Archivio di giugno 2016

SCOTT KROKOFF – Realizations & Declarations vol.2

di Paolo Crazy Carnevale

27 giugno 2016

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SCOTT KROKOFF – Realizations & Declarations vol.2 (SK/Hemifran 2015)

Chiamarlo EP? Mini CD? A volte qualcuno ci rimane male se il suo disco viene sminuito con una di queste definizioni. D’altra parte è anche vero che negli anni del secolo scorso capitava non di rado di imbattersi in LP che duravano poco più di questo dischetto di sette tracce pubblicato lo scorso anno dal cantautore newyorchese Scott Krokoff (pronunciato Crow Cough, come spiega spiritosamente – per il pubblico anglofono – nelle sue note biografiche).

Probabilmente per questi artisti indipendenti lontani dal mercato discografico dei pochi negozi o megastore rimasti, e lontani anche dai canali telematici come Amazon, la produzione di un disco breve è più semplice e più remunerativa, un disco breve si vende a qualcosa in meno che non un disco lungo e per chi suona molto nei locali e vende soprattutto durante i concerti, avere più prodotti a disposizione sembra una soluzione inevitabile. Per Krokoff questo è il terzo disco, il secondo con questo titolo (il primo risale al 2012), ma dei suoi precedenti non saprei davvero che dirvi, quello che si evince dall’ascolto ripetuto di questo prodotto è che senza dubbio si tratta di un disco che piace subito, di primo acchito, pur non raccontandoci nulla di nuovo. Per chi ama il genere singersongwriter (SSW scriverebbe il grande ed ermetico Blek), all’americana, è pura goduria auricolare, ci sono tutti gli elementi che ci si potrebbe aspettare da un disco che non esita a farsi definire come “americana” appunto. Prodotto con gusto e suonato con dovizia, Realizations & Declarations vol.2 si presenta con un bel campionario di composizioni prodotte dal chitarrista/bassista Bob Stander, uno con un discreto curriculum alle spalle e conta oltre che sui giochi chitarristici del protagonista (quelli acustici) e del produttore (quelli elettrici) anche sulle tastiere di Paul Errico che col suo organo offre un bel tappeto a quasi tutto il disco. Si inizia con un paio di brani che ricordano il rock vincente di Tom Petty, The Right Place e Because Of You, più aggressiva la prima, più riflessiva la seconda, ma con la voce di Krokoff che ce la mette tutta a non essere un clone. Con Soared Little Boy l’atmosfera si fa più raccolta, l’ispirazione stavolta è da pescare piuttosto sulla costa occidentale e fra gli arpeggi del bostoniano trapiantato James Taylor, a rinforzare quello che è uno dei brani migliori del disco c’è poi una minimale sezione d’archi del tutto deliziosa. Walter Mitty, altra buona canzone, dovrebbe essere una trasposizione musicale di un film (del 2013) e un libro (del 1939) incentrati sulla vita grigia di un impiegato che viaggia molto con la fantasia. I Got Nothing è invece una ballatona che a lungo andare suona un po’ noiosa, come il brano seguente, Pissed Of In Paris, con una melodia che ricorda qualcosa di sixties mascherato però da una fisarmonica che riempie un po’ tutto il suono. Decisamente migliore il brano finale, Sparrows, con organo e dobro a fare da sottofondo mentre l’acustica di Krokoff ci ripropone quel fingerpicking alla Taylor che già si era fatto apprezzare in Soared Little Boy, ma stavolta senza sezione d’archi.

In sostanza un disco onesto, forse breve, almeno per gli standard cui siamo abituati noi europei.

TREVES BLUES BAND Market Sound 8 luglio 2016

di admin

25 giugno 2016

TBB-Market Sound 8 luglio 2016

GERARDO BALESTRIERI – Canzoni Nascoste

di Ronald Stancanelli

25 giugno 2016

Balestrieri

Gerardo Balestrieri, nato a Remscheid in Germania nel 1971 ma credo cresciuto poi a Napoli e attualmente collocatosi in quel di Venezia, laureato all’Istituto Universitario Orientale di Napoli con una tesi sperimentale sul sincretismo e la spiritualità nella musica popolare, è sicuramente uno degli artisti più interessanti che tramite il Premio Tenco abbiamo avuto in questi anni il modo di ascoltare e conoscere. Vincitore di vari riconoscimenti importanti nell’ambito della musica di certo spessore è stato anche varie volte al Premio Tenco ove la sua verve filosofica-musicale ha trovato crediamo un’ideale collocazione ma tanti sono i festival e le manifestazioni che lo hanno visto protagonista sia come ospite che come artista premiato. Inoltre le sue mire artistiche non si sono solo consolidate nel mondo della musica cantautorale o di rilettura ma troviamo echi di suoi lavori e impronte artistiche anche in manifestazioni culturali, festival, rappresentazioni teatrali e televisive, programmi radiofonici. Insomma un artista aperto verso innumerevoli direzioni che ha anche un album inedito dedicato a Boris Vian e del quale sta spalmando qua e la i brani che lo compongono.

I NASI BUFFI E LA SCRITTURA MUSICALE è il suo esordio piazzatosi secondo come opera prima al Premio Tenco 2009. Dodici canzoni che pur essendo esordio discografico erano la summa della carriera del Balestrieri che da vari anni si dilettava nel suonare, cantare, recitare in festival, teatri, piazze, concerti e televisione. Album dedicato al ladro gentiluomo marsigliese Alexander Marius Jacob che ispirò Le Blanc per il suo notissimo Arsenio Lupin. Disco non facile da etichettare, ma poi perché si ha questa mania dell’etichettare tutto e tutti (!?), ma radiosamente saturo di svisate musicali in sintonia con soul, jazz, swing, blues, musiche da ballo, echi gitani, risonanze mediorientali e balcaniche, insomma di tutto e di più in questo straordinario calderone nel quale un brano, la splendida Palamakia, è cantata in greco, lingua che il vostro cronista conosce a fondo avendo la mamma appunto nata al Pireo e vissuta per anni nel quartiere collinare di Atene di Kifissià.. Musica originalissima, accattivante, la voce di Balestrieri è profonda e sensuale quanto basta, ricorda specialmente in Quando il diavolo ti accarezza, quella di Mauro Roncone, cantautore genovese di culto locale, per affascinare l’ascoltatore e questo gioco di affabulazioni e melodie varie danno un album d’esordio decisamente affascinante. I testi coinvolgono sia quando sono a sua firma che quando traggono dal classico come accade nelle splendide Canto Sesto da Giuseppe Ungaretti e L’ame du vin da Charles Baudelaire. Riascoltato più volte, in questo album ci sovviene anche un’analogia’ in certi momenti, con la voce oltre che di Roncone, anche con Baccini e De Andrè , come se l’amico Balestrieri avesse un serrato trait d’union oltre che con Venezia, Napoli e Istanbul, della quale si parlerà dopo, anche con il capoluogo ligure. Per il resto non si può non ribadire che quello dei nasi buffi fu uno degli esordi più interessanti del cantautorato italiano e pazienza e peccato se molti non lo conobbero e tutt’ora non lo conoscono, non sanno cosa si sono persi, anche se come faceva un detto d’epoca; Non è mai troppo tardi!

Il secondo lavoro fu il piacevolissimo UN TURCO NAPOLETANO A VENEZIA, ove in 12 brani, non tutti cantati però da lui, si adopera per un omaggio decisamente interessante alla città di Napoli e alla sua musicalità attorcigliata superbamente con le città di Venezia e Istanbul. Tutte città di mare con alle spalle strali storici di imperitura memoria e pregne tutte di forme musicali che intersecate tra loro hanno dato origine a questo originale album. Album nel quale tutti i brani sono estrapolati dalle agende di scrittori storici della napoletanità attraverso i tempi e quindi abbiamo piacevolmente riproposizioni da Salvatore Di Giacomo, Renato Carosone, Giovanni Gaeta, Raffaele Viviani, Roberto De Simone e ovviamente altri con un periodo che abbraccia un arco che va dal 1886 al 1975. Vari i musicisti coinvolti in detta operazione ma oltre al suo autore principale che canta e suona chitarra, fisarmonica, daf, antico strumento persiano tipo tamburello e zill, sorta di nacchere orientali prevalentemente utilizzate in Turchia, ci preme ricordare la bravissima Paola Fernandez Dell’Erba alla voce in vari momenti salienti dell’opera.

Terzo lavoro nel 2010 CANZONI AL CROCICCHIO, interessante album che ha avuto però problemi di gestione burocratiche e distribuzione restandone purtroppo penalizzato. In sostanza l’album sul quale l’artista non aveva al momento della pubblicazione voce in capitolo è stato assemblato in modo differente da come era stato prefisso, questi i guai di quando una casa discografica subentra ad un’altra. Insomma un pasticcio. Ciò non toglie che il disco sia di ottima caratura con pezzi splendidi come Camera con vista, angolo di vecchi ricordi mirabilmente tratteggiati i modo autorevole dall’artista o la leggera e svolazzante Rouen che apre il cd e ancora la title track che in tempo di marcetta coniuga mirabilmente il tempo che passa. Disco questo difficile da reperire anche in rete tanto per complicare ancor più le cose. Qualcosa di questo lavoro sarà poi recuperato in maniera più consona in Canzoni nascoste, ultimo attuale cd appena uscito.

Di QUIZAS poliedrico album del 2013 abbiamo parlato al momento della sua uscita e credo ancora detta recensione sia inserita in questo sito, comunque trattatasi di un disco decisamente celebrativo e straordinariamente piacevole con una schiera di brani in versioni anche minimali che ripercorrono un passato che fa capo a Paolo Conte, Carosone, Tom Waits, Serge Gainsbourg, Brassens. Fabrizio De Andrè, Vinicius De Moraes/Endrigo/Bardotti, Testoni e Sciorilli e poi ancora vari autori greci e sudamericani insomma uno sfarzo di suoni, testi, emozioni che lo rese all’epoca della sua uscita, il 2013, sicuramente tra gli album più straordinari di cover usciti nel periodo, con una pletora di musicisti eccezionali . Un piccolo grande capolavoro che bollammo come superbo e ancor adesso riascoltato scatena le stesse emozioni. Questo ancora si trova e vi esortiamo a farlo vostro!

Oggi abbiamo tra le mani CANZONI NASCOSTE che a differenza di Quizas ha tutti i dodici brani composti totalmente dal Balestrieri a parte in due pezzi ove le musiche sono di Alain Goraguer, che si avventura in una canonica, giusta, attuale, filippica in musica contro tutte le storture che ci circondano e lo fa in modo bellamente intelligente, con suoni e ritmi accattivanti che catturano in modo totale. Ecco questo è sicuramente un importante album di cantautorato, di grande livello, spessore, cultura e intelligenza che si pone come alternativa a tante cose che ci vengono giornalmente propinate sui vari media. Non so quanto si riuscirà appunto ad ascoltarlo in codesti ambiti ma semplicemente basta accaparrarselo per averne ottima compagnia sia nella propria abitazione che viaggiando nella quiete della propria automobile. Una raccolta di racconti insolitamente anomali ma prettamente e profondamente importanti e singolari. Si apre con una sorta di elogio alle atmosfere francesi Les travailleurs de la nuit che pennella umori e colori nella densità della notte. Da Boris Vian scrittore francese, drammaturgo, poeta e tant’altro propone due libere traduzioni delle fascinose sue canzoni La complainte de progrès e Je suis Snob che divengono La giostrina del progresso e Son Snob. Corroborate dalla tromba di Marco Vezzoso e dal contrabbasso di Giorgio Boffa sono entrambe sufficientemente particolari da risultare apprezzabilmente fantastiche. Canzone nascosta, brano che da il titolo all’album è anche il più recente pezzo del Balestrieri caratterizzato da un incedere iniziale caduco poi transitoriamente allegro, un bozzetto di siffatta fattura, un anelito di romantica voluttà. Pezzo splendido da ascoltarne le parole con attenzione. Pernilla, vivace e dall’andatura sostenuta, quadretto di fine ottocento o primi novecento par evocare la belle epoque e quelle luci e colori che non ci son più. Invece di sembianze molto più moderne Dimmelo, abbellita da un bel sax baritono di Daniele Bergese e da tastiere brillanti da parte dello stesso Gerardo, è inno alla letizia ed esultanza di giocondità. Bellissima. Nuè, cantata in inglese è pezzo strascicato e trascinato con minimali ma intense note di un piano e graffi di un armonica a bocca lontana. Blues da giornata inoltrata ma ancora con il sole a far capolino. Garofano e Cannella è tratta dal libro di Jorge Amado appunto Gabriela garofano e cannella con il flauto di Daniele Sepe e le percussioni di Lino Wembaker mentre Il cenone del Mondo con le sua bluesistica mesta melodia tratteggia con ironia purtroppo cose note e stranote. Acutamente istintiva!

Il klezmer è un genere musicale di tradizione ebraica dell’est Europa e Dave Tarras probabilmente il suo maggior esponente qua omaggiato nella lenta Tom is waiting for, ove congas, sonagli ed effetti vari, sega musicale, posate, bidoni, tacchi, ne abbelliscono l’incedere. Bugia, ovvero canzone lunga dalle braccia corte, canzone giungla con tanto di proboscide, è il sintomatico pezzo di quello che se ci guariamo intorno vediamo. Nove minuti tristemente reali ma geniali. Finale d’alto livello con Vivo al secondo piano del mondo, il pezzo meno recente, scritto a Napoli nel 1993, il mellotron di Matteo Cancedda detta i tempi di questa eccellente conclusiva canzone. Qua si chiude sicuramente il disco più interessante che ci sia giunto tra le mani in questo periodo e che ci permettiamo di pronosticare tra i migliori accreditati al Premio Tenco come album dell’anno. Disegno di copertina del giovanissimo figlio Marius, quattro anni a breve!

Come solito fare Bruce Cockburn anche Gerardo Balestrieri ha il piacevole vezzo di mettere sotto ogni suo testo anno e posto di scrittura dello stesso. Significativo e interessante per avere maggior lumi sul brano in questione.

VASIL HADŽIMANOV BAND – Alive featuring David Binney

di Paolo Crazy Carnevale

22 giugno 2016

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VASIL HADŽIMANOV BAND – Alive featuring David Binney (Moonjune 2016)

Nonostante questo disco dal vivo sia il sesto nella discografia della band serba capitanata dal tastierista Vazil Hadžimanov , è il primo a venire distribuito sul mercato internazionale. Hadžimanov non è quindi un musicista di primo pelo e nel suo paese ha avuto modo di suonare anche al fianco di gente di un certo rilievo, sia per quanto riguarda le star dell’ex Jugoslavia in campo rock e pop, sia con artisti internazionali come Joe Zawinul (con cui ha diviso il palco al festival di Belgrado nel 2003), il violinista Nigel Kennedy e il sassofonista americano David Binney che è ospite in questo live registrato durante il tour serbo del 2014. Il live in questione è un autentico tour de force di oltre settanta minuti, all’insegna di un progressive jazz molto vario, grazie alle molteplici fonti d’ispirazione di un gruppo in cui quasi tutti partecipano alla scrittura dei brani, mettendo ciascuno qualcosa di suo che poi, nell’esecuzione d’insieme risulta accattivante e funzionale. Nel brano Tovirafro, composto dal bassista Miroslav Tovirac, troviamo diffuse digressioni di stampo funky su cui proprio il basso si sfoga non senza però dare modo alle tastiere e alla chitarra di ritagliarsi il proprio spazio attraverso un’evoluzione che, prima di tornare al punto di partenza funky, si permette di sfociare in elementi orientalizzanti sicuramente mutuati dalla lunga occupazione ottomana a cui i Balcani sono stati soggetti. Gran brano anche Dolazim, stavolta a firma del chitarrista Branko Trujic, in cui le atmosfere sono completamente distanti da quelle del brano di Tovirac. Razbolje Se Simsir List è invece quasi un interludio in cui il titolare del gruppo si fa accompagnare quasi dal solo David Binney e dà un bel saggio della propria versatilità al pianoforte con una composizione che sta a metà tra musica colta e rimembranze yiddish. Con Uaiya ci troviamo invece al cospetto di un jazz rock di stampo classico, un po’ alla Weather Report con Binney a farla da padronee assoli individuali degli altri musicisti, particolari poi sono le lunghe cavalcate sonore di Zulu e Otkrice Snova firmate dal gruppo al completo.

ETHAN JOHNS WITH THE BLACK EYED DOGS – Silver Liner

di Paolo Crazy Carnevale

19 giugno 2016

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ETHAN JOHNS WITH THE BLACK EYED DOGS – Silver Liner (Three Crows Records 2015)

Devo dire che appassionarmi a questo disco non è stata una cosa immediata, prima di esserne convinto ci sono volute parecchi ascolti, forse perché, pur trattandosi di un prodotto tutt’altro che rumoroso, necessita di un certo volume per essere apprezzato appieno. Forse anche perché la voce di Johns non mi convince del tutto. Ma è solo un dettaglio perché la musica è davvero buona, la produzione – stavolta non è Johns a sedere in cabina di regia, bensì il batterista Jeremy Stacey – azzeccata e le composizioni, pur pagando pegno ad un sacco di cose, soprattutto californiane, hanno una loro autonomia. Si sente che Johns è stato cresciuto bene, e su questo non c’erano dubbi vista la mole di buone cose da lui realizzate proprio come produttore, ma c’è anche un bel po’ di farina del suo sacco nell’assemblaggio e il fatto di servirsi di un gruppo anziché fare tutto da solo, come nei dischi precedenti, è una scelta sicuramente vincente.

La voce del nostro ricorda alla lontana Tom Petty, almeno in alcune tracce, ma non ne ha nemmeno lontanamente l’estensione, e questa è un po’ l’unica pecca di questo Silver Liner, nove brani in tutto, tre dei quali abbastanza lunghi dal poter essere considerati quasi piccole jam in cui i musicisti vengono fuori al meglio, gli altri sono belle canzoni, ognuna con la sua peculiarità e ricerca sonora. A testimonianza della moltitudine di idee che girano in testa al giovane Johns.

In particolare, oltre a tutte le chitarre suonate da lui, Johns fa tesoro della presenza in seno al gruppo del connazionale B.J. Cole, senza dubbio il più titolato suonatore di pedal steel di Gran Bretagna e dintorni, già responsabile del sound dei Cochise, una delle prime (e uniche) formazioni country rock britanniche. La title track, posta in apertura del disco è già un richiamo totale a certe composizioni del miglior Neil Young, forse anche troppo, nel senso che certi passaggi suonano sin troppo familiari, ma vale il discorso che si potrebbe fare per un altro artista della generazione di Ethan, quel Jonathan Wilson che sembra a tutt’oggi il miglior erede di certa west coast music che ci è infinitamente cara: se gente come David Crosby e Graham Nash – per dirne due a caso – componesse e si facesse produrre da gente come Johns e Wilson, anziché lavorare con i pur bravissimi gregari con cui si esibiscono dal vivo, i loro dischi sarebbero di gran lunga più belli. Fine dell’annotazione.

The Sun Hardly Rises è un’altra bella canzone e in I Don’t Mind, grazie al sound della fisarmonica e di un mandolino (quest’ultimo non accreditato) si respirano atmosfere folkie; Juanita già dal titolo fa intendere invece che ci dobbiamo attendere atmosfere ispaniche, le chitarre duettano con estremo piacere per le orecchie dell’ascoltatore e come omaggio ci sono anche Gillian Welch e Bernie Leadon ai cori. Con It Won’t Always Be This Way è invece una ballata raccolta, con un trio di archi alle spalle di Johns, siamo quasi in odor di Costello, deliziosa. Open Your Mind è country rock psichedelico allo stato puro, con la pedal steel di Cole che fa ricordare da vicino certe jam dei Poco, con Rusty Young che imitava persino le tastiere col suo strumento, di seguito Six And Nine è un’altra jam/gemma che affascina e permette alle chitarre di sviluppare temi penetranti, con l’elettrica, la steel e l’acustica che si intrecciano mentre la sezione ritmica fa la sua parte senza invadere troppo. Il disco si conclude in chiave acustica con la breve e piacevolissima Dark Fire e I’m Coming Home, altro punto di forza di questo lavoro, in cui il cantato richiama il Mark Knopfler più intimista e recente. Bella infine anche la grafica di copertina che richiama certe iconografie messicane relative al culto dei morti. Meno bene le note di copertina assai scarne: oltre al mandolino del terzo brano che c’è ma non è segnalato, non viene indicato chi suoni il pianoforte eppure in It Won’t Always Be This Way lo si sente chiaramente. Quanto a Bernie Leadon, francamente nei cori di Juanita non lo si distingue troppo, ma si dà per scontato che canti visto che lui e la Welch sono accreditati alla pari… potrebbe invece suonare la chitarra… chissà?

SAVOLDELLI/CASARANO/BARDOSCIA – The Great Jazz Gig In The Sky

di Paolo Crazy Carnevale

17 giugno 2016

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SAVOLDELLI/CASARANO/BARDOSCIA – The Great Jazz Gig In The Sky (Moonjune 2016)

A dispetto del titolo e del fatto che a suonarlo siano tre musicisti jazz, questo disco non è a tutti gli effetti un disco jazz. E non è nemmeno un mero omaggio ad uno dei dischi più amati e venduti della musica rock, per quanto la copertina e il titolo non lascino spazio ad indugi: omaggio lo è di sicuro, ma Boris Savoldelli (voce ed effetti vari), Raffaele Casarano (sax) e Marco Bardoscia (basso) ci mettono molto del loro, tanto che il disco si autodefinisce come una sorta di conversazione a tre basata sul celeberrimo The Dark Side Of The Moon. Il tribute a dischi famosi non è certo una novità, pensiamo ai Confederate Railroad che tennero una serie di concerti tematici basati sul Tonight’s The Night di younghiana memoria, al chitarrista jazz Fareed Haque che ha registrato una discutibile versione di Deja Vu, ai Gov’t Mule e ai Phish che una volta all’anno suonano per intero un disco altrui in concerto: i Pink Floyd sono di certo tra i più colpiti dal fenomeno del tributo di questo genere, esiste, tra gli altri, una versione bluegrass di The Wall ad opera di Luther Wright e il Dark Side Of The Moon in questione è stato suonato per intero dai suddetti Phish nel 1998 e in versione country dai Poor Man’s Dream su un disco intitolato Dark Side Of The Moonshine, con colto riferimento all’arte di distillare il whisky al chiaro di luna.

Il lavoro di Savoldelli e soci si indirizza verso una sorta di jazz rock spaziale, laddove il termine jazz rock non va inteso in senso canonico, ma più collegato al fatto che si tratta di jazzisti che suonano un disco tipicamente rock, a dimostrazione di quanto, spesso e volentieri, le definizioni vogliano dire tutto e niente.

Il disco, nato in principio come spettacolo dal vivo, è stato registrato in un paio di giorni, quasi a mo’ di prova, ma pare che quando Leonardo Pavkovich ha scoperto che Boris e soci stavano lavorando sul classico pinkfloydiano abbia voluto a tutti i costi che diventasse un disco da pubblicare sulla sua illuminata etichetta, disco che ora abbiamo finalmente tra le mani. Un disco molto riuscito in cui tra i vari interventi elettronici tipici di certa musica spaziale vengono perfettamente fuori, qualcuna più delle altre, le nove tracce del disco originale. Rispetto alle sue produzioni più tipiche, Savoldelli mette da parte certe soluzioni vocali che lo hanno reso celebre ed apprezzato, in particolare in Russia dove è un’autentica star: la sua voce si presta a dar voce ai brani che conosciamo a memoria dalle voci di Roger Waters e David Gilmour, e i suoi due compagni d’arme gli forniscono una solidissima base sonora ricca di invenzioni quasi impensabili da realizzare con due soli strumenti. Breathe è un grande veicolo per il sax di Casarano, mentre Time, quasi irriconoscibile, è tutta fondata sul gioco dei bassi suonati da Bardoscia, autentica rivelazione del disco. Forse è più difficile accettare la versione manipolata di Great Gig In The Sky, il brano che ispira il titolo di questo tributo, quando si è talmente abituati a quella originale che i Pink Floyd avevano affidato alle corde vocali della strepitosa Doris Troy (molto più che una corista!), ma per contro la versione di Time in cui il brano sfocia è davvero apprezzabile, così come la lunghissima Us And Them, arricchita da un lungo assolo del compagno di scuderia indonesiano Dewa Budjana, che si lancia in un fraseggio che sfugge ogni definizione e calza però a pennello per il quarto d’ora di durata del brano.
Il trittico finale è quasi da urlo, Any Colour You Like/Brain Damage/Eclipse sono qui eseguiti con energia e inventiva fantastiche, gli strumenti e la voce tessono una serie di acrobazie musicali che si lasciano venare di jazz-rock-psichedelia e incursioni swing.

WINK BURCHAM – Cleveland Summer Nights

di Paolo Crazy Carnevale

13 giugno 2016

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WINK BURCHAM – Cleveland Summer Nights (Horton Records/Continental Song City/IRD 2016)

I dischi di una volta. Questa è la prima cosa che viene in mente ascoltando questo recente prodotto firmato da Wink Burcham, songwriter dell’Oklahoma, fin dalla copertina che richiama lo stile delle uscite discografiche di molti suoi colleghi degli anni settanta. E poi i suoni: il cosiddetto sound live in studio, senza troppi arzigogoli che a questo tipo di musico bene non fanno di certo.

Il disco è infatti il risultato di tre giorni in un piccolo studio dell’Arkansas, in compagnia di pochi fidati musicisti che hanno contribuito alla realizzazione di questo piccolo grande disco in cui i generi e sottogeneri si incontrano emanando quei profumi intensi che solo certa canzone d’autore riesce a regalare, fluttuando tra country-blues, atmosfere swing e ballate sull’onda di chitarre d’ogni tipo che tessono i merletti su cui il disco si appoggia.

Niente che sappia troppo di studiato a tavolino, piuttosto una bella atmosfera di collaborazione e sintonia.

Burcham viene da Tulsa e nelle sue vene scorre quel sound che ha fatto grandi personaggi come J.J. Cale o Leon Russell, non a caso la sua musica è di casa nel locale nato dalle ceneri degli studi della Shelter Records; a richiamare l’attenzione su di lui è stato un ottimo piazzamento nel 2013 ad un contest tenutosi a Memphis in cui si aggiudicò la semifinale.

Delle tredici tracce che compongono il disco – pubblicato dall’olandese Continental Song City – undici sono originali e due cover (e gli originali svettano notevolmente nel risultato complessivo).

Dai solidi country-blues dell’iniziale Case Of The Blues, di Lay Your Burden Down e Lawn Mover Man’s Blues all’honkytonk da saloon di I’ll Never Leave The Honky Tonks con la pedal steel protagonista, il disco si dimostra subito come una raccolta di ampio respiro, con una buona voce che ricorda molto ma che non copia nessuno. Lonesome Tune è una canzone quasi in punta di piedi con un banjo non accreditato, Cowboy Heroes And Old Folk Songs è texas swing puro, ma la palma di migliori composizioni dell’intero lotto va alla title track, davvero bella, alla cupa For The Ones We Leave Behind che non avrebbe sfigurato nel repertorio “funebre” del Johnny Cash di fine carriera – qui il cantato di Burcham si avvicina molto alla baritonalità del man in black – e Made To Laugh, il cui testo è un chiaro invito al sorriso e a lasciarsi le tristezze alle spalle. Una bella filosofia di vita.

Domenica 12 giugno la Fiera del Disco a Mariano Comense!

di admin

8 giugno 2016

VOL MARIANO 12 06 2016 [111267]