscelati con preferenza per atmosfere leggere, ballabili e melodiche che si adattano alla voce morbida e accattivante di Kaurna Cronin (voce, armonica, piano, armonica, synth, batteria) che a tratti ricorda Al Stewart, a partire da Glass Road e The Part Of Me I Let You See che aprono il disco seguite dalla sognante Wishing On Forever. La seconda voce di Lauren Henderson si affianca spesso al leader, che ha scritto, prodotto e registrato l’intero disco in Australia. Se alcune ballate come Sucker For That che colpisce per emotività e arrangiamento melodico con l’aggiunta di spruzzate d’armonica, l’avvolgente Aloft (How Far Will This Go) e la riflessiva The Dead Things Grow posta in chiusura convincono per capacità di scrittura e di sviluppo altrove, soprattutto dove il ritmo si incrementa, il disco mantiene una leggerezza di fondo un po’ eccessiva, più vicino ad un easy listening seppur di discreta fattura, come nella radiofonica Roses Can Be Blue, nella scorrevole Give Your Love To A Stranger e in All The Years To Come.
In conclusione Aloft In Blue è un disco nel quale prevalgono le colorazioni tenui, delicato e sognante, con dei testi intimi ed espressivi e arrangiamenti raffinati.

SURRENDER HILL – A Whole Lot Of Freedom

di Paolo Baiotti

3 marzo 2021

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SURRENDER HILL
A WHOLE LOT OF FREEDOM
Blue Betty Records 2020

Prima di unire le rispettive forze e di formare il duo Surrender Hill, Robin Dean Salmon e Afton Seekins Salmon hanno sviluppato esperienze soliste più o meno soddisfacenti. Il primo, cresciuto in Sud Africa e tornato in Texas quando la sua famiglia acquistò un ranch, ha assorbito la tradizione di Bob Wills e Marty Robbins mischiata con il punk dei Sex Pistols e dei Clash. Ha formato la band See No Evil con la quale si è spostato a New York dove ha firmato per la Sony, ma dopo avere affrontato problemi di ogni tipo è tornato alla musica delle radici avvicinandosi all’alternative country e conoscendo la futura moglie Afton. Dal canto suo la ragazza, cresciuta tra l’Alaska e l’Arizona, è diventata coreografa di successo a New York, ma non ha resistito al richiamo dell’ovest ed è tornata in Arizona per approfondire le sue doti di scrittura.
Il duo ha esordito nel 2015 con l’omonimo album seguito due anni dopo da Right Here Right Now e nel 2018 da Tore Down Fencies, un disco di roots rock intimo e personale nei testi, nel quale hanno cercato di spiegare i momenti positivi e negativi di una relazione tra due artisti, mentre nei precedenti album emergevano gli aspetti dell’innamoramento e della prima fase di un rapporto interpersonale. Nel 2019 è uscito Honky Tonk, un disco rilassato di country tradizionale che si distacca dai precedenti.
A Whole Lot Of Freedom ribadisce le radici country con venature pop e rock, come si evince dalla title track che apre l’album. Robin è la voce principale (profonda, morbida, melodica, con accenti soul): suona chitarra, piano, armonica, mandolino e dobro. Afton lo affianca alla voce solista e suona le percussioni. La band comprende Matthew Crouse alla batteria, Jonathan Callicutt alla chitarra, Wyatt Espalin al violino e Tom Crawford all’armonica. Il disco è stato registrato in Georgia nello studio di famiglia Blue Betty dallo stesso Salmon.
Il melodico e raffinato western sound di Turn This Train Around e le ballate Winter’s End (cantata da Afton) e Carry On confermano le impressioni positive, ribadite dal mid-tempo Broken Down Car e dall’intima Beautiful Wren, dedicata alla figlia. Si apprezzano le melodie vocali della coppia, molto affiatata anche dal punto di vista musicale, nella delicata Healing Song, nel roots rock Wanderer o nella storia di un pusher raccontata in The Ballad Of Rebel Wingfield che chiude un disco che, pur essendo il frutto della scrematura tra ben 36 canzoni che si sono ridotte a 18, risulta troppo lungo e con uno squilibrio eccessivo a favore della voce solista maschile.