Archivio di maggio 2020

REBECCA TURNER – The New Wrong Way

di Paolo Baiotti

30 maggio 2020

Rebecca Turner

REBECCA TURNER
THE NEW WRONG WAY
Autoprodotto 2019

Per essere un disco autoprodotto, The New Wrong Way è molto curato sia nella parte grafica (libretto con i testi, copertina aperta con foto e dettagli dei musicisti…) che sonora. Registrato quasi interamente negli studi del marito, produttore e bassista Scott Anthony a Maplewood in New Jersey, è il terzo album della cantautrice Rebecca Turner, che ha esordito nel 2005 con Land Of My Baby, seguito da Slowpokes nel 2009. Originaria di New York, dopo avere trascorso alcuni anni a Los Angeles si è stabilita a Maplewood. Le sue influenze comprendono artisti di diverso genere tra i quali Emmylou Harris, Liz Phair, Doris Day, Tom Petty, Goldfrapp e The Go-Go’s. Dopo avere tralasciato la scrittura musicale per un periodo mediamente lungo, dedicandosi alla famiglia e ad altri impegni legati alla musica come la produzione, il mixaggio e la conduzione di un programma radiofonico, è tornata a incidere un album nel quale tratta i temi della maturità, del tempo che trascorre inesorabilmente e degli errori commessi; un disco dalle tematiche personali e allo stesso tempo universali, composto in un lungo arco di tempo e più volte rinviato.
Musicalmente The New Wrong Way è arrangiato in modo semplice e diretto, da cantautrice folk con qualche venatura rock e country, a differenza del più moderno e costruito Showpokes, intepretato da una voce che sembra incrociare Sheryl Crow, Victoria Williams e Emmylou Harris. La bluesata Free The Rose in cui spicca la slide acustica di Rich Feridun, la scorrevole The Cat That Can Be Alone, la ritmata Cassandra (ispirata dalla cantante Miranda Lambert), la cover della ballata Sun In My Morning dei Bee Gees, registrata agli Ardent Studios di Memphis, il country-rock Sawtelle in cui si nota la lap-steel di Skip Krevens e lo sciolto pop-rock Tom Tom mi sembrano le tracce emergenti di un album chiuso dall’intima ballata Your Job.

MANNISH BOY – Last Ticket To Rock’n'roll Land

di Ronald Stancanelli

28 maggio 2020

Mannish Boy Last Ticket[214]

Ad onta di un entrata iniziale, pochi secondi , alla London Calling, i Mannish Boy, svedish band, di Stoccolma, non sono i Clash. Molta buona volontà per questa rock garage band decisamente tosta e piacevole, ma non da farci perdere la testa. Fermo restante che nei dodici brani che danno vita a questo Last Ticket to Rock and Roll Land ci danno dentro alla grande. Figli del rock anni settanta hanno nelle loro vene la musica con la quale sono cresciuti ovvero Mott The Hoople, Deep Purple, Thin Lizzy, Sweet, Beatles, Stones, Pugh e altri ancora. Come piace loro raccontare amano terribilmente le Fender e le Gibson guitars e gli amplificatori Marshall per creare quel connubio/suono che li tiene ancorati visceralmente ai suoni ai quale più sono attaccati.

La linearità della loro musica, qualche ballata qua e la addolcisce i toni, è totalmente basata sull’assioma classico chitarra, qui due chitarre, basso e batteria. I due leader del gruppo entrambi lead vocal sono Erik Sjogren anche alla chitarra ritmica e Anders Ekblad anche al basso mentre Par Englund è il comprovato chitarrista e Emil Olin picchia energicamente sulle pelli e ci da di percussioni. Il pezzo Rock and Roll Land viscerale turbinoso rock che caratterizza l’album ed in generale il loro mood musicale è proposto in due versioni dei quali la seconda posta a fine album è decisamente più tosta, cattiva e molto più passionale, pezzo nel quale trova anche posto Tor Lundgren con la sua armonica a bocca. Molto bella anche la ballatona alla Lee Clayton One of These Days.

Nell’ultimo periodo, ovvero da un paio d’anni hanno dato vita a questo album che promuovono con intense tournee essendo instancabili dal vivo. Questo loro Last Ticket to Rock ‘n’ Roll : Extended Tour Edition avrebbe beneficiato di un ulteriore ripartenza del tour in pieno aprile, purtroppo stoppato dalla situazione venutasi a creare col coronavirus. Tutti i brani sono a loro firma e non troviamo nell’album alcuna cover, il che va sicuramente a loro favore. Disco che esce per la Paraplay Records con distribuzione della Border Music. Il lavoro è prodotto da Par Englund e riascoltato più volte, a discapito della prima ove eravamo alquanto freddino, bisogna dire che alfin non è male e si fa ascoltare con notevole piacere. Accattivante il disegno a colori di copertina che fa molto rock perdido !!

MEJRAM – Mejram

di Ronald Stancanelli

28 maggio 2020

Mejram cover Cd[216]

MEJRAM
MEJRAM
2019

I Mejram sono un gruppo country folk acustico svedese di Goteborg, due uomini e due donne, che alternano brani sia strumentali che cantati. Loro info in rete li etichettano anche come gruppo pop ma credo questa definizione vada un poco loro strettina poiché gli Abba non sono e il genere piacevolissimo peraltro, da loro proposto, verte in modo totale su un folk magari con tinte country e pennellate etniche ma non certo pop. Si propongono sia in lingua inglese che in svedese. Questo loro album omonimo rappresenta il loro esordio pur essendo loro attivi dal 2016 e Amanda Frisk, Jonathan Hansson, Gabriella Josefsson e Marcus Fenn sono supportati da altri tre validi musicisti che prestano cello, viola, lap stee e oktavfiol alla causa. Lacerante quasi straziante ma splendida la resa strumentale e vocale di Se Mig, brano che racchiude in se stesso la poetica bellezza di questo album. Giovanissimi e molto bravi sono autori di un lavoro che certamente da noi non sarà fruibile in ogni dove e in ogni store musicale ma la sua intrinseca eleganza mista ad armonia ce lo fa consigliare vivamente. A maggio di quest’anno avrebbero dovuto intraprendere un tour tra il loro paese, la Svezia e Germania e Russia ma sicuramente il coronavirus avrà purtroppo spezzato anche i loro piani. Trovate loro brani su youtube ed è piacere ascoltarli e vederli e se ne restate come noi affascinati potete rivolgervi alla loro casa discografica www.katafon.com per avere questo delizioso cd. Disegnino di copertina di Wilma Soderstrom

BROOKE BENSON – I Am The Sun

di Ronald Stancanelli

28 maggio 2020

Brooke Benson I am the sun[212]

BROOKE BENSON
I AM THE SUN
2019 autoprodotto

Brooke Benson è una singer songwriter californiana di Los Angeles. E’ uscito a fine anno scorso un album/EP di sette brani dal titolo I Am the Sun . Artista sempre attiva in campo sociale e le cui radici affondano nel lavoro teatrale si cimenta adesso nella veste cantautorale con questo breve album ove country e folk si fondono a afflati di tenue rap campagnolo, almeno questo si evidenzia dal brano iniziale che da il titolo al dischetto. Ma il trend prosegue imperterrito anche nel brano successivo, Go with the Flow, ove l’artista percorre le stesse linee vocal/musicali per esternare in questo modo un pò sincopato. ma onestamente anche piacevole le sue elucubrazioni e pensieri su quanto la, e ci circonda. In questo secondo pezzo in grandissima evidenza il violino di Chris Murphy. Andando avanti con l’ascolto ben sette brani su sette beneficiano di questa investitura un rappare countreggiante che alfine assurge anche a leggero tedio essendo i brani similmente uguali l’uno all’altro pur beneficiando di strumenti musicali un pò desueti nel genere come appunto violino, mandolino, archi che comunque in questo contesto ben si sposano coi classici basso, chitarra, batteria. Quello che in definitiva poi forse penalizza il tutto è il tono monocorde della voce che li accomuna tutti in modo esageratamente costante anche se nella traccia sei, I sing for You, la Benson canta per ben due volte per alcuni secondi ritornando subito dopo a fare il suo rap campagnolo più che urbano. I testi ovviamente sono a suo appannaggio e le musiche divise con Chris Murphy. Da quello che si evince in rete, avendo ricevuto il cd da recensire senza info o cartella stampa, scopriamo che l’artista è appunto impegnata socialmente e politicamente in una forma di spoken theatre intenso e tribale e quindi ovviamente penalizzata dall’ascoltatore di altra lingua, che equivarrebbe a proporre nel Mid West brani scarni e acustici del nostro primo Guccini !
Prodotto dalla Benson con il Murphy violinista di cui sopra, e anche autoprodotto senza alcuna casa discografica a sostegno, il lavoro si avvale di una copertina che a differenza dello stile rap alquanto attuale è completamente figlia … degli anni sessanta/settanta!

PHIL MAY: In ricordo della voce della più grande band che non avete mai sentito nominare.

di Paolo Baiotti

24 maggio 2020

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La morte di Phil May, cantante e armonicista inglese di Dartford nel Kent, fondatore e voce dei Pretty Things, ha rispecchiato la carriera ondivaga e sfortunata della band britannica. Caduto durante un giro in bicicletta, è stato operato all’anca a King’s Lynn nel Norfolk, ma complicazioni successive all’operazione ne hanno causato il decesso il 15 maggio.

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Phil aveva fondato i Pretty Things nel ’63 a Londra con il chitarrista Dick Taylor, che aveva fatto parte della prima line-up dei Rolling Stones. L’omonimo esordio del ’65 su Fontana Records era salito al n. 6 in Gran Bretagna rivelandosi come l’album di maggiore successo di una carriera iniziata in modo promettente, ma proseguita in modo caotico, con svariati cambi di formazione, errori della casa discografica e del management e brusche virate nel suono. Inseriti a pieno titolo nella scena del British Blues, erano rissosi, provocatori, difficili da gestire…rispetto a loro i Rolling Stones sembravano usciti da una scuola privata! E anche il suono era una miscela primitiva di garage rock, blues e rhythm and blues grezzo e primitivo, ispirato principalmente da Bo Diddley e Jimmy Reed. In questo contesto Phil rappresentava in pieno l’anima turbolente e trasgressiva del quintetto. Irriverente sul palco, dichiarava apertamente la passione per le droghe, la sua bisessualità e si vantava di avere i capelli più lunghi di tutta la Gran Bretagna, affermazioni che all’epoca terrorizzavano i benpensanti. Abituato da quando era adolescente ad essere osteggiato perché considerato fuori dal gregge se ne fregava altamente, ma come frontman era sicuramente uno dei migliori.

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Dopo due album incerti e accolti con scetticismo, i Pretty Things raggiungono la loro vetta qualitativa nel dicembre ’68 con S.F. Sorrow che si può considerare la prima opera rock, un concept basato sulle vicende di Sebastian F. Sorrow, registrato negli studi di Abbey Road nel corso di varie sessioni con la produzione di Norman Smith. Se pensiamo che nei medesimi studi lavoravano contemporaneamente i Beatles al White Album e i Pink Floyd a Saucerful Of Secrets, abbiamo un’idea del fervore creativo del ’68 londinese! Permeato di psichedelia, arricchito da strumenti inusuali come percussioni tibetane, un dulcimer casalingo e il mellotron, limitato da un budget insufficiente e dallo scetticismo della Emi, trascurato negli Stati Uniti dove fu pubblicato da una sussidiaria della Motown e praticamente mai presentato dal vivo, S.F. Sorrow si rivela un insuccesso, schiacciato dalla quasi contemporanea pubblicazione di Tommy degli Who e del White Album.

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Questo risultato peserà come un macigno sulla storia della band, anche perché il disco avrebbe meritato ben altro riscontro; Dick Taylor se ne va dopo pochi mesi, seguito dal batterista Twink che forma i Pink Fairies. May scrive tutto il materiale del successivo Parachutes con l’aiuto del bassista Wally Waller; il disco, un altro concept psichedelico con tendenze prog come il precedente, si mantiene su un livello di scrittura notevole, ma commercialmente è un altro fiasco.
La parte migliore della storia finisce qui. La band si scioglie per riformarsi dopo pochi mesi, firma per la Warner e poi per la Swan Song incidendo con qualche cambio di organico un paio di album di rock duro che ottengono qualche riscontro negli Stati Uniti (Silk Torpedo e Savage Eye), ma dopo alcuni litigi c’è un nuovo distacco.

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Il seguito è a intermittenza, anche se Taylor e May tornano insieme. Nel ’98 registrano con ospiti David Gilmour e Arthur Brown una versione live di S.F. Sorrow pubblicata in audio e video e girano in tour gli Stati Uniti dopo una lunga assenza. Nel 2013 celebrano con un tour i 50 anni di attività, due anni dopo pubblicano il dodicesimo e ultimo album in studio, The Sweet Pretty Things. Nel frattempo la salute di Phil May si è deteriorata seriamente a causa di una malattia polmonare; un problema parzialmente risolto cambiando stile di vita, ma che influirà sulla scelta di interrompere definitivamente l’attività della band nel 2018, dopo un tour d’addio culminato nel concerto londinese del 13 dicembre alla Indigo Arena con ospiti ex componenti storici del gruppo e i colleghi Van Morrison e David Gilmour, pubblicato in un lussuoso box intitolato The Final Bow.
Ignorati dal grande pubblico, ma apprezzati dalla critica e da colleghi tra i quali David Bowie, Jimi Hendrix, Jimmy Page, Pete Townshend e i fratelli Davies dei Kinks, nonché da artisti più giovani come Blur e Kasabian, i Pretty Things hanno avuto alla guida per tutta la loro travagliata storia Phil May, degno frontman di un gruppo che verrà ricordato per il fulminante esordio e per due album importanti come S.F. Sorrow e Parachute.

GREEN LEAF RUSTLERS – From Within Martin

di Paolo Crazy Carnevale

19 maggio 2020

Green Leaf Rustlers - From Within Marin 1[202]

GREEN LEAF RUSTLERS – From Within Martin (Silver Arrow 2020 2LP)

Con una bella copertina gatefold ed un contenuto decisamente all’altezza, esordisce questa all star band che a dispetto dei nomi coinvolti ama esibirsi quasi esclusivamente nella California settentrionale ed in contesti ristretti, proponendo un repertorio basato su cover non troppo risapute o comunque rilette con grande gusto e con eccellente attitudine all’improvvisazione.

In realtà, se non fosse per la bella confezione e la buona registrazione (opera di quella Betty Cantor che per anni ha curato il sound dei Grateful Dead), il doppio LP in questione , composto da dieci brani, si presenta assai scarso quanto ad informazioni, come i vecchi bootleg: non ci sono indicazioni su dove sia stato registrato (ma è un live), non ci sono i nomi dei musicisti e non sono indicati nemmeno i nomi degli autori dei brani.

Ma chi se ne frega, se il disco è bello a noi può anche bastare, a confermarne l’ufficialità c’è comunque l’etichetta: la Silver Arrow è infatti la casa discografica di famiglia dei Black Crowes e della Chris Robinson Brotherhood, cosa che va a svelare l’arcano. Infatti questi Green Leaf Rustlers altro non sono che un side project di Chris Robinson, un gruppo che si diverte jammando su brani considerevoli che spaziano dal blues al rock’n’roll al country rock, indifferentemente, potendosi permettere di improvvisarci sopra e inserire parti ampiamente dilatate proprio nello stile dei Grateful Dead.

Con Robinson ci sono Pete Sears al basso (ricordate i Jefferson Starship del periodo d’oro?), Barry Sless alla pedal steel e all’elettrica (già con i Dead Ringer e la David Nelson Band), il batterista John Molo (a lungo con Bruce Hornsby e in seguito anche con Phil Lesh) e il chitarrista Greg Loiacono (Mother Hips): tutta gente che sa il fatto suo insomma.

Il disco si apre con una stratosferica rilettura di Big Mouth Blues, composta da Gram Parsons per il suo primo disco solista: la versione che ne danno i Green Leaf Rustlers è compatta, possente, la chitarra di Loiacono e la pedal steel di Sless sono incendiarie e Robinson canta come solo lui sa fare. Il brano era un bel brano già per conto suo, ma questa versione è probabilmente superiore anche all’originale. Non so dirvi molto di Groove Me, nel senso che non so da dove sia stata pescata, ma è perfettamente all’altezza della situazione, una composizione in stile rhythm’n’blues che già dal titolo dice tutto, filtrata in chiave jam con le chitarre che impazzano rincorrendosi. Chiude il primo lato del primo disco una canzone che a Robinson piace molto, No Expectations dei Rolling Stones è stata a lungo nelle setlist dei Black Crowes e qui viene riproposta per l’ennesima volta in tutta la sua bellezza, guidata dal basso di Sears lascia molto spazio a Sless e al suo strumento che qui sembra citare lo stile del Jerry Garcia periodo New Riders Of The Purple Sage, ma anche l’elettrica di Loiacono riesce a trovare spazio per un breve intervento.

Voltando il disco ci troviamo al cospetto di una di quelle chilometriche escursioni musicali che parte da una jam strumentale che ricorda molto da vicino certe cose dei Dead (tipo le improvvisazioni dei brani della prima parte di Blues For Allah), la jam sfocia però poi in una riuscita rilettura di Folsom Prison Blues a cui il pubblico reagisce con calore, il classico di Johnny Cash diviene spunto per ulteriori spunti solisti che mettono in evidenza la differenza di stile tra il veterano Sless e il più giovane Loiacono, dal canto suo il batterista John Molo è una certezza e il lavoro al basso dell’ex Jefferson sembra voler citare l’irruenza di un altro bassista di casa Jefferson, il grande Casady. La dilatazione del brano però non termina qui e il cavallo di battaglia di Cash va inaspettatamente a sfociare, dopo una divagazione orientaleggiante, in That’s Alright Mama, il primo singolo di Elvis qui in edizione sferragliante con un Chris Robinson davvero indiavolato.

Il secondo vinile si apre con Standin’, composizione del grande Townes Van Zandt rilette con ritmi errenbì che si mescolano ad atmosfere country gospel (la versione ricorda molto Will The Circle Be Unbroken), come a voler dire che i Green Leaf Rustlers non hanno timore a confrontarsi con nessuno, e le chitarre danno l’ennesima prova della loro creatività. A proseguire poi i cinque si cimentano con una bella rilettura della dylaniana Positively 4th Street, cantata da un Robinson quanto mai ispirato, bello il lavoro di Loiacono, Sless invece si diverte ad imitare il suono delle tastiere lavorando coi pedali del suo strumento, secondo una lezione vecchia di cinquant’anni impartita da Rusty Young fin dal primo album dei Poco.

L’ultima facciata di questo From Within Marin è inaugurata da Ramblin’ Man un brano reso celebre da Waylon Jennings che il gruppo esegue con piglio incalzante, quasi fossero i Grateful Dead a suonarlo, quasi un ennesimo pretesto per concedersi una jam che dopo un rallentamento dei ritmi va tuffarsi in Ride Me High di J.J. Cale, riveduta con incredibile estro deadiano dando modo a tutta la band di mettersi in mostra in tutta la sua bravura.

Non sappiamo se un disco così avrà mai un seguito o se sia stato solo un divertissement, se i Green Leaf Rustlers vorranno cimentarsi anche con brani di studio e originali, pare che ora Chris Robinson sia imbarcato nella riappacificazione col fratello Rich e nel far ripartire i Black Crowes, ragion per cui godiamoci a lungo questo doppio e la sua vitalità.

ANDREA MINGARDI – Due anni dopo una splendida serata.

di Ronald Stancanelli

17 maggio 2020

ANDREA MINGARDI HO VISTO[194]

Uno dei momenti recenti più intensi ed emozionanti della musica nostrana l’ho vissuto in quel di Bologna l’8 maggio di due anni fa e mi sembra doveroso dividere detta splendida esperienza con voi, partendo però da un po’ più lontano.
Erano l’inverno del 1976 e poi l’estate del 1977 che avevo passato a Bologna per il servizio militare. Si ascoltava tanta radio in caserma, Bologna brulicava e fermentava come non mai in tutti gli ambiti. Scopersi quindi a quel tempo un cantautore prevalentemente bolognese ma anche un po’ meridionale che le radio private locali passavano spessissimo. E mi ero innamorato di pezzi in dialetto che oltre a essere divertentissimi erano anche surrogati da una musicalità e un sound notevoli che conquistava al primo ascolto. Ricordo ancora con gran piacere A io’ vest un marzian, Sfighe’, Funky, funky, brani che mi avevano entusiasmato nel loro divertente lessico musicale emiliano. Negli anni a venire non mi sono mai scordato di Andrea Mingardi, era lui l’artista in questione, che quando capitava ascoltavo con piacere e su cui mi soffermavo a leggere o a informarmi quando trovavo su riviste o quotidiani notizie su di lui. Andando ormai dal 1981 per lavoro spesso a Bologna, era quindi facile trovare scritti che lo riguardassero, ma pur avendo negli anni acquistato alcuni suoi album non mi era mai capitata l’occasione di vederlo dal vivo. Orbene l’occasione che mi si è presentata due anni fa grazie a una casualità che definirei del destino è di quelle da raccontare..

Mattina prestissimo. Stavo partendo per Bologna per lavoro. Indeciso se aprire o no la posta dal computer tergiverso sul si o sul no più volte. Vorrei partire ma il computer è chiuso e la sua apertura comporterebbe una perdita di tempo. Alfine mi decido e apro trovandovi una proposta di accredito per un concerto di Andrea Mingardi che presenta in Bologna il suo nuovo disco in studio, il primo in studio dopo tanti anni. Guardo la data e…… l’avvenimento è proprio quella sera.
Per farla breve la sera sono al teatro a bearmi di uno show che resterà nella mia memoria come uno tra i più celebrativi e partecipi degli ultimi tempi. C’è chi dice, spesso impropriamente, che invecchiando bisognerebbe ritirarsi dalle scene ma posso dire, avendo visto nel giro di quei giorni Phil Alvin e i Blasters, Bob Dylan e appunto Andrea Mingardi, che se questi artisti si fossero già ritirati non avremmo assistito a tre concerti decisamente fantastici quindi ode e lode a musicisti di tal levigata saggezza e maturità.

Quindi l’8 maggio appunto di due anni fa fu presentato al teatro delle Celebrazioni il nuovo disco e tour live con il ritorno del super gruppo ” ANDREA MINGARDI & SUPERCIRCUS”. Dodici i musicisti sul palco. Una sedia dorata, anzi un trono dorato per il soul man bolognese e via si parte alternando pezzi storici della sua discografia, alcuni, quelli i dialetto, decisamente esilaranti che fanno esplodere più volte il teatro tutto, a molti brani del nuovo disco. Un concerto soul di rara intensità ove l’artista ha ancora , nonostante l’età non sia certamente quella di un giovanotto, una voce straordinariamente forte ed incisiva con momenti tali che fanno spellare le mani al pubblico che il teatro l’aveva gremito totalmente. Due set di 81 e 84 minuti, e cazzolina scusate se è poco, per uno che è più vicino a gli ottanta che ai settantata sono sinonimo di una forza, bravura, tenuta, rispetto del pubblico in modo univoco che gli fa grande fa onore. Tutto lo show è stato un trionfo multicolore ove, ricordando che Mingardi aveva inciso nel 2007 un disco dal titolo Andrea Mingardi canta Ray Charles , ha inframmezzato tra le sue varie canzoni anche uno straordinario tributo al musicista americano che ha ancor più nobilitato la serata. Serata come detto strepitosa, tra il pubblico accanto a me anche un invecchiato ma riconoscibilissimo sereno e divertito Paolo Mengoli del quale ho a casa uno splendido e orecchiabilissimo suo 45 giri del 1969, Perché l’hai fatto ?.
Serata di grande divertimento e gioia infinita sia per l’artista e i suoi bravissimi musicisti sul palco che per tutto il pubblico calorosamente in piedi a osannare uno dei suoi idoli locali che in questa serata sta letteralmente dando l’anima blues ed il meglio di sé.

Son passati due anni ma rammento con passione infinita e grande emozione l’emotività e anche la commozione che provai in quel teatro gremito di gente, superbi musicisti, allegria, soul, blues, bravura, divertimento, insomma una serata da ricordare per parafrasare il buon Fred Buongusto che purtroppo da poco ci ha lasciati.

Vedere uno show di Mingardi vuol dire essere avvolti totalmente e intensamente fasciati da un’atmosfera soul, blues, di impronta etnica emiliana il cui ricordo ci accompagnerà sempre lievemente e con gran piacere nel tempo come un qualcosa a cui appellarsi quando la mente coniuga i momenti migliori vissuti per la buona musica.

Ancora con nostalgia spesso ripenso a quello straordinario avvenimento celebrativo.

Ricordo che la serata era dedicata all’uscita, dopo dieci anni, del nuovo album di Inediti di Andrea Mingardi, dodici brani nuovi prodotti da lui stesso con Maurizio Tirelli. La lavorazione del nuovo progetto era durata quasi un anno ed alfine era uscito questo eccellente lavoro in studio dal titolo Ho visto cose che, album di tredici pezzi pregni di blues, soul, jazz, grande rock, negritudine e sentori felsinei che esorto a riscoprire o a scoprire. Son sicuro che resterete notevolmente colpiti e soddisfatti. Singolo era stato l’elettrizzante brano Ci vuole un po’ di rock and roll inciso anche da Mina. Che poi andiate all’indietro nel tempo a riascoltare pezzi sempreverdi e sempre splendidi come Ho sposato una femmina francese, Datemi della musica, A io’ vest un marzian, Funky, Funky…, Gisto e Cesira, Sfighè, Un piasarè, Settico Blues, Se fossi una donna, Dal tajadel è implicito e doveroso.

In questi ultimi anni Andrea ha scritto diversi brani inediti per Mina e Celentano e alcuni sono stati singoli promozionali dai loro dischi e anche nel nuovo disco di Mina uscito a maggio del 2018 c’erano due brani scritti da lui.

Un uomo a tutto tondo che merita oltre a un ascolto della sua musica una visita assolutamente a un suo concerto. Con affetto a un personaggio straordinario.

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CARUS THOMPSON – Shakespeare Avenue

di Ronald Stancanelli

17 maggio 2020

Carus Thompson[185]

CARUS THOMPSON
SHAKESPEARE AVENUE
2020 Valve Records

Se avete in testa un cantautore intensamente valido e di spessore come l’americano Matthew Ryan sicuramente non potrete non restare affascinati dall’australiano Carus Thompson il quale nel suo disco Shakespeare Avenue parte con una coppia iniziale di brani che sembrano outtakes appunto del buon Ryan. Stile e voce dei due si assomigliano notevolmente. Due pezzi straordinariamente profondi, impegnativi e potenti che lanciano questo album su una rotaia decisamente diretta verso una stazione di solida e costruttiva forza musicale. Ship to Come in e End of the Day danno il la ad un album cantautorale tra i più intensi che ci sia stato dato modo ultimamente di ascoltare e il trittico che le segue, Avondale Heights to Sunshine, Shoulder e Yagan non sono da meno. Cinque pezzi che sanno di spostamenti, viaggi, campagne e note delicate supportate da chitarra acustica ed elettrica di leggero ma incisivo spessore, percussioni minimali ma tutte al loro esatto giusto posto, un basso pacifico ma letale nella sua funzionalità e pennellate di viola e violini di spirituale forma. Altri cinque pezzi formano il lato B di questo splendido lavoro e la mistica Shakespeare Avenue, la title track, disegna note celestiali e arrotondate. E le acusticissime e pacate Undless we Go Now, Dylan Voller, Land’s End e You see Through. Citati volutamente tutti i dieci pezzi che incastonati tra loro concorrono a formare un album di pochi secondi superiore ai trentasei minuti e che si ascolta e riascolta con enorme piacere.
Tutti i brani a firma di Thompson a parte due co-firmati con colleghi, mentre la produzione del disco, eccellente quanto basta per farne un piccolo capolavoro, è affidata a Sean Lakeman. Informatevi su questo fulgido cantautore. www.carusthompson.com, ne vale veramente la pena.
Belle le foto facenti parti della copertina cartonata apribile in ben quattro parti.

IDA & LOUISE – Sholter Lider Proud Poems

di Ronald Stancanelli

15 maggio 2020

IDA & LOUISE Shtoltse[187]

IDA & LOUISE
SHOLTER LIDER PROUD POEMS
2019 Kakafon Records

Ida & Louise ovvero Ida Gillner e Louise Bisgaard Vase sono due giovani carine fanciulle svedesi che a differenza di coetanee che magari nelle passione musicali si butterebbero su sonorità moderne che ne so pop, rap, trip trap, trop poc, trop tant, vien voglia di scherzarci su , invece no, si fiondano con delicatezza e reverenza sulla musica yiddish. Prendendo spunti e testi da cinque poetesse rispondenti ai nomi di Celia Dropkin, Anna Margolin, Malka Heifetz Tussman, Kadya Molowsky e Rachel Korn, tutte nate nell’est Europa negli ultimi anni del diciannovesimo secolo e successivamente migrate una in Canada e quattro negli Stati Uniti, ove composero le loro poesie passando li le loro vite, nel periodo post bellico, momento quello alquanto fiorente per la cultura Yiddish. L’yiddish era il dialetto parlato dalla maggioranza degli ebrei che vivevano nella parte est europea e successivamente poi emigrati nel nuovo mondo. Discende dal tedesco ed è arricchito da elementi lessicali ebraici, neolatini e slavi. Ida and Louise si dichiarano fedelmente da sempre ispirate a Bertolt Brecht e i brani, tredici, che propongono nel loro album sono cantati sia appunto in yiddish che in inglese e nei loro testi si parla di emancipazione e desideri reconditi delle donne in generale. Detti testi sono come si suppone, tratti tutti da poesie delle cinque poetesse di cui sopra e messi in musica dalle due fanciulle svedesi che scopriamo compitare il tutto con una bravura e una classe invidiabili. L’album è stato registrato a Goteborg, entrambe le ragazze cantano e se Louise suona il piano, Ida si cimenta al sax soprano mentre solo in tre brani sono supportate dal cello di Fransesca Ter Berg. Non trattasi di album d’esordio poiché il loro debutto fu nel 2013 con il lavoro dal titolo Vilda Vide che era composto da brani a loro firma, bissato l’anno dopo da un EP di musiche e canzoni tradizionali yiddish. Al primo ascolto, è un disco non difficile ma neanche semplicissimo al quale accostarsi con pacata pazienza e interesse, l’ho trovato difficoltoso e irto di ostacoli, i brani in yiddish un po’ ostici, ma la bellezza intrinseca dell’album, le splendide voci delle musiciste e le armonie gentilmente accattivanti mi han portato ieri ad ascoltarlo e riascoltarlo per ben cinque volte; oggi che sto finendo e correggendo la recensione lo sto riascoltando ancora e nuovamente dette dolci armonie mi stanno riaffascinando. Forse a vent’anni lo avrei abbandonato al primo ascolto ma adesso che superati i sessanta, età per la quale qualcuno paventa impossibilità a uscir di casa ancora, causa coronavirus, pazienza e maggior dedizione mi han portato a valutare alfine questo disco per un piccolo gioiello di classe sopraffina. Prodotto dalla Gillner ha nel disegno della sua copertina un affastellato bianco e nero attorcigliato su se stesso alquanto indistinguibile ma che ben rappresenta le sofferenze del popolo ebreo ai tempi della seconda guerra mondiale. Ho seri dubbi si trovi facilmente nei nostri store, io l’ho ricevuto gentilmente per recensione quindi se interessati andate su www.idalouise.com

TOM MANK & SERA SMOLEN – We Still Know How To Love

di Paolo Baiotti

15 maggio 2020

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TOM MANK & SERA SMOLEN
WE STILL KNOW HOW TO LOVE
Autoprodotto 2020

Ci siamo occupati di questa coppia, nella musica e nella vita, nel 2017 recensendo Unlock The Sky, il loro settimo album. Ora, a tre anni di distanza, esce We Still Know How To Love, che rispecchia le caratteristiche musicali del duo americano molto conosciuto in Olanda e Belgio. Insieme dal 1994, Tom cantautore e chitarrista e Sera violoncellista diplomata al Conservatorio, hanno fuso le loro esperienze e i loro strumenti in uno stile personale in cui il violoncello alterna la funzione di basso, di duplicazione del suono della chitarra e di solista. Il nuovo album è stato inciso in tre diversi momenti e luoghi: Newfield e Bearsville nello stato di New York e Ooigem in Belgio, con diversi collaboratori, in parte già presenti nel disco precedente, che si aggiungono sempre con circospezione ai cori, al banjo, alla chitarra e all’armonica. Talk Of The Town è una partenza soffusa con chitarra acustica e violoncello che introducono la voce di Tom e dell’ospite Janet Cotraccia, quasi sussurrata. 1966 è una traccia nostalgica che intreccia protagonisti musicali e fatti storici di quel periodo con accenni a canzoni dei Beatles, inserimenti di chitarra elettrica e la voce di Jeannie Burns. Si torna ancora più indietro con Bannockburn 1314, che richiama un episodio della guerra di indipendenza scozzese con qualche strofa recitata in gaelico, mentre il violoncello dipinge uno sfondo struggente. Il testo di Paris 1920 ha dei riferimenti storici alla situazione dei soldati alla fine della prima guerra mondiale, mentre quello di We Still Know How To Love che include anche delle strofe in olandese si riferisce agli aiuti ai piloti alleati durante la seconda guerra mondiale. Sempre restando in ambito storico Our November Day si riallaccia al drammatico omicidio del presidente Kennedy. Questi testi significativi sono accompagnati da una musica folk con influenze di classica, molto raffinata e drammatica, intimista e sofferta, caratterizzata dal violoncello spesso in duetto con la chitarra o con l’armonica, mentre il modo di cantare di Tom può ricordare a tratti Leonard Cohen.

DAVE GREENFIELD: Quando le tastiere fanno la differenza.

di Paolo Baiotti

9 maggio 2020

Dave-Greenfield[165]

La musica sta subendo danni incalcolabili per colpa del Coronavirus: tour, concerti ed eventi di ogni genere annullati non sappiamo fino a quando (ma di sicuro gli spettacoli dal vivo saranno gli ultimi a riprendere), l’industria discografica gravemente danneggiata dalla chiusura delle aziende che producono i supporti fisici (con ritardi notevoli nelle uscite), per non parlare dei negozi di dischi costretti a mesi di chiusura. E poi ovviamente ci sono le perdite di vite umane, il tributo più sofferto e amaro a questa pandemia, che ci sta privando di protagonisti importanti della storia della musica.
Il decesso più recente è quello di Dave Greenfield, tastierista dei britannici The Stranglers, gruppo seminale dell’epoca punk ancora in attività, come da recente tour europeo di cui ci siamo occupati nel n. 139 di Late For The Sky e su questo blog lo scorso dicembre. Dave, da tempo sofferente per problemi cardiaci, è stato ricoverato in ospedale ad aprile e, nel corso del ricovero, è stato contagiato dal Covid-19. La sua morte, avvenuta la sera di domenica 3 maggio, è stata comunicata ufficialmente sul sito della band, accompagnata dalle dichiarazioni commosse dei colleghi. Ma il ricordo più incisivo è sembrato quello dell’ex voce e chitarra del quartetto Hugh Cornwell: “Sono molto dispiaciuto per la morte di Dave Greenfield. Lui ha rappresentato la differenza tra gli Stranglers e gli altri gruppi punk. Le sue capacità e il suo animo gentile hanno dato un tono particolare al nostro suono. Dovrebbe essere ricordato come l’artista che ha dato al mondo la musica di Golden Brown”. E’ giusto ricordare questo brano, il singolo di maggiore successo degli strangolatori (n.2 in Gran Bretagna nell’82), ma l’apporto di Dave ovviamente è stato molto più corposo.

green 2[162]

Nato a Brighton il 29 marzo del ’49, dopo varie esperienze in Germania e in Inghilterra con formazioni di rock e prog, si era unito agli Stranglers nel ’75 sostituendo Hans Warmling. La band era nata da un anno e non aveva ancora pubblicato nulla, ma era già conosciuta nel circuito dei pub per l’approccio aggressivo, irriverente e poco incline ai compromessi che contribuirà a farli considerare parte della scena punk con la quale avevano dei punti in comune, ma non solo. Per prima cosa erano musicisti già esperti e competenti, in particolare Dave e il chitarrista Hugh Cornwell che avevano 26 anni e il batterista Jet Black addirittura 38, mentre il bassista JJ Burnel era il più giovane, classe ’52. Inoltre le loro influenze erano diverse e, sebbene i primi due dischi Rattus Norvegicus e No More Heroes abbiano una forza, una rabbia e un’immediatezza tipica del punk, contengono altri elementi e si distinguono per una certa raffinatezza e varietà dovuta soprattutto alle tastiere, che verrà amplificata con i successivi Black And White e The Raven.

green 3[163]

Questi quattro album usciti tra il 1977 e il 1979 rappresentano il periodo d’oro del quartetto e un poker difficilmente eguagliabile. In questo contesto, sebbene sia sempre stato evidenziato il rapporto contrastato tra Cornwell e Burnel come il fulcro creativo del gruppo, in realtà la vera differenza è dipesa in gran parte dalle tastiere di Greenfield, che è stato anche voce solista in alcune tracce come Dead Ringer e Do You Wanna?. Il suo modo di suonare utilizzando principalmente il piano Hohner, l’Hammond e vari tipi di sintetizzatori, è stato paragonato a quello di Ray Manzarek dei Doors e, in effetti, se ascoltiamo brani come il capolavoro Down in The Sewer dall’esordio o la magnifica rilettura di Walk On By di Bacharach/David l’influenza è evidente, anche se Dave ha sempre sostenuto di essere stato ispirato da Rick Wakeman e da Jon Lord (con grande sconcerto dei punk rockers più rigidi!). Altre tracce come Toiler On The Sea, The Raven e la pianistica Don’t Bring Harry dimostrano la sua evoluzione, di pari passo con quella dei colleghi, verso un suono più morbido, con maggiore utilizzo del synth.

green 4[164]

Negli anni ottanta, dopo il pasticciato quinto album The Meninblack, gli Stranglers hanno proseguito con alti e bassi, ma in brani come la già citata Golden Brown caratterizzata dal suono barocco delle tastiere, la dolce Strange Little Girl, European Female o 96 Tears è rimasto impresso il marchio di Dave, fedele alla band anche negli anni più opachi dopo il distacco di Cornwell che, da un punto di vista discografico, non hanno prodotto nulla di veramente indispensabile. Tuttavia gli Stranglers hanno organizzato con intelligenza una struttura indipendente, mantenendo una popolarità solida soprattutto in patria e in Nord Europa e pubblicando parecchio materiale d’archivio. Nel 2015, dopo il ritiro di Jet Black, Greenfield e Burnel sono rimasti gli unici due membri originali della formazione e hanno proseguito fino all’ultimo tour che ha toccato anche l’Italia. Erano già state programmate delle date estive, probabilmente le ultime, per il 2020, ma ci ha pensato il Covid-19 a stravolgere i piani della band.

ALIAS WAYNE ( RANZEL X KENDRICK ) – Snafu

di Ronald Stancanelli

5 maggio 2020

Alias Wayne Snafu[155]

Ranzel X Kendrick è un musicista cantautore texano autore del noto, non qui da noi, trittico Texas Cactus, Texas Sagebrush e Texas Paintbrush. Come alter ego sceglie di far uscire un EP di sei brani dal titolo Snafu accreditato a tal Alias Wayne. Acustico, direi alquanto cooderiano, e suonato come Dio comanda da Ranzel X Kendrick ( Alias Wayne ) e da un pugno di suoi amici musicisti tra cui tre gentili fanciulle, due a i cori e una al violino e coadiuvato da un basso sincero, un deciso pianoforte, due chitarre intensissime e una batteria minimale ma efficiente quanto basta, si posiziona in piacevolmente tra americana e fun music. Cd eccellente per riempire i pomeriggi assolati di festa. Quel misto che riporta al Cooder vecchia memoria e al Buffett acustico di inizio carriera rendono oltremodo interessante e amabile detto breve album che probabilmente è solo un divertissement per il suo autore ma che raggiunge lo scopo di divertire sia lui che ogni ascoltatore. Anzi se invece delle dimensioni di un EP fosse stato allungato ai canoni di un album probabilmente avrebbe catturato maggiormente con molte più chance per un suo possibile successo. Ring of Fire del monumento Johnny Cash è quasi irriconoscibile essendo assuefatta al genere stesso dell’autore del dischetto ed è una versione decisamente che lascia il segno pur essendo orientata su versanti lussureggianti differenti da quelli che il l’uomo in nero originariamente intendeva, eccellente l’idea delle due voci, maschile e femminile. Sentito e coloratissimo tributo. Segue Color of Blues, brano di sua penna dedicato alla di lui prima moglie Diana, pezzo accattivante che fa pensare cosa avrebbero potuto creare Jimmy Buffett e Ry Cooder impegnati assieme. Ottimo pezzo. Con la collega Rebecca White si torna a una cover e che cover. People Get Ready pezzo assoggettato a varie proposte musicali da maree di artisti vive qua di una luce superbamente scintillante e piacevole e pur andando con la memoria a come la faceva Dylan nel suo periodo Rolling Thunder non si può non restare affascinati da questa soul sweet version a due voci e con eco cooderiano di sottofondo. Splendida. Affascinante ballata a due voci anche il pezzo a sua firma Love Child, dolce e scorrevole solare ballata americana al cento per cento. Sorridere piacevolmente quando tocca a noi questo il delicato messaggio di Good Times altra floreale e soave ballata di questo piacevolissimo mini album. Incastonata da delicati strumenti è cantata anch’essa in alcuni momenti a due voci e ancora una volta il connubio vocal male female risulta vincente. Chiude questo solare e incantevole lavoro un beneaugurate ed entusiasmante blues da festa di compleanno. Peccato che il retro di copertina sia più appropriato come front cover, infatti la foto scelta per la prima pagina penalizza indubbiamente il fascino del dischetto fuorviando l’eventuale ascoltatore.

BARBARA BERGIN – Blood Red Moon

di Ronald Stancanelli

5 maggio 2020

Barbara Bergin Blood[160]

BARBARA BERGIN
BLOOD RED MOON
LITTLE WHITE HEN Records 2020

La cantautrice Barbara Bergin in primis è un chirurgo ortopedico di non primo pelo, nel senso che non è giovanissima ma nessuno vieta a nessuno di fare musica quando il cuore ti porta a volerlo fare. E’ inoltre una grande appassionata di cavalli e conseguentemente di musica folk, fatto che si vede bellamente dalla bella copertina in bianco e nero ove la si vede sorridente appoggiata alla sella sul dorso appunto di un cavallo. Dalla natia New York si è trasferita ad Austin Texas ove è stato partorito questo Blood Red Moon piacevole album ove le sensazioni country e folk si fondono assieme e l’artista a tratti ricorda la grande Mary Mc Caslin autrice negli anni settanta ottanta di splendidi album tutt’ora sempreverdi. Certo la fanciulla o meglio signora non si inventa nulla, da sfogo alla sua passione avendo dalla sua una discreta bravura, sicuramente stimoli enormi , e la fortuna di essere coadiuvata da eminenti nomi come Merel Bregante che se non erro era ai tempi nel giro di Loggins & Messina e la Dirt Band, sicuramente comunque pascolava da quelle parti, oltre ad avvalersi del pianista T Jarrod Bonta e del chitarrista Rich Brotherton per parlare di musicisti dei quali avevamo gia sentito parlare. Ma non disdegniamo la presenza del bassista David Carroll e della produttrice del disco, la nota Jane Gillman che pure si presta a donare i suoi servigi suonando dulcimer e mandolino. Disco palesemente orientato sul versante country folk ma che oltre alla piacevole voce della sua autrice consta anche di pezzi più movimentati come l’ottima ballata country rock Three Eggs in my Apron. A proposito di Eggs, nella copertina cartonata apribile in tre parti del dischetto la Bergin non disdegna citazioni al modo americano di fare colazioni abbondanti e intense. Sublime e ben tornita la ballata Low Water Bridge e molto molto carina l’appalacchiana country song Let’s Get On Up che sa di prateria, di vecchi film western e di immagini color seppia del passato. Prende le corde dolcemente sentimentali dell’ascoltatore la sweet ballad Captain of the Robert E. Lee condita da un pacato accordion. Non la prima ovviamente a titolare una canzone a Robert E Lee , andando con la memoria rammentiamo una splendida analoga track di Tom Russell. Dodici accattivanti brani per 42 minuti decisamente rilassanti e piacevoli. Buon esordio per la Little White Hen Records. Curatissima la confezione con tutti i testi impaginati uno per uno e riferimenti a tutti i musicisti che hanno collaborato. Su www.BarbaraBerginMusic.com potete se incuriositi trovare nozioni e note ulteriori oltre a vari filmati su youtube . Da non sottovalutare questo acustica chirurga cavallerizza cantautrice che in un paio di brani suona anche la chitarra.

CARRINGTON MC DUFFIE – I’m The One

di Ronald Stancanelli

5 maggio 2020

Carrington McDuffie I'm the One[158]

CARRINGTON MC DUFFIE
I’M THE ONE
EP 2020 Ponty Head Records

Ancora una volta Carrington Mc Duffie ci regala un breve lavoro a mezzo tra album ed EP molto incisivo ove il suo rock urbano molto accattivante, pregno di gran ritmo e palesemente veloce come un auto in corsa scorre e risulta vincente. Artista qua da noi praticamente sconosciuta ma da New York ove proviene, non ci permettiamo dire sia un artista di nicchia o di culto, ma molto brava si e con un suo santissimo seguito che gremisce ogni locale ove è si esibisce. Solo cinque brani ancora una volta tutti a sua firma e prodotti anche da lei stessa che con il loro ritmo sincopato cattura totalmente l’attenzione dell’ascoltatore. Noi la conosciamo per quattro lavori, tutti regolarmente recensiti precedentemente qua ma saremmo curiosi di coglierne gli aspetti live poiché siam sicuri che la signora dal vivo sia veramente uno spettacolo o come diciamo noi a Genova dia il bianco.

Artista completa che si destreggia tra musica, canto, poesia e spazia nel suo universo musicale tra blues, jazz, rock in questo ultimo album si orienta sul versante roccheggiante con Tim Galloway alle chitarre, David Dorn al synth, Tim Denbo al basso, Grady Saxman alla batteria e percussioni e con Jimi Tunnell seconda voce nella splendida sweet ballad alla Southside Johnny I See You in my Dreams. Molto bella la title track ondulata come un ottovolante mentre ritmi e velocità come su una giostra nell’ottima Glasgow. Cavalcata notturna intrisa di lirismo seducente la bellissima The Way you were mine. Musicisti tutti diversi, rispetto ai primi quattro brani, in Because I couldn’t have you con sincopatissimo ritmo pennellato di retaggi reggae. Eccellente pezzo da singolo.

Album breve ma intenso e molto bello, ormai ci siamo affezionati a questa sconosciuta artista e ci piace tanto questo suo lavoro inciso nel Tennessee con una foto di copertina della songwriter decisamente intensa e dai tratti energici. Anzi le foto di copertina sono due poiché la copia che abbiamo noi ha una foto differente dal cd che troviamo in rete su siti americani. Molto rock woman quella che ci è arrivata e un po’ insipida con un disegno alle sue spalle quella trovata in rete. La cosa strana è che quella del cd in nostro possesso non l’abbiamo trovata in nessuno di tutti i siti visitati !!!! E’ artista che vivamente consigliamo . Non si può restare indifferenti a un quarto cd che ci ha colpito favorevolmente come era successo con i tre precedenti.

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RANZEL X KENDRICK – Freestyle / ALIAS WAYNE – Snafu

di Paolo Baiotti

5 maggio 2020

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Cantautore texano di area folk/country, Ranzel è cresciuto imparando il mestiere dallo zio Roger Miller, artista country vincitore di numerosi Grammy. Dopo avere vissuto in Tennessee, Colorado, California, Maryland e Costa Rica è tornato in Texas stabilendosi nella zona di San Antonio, dove si è dedicato con maggiore convinzione all’attività musicale, ma più recentemente è tornato in Costa Rica. Ha pubblicato tre dischi collegati tra loro, conosciuti come la trilogia texana composta da Texas Paintbrush, seguito da Texas Sagebrush e da Texas Cactus. Recentemente ha pubblicato il primo di una serie di tre Ep di materiale tratto dai suoi archivi, The Legacy Collection, composto da quattro brani scorrevoli e disimpegnati tra country e pop- rock, incisi in differenti momenti. King Of The Road è una cover del classico crossover country/pop dello zio Roger Miller (n. 4 in Usa) ripresa con rispetto e la giusta leggerezza, Running Form My Heart un rilassato pop-rock e It’s Alright un mid-tempo che non incide più di tanto. In chiusura la ballata Compose Me, duetto country-pop con una voce femminile un po’ troppo caramelloso.

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Un altro Ep è uscito recentemente con il nome d’arte Alias Wayne: si tratta di di sei brani ondeggianti tra rock-blues e jazz. La prima traccia è una cover piuttosto particolare di Ring Of Fire, rallentata e un po’ jazzata con il violino di Marian Blackney in sottofondo; seguono la bluesata Color Of Blues e una seconda cover, People Get Ready elettroacustica con un pregevole assolo di elettrica. Il mid-tempo jazzato Love Child e Good Times appaiono un po’ leggerine e inconsistenti, mentre la conclusiva Happy B-Day 2U è un mid-tempo blues in cui spicca il piano di Ron Flynt, collaboratore di sempre di Ranzel.

WHITE OWL RED – Afterglow

di Paolo Baiotti

5 maggio 2020

afterglow[147]

WHITE OWL RED
AFTERGLOW
Hush Mouse Records 2020

Verità, amore e dignità sono i sentimenti citati nell’interno della copertina di Afterglow, quarto progetto solista del cantautore Josef McManus dopo l’esordio Americana Ash del 2014, il seguito Naked And Falling, e il più recente Existential Frontiers. Ispirato negli anni novanta dal grunge e soprattutto da Kurt Cobain, ma in seguito più vicino all’alternative country e alla scrittura di Steve Earle e di Bob Dylan, ha ottenuto risultati lusinghieri anche in Europa con i precedenti dischi solisti. I suoi testi sono storie che possono trarre spunto da vicende autobiografiche, ma non solo e comunque tendono ad avere uno sguardo universale, mentre la musica fonde country, indie rock, folk e Americana. Working Class Heroes è il primo singolo tratto da Afterglow, un mid-tempo arrangiato con attenzione e avvolto dai cori e dalle tastiere, I Walk The Line For You è il secondo, un brano ritmato che ricorda il country di Johnny Cash degli anni cinquanta (il titolo non è casuale, la canzone parla del rapporto tra Johnny e June Carter) con una chitarra twangy e cori appropriati. L’atipica Tip Top Bob’s si ricollega al rock inglese di fine anni settanta di gruppi come gli Squeeze, Out On The Waters ha apprezzabili richiami folk con dobro e fisarmonica, mentre altri brani come la ballata country Through Is Through e la scorrevole Hold On mancano di incisività.
Afterglow lascia l’impressione di un’occasione parzialmente persa, necessitando di un ulteriore lavoro di scrittura per raggiungere la qualità necessaria per emergere.