Archivio di marzo 2016

DAVID BERKELEY – Cardboard Boat

di Paolo Crazy Carnevale

31 marzo 2016

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DAVID BERKELEY – Cardboard Boat (Straw Man Music/Hemifran 2015)

Curioso personaggio questo David Berkeley: un cantautore originario del Garden State lontano anni luce dalle sonorità degli alfieri musicali del suo luogo d’origine e da tempo stabilito nella meno caotica Santa Fé, New Mexico. Curioso perché nonostante abbia inciso nel corso degli anni quasi una decina di dischi, sembra preferire la parallela carriera che conduce come narratore, come dimostra proprio questo suo ultimo prodotto, nato all’inizio come “companion” – per dirla all’americana – del suo recente libro per bambini The Free Brontosaurus. Il disco però non contiene propriamente musica per bambini e così ha finito per divenire quasi una cosa a sé stante col titolo di Carboard Boat.

Si tratta di un disco molto intimo, composto da dieci brani dalle atmosfere rilassate, cantati con voce ispirata e con un accompagnamento non minimale ma quasi con l’intento di proporre delle canzoni che siano ispirate dal punto di vista di dieci differenti personaggi del libro (ritratti al centro del booklet)

Le composizioni di Bekeley sono apprezzabilissime e ce ne sono alcune che fanno breccia nell’ascoltatore, merito senza dubbio della produzione e dall’accompagnamento strumentale tutt’altro che scontato.

Per comprendere bene andiamo a dare un’occhiata alle note di copertina, scoprendo così che il disco è stato registrato a Chupadero, vi dice nulla questo posto? Si tratta del luogo dove è situato lo studio di Jono Manson, che è appunto coproduttore del disco e vi suona in qualche brano. Tra i musicisti coinvolti troviamo poi Sara Watkins (Nickel Creek), il polistrumentista Jason Crosby (che con Manson aveva collaborato anche al disco dei Gang), il chitarrista Bill Titus, Jordan Katz (presente in dichi di Iggy Pop, Indigo Girls, Jimmy Cliff, Dan Bern) e il batterista Matthias Kunzli, dal curriculum infinitamente lungo.

Se il primo brano è di quelli molto intimisti, e nel disco ve n’ è più d’uno (ad esempio la title track, sorretta da un drumming su cui però si inseriscono mano a mano gli altri strumenti fino a sfociare in un crescendo impreziosito da un vero e proprio tour de force del violino di Jason Crosby), con la successiva To The Sea arriviamo subito ad uno dei momenti topici del disco, con la voce della Watkins che quasi duetta con quella del leader. E non sono da meno Colored Birds, il valzerone Last Round di nuovo con la Watkins in bell’evidenza e la delicata Wishing Well, caratterizzata dall’organo di Will Robertson e dall’uso di violino, cello e tromba che conferiscono al brano una sorta di atmosfera cameristica per il risultato che ne esce. Altro brano di grande effetto è Hole In My Heart, altro valzer contrappuntato da banjo e violino, mentre un’altra grande composizione è Brighter Day che inizia appena sussurrata e conta sul curioso mélange tra la folta sezione d’archi e gli altri strumenti. Dinosaurs And Sages lascia invece meno il segno, al pari della conclusiva Broken Crown, altro brano molto intimista.

ROBBIE FULCKS – Upland Stories

di Ronald Stancanelli

30 marzo 2016

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Robbie Fulks
Upland Stories
Bloodshot Records distrib da Ird 2016 Esce 1 aprile 2016

Etichettato negli Usa come artista Alternative country questo poco noto da noi Robbie Fulks ci fa più pensare a sonorità e dischi molto legati al country folk degli anni settanta notevolmente orientati sul versante James Taylor prima maniera.
Questa è la prima impressione che si ricava ascoltando Upland Stories album in uscita il primo aprile anche su vinile.

Leggermente monocorde e senza picchi che alzino immediatamente l’attenzione resta per un buon nucleo di brani iniziali ancorato allo stile come detto di Taylor, le loro stesse voci si assomigliano, poi si denota qualche apertura verso sonorità più accattivanti che fanno volgere il pensiero e lo sguardo riguardo qualcosa di più profondo che rimarca echi di Woody Guthrie o Steve Goodman. Quindi un disco, che necessita peraltro di ripetuti ascolti per essere più facilmente assimilato rispetto all’ascolto iniziale che può far restare dubbioso l‘ascoltatore. Dall’incedere accattivante la piacevole ballata Never Come Home mentre in America is a Hearded Religion si ispira totalmente allo stile di John Hartford, artista prematuramente scomparso ed autore tra l’altro di Mark Twang album capolavoro del 1976 insignito del Grammy come disco etnico folk di quell’anno. Piacevole, molto piacevole anche la soave Sweet as Sweet Comes mentre Katy Kay va di buon passo con la musica degli Appalacchi. Abbiamo press copia per recensione senza dati e non avendo trovato nulla in rete che anticipi questo disco, neanche sul sito della Bloodshortrecords, possiamo solo supporre, dall’impressione che ci hanno dato i vari ascolti che l’artista sia da solo, come supponiamo che i brani siano tutti a sua firma.

Nato in Pensylvania nel 1963, ha imparato a suonare la chitarra dal padre e ispirato, appunto, da John Hartford ed Earl Scruggs ha poi imparato anche a suonare il banjo girando poi per molto tempo nel sud Pensylvania e piazzandosi volta in volta in varie piccole cittadine. E’ autore di ben dodici album, escluso questo adesso in uscita, e ha licenziato il suo primo lavoro nel 1996 con il titolo Country Love Songs mentre per questa sua tredicesima uscita diremmo, che se volessimo equiparare questo cd ad un campionato di calcio, lo stesso si piazzerebbe in un ipotetico centro classifica sopra la zona retrocessione con discrete possibilità di risalirla progressivamente ai successivi ascolti, infatti il primo pezzo, Alabama at Night che inizialmente propendeva verso una certa statica musicale, si rivela essere adesso canzone decisamente piacevole.

RICHIE FURAY – Hand In Hand

di Paolo Crazy Carnevale

28 marzo 2016

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RICHIE FURAY – Hand In Hand (Entertainment One 2015)

Piacere puro per le orecchie: credo che definire meglio e altrimenti questo ritorno in studio dell’ex Buffalo Springfield e Poco sia praticamente impossibile.

Non è da tutti i giorni ascoltare il disco di una “vecchia gloria” e rimanerne impressionati tanto positivamente, soprattutto se il titolare del disco è uno che centellina le sue uscite rimanendo spesso e a lungo lontano dalle scene. Non solo, quando questi personaggi tornano a far parlare di sé,solitamente lo fanno con gran battage anche se la loro è una produzione indipendente e povera: Richie Furay no, lui se ne è uscito con un signor disco, indipendente sì, ma prodotto come si deve e con bei suoni, con fior di musicisti e, soprattutto, con fior di canzoni. Hand In Hand è il degno successore di Heartbeat Of Love, pubblicato quasi una decina di anni prima ed ugualmente bello ed ispirato. All’origine di questo nuovo disco c’è – ahimè – la naufragata reunion dei Buffalo Springfield del 2010/2011, Richie era talmente preso bene dalla cosa che aveva cominciato a scrivere nuove belle canzoni nell’eventualità che Stills, Young e lui si fossero chiusi in studio. La cosa è finita come è finita (abbastanza malamente e maldestramente, nonostante la bontà dei pochi concerti tenuti) e Furay ha deciso di non lasciare le canzoni nel cassetto, vi ha aggiunto un brano di Dan Fogelberg (Don’t Lose Heart) inciso per un tribute album mai concretizzatosi, un paio di bonus tracks tratte dai due dischi precedenti e l’alternate take di uno dei nuovi brani affidata però alla voce della figlia et voilà, ecco servito un disco di un’ora circa che ci restituisce una leggenda del country-rock delle origini al meglio della forma: la voce è quella di un tempo, le canzoni sono belle e gli arrangiamenti non hanno nulla a che vedere (per fortuna) con quelli dei primi dischi da solo della seconda metà degli anni settanta o della reunion dei Poco del 1984.

Che il disco è buono lo dimostra subito We Were The Dreamers, grande brano dedicato proprio ai Poco: la band che accompagna Furay è solida, diversa da quella del live uscito nel 2009, ma quasi uguale a quella di Heartbeat Of Love, ci sono Sam Bush, il mitico Dan Dugmore (sideman di Linda Ronstadt ai tempi d’oro), il batterista Dennis Holt, il bassista Michael Rhodes (collaboratore di Dolly Parton, Johnny Cash, Rodney Crowell), Chris Leuzinger (del gruppo di Garth Brooks) e in un brano persino Keb Mo.

Il filo conduttore del disco è l’amore di Furay per la moglie a cui è legato da quasi cinquant’anni, amore che emerge fin dalla copertina (una vecchia foto che li ritrae all’epoca del loro primo incontro) e prosegue in brani come la title track, esplicitamente dedicata a lei, o Someday, gran brano dall’andamento rock con ospite Keb Mo. Love At The First Sight, caratterizzata dalla pedal steel di Dugmore è invece dedicata alla figlia Jesse che oltre ad essere presente come corista in tutto il disco canta la versione del brano inclusa come bonus track. La sezione ritmica è precisa e lascia sviluppare gli intrecci che le chitarre di Dugmore e Leuzinger intessono di volta in volta con il mandolino di Bush o il violino di Hank Singer (ad esempio nell’ottima Wind Of Change che ha uno splendido coro in cui fanno capolino anche George Grantham, vecchio compagno d’armi di Furay nei Poco e Jeff Hanna della Nitty Gritty Dirt Band). E tra le cose migliori di Hand In Hand non si può non citare l’energica Don’t Tread On Me, quasi un inno dal refrain che resta impresso nella mente dal primo ascolto.

Still Fine è poi un brano che ricorda da vicino certe composizioni di Furay per i Poco. Le bonus tracks, oltre a alla menzionata Love At First Sight, sono una buona versione di A Good Feeling To Know tratta dal recente live e la spettacolare Kind Woman registrata nel 2006 per Heartbeat Of Love con Kenny Loggins ai cori e Neil Young ai cori e alla chitarra. Scusate se è poco.

CARRIE RODRIGUEZ – Lola

di Ronald Stancanelli

27 marzo 2016

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La texana Carrie Rodriguez, vista due volte l’anno scorso dal vivo, concerti da parte mia vissuti con grande entusiasmo, esce con un nuovo lavoro. Paragonata a varie stelle femminili country-folk-rock di enorme grandezza è veramente un personaggio degno di nota per quanto concerne il cantautorato femminile degli ultimi tempi. Ricordiamo che fu anche ospite al Premio Tenco, del quale mi onoro da anni essere giurato.

Figlia d’arte, il padre fu noto folksinger con vari dischi nel carniere e la di lei prozia, Eva Garza una nota cantante e attrice, sicuramente una delle voci più famose nel Messico degli anni cinquanta.La sua carriera è costellata di collaborazioni e conoscenze con artisti famosi come Chip Taylor, Jeff Bridges, Lyle lovett, amico della sua famiglia, John Prine, Lucinda Williams e tanti altre. Un aneddoto che raccontò l’anno scorso fu che quando era ragazzina, sui dieci anni più o meno ricevette in regalo dal genitore un disco di Leonard Cohen che non le piacque per nulla ma che alcuni anni dopo amò follemente. La sua carriera parte nel 2001 quando vista al Festival SXSW di Austin da Chip Taylor, pochi sanno che lui si chiami effettivamente James Wensley Voight e sia fratello del più famoso John Voight, un film su tutti Un uomo da marciapiede, e quindi zio della ancor più nota Angelina Jolie. Inizia quindi su richiesta del cantautore newyorkese a collaborare con lui. Detta aggregazione si rivela molto proficua e felice con vari dischi sia in studio che dal vivo e vari tour sia in America che in Europa.

Nel 2006 finalmente il suo primo album solo dal titolo di un brano che lei ha composto per un caro amico morto in bicicletta nel traffico di New York, schiacciato da un autobus, ovvero Seven Angels on a Bicycle, brano tanto splendido quanto commovente. Da quel momento a oggi altri sei album alcuni in studio e alcuni dal vivo per arrivare all’odierno, appunto ottavo lavoro, dal semplice titolo di Lola. La Rodriguez dotata di una voce calda e modulare che le permette di volare su alte note acute e di abbassarsi su tonalità più roche ha oltre ad una simpatia innata, basta vederla una volta dal vivo per accorgersene, una notevole capacità di destrezza e maestria musicale che esplica nel suonare mirabilmente chitarra, violino e il mandolino.

Questo suo lavoro appena uscito per La Luz Records, da noi le benemerite Ird/Appaloosa ce lo hanno gentilmente fornito, è ispirato dalla sua prozia di cui prima ed è un ulteriore recupero delle sue radici, cosa che regolarmente la Rodriguez propone nei suoi concerti e a macchia di leopardo nei precedenti album. Qua ha voluto orientare, anche il titolo ne è riprova, il tutto su quel versante con 12 brani che profumano di border, cactus, celluloide e di quel linguaggio misto di messicano americano che è chiamato rispettivamente norteno e tex- mex anche se con maggior propensione per stile musicale ed incedere verso la musica degli anni quaranta. Un paio di brani, La ultima vez e Noche de ronda, li avevamo già sentiti dal vivo l’anno scorso; belli erano dal vivo e splendidi restano anche riportati in studio e benissimo si affiancano a tutti gli altri che sono una miscela country d’epoca ma a tratti punteggiati da sonorità molto attuali, sentire per averne conferma il brano semplicemente titolato Z. Quando un lavoro è di eccellente livello si può anche far fatica ad estrapolare dei pezzi da citare quando si andrebbe a discapito di quelli non menzionati ma non ci si può esimere dal segnalare The West Side e Llano estacado, nulla a che vedere con l’omonimo traditional cantato di Tom Russell in Cowboy Real e citeremmo anche la cinematografica strumentale appariscente e scenografica Si no te vas che ora ricordo probabilmente essere stata anticipata anch’essa nel precedente tour live. Il clan musicale dei partecipanti è di grandissimo livello e impatto e fa piacere risentire ancora tutte le chitarre di Luke Jacobs, che l’accompagnava anche nell’ultimo tour, oltre che avere il piacere di Bill Frisell all’elettrica mentre Viktor Krauss suona il basso, Brannen Temple percussioni e batteria e David Pulkingham anche lui ad altre chitarre oltre che a quella con le corde di nylon che ricordano il suono del buon Willie Nelson. Ospiti preziosi e graditi Raul Malo che qualcuno ricorderà leader dei Mavericks, Max Baca al bajo sexto e infine Gina Chavez voce aggiuntiva. La Rodriguez suona violino e chitarra tenore abbandonando in questo album l’uso del mandolino. Prodotto da Lee Townsend è un disco bellissimo che conferma maggiormente il talento di questa artista con una copertina volutamente orientata verso lo stile retrò degli anni quaranta che avrebbe però potuto essere leggermente più curata ma che forse è stata volutamente lasciata così spoglia e spartana!. Carrie è tornata su dischetto, adesso l’aspettiamo nuovamente di persona dalle nostre parti.

GREG TROOPER – Live At The Rock Room

di Paolo Crazy Carnevale

22 marzo 2016

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GREG TROOPER – Live At The Rock Room (Shakes Records/Appaloosa 2016)

Devo essere sincero, dopo aver apprezzato Noises In The Hallway non avevo seguito la carriera di questo bravo songwriter del New Jersey, pur essendo a conoscenza del fatto che non si fosse fermato dopo quel disco. Sulle riviste avevo letto le recensioni delle sue uscite discografiche e quelle dei suoi concerti (se la memoria non mi inganna si è esibito anche nel nostro paese insieme al conterraneo Joe D’Urso), ma la mia conoscenza della sua musica si fermava al nastro su cui avevo registrato quel disco del 1996. Il mio ricordo – il nastro non lo ascolto più da tempo – era di un buon disco energico, molto rock, e d’altra parte le frequentazioni di Trooper erano gente come Steve Earle ed il suo produttore dell’epoca la buonanima di Gary W. Tallent, fondamentale sideman del Boss.

Trooper è sempre stato un vagabondo: le sue peregrinazioni musicali lo hanno portato da dal natio New Jersey ad Austin, poi a New York e di lì a Nashville, e ancora alla Big Apple, senza dimenticare il buon seguito conseguito nel vecchio continente.

Oggi Trooper ha sessant’anni ed è un cantautore maturo, dalla vena ispirata e dalla voce pregna di lirismo (qualcuno direbbe sapida), il suo sound e le sue composizioni sono lontane dalle atmosfere del Garden State, sono canzoni intime, sulla scia dei grandi maestri del songwriting degli anni settanta, quelli collocabili tra Nashville, l’Oklahoma ed il Texas: e non è probabilmente un caso che il disco sia registrato proprio in un locale di Austin, che di tale musica è la capitale incontrastata.

È un disco solido, inciso molto bene, essenziale, senza fronzoli: alla voce e alla chitarra di Trooper fanno da contorno solo i contributi di Jack Saunders al contrabbasso e di Chip Dolan che si alterna tra tastiere e fisarmonica fornendo alle canzoni un bel tappeto prezioso nell’economia della resa finale: probabilmente se non ci fosse questo minimale accompagnamento il disco potrebbe finire nell’affollato limbo dei dischi cantautorali chitarra/voce, non per demerito certo; la scelta di farsi accompagnare da un pur minimale duo premia la musica e le canzoni.

Le canzoni – tutte autografe – provengono per lo più dalla produzione recente, dei brani che conoscevo tramite Noises In The Hallway non v’è traccia. Il Greg Trooper di questo disco porta alla mente atmosfere profumate di bar male in arnese, strade impolverate, chitarre legnose, tutte caratteristiche di un’America lontana dai percorsi turistici di chi l’America l’assaggia solo con un mordi e fuggi nelle grandi città e possibilmente solo nei quartieri raccomandabili. Fin dalla prima traccia, This I’Do, il disco fa intendere di quale impasto sia fatto, la voce è bella e l’amalgama dei suoni insospettabilmente buona per un disco inciso in un piccolo locale. They Called Me Hank, una delle composizioni migliori, mi ricorda in qualche modo lo stile di scrittura di gente come il Ray Wylie Hubbard degli esordi, o il Jim Ringer di Tramps And Hawkers (sacro graal di certi miei amici), ma in Mary Of The Scots In Queens (il titolo suggerisce un gioco di parole) il richiamo è più diretto, e viene in mente l’immenso Tom Russell. E che dire di Amelia con la chitarra che arpeggia sul tappeto di fisarmonica mentre il contrabbasso diventa lo strumento principe?

Un bel disco, inatteso. Col pubblico che sembra apprezzare con entusiasmo la performance di Trooper e soci, dalla prima all’ultima nota, con altre punte notevoli in All The Way To Amsterdam, We’ve Still Got The Same, Everything’s A Miracle, un’altra delle perle del disco.

BELEDO – Dreamland And Mechanism

di Paolo Crazy Carnevale

21 marzo 2016

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BELEDO – Dreamland And Mechanism (Moonjune 2016)

Continua la ricerca di talenti nel genere fusion da parte della Moonjune Records che dopo aver portato alla ribalta svariati musicisti da differenti parti del mondo, ha messo sotto contratto il chitarrista uruguayano – ma da tempo di base negli Stati Uniti – Beledo.

Chitarrista, pianista, violinista per la verità, visto che questi sono solo alcuni degli strumenti che Beledo suona nel suo esordio (ma ha già una lunga carriera alle spalle) per la label di Leonardo Pavkovich: il tutto al servizio di un disco diretto, improntato sugli stilemi della fusion più classica e con una serie di ospiti di riguardo.

Tra le sue collaborazioni più titolate ci sono Marcus Miller, Celia Cruz e Tito Puente, ma per questo nuovo disco oltre che ad avvalersi in quasi tutti i brani di Gary Husband (batterista britannico del giro di John McLaughling) e di Lincoln Goines (bassista che ha suonato con Carly Simon, Sonny Rollins e Michael Brecker) ospita il compagno di scuderia Dewa Budejana, fantastico chitarrista che porta nella musica di Beledo anche altri artisti e suoni della sua terra contribuendo così a definire una sorta di linguaggio musicale universale che spazia dall’estremo oriente al Sud America.

In dieci tracce, il disco offre una bella panoramica che ha i suoi momenti migliori in brani come l’iniziale Mechanism in cui Beledo si mette sul piatto particolarmente come violinista, abbastanza sull’onda di gente come Jean Luc Ponty, senza però le divagazioni zappiane, e con un occhio di riguardo a quel progressive canterburiano tanto caro alla casa discografica per cui incide. Altra perla del è sicuramente Lucilia, brano in cui vengono fuori tutte le influenze della musica ispanica delle origini di Beledo, che si profonde in un’ottima prestazione chitarristica in odor di flamenco.

Meno interessante la lunga Marylin’s Escapade, dalle sonorità latin, mentre Sudden Voyage – stavolta con la sezione ritmica formata da Tony Steele e Dorn Lev – offre un approccio più hard in cui gli accompagnatori sono meno discreti rispetto alla sezione ritmica principale, Bye Bye Blues è invece un brano dalle atmosfere quasi eteree, tanto quanto sono invece terrene quelle di Big Brother Calling in cui la chitarra viaggia velocemente sull’incalzare di basso e batteria.

Dewa Budejana e i percussionisti indonesiani sono presenti in maniera massiccia in Budjanaji, il brano che precede la conclusiva Front Porch Pine.

MARK DAVIS & THE INKLINGS – Because There’s Nothing Outside

di Paolo Crazy Carnevale

20 marzo 2016

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Mark Davis & The Inklings – Because There’s Nothing Outside (Bitemark Records/Hemifran 2015)

Come certi dischi di una volta: nessuna notizia utile per saperne qualcosa di più che non i titoli delle canzoni ed i nomi di chi ci suona. Solo i nomi, perché quali strumenti corrispondano questi nomi non è dato a sapersi. Poco male. Se funzionava una volta, la cosa può funzionare anche ora. Pensate ai dischi di Aretha Franklin di metà anni sessanta, anche lì oltre ai titoli dei brani c’era poco o niente. Eppure erano dei signori dischi.

Questo disco di Mark Davis non c’entra nulla con la musica di Aretha, ma era giusto per rendere l’idea: è però un disco bello, forse non immediato, e sicuramente non scontato, che è la qualità più bella per un disco.

Il signor Davis è un cantautore californiano molto lirico, ispirato e abbastanza giovane, anche se non proprio di primo pelo, e nel corso dello scorso anno ha dato alle stampe ben tre dischi a proprio nome o come membro di un gruppo, anche se dai credits di copertina risulta che questo è stato composto (e forse anche inciso) nel 2011, almeno così indica il copyright delle dieci canzoni da cui è composto. La maggior parte dei brani poggia su chitarra acustica e pianoforte oltre che naturalmente su una voce interessante che ricorda nemmeno troppo alla lontana quella di George Harrison. Il disco, questo lo apprendiamo dalle note biografiche nel sito di Davis, scaturisce dal fatto che l’autore è riuscito a svincolarsi dalle pastoie di una congregazione religiosa a cui si era affiliato volontariamente dopo essere stato educato secondo i crismi del cattolicesimo; lui stesso dice che per chi non è americano è difficile comprendere questo strano rapporto con le religioni… ma basta giusto pensare al giudeo Dylan e alla sua conversione al cristianesimo di fine anni settanta o a tutti i musicisti che hanno fatto parte del movimento dei cristiani rinati…

Nonostante il disco sia presentato come un disco di gruppo con gli Inklings indicati come titolari, si tratta invece di un prodotto molto intimo, e questo forse è il bello: ci sono solo qualche tocco di violino, il basso, dei cori e un uso non smodato di effetti elettronici usati come tappeto in alcune tracce, ma la potenza del disco risiede proprio nell’uso di voce, piano e chitarra col violino di Todd Compton (l’abbinamento musicista/strumento lo si evince dal sito di Davis) a contribuire – ma non sempre – alla creazione di un suggestivo ed intrigante folk pop da camera, se questa definizione può servire a rendervi un po’ l’idea oltre che a incuriosirvi. Nel brano Only You ad esempio, che con i Platters non ha ovviamente nulla a che vedere, mentre Yet richiama davvero tanto alla mente Harrison e l’iniziale Everybody’s Born Believing è caratterizzata da una voce quasi spezzata. Tra i brani che preferisco ci sono Your Photograph, Black Cloud, la pianistica e lunga The Ground, ma in verità è l’insieme che funziona perché gli ascolti ripetuti di questo Because There’s Nothing Outside dimostrano che non ci sono punti di cedimento, con l’eccezione forse del breve strumentale (Not Yet).

BORIS SAVOLDELLI & GARRISON FEWELL – Electric Bat Conspiracy

di Paolo Crazy Carnevale

18 marzo 2016

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BORIS SAVOLDELLI & GARRISON FEWELL – Electric Bat Conspiracy (Creative Nation Music 2014)

Electric Bat Conspiracy nasce dall’incontro tra il vocalist italiano Boris Savoldelli ed il chitarrista/compositore jazz statunitense Garrison Fewell: il primo è un versatile cantante (ma il termine gli va decisamente stretto vista e considerata la duttilità con cui fa della propria voce un vero e proprio strumento a sé stante, un po’ nella scia di Demetrio Stratos) che oltre ad avere al proprio attivo due incredibili dischi da solo (ma vi assicuro che per apprezzarlo a fondo la cosa migliore è vederlo sul palco) ed una lunga serie di collaborazioni con varie formazioni e vari solisti, il secondo era (è scomparso lo scorso anno) un chitarrista che ha calcato i palchi dei più importanti festival jazz internazionali, oltre che ad essere stato un apprezzatissimo insegnante al Berklee College di Boston.

Per chi ha familiarità con i dischi solisti di Savoldelli o con quelli incisi come componente dei SADO, dirò subito che il CD in questione corre su binari differenti, più vicino, ma al tempo stesso anche distante, al disco newyorchese che il vocalist camuno realizzò anni fa con il chitarrista Elliot Sharp: un disco quindi improntato sulla sperimentazione, a tratti molto difficile da approcciare, quasi interamente sorretto dalle invenzioni della voce (spesso filtrata con l’elettronica) di Savoldelli e sulle chitarre (anch’esse spesso elaborate) di Fewell.

Si va da veri e propri esperimenti come la title track e Whisper Sister a momenti più puramente jazz come la conclusiva You Don’t Know Waht Love Is (un classico della canzone statunitense coperto decine di volte in tutte le salse, da Billie Holiday a Ella Fitzgerald, passando per Marvin Gaye e John Coltrane), a Circle Round che ricorda maggiormente il Savoldelli più approcciabile dei dischi “solo”; ma c’è anche un’immensa spettrale rivisitazione del Lou Reed di Perfect Day, posta proprio in apertura del disco.

No Evil In Prison è invece quasi un blues alla Tom Waits, notturno e dissonante, sicuramente d’effetto. E tra i brani più riusciti del disco si segnalano anche Softly As In A Morning Sunrise, tratta dall’operetta New Moon e My One And Only Love.

WALTER SALAS HUMARA – Work: Part One

di Paolo Crazy Carnevale

18 marzo 2016

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Walter Salas-Humara – Work: Part One (Blue Rose/IRD 2016)

Freschissimo di stampa questo disco pubblicato dalla germanica Blue Rose, etichetta da sempre molto attenta ad una certa scena musicale Americana legata al genere roots/americana (definizione che personalmente non ho mai tollerato, ma che uso mio malgrado per farvi capire con che tipo di disco abbiamo a che fare) al pari della connazionale Glitterhouse: confesso che il nome del titolare non mi diceva nulla e pensavo si trattasse dell’ennesimo newcomer del genere. Quando ho fatto le mie ricerche per sapere qualcosa di più su questo signor Salas-Humara ho scoperto che si tratta di un personaggio che è sulla breccia da parecchio tempo e che è stato leader dei Silos, band americana di cui mi era nota l’esistenza ma che mai avevo ascoltato, molto attiva negli anni novanta di cui ha fatto parte anche il buon Tom Freund, ora cantautore a proprio nome e da sempre molto vicino a Ben Harper. Salas-Humara, il cui cognome tradisce evidenti origini cubane, dei Silos era il personaggio principale e continua a cavalcare le scene come solista: il suo disco precedente risaliva al 2014 ed aveva destato abbastanza interesse, tanto da spingerlo a rimettere mano su alcune delle sue vecchie composizioni rivisitandole in maniera minimalista, con arrangiamenti acustici ed essenziali. Premetto che non conosco le versioni originali e quindi baso – come credo sia giusto – questa recensione sulle impressioni suscitate da queste riletture acustiche. Il songwriting di Walter Salasa-Humara non mi pare male, nulla di trascendentale, beninteso: vale il discorso che di autori così negli Stati Uniti (ma anche altrove) ormai ne vengono fuori a bizzeffe e molti si mantengono su una media qualitativa più che dignitosa. Il nostro oriundo cubano non sfugge alla categoria di cui sopra e inoltre non mi pare dotato di una voce particolarmente originale. Oltre a lui e alla sua chitarra ci sono una voce femminile che gli dà una mano qua e là, un bel violino e qualche strumento a corda affidato al produttore del disco, Richard Brotherton, ma in realtà il disco pare mancare di una produzione vera e propria, nel senso di produzione artistica, ricerca di una sonorità che lo faccia elevare su quella moltitudine anonima e sconosciuta di cui il genere sembra pullulare; certo, in brani come Susan, Margaret o nella riuscitissima I’m Over You, che beneficia di un buon refrain e su begli interventi strumentali, il progetto funziona bene, ma altrove sembra di avere a che fare con dei demo accurati ma senza troppo corpo (Caroline o Commodore Peter ad esempio). L’impressione è che Walter Salas-Humara abbia voluto battere il ferro fin che è caldo, come si suol dire, sfruttando il buon momento innescato dal disco precedente, consegnando al pubblico un disco che probabilmente è abbastanza simile a quello che possono essere i suoi concerti da solo. Quel che da maggiormente da pensare è il titolo del disco, Work: Part One, che fa supporre ci si debba aspettare prima o poi una seconda parte. Ma forse anche no… Nei video su youtube in cui Salas-Humara è accompagnato da un gruppo, che siano i Silos o altri musicisti, il risultato è senza dubbio più accattivante.

Rimandato a settembre.

Dischi e CD in Fiera a San Vittore Olona

di admin

16 marzo 2016

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Appuntamento per il prossimo 20 marzo

AARON WATSON – The Underdog

di Paolo Crazy Carnevale

13 marzo 2016

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Aaron Watson – The Underdog (BIG Label Records/IRD 2015)

Quello di Aaron Watson è senza dubbio uno dei casi discografici dello scorso anno, almeno per quanto riguarda la musica country d’ispirazione texana. Di questi tempi non è da tutti i giorni che un disco indipendente, per quanto registrato da un quasi veterano (Watson ha esordito nel 1999 anche se le prime soddisfazioni consistenti sono arrivate una decina di anni fa), venda ventiseimila copie nella prima settimana e sia catapultato prepotentemente nelle classifiche, raggiungendo il primo posto in quelle country e in quelle cosiddette indie, per non parlare del quattordicesimo in quelle totali di Billboard.

The Underdog è un classico disco di country texano ben confezionato, con alcune canzoni davvero vincenti, con testi mai scontati, suonate e cantate come si deve, pagando pegno un po’ qua e un po’ là, ma quasi sempre con bravura, col giusto tiro da ascolto in viaggio – che non guasta mai – e una miscela equilibrata tra la strumentazione più rockettara e quella più tradizionale.

Ecco quindi una serie di bei violini, in Getaway Truck ad esempio, banjos vari (nella delicata e ispirata Bluebonnets (Julia’s Song) e naturalmente le pedal steel guitar, suonate da Paul Franklin (il suo nome è di certo familiare a chi compra i dischi di Mark Knopfler ma lo troviamo anche ad accompagnare Shania Twain, Rodney Crowell e moltissimi altri) e dal mitico Dan Dugmore, veterano californiano, allievo nientemeno che di Sneaky Pete e già sentito al fianco di Linda Ronstadt, James Taylor, Stevie Nicks, David Crosby; in aggiunta ci sono poi le chitarre elettriche (il duetto elettrica/pedal steel di That’s Why God Loves Cowboys è una delle cose più belle del disco), spruzzate di tastiere classiche, sezione ritmica solida.

Il tutto messo al servizio di un songwriting e di una voce che attingono dalla scuola texana più classica, debitori in parti più o meno uguali nei confronti di Willie Nelson (ma la voce di Watson è migliore di quella del grande vecchio), Guy Clark, Ray Benson (il mitico leader degli Asleep At The Wheels). Il disco si compone di quattordici tracce, alcune migliori altre più deboli, alle prime oltre a quelle citate aggiungerei di sicuro That’s Gonna Leave A Mark e Blame It On Those Baby Blues dall’attacco energico con le chitarre in evidenza ed un refrain in odor di rock sudista che sembra fatto apposta per macinare chilometri (o forse è meglio dire miglia) lungo le polverose strade secondarie del Texas. Tra quelle meno impressive: Family Tree e la noiosa e già sentita Wildfire, accompagnata da un fastidioso handclapping, ma nel complesso il disco funziona bene, e lo confermano i tre singoli che ne sono stati tratti fino ad oggi. La produzione è di Keith Stegall, che ha già lavorato con successo al fianco di Alan Jackson, George Jones, Zac Brown.

TIFFANY HUGGINS GRANT – Jonquil Child

di Paolo Crazy Carnevale

10 marzo 2016

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Tiffany Huggins Grant – Jonquil Child (MGW Records/Hemifran 2015)

La paffuta signorina titolare di questo disco sembra essere l’ennesima country girl in attività a Nashville: georgiana di nascita, Tiffany si è stabilita nella capitale dell’industria discografica in cerca di fama e fortuna. Non siamo in gradi di dire se le troverà, la concorrenza a Nashville è enorme e spietata, ma ascoltando questo suo disco una cosa è evidente: il talento c’è, la voce pure, se poi aggiungiamo il fatto che le canzoni se le scrive lei, possiamo dire tranquillamente che ha già tre buone frecce al proprio arco.

Scorrendo le note di copertina balza all’occhio il nome dello studio di Joe “Guido” Welsh, che avevamo incontrato recensendo il disco di Jonathan Kasper non molto tempo fa…

Per il resto ci troviamo di fronte ad una dozzina di canzoni ben confezionate che richiamano alla mente colleghe di gran grido, un po’ di Maria McKee ad esempio, ovviamente Emmylou, magari anche Lucinda, senza averne il graffio però. Un disco molto piacevole, alla base del cui songwriting c’è un periodo buio in cui la signora Grant ha dovuto combattere alcolismo e depressione, ricco di sonorità ben mescolate, dalla delicata pedal steel di John Heinrich (che ha lavorato con Hank Jr. e Merle Haggard) alle chitarre di Mark Robinson che è anche produttore del disco. Parte determinante ce l’ha anche il tastierista Jen Gunderman (sideman di Sheryl Crow e Iris DeMent) che si destreggia tra fisarmonica e altro, sottolineando in particolare con un suono hammond la trama sonora delle canzoni.

Particolarmente riusciti sono lo slow blues If You Only Knew, la notturna Out My Window sottolineata dai vocalizzi di Tiffany e l’intrigante Trouble On My Mind dall’andamento accattivante e dal refrain che entra subito in testa, ma non sono da meno Tears Fall The Same con bei giri di chitarra, Love Letters, il brano di Pamela Jackson One Too Many e la finale When It Rains.

Sarà anche solo l’ennesima signorina country, ma non dispiace. Davvero.

Dischi e CD in Fiera a San Vittore Olona

di admin

5 marzo 2016

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Si svolgerà il prossimo 20 marzo la TERZA EDIZIONE della FIERA DEL DISCO, CD E DVD usato e da collezione, presso il Centro Sportivo Malerba.

l’ingresso è GRATUITO, l’orario dalle 10.00 alle 18,30.

Late For The Sky presente!

JONATHAN KASPER/6W2L – In The Know

di Paolo Crazy Carnevale

1 marzo 2016

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JONATHAN KASPER/6W2L – In The Know (KasperWits Music 2015)

Ecco un altro di quegli artisti sconosciuti i cui dischi giungono di tanto in tanto in redazione lasciando il segno e soprattutto dimostrandoci ancora una volta quanta buona musica ci sia in circolazione di cui non avremmo altrimenti la benché minima idea.

Nativo di Buffalo, il signor Kasper è da tempo attivo a Nashville, una scelta logica per chi vuol vivere di musica negli Stati Uniti: o ci si reca nella capitale della musica dal vivo (Austin) o in quella dell’industria discografica (Nashville appunto). Va da sé che per il fatto di vivere a Nashville uno non debba però per forza di cose essere un musicista country e infatti Jonathan Kasper con questo In The Know si rivela rockettaro a tutti gli effetti, mettendo insieme una band energica ed essenziale (i 6W2L, acronimo per Six Weeks To Live) e sforna un disco gradevole e pieno di idee, caratterizzato da suoni di chitarra possenti, da una voce degna di nota grazie alle molte sfumature di cui è composta e, naturalmente, da una manciata di canzoni che se non sono originalissime non sono però nemmeno scontate.

Jonathan Kasper canta davvero bene – non deve essere un caso se nel suo passato musicale c’è anche un curioso progetto che lo vedeva alle prese con le canzoni dei Led Zeppelin – e, per quanto americano al 100%, nel disco sono avvertibili le molteplici influenze del rock albionico (tra i suoi favoriti ci sono Bowie, Who, Beatle e Stones).

Il quartetto base dei 6W2L oltre che di Kasper si compone di Jerry Kimbrough alle chitarre, Doug Kahan al basso e Dann Sherrill alla batteria, coadiuvati da diversi tastieristi che si occupano di volta in volta di Hammond, Farfisa, piano e synth: a dispetto dei musici, non proprio dei teen ager, il sound è davvero fresco ed è una delle note migliori del CD che sforna brani arrabbiati, qualche momento leggermente più morbido (ma senza esagerare, a parte la pianistica My Old Friend, John che sembra quasi un brano di Paul McCartney) sempre con le chitarre sempre sparate.

Wake Up Your Soul è davvero un buon inizio, Back On Track è un’ispirata ballata rock con l’Hammond B3 ben in vista e Well You Shouldn’t Be Surprised è impreziosita da una chitarra elettrica con wah-wah dominante.

E che dire di And That Look In Your Eyes, uno dei brani migliori del disco, cosa che si potrebbe dire anche di Feminist Girl dalle rimembranze vagamente garage dovute al suono dell’organo Farfisa.

E di sicuro un po’ di merito va anche ai produttori del disco Dave Matthews (un omonimo di quello della Dave Matthes Band) e Joe “Guido” Welsh, che possono vantare collaborazioni con Gary Tallent, Garth Hudson, Bruce Springsteen, Levon Helm, Garth Brooks, Mick Fleetwood e sono due dei tastieristi coinvolti nelle session.