Archivio di gennaio 2019

CHARLIE OVERBEY – Broken Arrow

di Paolo Crazy Carnevale

30 gennaio 2019

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CHARLIE OVERBEY – Broken Arrow (Lone Hawk Records 2018)

Seconda brillante prova solista per Charlie Overbey, singer/songwriter californiano praticamente sconosciuto al di qua dell’Oceano, ma non per questo trascurabile! Dopo l’EP del 2015 intitolato California Kid inciso a nome Charlie Overbey & The Broken Arrow, il nostro ci riprova, stavolta con un LP intero, dieci brani di cui nessuno meno che bello.

Overbey non è un novellino, le ossa se le è fatte suonando dal vivo in diverse formazioni, aprendo per gente di grido come Motorhead, Blackberry Smoke, Supersuckers, David Allen Coe, e il suo songwriting è puro, schietto, nella miglior tradizione country rock, ma con un occhio sempre rivolto anche alla scuola di gente come Tom Petty e Bruce Springsteen, mescolati sapientemente con la scuola sudista e con quella californiana. A questo si aggiunga la sapiente produzione di un marpione come Ted Hutt (vincitore di Grammy Award e seduto in regia con Old Crow Medicine Show, Gaslight Anthem, Lucero, Flogging Molly)

Il risultato è un disco che lascia a bocca aperta, Overbey – lo si capisce fin dalla copertina – è l’epigono di tutti i desperados – la sua voce è matura, con quella punta di raucedine che non guasta, la vena compositiva è felice, per non dire felicissima, il sound equilibrato non perde mai di vista nessuno degli elementi che lo compongono, quando la voce sembra rifarsi al “boss” più tipico ecco che la pedal steel di Matt Pynn comincia a ricamare interventi che sembrano balzare direttamente da Sweeteheart Of The Rodeo e da tutti i bei dischi californiani di cui il disco dei Byrds è stato il progenitore, e poi chitarre ululanti quando serve, duetti intriganti con le voci di Miranda Lee Richards e dei Mastersons. Non solo, quando serve, Overbey e la sua accolita di compagnoni (di fatto i Broken Arrows che lo accompagnano dal vivo) riescono a sfoderare atmosfere più raccolte, quasi acustiche.

Grande già il primo brano, Slip Away, con la voce della Richards a doppiare il titolare: da notare che la cantante è praticamente parte dei Broken Arrow on stage quando non si occupa della propria carriera solista. Che dire poi di Shame, altra composizione notevole dal robusto refrain e dall’interpretazione vocale particolarmente azzeccata. In Outlaws Overbey si supera, sfornando un brano di facile presa in cui a duettare con lui ci sono i Mastersons (al secolo Chris Masterson e Eleanor Whitmore, a loro volta parte anche dei Dukes di Steve Earle). Heaven Only Knows rientra ai brani dall’atmosfera più raccolta, mentre il brano che chiude il primo lato dell’edizione in vinile è The Ballad Of Eddie Spaghetti dedicata all’amico eponimo, cantante dei Supersuckers ed ospite nel brano: un altro colpo messo a segno con un’apertura di pedal steel degna del miglior Sneaky Pete o di uno qualunque dei suoi migliori emuli.

Non c’è tempo per distrarsi, appena girato il disco sul vecchio Thorens, ecco un altro brano da ricordare, Trouble Likes Me Best, di nuovo con le voci dei Matersons ma stavolta nella scia degli outlaws nashvilliani, sia per l’approccio vocale che per le tematiche. Hero In Town è un’altra dolente ballata acustica con la pedal steel in sottofondo, nella stessa onda si insinua anche This Old House. I cinque minuti dell’intensa Echo Park, sono pura poesia rock, con la voce in tiro e la miscela di suoni che viene sottolineata dall’organo di Jason Soda mentre le chitarre si scambiano parti diverse con sonorità personalissime. Il finale è affidato ad un’indovinata farewell song intitolata Last Deep Breath, lenta e dondolante, degna conclusione di un disco che non delude mai.

IAN SIEGAL – All The Rage

di Paolo Baiotti

27 gennaio 2019

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IAN SIEGAL
ALL THE RAGE
Nugene/Dixiefrog 2018

Originario di Portsmouth in Inghilterra, appassionato di blues e Americana, ha esordito nel 2004 con Standing In The Morning seguito da Meat & Potatoes, primo disco per la Nugene. Broadside del 2009 è stato scelto dalla rivista Mojo come miglior album di blues dell’anno e ha ottenuto nel 2010 un premio ai British Blues Awards (il primo di molti riconoscimenti), segno di una carriera in ascesa. Da allora ha mostrato voglia di cambiare e approfondire le sue radici e conoscenze, immergendosi nella realtà del North Mississippi Blues, registrando agli Zebra Ranch dei fratelli Cody e Luther Dickinson il pregevole The Skinny, seguito da Candy Store Kid sempre con musicisti locali con i quali ha suonato negli Stati Uniti e in Europa, compresi i fratelli Dickinson e Alvin Youngblood Hart, dal live solista Man And Guitar registrato alla Royal Albert Hall e da Picnic Sessions, inciso informalmente nel 2013 in North Mississippi con i fratelli Dickinson, Alvin Hart e Jimbo Mathus (ex Squirrel Nut Zippers). In seguito Ian si è trasferito ad Amsterdam, dove ha formato una nuova band con la quale ha pubblicato il live One Night In Amsterdam nel 2015, seguito da Wayward Sons, un altro live registrato in coppia con il polistrumentista Jimbo Mathus.

All The Rage è il primo disco in studio con materiale autografo dal 2012 (Candy Store Kid), inciso in poche sessioni pomeridiane, quasi interamente in presa diretta, prodotto da Mathus. Dieci brani, tutti di Siegal, tre scritti con Mathus, tre con la coppia Azier/Den Haring e uno con l’armonicista Hook Herrera. La giovane band olandese formata dall’emergente chitarrista Dusty Ciggaar, dal batterista Rafael Schwiddessen e dal bassista Danny Van’t Hoff è perfetta per ricreare il suono sporco, rustico, vigoroso e rabbioso richiesto dal leader, che mischia i generi come gli piace fare, tra blues, folk, americana e un tocco di country. La voce aggressiva e aspra di Ian richiama Howlin’ Wolf nell’ipnotico blues If I Live, il primo Tom Waits nella ballata My Flame e nella profetica Jacob’s Ladder, mentre Won’t Be Your Shotgun Rider ha un suono roots che rievoca le atmosfere dei Basemant Tapes e The Shit Hit è un classico blues di Chicago con una slide pungente. L’opener Eagle-Vulture è una delle tracce più incisive, un blues aggressivo con un testo politico sulla nuova amministrazione americana, come il tex-mex Ain’t You Great? morbido nella musica, ma polemico e ironico nelle tematiche trattate. Il disco è chiuso dal gospel-soul cantautorale Sweet Survivor e dalla scorrevole Sailor Town, a conferma della varietà dei temi musicali toccati da Siegal in un album che merita un ascolto attento.

Domenica 20 gennaio a Sesto San Giovanni la 2° ediz. della Fiera del CD e del Vinile

di admin

14 gennaio 2019

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Si svolgerà ancora all’interno dello Spazio MIL, presso l’Area Carroponte, la seconda edizione della fiera del CD e del Vinile di Sesto San Giovanni

l’indirizzo è Via Granelli, 1, INGRESSO LIBERO. Late presente.

A PRESTO!

DEWA BUDJANA – Mahandini

di Paolo Crazy Carnevale

14 gennaio 2019

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DEWA BUDJANA – Mahandini (Moonjune 2019)

La benemerita etichetta di Leonardo Pavkovic inaugura il 2019 col botto pubblicando nei primi giorni dell’anno un nuovo disco di Dewa Budjana, in assoluto uno dei suoi più prolifici ed al tempo stesso apprezzabili accoliti.

Budjana, non è la prima volta che se ne parla in questa sede, è un fantastico chitarrista indonesiano che nella sua musica riesce ad infondere le influenze della musica americana, il jazz-rock, certe atmosfere vagamente latine, ma sempre senza perdere di vista la sua terra d’origine, che ritorna puntualmente, a partire dalle sempre azzeccate copertine scelte per i dischi.

A riprova del fatto che non sia uno qualunque, nei suoi lavori riesce a coinvolgere sempre un sacco di artisti che riescono a integrarsi perfettamente con la visione musicale di Budjana. Per il disco in questione oltre alla brava e bella bassista indiana Mohini Dey, al batterista Marco Minnemann e al tastierista Jordan Rudess, che costituiscono la band basilare, il titolare ha coinvolto un paio di chitarristi parecchio famosi ed al tempo stesso diversissimi, segno della continua voglia di contaminare e fare evolvere la propria musica, fino a sfiorare, anzi toccare decisamente, anche sonorità rock: si tratta del Red Hot Chili Pepper John Frusciante e di Mike Stern.

Il risultato è entusiasmante in tutti i casi. Il primo brano, Crowded, porta la firma e la voce di Frusciante ed è un riuscito esperimento di contaminazione tra le due culture, mentre con Queen Kanya ci troviamo al cospetto di un raffinato brano in cui Dewa butta fuori tutto il suo chitarrismo. Poi e atmosfere si tingono di elettronica e ritmica industriale nella lunga Hyang Giri che conta sulla vocalità flessuosa della cantante balinese Soimah Pankawati, altro interessante esperimento in cui la bassista si conquista un meritato assolo. Il brano prelude alla pianistica Jung Oman, autentica vetrina per Rudess (che vanta precedenti nella souhtern band Dixie Dregs e nei Dream Theater), Dewa si innesta con una chitarra elettrica dalle atmosfere quasi gilmouriane (nel senso di David Gilmour) e un’ancor più deliziosa acustica.

A questo punto arriva la collaborazione con Mike Stern, con il brano ILW, in odore di progressive rock, ed è un altro buon risultato che fa crescere ulteriormente il disco. Poi è la volta della title track, una lunga (la più lunga del disco) traccia che si dipana come un’improvvisazione in cui tutto il gruppo ha la possibilità di mettere in luce le proprie virtù, nessuno escluso: nell’edizione in vinile è aggiunta come bonus una versione acustica del brano).

Poi la conclusione, fantastica, eccelsa, con Zone, di nuovo scritta (come il brano iniziale per il disco del 2014 Enclosure) e cantata da Frusciante, una composizione che lascia decisamente il segno e suggella una nuova grande intuizione marchiata Dewa Budjana, che del brano è arrangiatore e produttore.

STEVE WYNN – Benedikt’s Blues

di Paolo Crazy Carnevale

6 gennaio 2019

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STEVE WYNN – Benedikt’s Blues (Kinkverk 2015)

A tutt’oggi questo vinile targato 2015 è l’ultimo sforzo solista di Steve Wynn, dopo c’è stata la riunione dei Dream Syndicate. Uscito solo in vinile (ma con CD incluso in omaggio) e solo per il mercato norvegese, è un disco particolare, registrato in momenti diversi e in differenti luoghi concepito come commento sonoro alla quarta stagione della serie televisiva norvegese “Dag”.

Ascoltato con attenzione Benedikt’s Blues risulta un disco interessante, con alcune composizioni davvero buone, quasi esclusivamente canzoni visto che a dispetto del fatto che si tratta di un commento per la TV vi sono solo due brevi strumentali per sola chitarra distorta. Quello che penalizza il disco è la produzione eccessivamente Lo-Fi. Per intenderci, il disco è sotto prodotto, diverse composizioni – ed è un peccato perché avrebbero meritato un maggior sforzo – suonano un po’ ovattate, il suono non esce come dovrebbe. Fatta questa dovuta precisazione veniamo alla musica. Cinnamon Tweed è il brano introduttivo ed è uno dei due strumentali, tutto in esso suona come un omaggio ai meravigliosi feedback di Neil Young, anche se Wynn non è allo stesso livello del canadese come chitarrista. Poi con You’re Halfway There il disco entra nel vivo subito con una delle composizioni più interessanti, una canzone completa, con la partecipazione di Stephen McCarthy (Long Ryders se fosse necessario ricordarlo, e già collaboratore di Steve con la formazione Danny & Dusty). McCarthy è il valore aggiunto di molte delle tracce che compongono il disco, con la pedal steel o con l’elettrica. Alla batteria c’è Linda Pitmon, la compagna di Wynn, Scott McCaughney suona il basso e alle tastiere abbiamo Josh Cantor. Segue la title track e il disco si mantiene ad un buon livello, poi è la volta di Interlude il secondo brano strumentale, breve, poca cosa in realtà. Making Good On My Promises è registrata in Spagna con una differente formazione a base di musicisti iberici, poi con la dirompente e ineguagliabile On The Mend si chiude il primo lato. Gran brano, molto eco Dream Syndicate nei suoni, c’è anche una tastiera non accreditata che ricorda tanto il sound di Chris Cacavas, e, oltre a McCarthy alla chitarra c’è Jason Victor, braccio destro di Steve da un po’ di tempo in qua, inclusa la reunion dei Dream Syndicate. Dalla stessa session di registrazione (risalente al 2010) giunge il brano che apre il lato due, Only A Dream, una ballata vagamente country, con la pedal steel dominante. Meno memorabile la lenta Dead Roses, dalle session del 2015 che hanno originato la maggior parte del disco. Addirittura la 2005 risale All The Squares Go Home, buon brano con le tastiere di Craig Schumacher e buoni spunti di Jason Victor all’elettrica. Di nuovo dalle session del 2015 la bella ballata Simpler Than The Rain, con la pedal steel che dialoga con il piano elettrico di Cantor, peccato per il sound troppo compresso perché la composizione è molto valida. Il finale è affidato a …And I Can’t Look Down altro solido esempio del buono stato di salute compositiva di Wynn, in cui si mescolano sonorità Dream Syndicate ma anche certe cose del miglior Wynn solista, bei cori, chitarre efficaci, tappeto di
tastiere mai eccessivo.

SHEMEKIA COPELAND – America’s Child

di Paolo Crazy Carnevale

2 gennaio 2019

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SHEMEKIA COPELAND – America’s Child (Alligator 2018)

Grande connubio quello che ha portato alla pubblicazione di questo signor disco; tanto di cappello all’Alligator, un’etichetta sempre al top nell’ambito del blues, sia elettrico che più legato alla tradizione. L’abbinata tra la voce e la grinta della Copeland con la chitarra e la zampata caratteristica da producer scafato di Will Kimbrough (peraltro già collaudata nel disco precedente della cantante) è davvero al fulmicotone.

La trentanovenne vocalist newyorchese ed il chitarrista dell’Alabama sembrano fatti apposta per fare coppia, almeno su disco. Rispetto ad altri dischi di Shemekia (che, ricordiamo, è figlia del chitarrista Johnny Copeland), Kimbrough dà al disco un sound più virato verso il sound americana, senza però snaturare l’humus da cui la Copeland proviene, e anche laddove s’inseriscono illustri colleghi, come ospiti, come autori o in entrambe le vesti, il blues elettrico e lo stile vocale di Shemekia restano le costanti dominanti di questo America’s Child, il cui titolo dice già tutto su quanto ci dobbiamo attendere.

Kimbrough non ci mette solo la sua lancinante slide, ma tesse all’organo trame spesse e robuste che costituiscono l’essenza del disco, e per aggiungervi un tocco notevole in più firma buona parte del materiale nuovo.

Un disco robusto, un disco bello che si apre già alla grande con Ain’t Got Time For Hate, quasi un titolo programmatico, la solista di Kimbrough duetta con la pedal steel dell’immenso Al Perkins e a fare i cori ci sono Mary Gauthier, Emmylou Harris, John Prine e Gretchen Peters. E quindi, giù il cappello da subito. Ottima anche Americans, firmata dalla Gauthier che ci mette anche la voce nei cori, qui l’atmosfera è meno ruvida e alla pedal steel c’è il Paul Franklin di knopfleriana memoria.

Bene anche Would You Take My Blood, meglio ancora la scoppiettante Great Rain firmata dall’arzillo John Prine che, alla faccia dell’età e delle magagne, si concede un bel duetto con Sjemekia: le chitarre sono di nuovo di Perkins e Kimbrough, che passa poi alla National nella successiva Smoked Ham And Peaches, di nuovo della Gauthier, brano dalle atmosfere più intime che vede ospite Rihannon Giddens al banjo africano. Gran bella canzone.

Quasi rockabilly l’idea di base di Wrong Idea, altra composizione ben costruita e ancor meglio resa, con un indovinato inserimento del violino di Kenny Sears. Con Promised Myself scatta il doveroso omaggio della Copeland al padre Johnny, che ne è l’autore: il rock lascia lo spazio ad una soul ballad, intensa, lenta, avvolgente, bella, con tanto di cameo di Steve Cropper alla chitarra.

Di nuovo rock è invece l’atmosfera di In The Blood Of The Blues, mentre Such A Pretty Flame è un blues notturno e urbano che non starebbe male nei titoli di testa di un Bond-movie, con la pedal steel di Perkins che ulula nell’oscurità duettando con la solista del producer.

Buona anche One I Love, con l’armonica di J.D. Wilkes, molto ben cantata, come del resto anche la riproposta della kinksiana I’m Not Like Everybody Else che in questa lettura ci ricorda quanto americani fossero Ray Davies e soci già nel 1965 quando il brano debuttò su Kinkdom.

La chiusura è intima, solo la Copeland quasi in chiave a cappella, non fosse per l’intro di Kimbrough, alle prese con la ninna nanna Go To Sleep Little Baby.

GRAZIANO ROMANI – A Ruota Libera / Freewheeling

di Paolo Baiotti

2 gennaio 2019

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GRAZIANO ROMANI
A RUOTA LIBERA -FREEWHEELING
Route 61 2018

Dopo la seminale esperienza con i Rockin’ Chairs, formati da Graziano nell’81, che hanno pubblicato quattro dischi tra l’87 e il ’91 e nei quali hanno militato Roberto Pellati, Antonio Righetti e Mel Previte, colonne portanti per alcuni anni della band di Ligabue, il cantante emiliano di Casalgrande ha avviato una solida carriera solista con l’omonimo album del ’93, seguito da dischi ed esperienze di vario genere, alternando italiano e inglese, con l’aggiunta di qualche tributo ai suoi artisti preferiti (in primis Bruce Springsteen). Nell’ultimo decennio Graziano ha affiancato all’attività discografica quella legata alla passione per i fumetti: è curatore e traduttore della saga di Prince Valiant, autore di una biografia di Sergio Bonelli, nonché soggettista e sceneggiatore di numerose storie e ha pubblicato albums dedicati a Tex, Mister No, Zagor e Diabolik. Nel 2015 ha riformato i Rockin’ Chairs per un tour e ha pubblicato il doppio Vivo/Live per la Route 61, seguito due anni dopo dal secondo tributo a Springsteen, Soul Crusader Again. A Ruota Libera – The Duet Album unisce nuovamente la passione per la musica e per il fumetto, in quanto ogni canzone è accompagnata nel libretto da alcune tavole dei migliori disegnatori italiani, tra i quali Fabio Civitelli, Mauro Laurenti e Alessandro Piccinelli. Ovviamente nella versione in vinile si apprezza maggiormente la parte grafica. Dieci brani, cinque in italiano e cinque in inglese, ripresi da vari momenti della carriera del rocker emiliano, con l’aggiunta di tre tracce degli ospiti e di un tradizionale. Si parte con l’inedita title track, un rock trascinante suonato con i Ritmo Tribale nel quale coesistono la voce roca e sporca di Graziano e quella più pulita di Andrea Scaglia. Paz è una ballata dei Gang dedicata al disegnatore Andrea Pazienza; Romani ha aggiunto una strofa ed è accompagnato dai fratelli Severini, Marino alla voce (una delle migliori del rock italiano) e Sandro alla chitarra, nonché dalla sua band nella quale svetta il sax di Max Marmiroli. Il brano in dialetto reggiano Alla Guerra è interpretato con gli autori, il combo folk/rock Lassociazione (pregevole il mix delle voci di Romani e Marco Mattia Cilloni), mentre nella dolente Moira del Circo si riconosce un altro emiliano, Cisco Bellotti ex Modena City Ramblers. La ripresa di Preghiera di Stefano Rosso è un duetto particolare, con il violino di Michele Gazich. Seguono i cinque brani in inglese, iniziando con il soul Making A Change, duetto con l’anglo/pavese Edward Abbiati dei Lowlands, proseguendo con il tradizionale irlandese Molly Malone, duetto con Andy White, cantautore di Belfast, già eseguito sul disco di Graziano Zagor King Of Darkwood (questa versione è differente) e con Napoleon In Rags, tratta dal repertorio dei Rockin’ Chairs, cantata con la rockeuse Arianna Antinori. Nel rock romantico di Last Moonshine (da Confession Boulevard) emergono la voce di Marco Diamantini e la brillante slide del fratello Michele, colonne portanti dei pesaresi Cheap Wine, unitamente alle tastiere di Alessio Raffaelli, mentre in chiusura ascoltiamo la seconda voce femminile, quella della cantautrice newyorkese Carolyne Mas che dialoga con Graziano nella sofferta ballata The Most Crucial Enemy.
Nelle note Graziano parla di “voci che si uniscono, che dialogano. Che a volte urlano, altre sussurrano. Voci legate dall’amicizia, a ruota libera”, definendo nel modo giusto un disco realizzato con cura artigianale insieme al produttore Ermanno Labianca, degna celebrazione di una lunga e proficua carriera che sicuramente ci regalerà altre emozioni.