Archivio di ottobre 2015

A Cicognola dischi, strumenti e musica dal vivo

di admin

30 ottobre 2015

locandina definitiva

Il Circolo Vallescuropasso dI Cigognola (PV) ci segnala la sua FIERA DELLA MUISCA che si svolgerà domenica 1 novembre.

Dischi, strumenti musicali, artigianato liuteria, mostre fotografiche e musica dal vivo compongono il saporito menù.

Come non partecipare?

NEIL YOUNG + PROMISE OF THE REAL – The Monsanto Years

di Paolo Crazy Carnevale

25 ottobre 2015

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NEIL YOUNG + PROMISE OF THE REAL
The Monsanto Years
(Reprise 2015)

Caro Neil… Non ci siamo proprio.

Ho provato ad ascoltare a più riprese questo The Monsanto Years, cercando di capire se si trattava solo di un mio mood particolarmente sbagliato al momento dell’ascolto, ma in definitiva credo davvero che si tratti di un disco se non brutto, comunque interlocutorio. Ascolto Neil Young facendo attenzione a tutte le sue sfaccettature da almeno trentasette anni, da giovinastro ho esultato ai tempi di Rust Never Sleeps, mi sono fatto cullare dalle melensaggini di Comes A Time, poi sono rimasto perplesso dalla produzione anni ottanta come quasi tutti, col beneficio d’inventario – a posteriori, quando anche da noi si sono risapute le problematiche familiari legate ai figli del musicista – di attribuirne la scarsa consistenza alle suddette problematiche. Ho esultato nuovamente quando gli anni novanta ce lo hanno restituito in gran forma e ho storto il naso più volte, per l’eccessivo zucchero di Harvest Moon, per l’assenza di idee mascherata da innovazione di Le Noise, per l’approssimazione di Fork In The Road, l’inutilità di Letter Home.

Amo e continuo ad amare Psychedelic Pill, Prairie Wind e l’idea di base di Greendale, che forse avrebbe meritato un approccio sonoro d’altro stile.

Ma Neil è così, imprevedibile, menefreghista di ciò che i suoi fan vorrebbero ascoltare. Strafottente nella sua irriducibile perseveranza nel fare solo quello che gli va. Ecco così che gli younghiani incalliti – e mi ci colloco anch’io nella categoria – sono costretti a subire angherie d’ogni tipo. A volte gratuite. The Monsanto Years è uno di quei dischi sbandierati con largo anticipo, figli di un momento particolare: Neil è incazzato con le multinazionali, e allora ci fa un disco, d’istinto, quasi buona la prima. Come ha fatto con il già citato Fork In The Road (che pessimo disco!) o con Living With War (di cui poi la prima evidentemente così buona non era, visto che c’è stata una seconda…). Quando Neil decide di innalzare i suoi peana contro qualcuno non guarda in faccia nessuno, tanto meno quelli che spendono i soldi per comprare i suoi dischi. Proprio recentemente nel sito “trasherswheat” da un referendum tra i seguaci (i suddetti younghiani incalliti) è emerso che per oltre il 37% di questi l’ultimo disco del canadese ad aver suscitato davvero interesse è stato Psychedelic Pill: qualcosa vorrà pur dire…

Messi in naftalina i Crazy Horse eccolo dunque in pista con i Promise Of The Real, la band di Lukas Nelson (il rampollo di Willie tra l’altro quando suona la solista sembra proprio un clone di Young), che comunque dei Crazy Horse sembrano essere epigoni quanto a sound. Una manciata di canzoni invettive, magari anche buone quanto ad intenzioni, forse ottime; quel che manca è il tessuto sonoro… il disco sembra abbastanza ripetitivo, poco ispirato. E a tratti le idee di Neil sembrano anche un po’ confuse: il terzo brano ad esempio, caratterizzato da alcune belle intuizioni chitarristiche, è costruito su un ossessivo ritornello – che è anche il titolo del brano – che ci ripete che la gente vuole sentire canzoni d’amore, come a volersi giustificare per il precedente romantico Storytone tutto dedicato alla love story con Daryl Hanna e appesantito dagli arrangiamenti orchestrali (tanto che nell’edizione deluxe è stato allegato il medesimo disco in versione acustica). La gente vuole ascoltare canzoni d’amore, ma qui invece le canzoni sono politiche. Il brano d’apertura di questo The Monsanto Years, A New Day For Love è decisamente bruttino, molto al di sotto degli standard del canadese e non contribuisce certo a predisporre di buon animo chi si pone all’ascolto del CD; molto meglio Hawk Moon, dal tessuto semi acustico che ricorda altri tempi e altri Neil.

Young riesce a collocare un brano del genere in quasi ogni disco – mi riferisco ai suoni – e non capisco perché non provi a fare un disco intero in questa direzione, per quanto la voce in questo disco sia davvero molto penalizzata. Gli oltre otto minuti di Big Box sono invece una lunga cavalcata elettrica di quelle spettrali cui da tempo siamo adusi ascoltando la musica di questo eclettico artista, il testo è quasi urlato sull’onda anomala delle chitarre, più che una canzone sembra un proclama recitato su una base musicale incalzante. A Rock Star Bucks A Coffe Shop è un altro peana, stavolta indirizzato verso la catena di coffee shop più nota d’America, è il brano portante del disco, quello orecchiabile, in maniera fastidiosa però: se le chitarre sono a posto e il sound younghiano emerge con vigore, il coro non è dei migliori e poi c’è l’insopportabile fischietto da gita in campagna coi boy scout che mi aveva fatto storcere il naso anche in Psychedelic Pull (disco comunque di tutt’altro spessore).

Workin’ Man è abbastanza noiosa nel suo dilungarsi e sa comunque di già ascoltato e anche Rules Of Change non brilla particolarmente, pur avendo una struttura musicale più interessante e varia. La title track sa anche di già ascoltato, e proprio su questo stesso disco, sette eccessivi minuti di invettiva, su un andazzo alla Neil Young già ascoltato in versioni decisamente migliori altrove. Più interessante la canzone che chiude il disco, If I Don’t Know, ma forse solo perché arriva dopo quattro brani poco entusiasmanti.

P.S. 1 – La copertina è leggermente meglio del solito, con Young e la novella fidanzata ritratti in una sorta di rifacimento del celebre dipinto “American Gothic”.

P.S. 2 – A giorni l’indefesso Neil pubblicherà il nuovo capitolo dei suoi live d’archivio, tanto per non smettere di taglieggiare il suo pubblico, stavolta quanto meno si tratterà di un concerto diverso dal solito visto che lo cattura durante il tour anomalo con i Blue Notes.

Premio Tenco 2015: la 39ma edizione dal 22 al 24/10

di admin

21 ottobre 2015

TENCO 2015: AL VIA GIOVEDÌ “FRA LA VIA AURELIA E IL WEST”
CON GUCCINI, PETRINI, PIERACCIONI, CONSOLI,
VECCHIONI, BERSANI, STAINO E MOLTI ALTRI

DAL 22 AL 24 OTTOBRE A SANREMO
IL 21 L’INAUGURAZIONE DELLA NUOVA SEDE DEL CLUB TENCO

Saranno in tanti a festeggiare Francesco Guccini – da Carlin Petrini a Leonardo Pieraccioni, da Carmen Consoli a Gino e Michele, da Sergio Staino a Roberto Vecchioni, da Samuele Bersani a David Riondino – a partire da giovedì a Sanremo per “Fra la via Aurelia e il West – dedicato a Francesco Guccini”, la 39a edizione del Premio Tenco che si svolgerà dal 22 al 24 ottobre al Teatro Ariston (per le serate), nella nuova sede del Club Tenco (per gli appuntamenti mattutini e pomeridiani) e nel quartiere della Pigna (per gli eventi pre-serali).
Lo stesso cantautore emiliano sarà protagonista di un incontro sabato pomeriggio, oltre ad essere presente a teatro nelle tre serate per assistere alle esibizioni di artisti di varia estrazione che fra l’altro lo omaggeranno cantando ognuno un suo brano.

La rassegna è organizzata dal Club Tenco con il contributo del Comune di Sanremo e
della Società Italiana degli Autori ed Editori (SIAE), il sostegno di Coop Liguria e Casinò di Sanremo e media partner RaiRadio 2 e RaiRadio 7 live.

Dopo un appuntamento martedì pomeriggio in Piazza Borea D’Olmo (di fronte al Teatro Ariston) alle 19, intitolato “Ascoltando e aspettando Guccini”, la rassegna sarà anticipata mercoledì 21 alle 18.30 dall’inaugurazione della nuova sede del Club, in piazza Cesare Battisti (nell’ex stazione ferroviaria).

Le serate avranno inizio alle ore 21. Giovedì 22 saliranno sul palco (in ordine alfabetico e non di apparizione): Appino, John De Leo, Vittorio De Scalzi, Cristina Donà (Targa Tenco miglior canzone), La Scapigliatura (Targa Tenco migliore opera prima), l’Orchestra Nazionale dei Giovani Talenti del Jazz diretta da Paolo Damiani, Roberto Vecchioni.
Venerdì 23 toccherà a Carmen Consoli, Armando Corsi (Premio “I Suoni della canzone”), Mauro Ermanno Giovanardi (Targa Tenco migliore album), Jacqui McShee (Premio Tenco), l’Orchestra Sinfonica di Sanremo diretta da Vince Tempera con Vanessa Tagliabue Yorke alla voce, Leonardo Pieraccioni, Bobo Rondelli.
Sabato 24 sarà la volta di Cesare Basile (Targa Tenco migliore album in dialetto), Samuele Bersani & Pacifico (Targa Tenco miglior canzone), Bocephus King, Musici & Friends (reunion dei musicisti storici di Guccini), Têtes de Bois (Targa Tenco migliori interpreti), Giovanni Truppi. Truppi è stato scelto dal Club Tenco per ricevere il Premio NUOVOIMAIE come interprete di una canzone d’autore innovativa.
Tutte le sere Paolo Migone avrà il compito di intrattenere il pubblico nei cambi-palco. Le serate, così come i pomeriggi, saranno condotte da Antonio Silva.
Da mercoledì 21 a domenica 25, dalle 10 alle 21, all’Ariston, sarà aperta la mostra di disegni umoristici “Guccini e l’infermeria” a cura di Stefano Giraldi, da un’idea di Luciano Barbieri.
Nelle tre serate sarà disponibile “Il Cantautore”, la rivista del Club Tenco che esce ogni anno in occasione della manifestazione e che in questo numero avrà una speciale e corposa sezione proprio su Guccini.

Il fitto programma del “Tenco” si aprirà però tutti i giorni alle 12 nella nuova sede di piazza Cesare Battisti con gli “Incontri di mezzogiorno”, conversazioni con gli artisti aperte al pubblico. Alle 15.30, sempre in sede e ad ingresso libero, ci saranno invece gli “Incontri del pomeriggio”, sempre incentrati su Guccini. Giovedì 22 ci sarà la proiezione di “Guccini racconta Francesco. Un’intervista lunga vent’anni” di Fausto Pellegrini. A seguire, “Dovevo fare del cinema”, un montaggio delle apparizioni in film del cantautore, a cura di Tommaso Bertoncelli. Infine, il video “Trobàr: una cosa piccola di ieri che domani è già finita” di Ugo Cattabiani e Luca Vitali.
Venerdì 23, “I musicisti di Guccini parlano”, un incontro con Tiziano Barbieri, Juan Carlos “Flaco” Biondini, Deborah Kooperman, Roberto Manuzzi, Antonio Marangolo, Pierluigi Mingotti, Vince Tempera, Jimmy Villotti, ovvero i musicisti storici di Francesco che la sera dopo suoneranno all’Ariston. Venerdì 23 e sabato 24 ci saranno incontri intorno a Guccini con Riccardo Bertoncelli, Guido De Maria (Premio Tenco 2015 all’operatore culturale), Gino e Michele, Giovanni Impastato, Carlin Petrini, David Riondino, Nicola Sinisi e Sergio Staino. Infine, sabato 24, un incontro con Guccini stesso, in qualità di scrittore.
Nei tre giorni, in sede sarà anche possibile visitare la mostra “Fra la rete dei giardini. Canzoni di Guccini fotografate”, a cura di Cosimo Damiano Motta, Elisabetta Vacchetto e Pierangelo Vacchetto.

Alle 18.30 ogni giorno ci si trasferirà in piazza dei Dolori, nel quartiere della Pigna, dove, in collaborazione con l’associazione Pigna Mon Amour, ci saranno degli aperitivi con momenti di spettacolo. Si comincerà giovedì 22 con le canzoni pacifiste di Guccini interpretate da Olden, nell’ambito di “Ottobre di pace”; venerdì 23 l’attrice versiliese Elisabetta Salvatori leggerà un racconto di Guccini pubblicato nel 2001, “La cena”, mentre sabato 24 andrà in scena “L’Ora Canonica”, con Filippo Bessone, Azio Citi e Luca Occelli.

Biglietti e abbonamenti per le serate si possono acquistare alla cassa del Teatro Ariston (Via Matteotti 107, Sanremo – Tel. 0184 507070) tutti i giorni dalle 16 alle 21, anche telefonicamente. I singoli biglietti possono essere acquistati anche on line attraverso www.clubtenco.it, www.premiotenco.it e www.facebook.com/ilclubtenco
Biglietti: poltronissima 45 euro, I settore platea 34 euro, II settore platea e galleria 24 euro. Abbonamento alle tre sere: poltronissima 90 euro, I settore 69 euro, II settore e galleria 48 euro. I prezzi sono comprensivi di diritti di prevendita.

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New York Rock Art

di Marco Tagliabue

20 ottobre 2015

Guardare avanti è sempre stata una loro prerogativa. I Talking Heads debuttano nell’anno zero del punk rock con un album dal titolo inequivocabile. Ascoltando ’77 (Sire, 1977) è difficile però inquadrare la band di David Byrne sul carrozzone di Ramones & Co. e, soprattutto, immaginare quei quattro ragazzi pettinati e ben vestiti sulle assi del CBGB’s, veterani e protagonisti di una rivoluzione davvero poco silenziosa. Le loro canzoni pescano dalla tradizione americana, flirtano con il pop più scanzonato ma, soprattutto, cercano un contatto inedito con la musica nera ed, in special modo, con quella più danzabile. Il riuscitissimo esordio stempera la sua quarantina scarsa di minuti in una serie di confetti psicotici e minimali confezionati con gusto e competenza. Un gusto, si direbbe, superiore che sposa basi ritmiche nervose sconfinanti sovente in vera e propria isteria, punzecchiature di chitarra in salsa quasi funky, melodie oblique e accattivanti ed una voce, quella del leader, stranita ed imbambolata, fredda e distaccata ma, neanche a farlo apposta, perfettamente funzionale. Loves Come To Town, New feeling e, soprattutto, Psycho Killer sono già dei piccoli casi in città.

Quando Babbo Natale bussa alla loro porta sotto le mentite spoglie di Brian Eno, i Talking Heads allargano di fatto la formazione a cinque elementi con il nuovo membro occulto e si preparano al grande salto. Il primo atto del trittico che li consegnerà ai libri di storia, More Songs About Buildings And Food (Sire, 1978), registrato interamente a Nassau con la supervisione dell’ex Roxy Music, elimina certe asprezze dell’esordio a favore di una maggiore coesione di fondo e, soprattutto, di una completa sottomissione al fattore ritmico, verso il quale sembrano convergere tutti gli strumenti. Sarà la cover di Take Me To The River di Al Green a scalare le charts. Con il successivo Fear Of Music (Sire, 1979), cui fa da fortunato apripista il singolo Life During Wartime, la sezione ritmica, sempre più incalzante, comincia a respirare vapori etnici ed a filtrare un numero crescente di interferenze elettroniche. La strada è ormai spianata per il capolavoro. Remain In Lights (Sire, 1980), a quasi venticinque anni dalla pubblicazione, è opera sfuggente, imprevedibile, imprendibile: ammicca da un futuro imprecisato, da un domani misterioso. A noi, poveri mortali, solo l’illusione di toccarlo con un dito per scoprire che, invece, con il passare del tempo, le distanze si accentuano anziché attenuarsi. Forse perché nulla suona ancora così moderno. Sonorità terzomondiste, africane ed asiatiche in testa, si sposano alle ritmiche funky dei neri americani ed al rock dei visi pallidi in un complesso gioco di stratificazioni officiato dal Gran Sacerdote e dalle sue manipolazioni elettroniche. Oriente ed occidente si scoprono infine neanche troppo lontani, le nevrosi metropolitane ed i morsi della fame sono due facce della stessa medaglia: la globalizzazione incomincia da qui ed a nessuno passa per la testa di protestare. My Life In The Bush Of Ghosts (Sire, 1981), naturale appendice di Remain In Lights a firma della coppia Eno/Byrne, sposa elettronica, musica etnica e campioni vocali razziati per l’etere in un cut up di inaudita suggestione in cui musica bianca e nera annullano le distanze nello stesso palpito emozionale. Il futuro non è mai parso così a portata di mano.

Se depuriamo il suono dei Talking Heads dalle componenti etniche e dalle cadenze funky, lasciando immutata la sua ritmica incalzante; se esaltiamo quelle componenti minimalistiche presenti soprattutto nel primo album e sostituiamo il loro pigmalione con un altro santone della New York alternativa, il compositore d’avanguardia colta Philip Glass, arriviamo in un batter d’occhio alla corte dei Polyrock. Il gruppo, che nasce nel 1979 per iniziativa di Billy Robertson, rimane con tutta probabilità la migliore espressione di una stagione breve ma intensissima della musica newyorkese, quella della cosiddetta minimal wave, che tenta un improbabile accostamento fra minimalismo e rock elettronico di tendenza. I Polyrock dell’omonimo debutto (RCA, 1980) consegnano alla storia quello che rimane probabilmente il pezzo più pregiato dell’intera corrente: un miracolo d’equilibrio fra sperimentazione e B’52s, qualcosa di unico e travolgente nella discografia di quegli anni. Le canzoni si rivestono di ritmi frenetici, di effetti psichedelici, di un chitarrismo nervoso ed irriverente, di tappeti armonici schematici e ripetitivi, di un canto nevrastenico e pulsante. Il Sacro ed il Profano si prendono per mano e provano a fare due passi insieme: la musica colta mostra qualche smania commerciale in un equilibrio instabile ma perfetto, che già nel successivo Changing Hearts (RCA, 1981) comincerà a tendere pericolosamente, ma ancora molto piacevolmente, in direzione del mercato.

Sono ritmi, per loro stessa definizione, decisamente pazzi anche quelli dei giovanissimi Feelies, leggendaria e misconosciuta formazione di punta della new wave newyorkese di quegli anni. Il loro Crazy Rhythms (Stiff, 1980), stende sul tappeto dei ritmi frenetici e sincopati della batteria di Anton Fier gli arzigogolati dialoghi chitarristici fra gli strumenti di Glenn Mercer e Bill Million, che recuperano il suono delle proprie radici folk (Byrds in testa) per immergerlo nelle vasche ricolme d’acido di Television, Wire e Velvet Underground. Prendete ad esempio The Boy With Perpetual Nervousness, brano d’apertura e manifesto programmatico dell’intero album: la batteria secca e ipnotica, scomposta in una sorta di tribalismo metropolitano; le chitarre affilate in eccitanti arabeschi sonori: limpide, frenetiche, poi nevrasteniche fino a lambire la schizofrenia; la voce fredda e distaccata a mezza strada fra recitativo e declamatorio. Un incedere lento ma inesorabile, imperioso nella sua scarna semplicità: non una strofa né un ritornello, non una nota in più o fuori posto, tutto sembra collimare alla perfezione in senso quasi geometrico. Si potrebbe quasi parlare di math-rock se l’orologio della Storia non fosse ancora così indietro…

Approfittiamo della presenza della batteria di Anton Fier, spina dorsale e cuore pulsante del sound dei Feelies, con brevi ma gloriosi trascorsi anche nei Pere Ubu, per toccare qualche realtà di confine in cui lo stesso è più o meno coinvolto.
Anton è parte della prima e più celebre formazione dei Lounge Lizards di John Lurie, sorta di ensemble mutante che annovera per l’occasione, oltre al sassofono pungente del leader ed alla batteria del nostro, la chitarra di Arto Lindsay, il basso di Steve Piccolo e le tastiere di Evan Lurie. Lounge Lizards (EG, 1981) deve la propria magia alla severa contrapposizione fra una sezione ritmica di ordinata impostazione jazz e l’Armata Brancaleone di chitarra e tastiere, dissonante, anarchica, atonale e un po’ stracciona. Dal conflitto continuo e dissacrante fra queste due anime si sviluppano intere praterie per il sax di John Lurie, protagonista di intrepide cavalcate che si intersecano con maestria nelle intemperanze sottostanti. Persi per strada Lindsay e Piccolo, e di lì a poco anche il buon Fier, il sound della band tenderà, attraverso i continui rimaneggiamenti della formazione, a disciplinare le proprie componenti in direzione di una jazz-fusion sempre più di maniera a scapito, naturalmente, di fantasia e creatività.

Per Anton Fier, da sempre comprimario di lusso, verrà anche il momento di provare l’ebbrezza del leader con i Golden Palominos, una sorta di supergruppo nel quale il protagonista riuscirà a mediare personalità forti e contrastanti quali quelle, ad esempio, di Arto Lindsay, Fred Frith, John Zorn, Bill Laswell. Anche qui la magia dura giusto lo spazio di un album, al massimo due, prima che Fier, afflitto anche da problemi di alcolismo, perda progressivamente la sua funzione di collante e l’ensemble, senza una personalità di spicco, si riduca ad un’accozzaglia di virtuosismi senza coesione, direzione, unità di fondo e d’intenti. Ma intanto godiamoci The Golden Palominos (Celluloid, 1983) ed il suo baccanale di umori e sapori, di ritmi e cacofonie, di intemperanze e distorsioni saldamente legate dal tribalismo esagitato delle percussioni del leader. Anche se crossover è un termine che sarebbe stato d’attualità soltanto molto tempo dopo, ed in ben diversi ambiti, davvero non c’è altro modo per definire l’audacia di queste jam sessions in cui si mischiano, come se nulla fosse, vapori etnici, funk, jazz e rock’n’roll in un insieme nervoso ma perfettamente coeso.

Visto che ne abbiamo seguite le gesta fin quasi dalla culla e che ce lo siamo ritrovati tra i piedi in più di un’occasione, non possiamo almeno non citare gli Ambitious Lovers di Arto Lindsay e quella che rimane, probabilmente, la loro opera più rappresentativa, Envy (Eg-jam, 1984). Con una formazione composta, fra gli altri, da quattro musicisti brasiliani, il nostro si diverte a gettare scompiglio nei locali in della New York alternativa, con una fusion latina dissonante e dissacrante.
Ne ci possiamo dimenticare, prima di abbandonare definitivamente questi arditi territori di frontiera, dei Material di Bill Laswell. I due progetti denominati Temporary Music (Elektra, 1979 e 1981) allineano ad una solida base funk-rock elementi di elettronica e sperimentalismo colto, ma è con il successivo Memory Serves (Elektra, 1981) che il sound prende forma e sostanza (grazie anche alla presenza di Fred Frith) nella direzione di una fusion tagliente ed incisiva che incorpora, senza problemi apparenti, umori jazz e tensioni funky, prima che con il seguente One Down (Elektra, 1982) sia avviata una conversione irreversibile verso una sorta di disco music di classe.

Sono gli anni, lo ricordiamo, in cui Laurie Anderson imperversa nei salotti più o meno alternativi della città con il pluridecorato Big Science (WB, 1982), trasposizione su disco di uno spettacolo multimediale cui la Anderson lavora fin dal 1979, nel quale avanguardia e pop scoprono il matrimonio perfetto per mezzo di un uso dell’elettronica estremamente personale, fatto di atmosfere sospese, suoni sintetizzati, voci filtrate. Una lunga trance nella quale la tecnologia, fredda e distaccata, scopre di avere un cuore umano del quale nessuno sospettava. Sarà un successo milionario.

Un successo che, in tali termini, non avrebbe mai premiato una personalità come quella di Glenn Branca che, a conti fatti, ha esercitato un’influenza assoluta e determinante per innumerevoli esperienze su entrambe le sponde dell’oceano, dai Sonic Youth, figliocci riconosciuti, a certo noise degli anni novanta; dallo shoegazing (My Bloody Valentine in testa) a certe frange –quelle di impostazione più chitarristica come i Mogway- del famigerato post-rock.
Dopo le esperienze con Static e Theoretical Girls e prima di una lunga serie di sinfonie chitarristiche progressivamente numerate, Branca trova con The Ascension (99 Records, 1980) il suo personale capolavoro e con i drones chitarristici ivi contenuti, in cui stratificazioni e sovrapposizioni si susseguono con piglio quasi minimalista in un crescendo lento ed imperioso, in una marea lenta ma inesorabile, il banco di prova per mille, e ben più fortunate, esperienze successive.

Glenn Branca è anche il mentore delle Y Pants, un trio femminile legato ai circoli della New York negativa più per coincidenza spazio temporale che per effettiva affinità artistica. Vale comunque la pena di cercare il loro Beat It Down (Neutral, 1982) in cui, nella totale assenza di chitarre, la band di Barbara Ass tesse su uno scarno canovaccio funk intemperanze etniche di varia foggia e colore, ma di vago sentore afro-asiatico, percorse da un canto stranito ed allucinato. Legioni di rock band al femminile ne avrebbero mandato a memoria gli insegnamenti.

Non possiamo concludere questo viaggio attraverso il suono della New York Arty a cavallo fra gli ultimi scampoli della new wave/no wave ed i primi vagiti dell’indie/alternative rock senza passare per i Sonic Youth che, oltre ad essere la più importante ed influente band americana degli anni ottanta, costituiscono di fatto il perfetto anello di congiunzione fra i due fermenti. E’ inutile dilungarsi troppo sulla seminale band di Thurston Moore e Lee Ranaldo: lo abbiamo già fatto in un passato abbastanza prossimo (LFTS #67) e non ci sembra una buona idea, anche per rispetto del lettore, ritornare su concetti già sviscerati in precedenza. Ci corre solamente l’obbligo di segnalare, per rimanere in tema con il nostro discorso, il timido esordio del Sonic Youth e.p. (Neutral, 1982), disco molto strutturato ed ordinato, in totale contrapposizione rispetto alle coeve e distruttive performances dal vivo, figlio probabilmente di un gruppo i cui membri non si conoscono ancora abbastanza. Le tessiture chitarristiche che sarebbero diventate il marchio di fabbrica della band si sviluppano in un ambiente asettico ed un po’ troppo levigato, mostrando senza alcun timore tutto il loro debito di riconoscenza verso le sinfonie di Glenn Branca. Andrà decisamente meglio con il successivo Confusion Is Sex (Neutral, 1983), che mantiene perfettamente fede al titolo mostrando, per la prima volta, il vero volto della band. Un disco sporco ed emozionale, snervante ed alienato, che rappresenta l’incubo della metropoli in una psiche devastata: un sound sconnesso e disperato che si sviluppa attraverso fitti tribalismi percussivi e snervanti trame chitarristiche, fra gemiti, singhiozzi, sussurri ed urla. Claustrofobia allo stato puro. Con Bad Moon Rising (Homestead, 1985) i Sonic Youth trovano un punto di convergenza fra le atmosfere dei due primi dischi ed il capolavoro della loro primavera. L’anarchia sonora diventa coscienza controllata, l’Apocalisse cede il passo ad un timido risveglio: è l’alba di un futuro luminoso. Il resto è ormai Storia.

da LFTS n. 73

MIKE STINSON – Hell And Half Of Georgia

di Paolo Crazy Carnevale

17 ottobre 2015

mike stinson

MIKE STINSON
Hell And Half Of Georgia
(Poplar Cave 2013)

Chitarre baritonali, assoli ruggenti una voce originale che può passare dall’effetto cartavetrata a tonalità più country: Mike Stinson è in questi ultimi tempi uno dei miei preferiti, anche se in realtà conosco solo questo disco ed un brano della sua produzione precedente. L’ho visto però in azione la scorsa primavera, come componente del combo El Trio Grande (di cui è batterista, chitarrista e cantante, alternandosi con gli altri due componenti) e come drummer della Jesse Jay Harris Band. Questo per dire che è uno dei personaggi più in vista del panorama texano made in Austin. Per quanto ne so Hell And Half Of Georgia è il suo prodotto più recente ed è una forza della natura: da quanto ho potuto capiresi tratta di una svolta decisamente più rock rispetto ai suoi esordi e pur trattandosi di una produzione fatta tra amici (è presente anche Jesse Dayton un altro componente del Trio Grande), gli spunti sono notevoli. Findal brano con cui si pare il disco, un rock cantautorale dal piglio incredibile, spedito, fruibile, orecchiabile ma non in senso spregiativo e con un testo ironico fin dal titolo: Late For My Funeral. C’è già tutta l’essenza di questo personaggio tutto da scoprire, un musicista che oltre a capitanare una propria band e a far parte di progetti come quello citato di El Trio Grande. Ha prestato la propria mano d’opera a svariati artisti, da Cristina Aguilera a Lucinda Williams, dimostrando particolare duttilità, ma la sua carta vincente è sicuramente il suo songwriting che in questo CD emerge prepotentemente, se May Have To Do It è puro rock’n’roll, forse non particolarmente originale, Died And Gone To Houston è invece un brano nella scia del country rock più tipico, a metà strada tra California e Texas, con una pedal steel (Ricky Davis) in odor di New RIders o Commander Cody, Walkin Home In The Rain e Box I Take To Work sono invece ballate coinvolgenti, con i suoni delle chitarre che si intersecano dando potenza al suono, in una soluzione sonora che piace sempre di più, elevando il disco al di sopra delle classiche autoproduzioni che spesso mancano di spessore e profondità di suono, in queste due canzoni e in particolare in This Year, brano che si alterna tra crescendo epici e rallentamenti studiati a tavolino, con la pedal steel che urla lasciando spazio però anche all’elettrica e all’acustica con un risultato che entusiasma. Un gradino sotto Broken Record, che mantiene però tutte le buone caratteristiche dei brani fin qui citati. Lost Side Of Town fa riprendere decisamente quota al disco, una grande ballata elettrica (che pur parte con l’accompagnamento della sola acustica su cui si innestano ancora l’elettrica e la pedal steel) di grande respiro, dai tratti dylaniani e con degli ottimi cori. Con Got A Thing For You il tiro si sposta invece verso la musica sudista – Stinson, pur essendo stato di casa a Los Angeles per quasi vent’anni, prima di trasferirsi in Texas, è comunque virginiano di nascita – con un bell’effetto treno dell’elettrica; Put Me On è invece un brano lento, caratterizzato dalla fisarmonica e dall’acustica spagnoleggiante, con un andamento da cowboy song che non starebbe male alla fine di una storia di Lucky Luke in cui il protagonista cavalca solingo verso il tramonto ciondolando in sella al suo Jolly Jumper. Ancora rock granitico per il brano finale, The Kind Of Trouble I Need, con cori femminili in sottofondo e la voce del leader che si fa abrasiva come una grattugia mentre le chitarre ululano come lupi nella notte.

Sabato e domenica torna Vinilmania! Save The Weekend!

di admin

16 ottobre 2015

Vinilmania ottobre 2015

Incontriamo Nico Bonato – Lo stilista cantautore

di Ronald Stancanelli

14 ottobre 2015

Lo Stilita

Una delle cose più interessanti uscite nel nostro paese ultimamente è sicuramente il cd di Nico Bonato. Album di undici pezzi di intense parole coniugate in musica e splendidamente arrangiate. Nico Bonato, al suo ennesimo lavoro, si scrive testi e musiche e a differenza di molti che in questi casi percorrono vie prettamente acustiche, si riversa su effluvi sia acustici che pregni di terminazioni elettriche che non possono non portare alla memoria grandi nostri cantautori come i De Andrè padre e figlio e lo stesso Bubola che con entrambi ha collaborato. Il musicista vicentino oltre che cantare si diletta con tastiere e chitarre fiancheggiato da Marco Pozza al basso, chitarre e tastiere, Manuel Servidadi al piano e tastiere, Carlo Dino Mistè alla batteria e Toni Rissato pure lui alle chitarre. Si nota quindi un disco molto chitarre- tastiere oriented denso e impregnato di una vitalità insolita per un cantautore considerando che gli stessi ultimamente son soliti riversarsi su tenui note acustiche e a tratti pure lamentose. Qua per la gioia dell’ascoltatore invece abbiamo il trionfo di turbinii elettrici con eccellenti momenti di intensa e luminosa ascesa musicale come ad esempio in Santa Sangre. Un inizio invece progressivo per Dammi un’altra parola, pezzo più lungo dell’album, che ci porta a certa musica che amammo intensamente negli anni settanta e ci fa trovare quindi dalle parti della più cheta Pfm e dei Celeste, indimenticata meterora ligure di quel tempo, anche se l’ombra latente del primo De Andrè pervade vari episodi di questo impegnativo lavoro che potremmo accomunare anche ai momenti più sperimentali di Herbert Pagani. Lavoro questo del Bonato che esortiamo a cercare ed ascoltare per esserne pervasi e bellamente attorniati. Per saperne di più potete andare su myspace.com/dischi obliqui. Ritornando a Lo Stilita, questo il titolo del suo attuale e recente album, rimarchiamo i decisivi arrangiamenti di Marco Pozza come decisamente significativo il disegno di copertina di Giovanni Borriero che ben si sposa con il contenuto del cd tutto.
Nico Bonato è di Valdagno, provincia di Vicenza. Come tanti della nostra generazione, parlo della mia avendo il Bonato praticamente la mia età, lui del ’54 , io del ’56, ebbe le sue prime esperienze musicali con i complessi che girovagavano negli anni settanta qua e là, ovvero cantine, balere, sale da ballo, complessi balneari. Il suo primo disco è appunto datato 1975 dal titolo Nico Bonato N1 (mani legate) al quale seguirà quattro anni dopo Volume 2. Direi che detto titolo sia decisamente molto deandreiano e forse non a caso poiché grazie proprio all’interessamento di Fabrizio De André il Bonato pubblica il singolo, si diceva semplicemente 45 giri una volta, Non lasciate le ragazze per strada/Il mercenario. Questo nel 1982. Inutile dire che detto singolo uscito per la Mr.Disco/CGD sia nel contempo ricercato che decisamente raro! Problematiche alla Van Morrison, se conoscete bene l’irlandese sapete a cosa mi riferisco, per questioni caratteriali fan si che il nostro non abbia rapporti idilliaci con i vari interlocutori addetti alla distribuzione e ai vari rapporti con il mondo musicale quindi detto fattore potrebbe sicuramente averlo in certi frangenti penalizzato fermo restante che il Bonato che conosco, anche se marginalmente, da anni, mi sia sempre sembrato persona si decisa e risoluta ma anche fermamente schietta.
Nel 1991 esce l’album Basilico, titolo attraente e simpatico per un genovese come me caratterizzato da testi intimisti ed un utilizzo specificatamente ricercato della parola cosa che ancor oggi evidenziamo notando lo stesso nel suo ultimo lavoro di cui sopra. Nel 2004 è la volta del cd Pioggia seguito dall’album, l’unico in nostro possesso oltre a quello appena uscito, Odisseo Luminoso che canti e inganni del 2008 che ricordo ci permettemmo di segnalare per il Premio Tenco appunto di quell’anno. Nel 2014 viene premiato a Verona, città dove parte dell’anno vivo, come miglior canzone al concorso di composizione e armonizzazione di canto corale col brano Nina e la neve. E di adesso l’uscita del suo ultimo polivalente ed interessante lavoro, appunto l’ottimo Lo Stilita.

INTERVISTA
Leggendo il tuo curriculum sembrerebbe che la musica sia il tuo primario lavoro oltre che ovviamente il principale interesse mentre invece mi par di avere notizia che è se non un hobby sia almeno un secondo lavoro mentre tu fai altro nella vita. Come stanno esattamente le cose?
E’ stato un lavoro primario da giovane poi sono cambiate le esigenze e ho dovuto trovare una forma di introiti pecuniari che mi permettessero di coltivare in parallelo il mio bisogno di ricerca musicale.

Per essere un cantautore, sempre che la definizione non sia impropria, trovo che in questo album vi sia un sapiente e importante uso della chitarra elettrica, oltre che della batteria ed entrambi a tratti sono decisamente preponderanti. Come ascoltatore la considero una scelta vincente! Tu come ti senti principalmente?
Mi sento un cantautore dal momento che canto quello che scrivo,per il resto mi trovo molto bene a fare musica assieme ad altri musicisti e quindi tendo a realizzare progetti con un nucleo di persone con le quali alla fine è si instaura una collaborazione tipo gruppo o band.

Battendo sempre lo stesso tasto, ultimamente molti artisti, per svariati motivi, diciamo per scelta o anche per necessità, sono orientati nell’uso dell’acustico, dei suoni parchi o addirittura minimali. Questo è invece un disco rock sotto tutti gli aspetti. Chitarra, tastiere, batteria, percussioni. E’ partito volontariamente così o vi è arrivato durante il percorso?
Come dicevo prima questo disco è stato pensato e realizzato con un organico rock e sono stati pensati anche i mix che son stati fatti da un esperto di registrazioni dance, abbiamo suonato ogni pezzo in sala prove e poi siamo passati in studio dove sono stati corretti e arricchiti gli arrangiamenti.

Andando indietro nel tempo dicci qualcosa sul singolo prodotto all’epoca da Fabrizio De André , magari ci scappa l’aneddoto che non ti aspetti!
Ho conosciuto Fabrizio a un Festivalbar proprio a Verona in seguito ho frequentato
lui e Dori a Milano, mi ha dato una mano a trovare la distribuzione
del mio pezzo “Non lasciate le ragazze per strada”e in più ha fatto un servizio fotografico con me sempre per aiutarmi a far decollare il pezzo, ricordo la gentilezza di Dori e le chiacchierate con Fabrizio e anche il suonare il mio repertorio per loro ascoltando i loro consigli.

Se vi sono dei modelli o ai quali ti ispiri o che semplicemente ti piacciono sono in prevalenza nostrani o stranieri?
Ho ascoltato e suonato di tutto, per i modelli nazionali tutti i nostri grandi della musica, da Bindi a De Andre, da Tenco a Fossati; così anche per gli stranieri, dai grandi del pop del rock e con un occhio di riguardo alla musica brasiliana , ti ricordo che ho cominciato molto presto a fare musica da ballo. Era ai tempo dei
cosiddetti “complessi”.

Da quello che ho trovato sui primi anni della tua carriera musicale la stessa è costellata di vari episodi ed esperienze; cosa puoi raccontarci?
Beh direi che ho avuto la fortuna di suonare con musicisti molto bravi da cui ho imparato molto e con i quali mi sono anche tanto divertito avendo pure la fortuna di conoscere anche grandi artisti.

Per quanto concerne la parte live, fai molti concerti e prevalentemente solo o con un gruppo?
Il precedente disco con assieme un nutrito numero di pezzi del mio repertorio e numerosi omaggi alla musica d’autore è stato portato in scena da una band di cinque elementi più io al piano e alla chitarra, sinceramente per questo progetto non abbiamo pensato ancora una realizzazione live anche perché tre anni di lavoro ci hanno svuotati, comunque vediamo ricaricate le pile cosa succederà.

Come funziona distribuzione e vendita dei tuoi lavori sia precedenti che di questo ultimo?
Come ben sai i dischi fisici si vendono poco, comunque un certo numero di copie vengono realizzate per la vendita dei dopo concerti o situazioni simili, quest’ultimo (lo Stilita) si trova anche sui maggiori store musicali iTunes, amazon e in altri non propriamente legali.

Forse è solo una mia impressione ma ascoltando le tue cose mi immagino primariamente che tu scriva i testi e sugli stessi costruisca musica e arrangiamenti. Come stanno realmente le cose?
No, prima scrivo le musiche poi i testi, il fatto è che scrivendo canzoni bisogna avere il coraggio di tagliarli e ritagliarli i testi; poi procedo a fare una pre produzione, in
questo caso discuto il tutto con l’arrangiatore Marco a Pozza e, poi quando abbiamo le idee più chiare cominciamo a provare con i musicisti.

Quali i classici 5 album che ti porteresti in un ipotetico viaggio interplanetario !
White Album dei Beatles ,The Dark Side Of The Moon dei Pink Floyd, Led Zeppelin IV, Reggatta De Blanc dei Police e Tutti morimmo a
stento di Fabrizio De Andre per portarmi dietro la sua voce magica che
tanto ha dato alla storia della musica. Premetto che domani forse te ne direi altri quattro perché fortunatamente in precedenza abbiamo vissuto un grande e magico momento musicale e la scelta è smisurata.

Qualcosina ancora prima di salutarci…
Sto registrando una versione moderna di Non lasciate le ragazze per strada e forse la facciamo uscire anche in inglese ma questa probabilmente non cantata da me, ma la cosa è ancora in stato embrionale.

Nico Bonato

MARY CUTRUFELLO – Faithless World

di Paolo Crazy Carnevale

10 ottobre 2015

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MARY CUTRUFELLO
Faithless World
(Appaloosa 2014)

Sembra trascorso un secolo da quando questa cantautrice/rockeuse del Connecticut (poi vagabonda in giro per gli States) mi ha colpito col suo secondo disco When The Night Is Through: i miei amici avevano bimbi piccoli che ora sono studenti universitari, tanto per rendere l’idea e seguire le mosse successive di Mary (tra EP e autoproduzioni di difficile reperibilità) non è stata cosa semplice visto che i suoi dischi non hanno più avuto il beneficio di uscire per una major e il picco di quel disco non si è più ripetuto. Ci è voluta la nostrana Appaloosa per restituirci almeno un po’ della magia di quel disco: questo Faithless World prova, riuscendoci in buona parte, a ripercorrere quei felici terreni di caccia. Una manciata di belle canzoni, suonate come si deve, pur senza il dispiego di forze che aveva potuto concedere il fatto che quel disco fosse prodotto dalla Mercury.

Per la verità la Cutrufello fa quasi tutto da sola, nel senso che si scrive i brani, si suona le splendide chitarre e canta con quella sua vocalità davvero unica che è poi il suo asso nella manica.

Nove canzoni nuove di zecca, molto rock, molto urbane, canzoni di vita, di strada e d’amore, urlate credendoci fino in fondo con una ritmica solida alle spalle, qualche intervento dei fiati disseminati qua e là, cori discreti che non invadono mai lasciando a dominare quella voce duttile e roca che è la caratteristica principale della musica di quest’artista a tutto tondo. Ma soprattutto le chitarre, quelle acustiche ed elettriche, distorte e baritonali, tutte suonate da Mary, con qualche eccezione quando sentiamo pedal steel o slide. E quando serve, ma senza eccedere un bell’Hammond B-3, che non guasta mai.

La musicista pare particolarmente ispirata in questo lavoro, ogni tanto ci sono incursioni strumentali di banjo e armonica (Mickey Raphael, il più noto tra coloro che hanno partecipato alle registrazioni) che richiamano i trascorsi texani della titolare, ora di stanza in Minnesota, dove il disco è stato registrato: southern rock nordista(!) in Cold River, echi di country rock del terzo millennio, come ad esempio in Fools And Lovers, rimandi al boss in Fool For You, addirittura swing in Three Broken Hearts, anche una cover firmata dal misconosciuto texano Jeff Hughes, la ballata Santa Fe Railroad impreziosita dagli intrecci tra la chitarra di Mary e la pedal steel di Mike Hardwick, altro personaggio del giro texano. Ma particolarmente apprezzabili sono la conclusiva ed intimista (nella forma) The FedEx Song ottima e accattivante composizione dedicata agli autisti che lavorano per le compagnie di spedizione, la potente Promise Into Darkness (con l’ Hammond e un bel giro di chitarra) e Lonesome And The Wine malinconica ballata dai begli intrecci chitarristici e dalla vincente struttura musicale.

A rendere particolarmente apprezzabile il disco c’è poi il fatto che l’Appaloosa, curandone l’artwork, ha ben pensato di includere i testi con tanto di traduzione. Bentornata Miss Cutrufello!

LUCIA COMNES – Love, Hope & Tyranny

di Paolo Crazy Carnevale

9 ottobre 2015

lucia comnes

LUCIA COMNES
Love, Hope & Tyranny
(Andy Childs/IRD 2015)

Cantautrice interessante questa signora Comnes, californiana di nascita ma sicuramente cittadina del mondo: il suo mercato discografico è un po’ ovunque, tanto che questo disco è stato pubblicato prima in Europa e poi negli States, e se andate a visitare il suo sito web, nella biografia troverete persino la versione in italiano (!!!) di seguito a quella nell’usuale lingua inglese.

Cittadina del mondo anche per quanto riguarda la musica, nel suo curriculum ci sono registrazioni dedicate alla musica irlandese e persino a quella dell’est europeo: il nuovo disco, quello in questione, è invece un disco rock, a tutti gli effetti, non privo di elementi tradizionali mutuati dalle precedenti produzioni però. La Comnes, che è anche violinista (ha accompagnato recentemente anche Joan Baez in tour) contamina questa raccolta di canzoni con forti connotazioni folcloriche che non smorzano la struttura rock del disco, un rock che qualcuno ha ribattezzato americana ma che americana a tutti gli effetti non è vista appunto la forte impronta impressa dall’uso decisamente poco hillbilly che la Comnes fa del suoi violino.

Basta ascoltare l’iniziale No Hiding Place – canzone vincitrice in un paio di categorie in un contest texano dello scorso anno – o, ancor più, Because They Never Do o End Of The Line, gran brano che tutto è fuor che contenibile nell’angusta e odiosa definizione di americana, o similmente Look Again in cui, con rimandi tradizionali alla musica di altri luoghi d’Europa dall’Iberia ai Balcani, canta gli orrori di Chernobyl.

Bella la voce della titolare, e bravi anche gli accompagnatori, di cui non so dirvi di più visto che il promo in mio possesso reca solo foto di copertina e titoli, strumentazione essenziale comunque, composta da sezione ritmica, dal violino di Lucia naturalmente, tastiere contenute, mandolino (in particolare nell’accattivante brano di chiusura, Will You Miss Me When I’m Gone) chitarre elettriche ed acustiche e una pedal steel sempre molto indovinata (un brano per tutti: Lie With You Tonight, forse il mio preferito dei tredici contenuti nel CD) che pennella le canzoni con diverso spessore a seconda della bisogna. La produzione è affidata a Gawain Mathews e Jeffrey Wood.

VARIOUS ARTISTS – Silver Lining

di Paolo Crazy Carnevale

8 ottobre 2015

silver lining

VARIOUS ARTISTS
Silver Lining
(Appaloosa 2015)

Inizia con una bella armonica vibrante questo disco. A soffiarci dentro è Mark Olson che accompagnato da Ingunn Ringvold propone una versione minimale della sempre bella Two Angels, uno dei brani che ci avevano fatto amare Hollywood Town Hall, il capolavoro dei Jayhawks.

E il brano ci fa capire quale sia la pasta di cui questa compilation è fatta. Musica essenziale, fatta quasi in casa, ma registrata ottimamente e per di più con l’apprezzabile finalità di contribuire alla ricostruzione della terremotata Emilia. La maggior parte delle registrazioni è stata fatta sul piccolo palco dello studio Music Inside, a Rovereto sul Secchia, e a cantare i brani ci sono piccole glorie locali e nazionali o personaggi d’oltremare (che sia il mar del Nord o l’Atlantico poco importa), in forma acustica o quasi, con una manciata di canzoni vincenti, qualcuna più qualcuna meno. Michael Mc Dermott è presente con due brani, So Am I in cui lo accompagna Heather Horton al violino, e Ever After in cui è solo lui al pianoforte, la cantautrice/violinista Carrie Rodriguez è accompagnata da Luke Jacobs in un’accattivante She Ain’t Me, più avanti il duo s’inverte ed è Jacobs il solista nella meno interessante Church Bells, con la Rodriguez a fare il controcanto. Una delle cose migliori del disco proviene dalle corde vocali e dalla penna dello scandinavo Richard Lindgren, di cui avevo sempre letto bene ed ora ho capito il perché, che esegue Sundown On A Lemontree, grande composizione eseguita in trio con i nostrani Riccardo Maccabruni e Marco Rovino, rispettivamente fisarmonica e mandolino, e come se non bastasse il trio torna verso la fine del disco con Famous Blue Raincoat. Interessanti le soluzioni sonore delle chitarre di Skye Wallace e Miss Quincy col brano Rumbling Soul, il duo come la Rodriguez e Jacobs appare anche con il brano Baby They Should. Altra perla del disco è la versione italo americana della dylaniana It’s All Over Now Baby Blue, qui ribattezzata solo Baby Blue, ad opera di Andrea Parodi e di Bocephus King (questa registrazione non proviene dallo studio Music Inside ma è stata fatta appositamente per il progetto, così come la partecipazione dei Gang con una versione alternativa di Ottavo Chilometro che troviamo più avanti, meno elaborata rispetto a quella contenuta nel recente Sangue e cenere ma comunque impreziosita dalla fisarmonica di Garth Hudson). Bocephus appare poi anche come ospite nel brano di John Strada, Dust And Bloods: e appare chiaro perché il rocker emiliano, ai tempi dei suoi esordi fosse stato ribattezzato nella natia XII Morelli come Springsteeen 16!

La chiusura del disco arriva con un altro americano ormai di casa in Italia (non è un caso che si anche il produttore del recente menzionato disco dei Gang), Jono Manson che in solitudine esegue il brano che da il titolo al disco.

GNOLA BLUES BAND – Down The Line

di Paolo Crazy Carnevale

7 ottobre 2015

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GNOLA BLUES BAND
Down The Line
(Appaloosa 2015)

Maurizio Glielmo, leader di questa band che prende il nome dal suo “nickname”, prima di dedicarsi ad una carriera solista che dura da oltre vent’anni ha prestato le corde della sua chitarra ad quel luminare del blues tricolore che è Fabio Treves. Dal 1989 questa band ha avuto diverse incarnazioni ed ha realizzato alcuni dischi di studio ed altri dal vivo sempre all’insegna dell’autoproduzione. Quest’anno, dopo quattro anni dedicati a rimettere insieme il gruppo, “Gnola” Glielmo ritorna alla grande con l’appoggio della Appaloosa, storica casa indipendente lombarda che oltre a dedicare attenzione a personaggi di diversa importanza del cantautorato e del rock d’oltreoceano (da Dirk Hamilton a Greg Harris, a Skip Battin) nella sua nuova incarnazione concede ampio spazio ai musicisti di casa nostra.

Innanzitutto vorrei dire che il suffisso Blues Band finisce con lo stare un po’ stretto a questa formazione, almeno per quanto riguarda questo disco che va ben oltre le ristrettezze della definizione: certo, è innegabile il fatto che Glielmo e soci partano da radici decisamente blues, ma qui c’è molto di più, c’è il soul (a piene mani), e c’è tanto rock, per lo più di matrice britannica.

Non credo sia un caso che l’unica cover sia un brano dei Rolling Stones, Ventilator Blues (peraltro riletta ampiamente, un po’ in chiave Come Together), impreziosita dal piano di Chuck Leavell che è l’unico ospite del disco, e non è un caso che in un altro brano, di matrice folk invece, The Ghosts Of King Street, le liriche paghino pegno a una lunga serie di musicisti inglesi dagli Who ai Clash passando per Frankie Miller.

Il disco è ben suonato e ben prodotto, con Gnola/Glielmo che tira fuori belle invenzioni dalla sua chitarra e sfodera una voce interessante, con inflessioni che di volta in volta richiamano alla memoria John Hiatt (in Trouble And Pain e in Fallen Angels ad esempio, quest’ultima arricchita da un bel piano elettrico e da un paio di assoli di chitarra ispiratissimi, in particolare quello finale con un wah-wha d’altri tempi, leggermente in odor di Stills), ma anche Mark Knopfler (nella già citata The Ghosts Of King Street). La bellissima Falling Out of Love richiama invece certe composizioni di Van Morrison per come è costruita ed è una ballata che nulla ha a che vedere col blues.

She Got Me Now non è male ma più la ascolto più mi ricorda qualcos’altro, mentre I’ve Been There Before sembra un omaggio al rock blues di matrice più hard e Dangerous Woman Blues ha un che di hendrixiano, senza essere per questo didascalica. In Room Enough la voce è quella del batterista Cesare Nolli ed il brano è uno shuffle abbastanza canonico che vede di nuovo ospite Leavell al piano.

Addio a James Varda

di Francesco Caltagirone

7 ottobre 2015

Il 12 giugno 2015, ma l’ho scoperto solo qualche giorno fa, dopo una lunga malattia, nella sua abitazione di Sheringham, Norfolk, ci ha lasciato James Varda.

A noi restano i suoi meravigliosi dischi, testimonianza di un artista sublime e puro.

A me, il ricordo di un insostituibile e prezioso amico.

ALESSANDRO DUCOLI – Divanomachia

di Paolo Crazy Carnevale

4 ottobre 2015

ducoli divanomachia

ALESSANDRO DUCOLI
Divanomachia
(RNR.CW/D 012 – 2015)

Non so se sia eticamente giusto fare un’autocitazione, ma sono trascorsi otto anni da quando, recensendo un disco del Ducoli, ho scritto di lui che era “l’indipendente per definizione, forse l’ultimo vero indipendente”. Nel frattempo i suoi dischi nei miei scaffali sono più che raddoppiati. Ce ne sono quasi venti con questo Divanomachia. Senza contare le riedizioni e un live semi ufficiale che meriterebbe l’ufficializzazione totale. Per non dire dei progetti abortiti o temporaneamente parcheggiati in naftalina o delle numerose collaborazioni (da Boris Savoldelli, ai Thee Jones Bones, ai Manè): il Ducoli, sia sotto il proprio nome di battesimo che sotto gli pseudonimi di Bacco il matto, Cletus Cobb o My uncle the dog, sembra davvero inesauribile, una fonte di idee e una fucina di canzoni che da quando la sua strada ha incontrato quella del tastierista produttore Valerio “Valeruz” Gaffurini è ancor più prolifica.

Divanomachia è un EP (ma sarà il termine giusto?) di appena 26 minuti, eppure contiene ben dodici tracce, poesie minimali, in buona parte brevissime, romantiche, struggenti. Per chi conosce le vicende del titolare anche ben riconducibili ad un determinato periodo di alti e bassi, perfettamente identificabile di canzone in canzone.

Il sottotitolo è “manuale pratico di navigazione intradomestica”, una dicitura che la dice lunga, per quanto il titolo è la vera genialata di questo “white album” del Ducoli. Un disco bianco a partire dalla grafica (le note sono presenti, alla rinfusa, solo sulla label del disco), che in copertina riporta solo il titolo. Il nome del Ducoli c’è solo sulla costoletta del CD, un CD che si alterna tra intermezzi brevissimi: riflessivi talvolta, talaltra d’ispirazione tristemente circense, con un accompagnamento musicale quasi avvinazzato che non riesce a stemperare la profonda tristezza che li ha generati: Mille modi, Collezioni infinite, Si muore, cantata – quest’ultima – come se il Ducoli fosse in un’osteria a smaltire i postumi di una sbornia del suo torbato preferito, con la cavità orale maleodorante dell’ultimo toscano fumato a metà.

E, tra un intermezzo e l’altro, sgorgano le canzoni fatte e finite, in puro stile Ducoli, grandi canzoni come Ciao ciao, come l’iniziale Il grande inverno con un crescendo strumentale che conquista passo dopo passo con le tastiere di Gaffurini che si dilungano in una coda a base di hammond, Due giorni a primavera con altra bella coda strumentale (oltre a Gaffurini nel disco ci sono solo il basso di Mancini e la batteria di Pavesi, indicati rigorosamente solo col cognome!) e soprattutto Poco male. A volte grandissime come I tuoi meravigliosi occhi, capolavoro del disco.

FABRIZIO POGGI – Il soffio della libertà

di Paolo Crazy Carnevale

3 ottobre 2015

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FABRIZIO POGGI
Il soffio della libertà
(Appaloosa 2015)

Sono passati più di una ventina d’anni dal primo incerto CD di Fabrizio Poggi con i Chicken Mambo, un’autoproduzione un po’ sfilacciata che brillava al contrario per una totale mancanza di produzione sonora. Ma questi anni non sono passati invano, i Chicken Mambo hanno pubblicato altri dischi, hanno cominciato a frequentare gli artisti americani che amavano e a farsi produrre seriamente da gente come quel Merrel Bregante di “logginsandmessiniana” memoria, guadagnando punti e facendosi le ossa offrendo i propri servigi anche agli artisti americani in transito per la penisola.

Fabrizio Poggi, a meno di un anno dal buon disco dedicato al blues più viscerale intitolato Spaghetti Juke Joint ha cominciato a portare in giro uno spettacolo ispirato alla musica che per anni è stata identificata come colonna sonora delle lotte per i diritti civili, soprattutto in quei caldi anni sessanta che hanno avuto il loro massimo momento col famoso discorso del reverendo King (Martin Luther Jr.) a Memphis. Per lo spettacolo, intitolato Il soffio della libertà/Il blues e i diritti civili, Poggi ha assemblato una serie di brani storici di quel filone blues/gospel che ha fatto il giro del mondo in quegli anni attraverso le interpretazione di bluesmen neri e di sostenitori bianchi come Joan Baez, Pete Seeger e altri. Il risultato è un’opera filologica interessantissima, quasi minimale, senza fronzoli, credibile dalla prima all’ultima nota che l’Appaloosa ha pubblicato a mo’ di colonna sonora dello spettacolo. Qui i musicisti diventano tutti secondari, tanto che sappiamo che ci sono perché citati quasi alla rinfusa sul retro di copertina e qua e là ascoltando il disco possiamo riconoscerli (tipo Garth Hudson e di il suo organo in I Heard The Angels Singing o i Blind Boys Of Alabama in I’m On My Way): quel che conta sono le canzoni, interpretate con intensità e convinzione. Non si tratta di brani incisi ex novo, alcuni erano già apparsi in altri dischi dell’armonicista, ma per lo più qui sono state utilizzate versioni alternative o del tutto inedite e la cosa che colpisce maggiormente è che pur risalendo le registrazioni a periodi differenti, il disco suona con un’unitarietà stupefacente!

Poggi non ha la voce nera, ma è calda e il suo modo di interpretare questi brani è autentico, e a metterci il tocco black ci pensano gli ospiti, lui la negritudine la tira fuori dalla sua armonica Marine Band e la soffia in classici come We Shall Overcome (per altro brevissima e messa lì a mo’ di ouverture, Oh Freedom – una delle più note canzoni del movimento per i diritti civili – qui riproposta in maniera molto convincente con dispendio di ospiti (ad occhio e croce direi che l’organo qui è quello di Augie Meyers), Jesus On The Mainline, Precious Lord in versione quasi western, You Gotta Move (che grande armonica sentiamo qui!), la dylaniana I Shall Be Released, in verità legata al periodo storico considerato solo per il rotto della cuffia ma dal testo che ben si adatta alla bisogna. Più che blues gospel, ma non solo gospel. Venature rock appena spruzzate, soul primordiale, qualche riferimento al country blues.

In conclusione il gospel dei gospel, un’intima Amazing Grace che Poggi ha recentemente suonato proprio sulla tomba di Martin Luther King, un brano che racchiude in sé tutto il senso di questa musica, che lo si ascolti nella versione strappalacrime di Elvis, in quella a cappella dei Byrds o in quella con cornamuse recentemente incisa dalle Celtic Woman.

Torna Vinilmania all’Ata Hotel

di admin

2 ottobre 2015

Vinilmania ottobre 2015

Vinilici di tutto il mondo, l’attesa è terminata: i prossimi 17 e 18 ottobre, presso l’Ata Hotel di Via Lampedusa, a Milano, si svolgerà la 87esima edizione della Fiera Internazionale del disco e del CD. Tutte le info nella locandina che qui potete ammirare.

Saremo come sempre presenti con Late e il nuovo numero per il vostro (e il nostro) sommo gaudio!

A presto

LATE FOR THE SKY

Industria musicale, il vinile fa guadagnare più dello streaming

di admin

1 ottobre 2015

Industria musicale, il vinile fa guadagnare più dello streaming – macitynet.it

http://www.macitynet.it/industria-musicale-vinile-guadagnare-piu-dello-streaming/