Archivio di luglio 2018

MICHAEL VEITCH – Wake Up Call

di Paolo Baiotti

26 luglio 2018

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MICHAEL VEITCH
WAKE UP CALL
Burt Street Music 2017

Innamorato dei Beatles già da bambino, cresciuto alternando il rock and roll ai canti Gregoriani imparati in chiesa, Michael ha affiancato alla musica la passione per l’attivismo ambientale e per la fotografia. L’attività in campo ambientale è sconfinata nell’appoggio a candidati progressisti e a concorrere come indipendente per il ruolo di governatore del Vermont parecchi anni fa. Dopo questo tentativo si è dedicato con maggiore attenzione alla musica, incoraggiato da Shawn Colvin e influenzato da artisti impegnati come Woody Guthrie, Pete Seeger e Billy Bragg. Dal ’99 si è stabilito a Woodstock, ny; dopo avere inciso due album per la Silverwolf, NY Journal prodotto da Murray Krugman e Southern Girl, ha preferito lavorare come indipendente, distribuito dal sito www.cdbabycom, con numerosi album tra i quali Painted Heart, Heartlander e il recente Box Of Letters.
Wake Up Call è un progetto particolare di carattere patriottico: un ep di cinque brani dedicato a chi ha servito il paese e in particolare ai veterani, nonché a ricordare le diseguaglianze sociali che condizionato e rallentano lo sviluppo della nazione. E proprio la delicata Veteran’s Day apre il dischetto, seguita da Pledging Allegiance sulla disillusione del sogno americano, dalla malinconica ballata Voices Of The Old Days sulla seconda guerra mondiale, da White Rose cantata con particolare intensità e da Happy Fourth Of July, ballata con accenti springsteeniani impreziosita dalla resonator di Dan Whitley, amara riflessione sugli eventi drammatici che hanno segnato la storia del paese. La voce morbida di Michael a tratti ricorda Paul Simon; l’artista suona chitarra acustica, elettrica e tastiere con uno stile fluido e comunicativo, accompagnato da un ristretto gruppo di amici tra i quali Fooch Fischetti (dobro e violino) e Luo Pappas (contrabbasso).

A.F.T. – In The Universe

di Paolo Baiotti

26 luglio 2018

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A.F.T.
IN THE UNIVERSE
Rootsy Music 2018

Annika Fehling è una cantautrice svedese residente a Visby, capoluogo dell’isola di Gotland. Da anni attiva in ambito folk-roots, ha inciso una decina di dischi solisti a partire da JazzFehlings del ’96, oltre a una collaborazione con Marcus Rill e una con il gruppo isolano Glimra. Ha suonato in molti paesi europei e negli Usa, ottenendo riconoscimenti in Svezia e Danimarca. Oltre all’attività solista è impegnata con A.T.F. (Annika Fehling Trio) che esordisce con In The Universe. In questa formazione è accompagnata da Christer Jonasson, esperto chitarrista acustico, elettrico e alla lap-steel, attivo fin dagli anni settanta sia come solista che come session man e da Robert Wahlstrom (percussioni, piano, moog), compositore di colonne sonore per il cinema ed il teatro sia in ambito elettronico che folk. Con il trio Annika, compositrice delle nove tracce del disco, cerca di superare il formato del cantautore solitario, creando un tappeto sonoro prevalentemente acustico e rilassato, che riflette la calma nordica e l’amore per la terra e la natura, rispecchiato dai testi e dalla grafica della copertina e del booklet.
Musica morbida, a tratti evanescente e impalpabile, come la voce sussurrata di Annika, un po’ troppo monotona nella sua delicatezza. Il disco musicalmente riesce a mantenere viva l’attenzione, nonostante questi limiti, anche per la sua limitata durata. La raffinata opener Greenland arrangiata con le percussioni in sottofondo e una limpida chitarra acustica, l’eterea Mother Earth Song con l’inserimento di una delicata lap-steel, la mossa Dark City Alone, Stars vivacizzata da un paio di break strumentali e l’inquieta White Witch risultano le tracce più convincenti di un album consigliabile soprattutto agli appassionati di folk nordico con accenti new age.

DAVE MULDOON – Smoke Steel And Hope

di Paolo Baiotti

24 luglio 2018

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DAVE MULDOON
SMOKE STEEL AND HOPE
Prismopaco 2018

Cantautore newyorkese, Dave si è trasferito in Italia nel 2000. Ha fatto parte di una tribute band di Tom Waits, una delle sue principali fonti d’ispirazione, avviando poi una carriera solista con Little Boy Blue, pubblicato nel 2008 e prodotto da Cesare Basile, un disco vicino all’indie-rock tra ballate cupe e canzoni più rumorose. Sono passati dieci anni, Muldoon ha una famiglia e insegna, ma non ha dimenticato la musica ed è tornato con un disco più tradizionale del precedente, anzi in equilibrio tra tradizione cantautorale e modernità minimalista degli arrangiamenti. Questa volta ha scelto la chitarra steel e la produzione di Giovanni Calella, che ha mischiato sonorità roots, accenti desertici e campionature, aiutato da Lino Gatti e Roberto Dellera di The Winstons, Milo Scaglioni, Chiara Castello e Micol Martinez.

L’apertura del disco denota le influenze di Tom Waits in Die For You, sia nella sporca tonalità vocale che nell’arrangiamento secco ed essenziale, e quelle di Bob Dylan nello scorrevole singolo New York City Life, una delle composizioni migliori del disco, punteggiata da una chitarra western e dal pianoforte. La ballata Nothing At All e l’avvolgente Destiny’s Child inseriscono con discrezione elementi gospel, seguendo il solco iniziale. Ma l’atmosfera cambia con due tracce oscure: Mountain, dichiaratamente ispirata da Ian Curtis dei Joy Division, con la chitarra acustica della prima parte sostituita da un crescendo elettronico anni ‘80 e la corale Horizon, scritta a Ibiza durante uno spaventoso incendio, che richiama nei testi la scrittura di Mark Lanegan. Dancing inserisce elementi latini, mentre la lunga e ripetitiva Long Time è stata stravolta dalla band che ha inserito un ritmo incalzante con molte sovraincisioni (anche troppe). In chiusura la brillante On The Radio, che ondeggia tra vocalità springsteeniane e influenze soul e l’up-tempo easy Get What You Need, ballabile e ricco di campionature, confondono un po’ le acque lasciando l’impressione di un artista ancora indeciso sulla strada da intraprendere.

KEEGAN McINROE – A Good Old Fashioned Protest

di Paolo Crazy Carnevale

24 luglio 2018

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KEEGAN McINROE – A Good Old Fashioned Protest (Keeganmcinroe/ Hemifran 2017)

Un balzo ne passato la partenza di questo disco! Alla faccia dei suoni facili, dei rapper di nuova generazione questo Keegan McInroe se ne parte con un blues parlato intitolato Talking Talking Head Blues, come se fosse Woody Guthrie o il Dylan degli esordi: l’ultimo che avevo ascoltato alle prese con questa forma musicale era stato Dan Bern ai tempi dei suoi esordi, vale a dire parecchio tempo fa.

McInroe, texano, cerca però di sfuggire alle etichette, il suo suono non è quello tipico dei suoi conterranei, pensiamo solo a Townes Van Zandt, che il talking blues lo ha fatto proprio dandogli un’impronta diversa, meno da folksinger e più da songwriter. McInroe torna alla forma primordiale del genere, ma non vi si fossilizza. Il resto del disco viaggia in più direzioni, sempre caratterizzate da testi arguti e non scontati. Peccato che il disco non includa i testi che bisogna andare a recuperare nel sito del cantautore.

Se il brano iniziale, ripeto in puro stile tradizionale, è una riflessione sui colpi di testa di Donald Trump e sulla sua politica, nel brano successivo, Big Old River, si affida ad una struttura strumentale più articolata, con un bel suono d’organo e ancor di più lo fa in Bombing For Peace, altro testo ironico in cui dice saggiamente che lanciare bombe per pacificare è come inserire il gelato in una dieta o fare la vasectomia ad uno che deve diventare papà…

Christmas 1914 è una lenta ballata, introspettiva, ispirata alla prima guerra mondiale; il blues parlato torna poi nella brevissima Bastards & Bitches, titolo eloquente per un’altra canzone in cui McInroe non risparmia nulla ai potenti. Molto bella nella sua semplicità strutturale The Ballad Of Timmy Johnson’s Living Borther, mentre Nietzsche Wore Boots ammazza letteralmente l’ascolto, si tratta di un brano parlato, o meglio recitato, che spezza il disco. Personalmente credo che un disco sia fatto per essere ascoltato, sia nella sua parte lirica, ma soprattutto in quella musicale, in particolare per l’ascoltatore non anglofono.

The Love That We Give, brano per chitarra acustica ed elettrica twang, con un altro bel testo intelligente, in cui la matrice texana si fa sentire più che in altre parti del disco, una coda d’organo arricchisce nel finale il tessuto musicale del brano. La chiusura è affidata a Keegan’s Beautiful Dream un’altra piacevole ballata folkie, nello spirito dylaniano degli esordi.

TRUE NORTH – Open Road, Broken Heart

di Paolo Baiotti

16 luglio 2018

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TRUE NORTH
OPEN ROAD, BROKEN HEART
TRUE NORTH 2017

Quartetto proveniente dall’Oregon, i True North sono una delle formazioni più considerate in ambito bluegrass e folk acustico. Kristen Grainger è la principale autrice e cantante, già premiata per le sue doti compositive nelle principali competizioni tra autori a Telluride, Merlefest e Kerrville.
E’ affiancata da Dan Wetzel (voce, chitarra, mandolino, ukulele, banjo) che si occupa degli arrangiamenti, Martin Stevens (mandolino, violino e voce, proveniente dai Bluegrass Regulators) e Josh Adkins (basso, anch’egli ex Bluegrass Regulators). Questi ultimi hanno sostituito Susanne Pearce Adkins e Dale Adkins, che suonano su Open Road, Broken Heart, quarto album dei True North, che hanno esordito nel 2005 con Cobalt Miles Of Sky, seguito nel 2006 da Pluck e nel 2014 da Elsebound, comprendente Be Here Now, canzone folk dell’anno per la International Music and Entertainment Association. Nel nuovo album il folk acustico prevale rispetto al bluegrass, che rimane sullo sfondo e nell’uso di alcuni strumenti. La delicata One Way Ticket apre il disco con pregevoli interventi della chitarra di Wetzel. La voce angelica, pulita e cristallina di Kristen emerge particolarmente nelle ballate intimiste come Dark Horse Bar & Grill, nell’intensa e dolente Ratio Of Angels And Demons, nella minimale folk-song Sunday Night Blues e nella cover di The Eye di Brandi Carlile. I controcanti di Wetzel colorano il ritmato bluegrass di Small Wonders e di I’m Gone, l’ironica e scanzonata Mighty Bourbon e la rispettosa cover di Without You di Eddie Vedder, (da Ukulele Songs del 2011). L’avvolgente cover cantautorale di Wilder Than Her dell’autore canadese Fred Eaglesmith è una delle tracce più convincenti di un disco chiuso dalla filastrocca folk You Come Around, arrangiata con intrecci di banjo e mandolino, che scorre piacevolmente, con qualche pausa dovuta alla prevalenza di ritmi lenti.

RUSTIES – Queste Tracce…Live – Rare And Lost Recordings 2008-2018

di Paolo Baiotti

15 luglio 2018

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RUSTIES
QUESTE TRACCE…LIVE – RARE AND LOST RECORDINGS 2008-2018
Rusties/Hard Dreamers 2018

Tra i tanti limiti del mercato musicale italiano c’è il disinteresse verso un certo tipo di rock di matrice classica, legato agli anni settanta, al blues e al folk, imparentato con il roots-rock e l’Americana. Gruppi di ottimo livello come i Cheap Wine e i Lowlands sono costretti a un duro lavoro da indipendenti, faticando a trovare locali per suonare con continuità. Lo stesso discorso riguarda i bergamaschi Rusties, creatura di Marco Grompi (scrittore di rock, traduttore, giornalista, ma soprattutto cantante e chitarrista), da sempre accompagnato dal chitarrista Osvaldo Ardenghi (già collaboratore di Enzo Jannacci). La band è attiva da vent’anni, celebrati con questo pregevole doppio dal vivo, che si divide tra un cd recente, inciso al Druso di Ranica (BG) il 12 maggio del 2016 e un cd con materiale d’archivio inciso tra il 2008 e il 2012 con alcuni ospiti. Partiti come tribute band di Neil Young, la grande passione di Grompi che ha anche realizzato uno spettacolo teatrale (Waterface) sulla trilogia oscura dei primi anni ’70 del cantautore canadese, con un demo del 2002 (Rusties Never Sleep), dopo alcuni albums di covers di Neil molto apprezzati soprattutto in Germania hanno pubblicato due dischi di materiale autografo in inglese (Move Along e Wild Dogs). Nel 2015, dopo l’ingresso in formazione dell’esperto bassista e cantante Fulvio Monieri (già con i Perdio ed Edoardo Bennato) e del giovane batterista Filippo Acquaviva sono passati all’italiano con un disco di covers, Dalla Polvere e Dal Fuoco, seguito due anni dopo da Dove Osano I Rapaci, con brani originali in italiano. Il primo cd di Queste Tracce…Live riproduce il concerto di presentazione dell’ultimo album con una scaletta che alterna sette brani nuovi a un paio del disco precedente, aggiungendo un inedito e in chiusura tre tracce più vecchie. L’influenza di Young è evidente nel rock poderoso dell’inedita Questa Rabbia e nell’intensa e ritmata Queste Tracce, mentre il rock dei seventies, specialmente quello californiano, si sente in Magari Un Motivo, irrorata dalla chitarra distorta di Ardenghi e in Una Storia Per Noi, con un riff alla Cream e una notevole jam strumentale tra chitarre e tastiere (la band è completata da Massimo Piccinelli, alle tastiere dal 2008). Le covers in italiano di Powderfinger e in inglese di Love And Only Love (strepitosa, davvero) sono altri momenti importanti di un concerto da ascoltare a volume alto, specialmente nelle numerose parti improvvisate. Quanto al secondo cd, se possibile è ancora più interessante, alternando covers di spessore come l’acustica A Day In The Life (Beatles), la bluesata e sognante Baby Please Come Home (John Martyn) con la voce di Mary Coughlan, Sweet Thing (Van Morrison) cantata da Grompi e Cristina Donà, una pacata e riflessiva I Shall Be Released con il bluesman Robi Zonca e i Perdio e la cavalcata più rock che folk di Matty Groves (Fairport Convention) a versioni alternate di brani originali quali Soldier Of Fortune acustica con Veronica Sbergia alla voce (sul primo cd c’è la versione elettrica), la dolente Move Along con il violino di Jada Salem e il country-rock Wintersong. Ovviamente non mancano un paio di omaggi a Neil Young: una torrenziale Down By The River, jammata anche vocalmente con Veronica Sbergia, una travolgente Words e una delicata Helpless. Un disco che consiglio caldamente a tutti.

HION MARETLL – Trust Me On This Time

di Paolo Crazy Carnevale

15 luglio 2018

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HION MARETLL – Trust Me On This Time (Viskiningar Och Vral /Hemifran 2017)

Band svedese non proprio di primo pelo, gli Hion Martell (il nome pare derivi dal nome di una marca di birra) sono sulla breccia da quasi trent’anni, hanno suonato un po’ di tutto senza lasciarsi condizionare da uno stile piuttosto che dall’altro: per loro stessa ammissione non hanno mai voluto farsi etichettare. Forse, sarei più propenso a credere, senza sapersi decidere su quale genere concentrarsi.

Ci sono voluti un po’ di anni prima che la formazione si assestasse sulla line-up attuale che conta sulla classica strumentazione chitarra/basso/batteria/tastiere.

Il suono di questo nuovo disco è solido, anche ben suonato, forse un po’ prodotto alla “viva il parroco”, come direbbe Bruno Pizzul, nel senso che non ha molta direzione, la traccia iniziale (Rock Me Up) sembra un brano di Meat Loaf, ma senza tutta la potenza e i musicisti su cui il ciccione del rock poteva contare, e con una voce potente sì ma non paragonabile. Monday Sings The Blues è un po’ in debito con gli anni ottanta, senza la plastica per fortuna. Certo, alcune tracce suonano bene, come Make Your Mother Proud, Jammin’ Tonite. Non sono male The Girl With The Picasso Face, con piano e la chitarra acustica in evidenza e un bel solo di elettrica, e Can’t Stop.

In definitiva un disco piacevole, non certo indispensabile. Da sottofondo.

FRANCESCO PIU/PEACE & GROOVE BAND – The Cann O’Now Sessions

di Paolo Crazy Carnevale

12 luglio 2018

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FRANCESCO PIU/PEACE & GROOVE BAND – The Cann O’Now Sessions (Appaloosa/IRD 2018)

La prima cosa che balza all’orecchio quando parte la prima traccia di questo live in studio è che non suona assolutamente come un disco italiano, Francesco Piu ed il suo gruppo hanno un groove ed un approccio alla musica che si potrebbe tranquillamente pensare di essere al cospetto di un gruppo d’oltreoceano. Il filone è quello blues, ma non troppo classico, molto filtrato e molto venato di funk, complici una ritmica assolutamente d’assalto e un organo Hammond penetrante al punto giusto che supportano le evoluzioni del titolare con la sei corde.

Il chitarrista (e anche ottimo vocalist) sardo si è costruito negli ultimi anni una solida fama più che meritata, non è un caso se nella sua carriera ha avuto l’onore di aprire i concerti di gente come Derek Trucks, Jimmie Vaughn, Robert Cray, nonché di farsi produrre un disco (Ma-Moo-Tones) da Eric Bibb.

Questo nuovo disco, uscito in tiratura limitata per il recente Record Store Day, è il risultato di una giornata particolare, una session dal vivo in studio, laddove lo studio è un’azienda agricola della sua Sardegna, da cui il titolo che si rifà neanche troppo velatamente al più conosciuto dei vini sardi.

Accompagnato dalla sua band, la Peace & Groove Band (dal titolo del disco precedente, uscito per l’Appaloosa nel 2016), formazione tutta sarda come il titolare, Piu mette in fila una serie di brani, per metà provenienti dal disco precedente e per metà ripescati tra la tradizione e i repertori di artisti a lui affini.

Il risultato è pregevole, a dimostrazione – ma non ce n’era bisogno – che anche in Italia si può fare del gran blues anche senza avere la pelle scura o gli antenati che si sono spaccati la schiena nei campi di cotone.

Mentre Gavino Riva e Giovanni Gaias sostengono una pulsante parte ritmica, Piu si occupa del canto e della chitarra creando un sound particolarmente riuscito che ha uno dei suoi punti di forza nell’organo suonato da Gianmario Solinas. I brani originali più recenti sono composti in tandem con lo scrittore suo conterraneo Salvatore Niffoi, e a dare una solida mano ci sono anche quattro voci femminili che aggiungono pepe al disco.

Se l’inizio suona un po’ come un riscaldamento (In The Cage Of Your Love e Hold On), il disco entra subito nel vivo con la bella cover del classico di Vera Hall Trouble So Hard, con finale vocale da brivido, poi è la volta di Down On My Knees, con la sezione ritmica in odor di Bo Diddley e una serie di interventi di Hammond e chitarra da far drizzare i peli sulla schiena a chi li ha.

My Eyes Won’t See No More è una delle tracce composte con Niffoi e viaggia dalle parti del texano, un po’ sudista, un po’ boogie; Mother (medesimo team compositivo) è invece un delizioso intermezzo acustico, un ulteriore saggio della duttilità del nostro e della sua banda, con Solinas per l’occasione si sposta al pianoforte. Black Woman è un tradizionale eseguito con gusto, partendo da un approccio spiritual e sviluppando poi una parte centrale in chiave psichedelica per poi tornare all’atmosfera iniziale. Crumbled Stones ci riporta in territori funk, con Piu che ci piazza anche un indovinato intervento con l’armonica, You Feed My Soul è un altro brano solidissimo, Rough God Goes Riding è una personale interpretazione di un brano del Van Morrison di fine anni novanta, un brano intenso, lento, penetrante, di nuovo con l’organo al posto giusto, sia l’Hammond che il cuore, e una parte di chitarra sopraffina.

Il finale è un altro tradizionale, Turn Around Me, ancora a metà strada tra gospel e canto di lavoro, degna conclusione di un disco dal vivo a cui mancano solo gli applausi.

JOHN MAYALL – Three For The Road – A 2017 Live Recording

di Paolo Baiotti

12 luglio 2018

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JOHN MAYALL
THREE FOR THE ROAD – A 2017 LIVE RECORDING
Forty Below 2018

A maggio l’indomito John Mayall, figura iconica del british blues (e non solo) è stato costretto a rimandare le date fissate fino a settembre a causa di una polmonite. Un evento fortunatamente raro per il musicista che ha compiuto 84 anni senza rallentare, se non marginalmente, il ritmo della sua attività in studio e dal vivo. Prima di questa notizia, che ha preoccupato gli appassionati vista l’età avanzata dell’artista, Mayall aveva annunciato l’inserimento del primo chitarrista di sesso femminile nella storia della sua band, la texana Carolyn Wonderland, sospendendo l’esperimento del trio senza chitarrista durato un annetto. Proprio a questo periodo si riferisce Three For The Road, il live recentemente pubblicato dalla Forty Below, inciso a Dresda e a Stoccarda nel marzo del ’17, prodotto come al solito con Eric Corne. L’idea del trio è nata per caso: il chitarrista Rocky Athas è stato costretto a rinunciare a un festival per un problema di voli…pertanto John è salito sul palco con la rodata sezione ritmica formata da Greg Rzab (basso) e Jay Davenport (batteria), gestendo da solo la totalità delle parti soliste, sostituendo la chitarra con armonica e tastiere (organo e piano elettrico). E’ rimasto talmente soddisfatto da decidere di continuare il tour in trio, lasciando a casa il povero Rocky, incidendo un nuovo album dal vivo a sei anni di distanza da Live In London (Private Stash 2011). Le dinamiche del trio sono particolari, presupponendo un impegno maggiore della sezione ritmica nel coprire i vuoti. In questi frangenti emerge la figura di Rzab, bassista di Chicago ispirato da Jaco Pastorius e John Paul Jones, già al fianco di Otis Rush, Junior Wells, Buddy Guy e Jimmy Page, che accresce il suo ruolo non limitandosi alla pura funzione ritmica. Ovviamente Mayall si carica sulle spalle il ruolo principale di solista, oltre a quello di cantante, alternandosi tra armonica e tastiere con una fluidità e una freschezza che lasciano attoniti, considerata l’età veneranda. Tra i dieci brani vengono ripescate perle degli anni sessanta come Ridin’ On The L&N, incisa per la prima volta nell’Ep con Paul Butterfield del ’67 e lo slow Streamline da Crusade, con un lungo e rilassato assolo di organo, alternate a tracce più recenti, tra le quali la jazzata The Sum Of Something da Tough del 2009, la ritmata I Feel So Bad da Find A Way To Care del 2015 con armonica e piano elettrico in evidenza e il mid-tempo Don’t Deny Me da Talk About That del 2016. In chiusura la mossa Congo Square, blues di New Orleans di Sonny Landreth, in cui viene lasciato ampio spazio solista ad ogni strumento. Three For The Road è un ulteriore tassello di una discografia inaugurata nel ’65 che, ad eccezione della parte finale degli anni ’70, ha mantenuto un livello qualitativo lusinghiero.

Sabato 14 luglio la Fiera del Vinile di Villaguardia (CO)

di admin

11 luglio 2018

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BURRITO BROTHERS – Still Going Strong

di Paolo Crazy Carnevale

8 luglio 2018

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BURRITO BROTHERS – Still Going Strong (Junction Records 2018)

Appartengo a quella fetta di fan dei FBB che ritiene conclusa definitivamente la storia del gruppo con l’uscita del live giapponese del 1978. Certo ci sarebbero stati due tentativi irrisolti di dargli un seguito poco tempo dopo, con formazione quasi analoga (che vedeva Gene Parsons al posto di Ed Ponder, quindi un cambiamento in meglio).

Da allora in poi trovo che tutto quanto è uscito con sigle simili sia stato un inutile e spesso indecente tentativo di sfruttare un nome che aveva finito di dire qualcosa molto tempo prima. La formazione con Sneaky Pete, Skip Battin e Greg Harris, per quanto ottima, è stata solo una line-up per un biennio di concerti, più una cover band che altro, quelle capitanate da Beland e Guilbeau (con o senza Sneaky) non c’entravano proprio nulla con i gloriosi FBB ma sembravano più che altro giuustificate dall’incapacità dei due soggetti coinvolti di avere una carriera propria senza dover ricorrere a glorie altrui!

Poi ci sono stati i Burrito Deluxe, poco più interessanti, e comunque meschini al punto di andare in tour col povero Sneaky malato di Alzheimer e incapace di suonare una sola nota. Ma averlo sul palco a far finta di suonare faceva vendere più biglietti…. Disdicevole….

Poi sono arrivati i Burritos e basta, forse la proposta più interessante dal 1980 in poi. Nessun musicista collegato con la formazione storica, unico legame il fatto che Walter Egan aveva firmato qualcosa con Gram Parsons nella notte dei tempi. Ma il disco era onesto e ben fatto.

Walter Egan si è perso per strada, ma ogni tanto suona ancora quando capita con quelli che ora hanno rispolverato oltre al nome anche la fratellanza, risparmiandosi, con un briciolo di onestà l’aggettivo volante. In realtà c’è solo il tastierista Chris James rispetto al disco precedente, tutti gli altri sono nuovi.

Il disco sarebbe anche bello, ma cosa c’entra con la gloriosa sigla del passato? Un buon country-rock quello propugnato da James e soci, soprattutto è eccellente il gioco di suoni intrecciati prodotto dalla pedal steel di Tony Paoletta (un illustre signor nessuno con qualche session per lo più oscura alle spalle, dotato di grande gusto) e dall’elettrica di Bob Hatter.
Beats The Devil è una delle canzoni in cui questo dualismo emerge meglio, un gran lavoro (la canzone è firmata da James con Walter Egan), ma come suoni siamo più in casa New Riders che dalle parti dei Burritos, e suona bene anche Bound For Glory, qui James compone con Ron Guilbeau, come in Blood Red Wine: ma non basta avere ogni tanto sul palco e in sede di composizione uno della famiglia Guilbeau (tra l’altro neppure un Burrito originale) per arrogarsi il diritto di usare quel nome, così come non basta proporre in apertura del disco una fantomatica canzone firmata da Chris James e Gram Parsons, intitolata Between Your Hands And Mine, ma nella copertina e tantomeno nel sito del gruppo ci si guarda ben dallo spiegarne la genesi e il perché… Il brano non ha nulla del sound Parsons/Burritos!

All Blue è una buona composizione, c’è addirittura una Burrito’s Lament #9, con la pedal steel che piange, non oso pensare alle altre otto canzoni omonime!

Country-rock, sì, questo ci sta, ma siamo davvero più dalle parti di Pure Prairie League (per altro eccellenti in diverse occasioni), oppure dei citati New Riders ultimo periodo, delle avventure country-rock di Mike Nesmith: dei FBB manca la genialità, la grande intuizione di Parsons di sposare il country alla soul music (sviluppata magistralmente con la presenza in formazione di Chris Ethridge), e manca la voce da brivido di Chris Hillman, manca il suo tocco bluegrass: pur trovandoci di fronte ad un disco buono, questo non lo nego di certo, per me i Burritos migliori sono quelli del terzo disco e del live Last Of The Red Hot Burritos, quello in cui meglio si mescolano country, soul, bluegrass e rock’n’roll.

Almeno il vecchio logo non è stato scomodato, ne è stato creato uno nuovo….

BEN GLOVER – Shorebound

di Paolo Crazy Carnevale

8 luglio 2018

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BEN GLOVER – Shorebound (Appaloosa/IRD 2018)

L’irlandese Ben Glover sta vivendo un vero periodo di stato di grazia: negli ultimi anni la sua ispirazione sembra davvero viaggiare alto e, presso il pubblico italiano ha trovato letteralmente una terza patria (la seconda è Nashville, dove abita da alcuni anni ed ha inciso questo suo nuovo disco, coadiuvato nella produzione da Neilson Hubbard, suo compagno d’avventura negli Orphan Brigade).

Un disco solista (il settimo) che arriva dopo un periodo intenso che lo ha visto dapprima portare le proprie canzoni in giro come spalla di Mary Gauthier, poi come autore principale dei due progetti di studio (ma c’è stato anche il live uscito un paio di mesi fa) sotto la denominazione Orphan Brigade.

Se non è essere attivi questo! Shorebound è un disco realizzato in maniera diversa rispetto a quelli di gruppo, certo c’è Hubbard con lui, ma ci sono anche molti altri compagni di viaggio, il gruppo essenziale che lo accompagna, basato sulle chitarre di Kris Donegan e Juan Salorzano, il piano di Barry Walsh e il violoncello di Chelsea McGough, Hubbard suona tutto il resto; e gli ospiti, una serie di amici con cui Glover si diverte a duettare in quasi tutte le tracce e che sono anche tutti coautori dei brani in cui figurano.

Buona senza dubbio l’apertura in chiave rock con una bella slide intitolata What You Love Will Break Your Heart, con la voce di Amy Speace, e al pari di questa si può considerare anche il duetto con la Gauthier, Catbird Seat in cui la slide è di nuovo in primo piano. I testi, certo, non sono molto allegri, già con i dischi degli Orphan Brigade ci eravamo abituati ad un autore introspettivo, quasi spettrale e qui non viene contraddetta tale definizione: la pianistica Dancing With The Beast (coi controcanti di Gretchen Peters, al pari della Gauthier una delle più importanti amiche musicali di Ben) narra di chissà quale temibile demone che s’impossessa del protagonista del brano, sia esso lo stesso Glover o un io narrante qualunque, con un bel finale in crescendo col violoncello in primo piano. A Wound That Seeks the Arrow si aggira intorno ad atmosfere più acustiche, e Northern Stars pure, qui le voci ospiti sono quelle di Malojian e Matt McGinn. Kindness è quasi acustica, raccolta, eseguita in sordina. L’organo suonato da Hubbard fa da sottofondo alla più spedita e più ottimistica Ride The River, in cui Glover duetta con la cantautrice Kim Richey, Song For The Fighting, il duetto qui è con Hubbard, è invece un brano in odor di Waterboys, nella struttura e nell’uso delle voci. Slide e cello sono le colonne portanti della title track, uno dei brani più riusciti della raccolta, Wildfire, si muove su due temi differenti, uno per le strofe, lento, quasi intimista, mentre l’altro esplode nel ritornello molto corale ed energico (se il termine energico fosse mai coniugabile alla musica di Glover) in cui è identificabile il background britannico dell’autore. Il disco si chiude con My Shipwrecked Friend, introdotta da una slide quasi alla Harrison e la love song Keeper Of My Heart in duetto col cantautore britannico Robert Vincent.

AA.VV. – The American Epic Sessions

di Paolo Crazy Carnevale

8 luglio 2018

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Various Artists – The American Epic Sessions (Lo-Max/Columbia 2017)

Un progetto ambizioso quello prodotto lo scorso anno da un trio di autentici illuminati. Robert Redford, Jack White e T-Bone Burnett hanno infatti unito le forze per realizzare un documentario in tre parti, un film ed una serie di dischi ad essi collegati. Il tutto con lo scopo di restituire a cultori e appassionati, ma anche ad ascoltatori curiosi, i suoni dell’America delle origini. Il lancio pubblicitario di questa operazione è infatti “quando l’America si è ascoltata per la prima volta”, e tutto prende il via da quegli anni venti in cui le nuove tecnologie permisero di registrare i primi dischi con la musica tradizionale. Nelle tre parti del documentario vengono prese in esame differenti canzoni che vanno dal blues del Delta, alle canzoni dei nativi, a quelle dei francofoni della Louisiana e dei creoli, degli ispano-americani, degli hawaiani fino, naturalmente alla musica degli Appalachi, quella della Carter Family e Clarence Ashley per intenderci.

Il risultato è veramente incredibile vista la quantità di musica contenuta nelle circa tre ore della durata del documentario, ogni artista è analizzato e studiato con dovizia, con abbondante ricerca di immagini di repertorio e qualche assaggio di quello che poi sarà il film con le session di cui questo disco è il compendio: Jack White, Burnett e gli altri produttori musicali dell’opera sono riusciti a ricreare le atmosfere delle origini, soprattutto usando stesse tecniche di registrazione dell’epoca a cui ci si riferisce, niente digitale, vecchi microfoni, vecchie tecniche, vecchi umori catturati proprio assemblando un macchinario unico al mondo che restituisce intatte certe sonorità.

Per realizzare il tutto hanno ovviamente coinvolto musicisti contemporanei, sposando talvolta suoni antichi con generi moderni, talvolta con successo tal altra con esiti più discutibili personalmente devo dire di non apprezzare troppo il coinvolgimento del rapper NAS, ma si tratta del mio gusto.

Ci sono vecchi leoni come Taj Mahal, Willie Nelson, Bettye Lavette, Merle Haggard e nuovi nomi come Avett Brothers, Alabama Shakes e Beck.

Come si diceva gli esiti sono alterni, come spesso avviene per questo tipo di operazioni: sicuramente si elevano le due performance di Bettye Lavette, Nobody’s Dirty Business e When I Woke Up This Morning, il Saint Louis Blues di Pokey Lafarge, la classica Come On My Kitchen di un solitario Stephen Stills in gran forma (assente però dal documentario). Onestissimo Taj Mahal, così come lo sono Rihannon Gidens, che rifà il tradizionale Pretty Saro, il duo Nelson/Haggard che presenta due brani, uno dei quali originale e Rapahel Sadiq con Stealin’.

Sul versante dei contributi ispano-americani, brilla Mal Hombre, un classicone interpretato con il giusto approccio da Ana Gabriel, mentre non mi dice molto la performance dei Los Lobos con Cascabel. Molto meglio gli Hawaiians che riportano a splendere Tomi Tomi, vecchio successo di Sol Hopii che qui abbonda, giustamente, di lap steel e ukulele. Buono anche il contributo di Beck che interpreta Fourteen Rivers, Fourteen Flood. Convincono meno gli Avett Brothers, mentre l’inedito duo Steve Martin/Edie Brickell riesuma una piacevolissima The Coo Coo Bird. Fanno bene il loro dovere anche il producer Jack White, qui alle prese con Mama’s Angel Child, e gli Alabama Shakes che aprono il disco con Killer Diller Blues.

Per chi volesse poi riscoprire il fascino degli originali, sono in circolazione varie altre pubblicazioni collegate al progetto, con molta più carne al fuoco, tutta basata su registrazioni davvero antiche.