Archivio di ottobre 2016

I Famosi Impermeabili Blu – Leonard Cohen Storie, Interviste, Testimonianze

di Ronald Stancanelli

30 ottobre 2016

cover_COHEN_B copy

Massimo Cotto
I FAMOSI IMPERMEABILI BLU – Leonard Cohen Storie, Interviste, Testimonianze
VOLOLIBERO EDITORE 2016 220 pag.

Nello stile che aveva caratterizzato i suoi recenti precedenti libri Massimo Cotto imbastisce anche questo nuovo tomo dedicato al grande, grandissimo Leonard Cohen, in modo similare, ovvero con 66 bozzetti ognuno a se stante ma che letti conseguentemente formano un preciso quadro della storia personale, artistica e musicale di questo indomabile personaggio errante senza tempo ma pregno di enorme charme e tantissima classe. Per restare in temi di attualissima cronaca ci preme rammentare che Bob Dylan, novello premio nobel, disse una volta che Leonard Cohen era una delle pochissime persone nelle quali per qualche istante gli sarebbe piaciuto trasformarsi. Massimo Cotto grazie alle Edizioni Vololibero rende così omaggio al grande canadese, artista che più volte ha avuto la fortuna e la possibilità di incontrare, vedi interessanti episodi anche sul suo libro Rock Bazar licenziato dalla stessa casa editrice. In queste circa duecento pagine di I famosi impermeabili blu oltre ai 66 quadretti già citati trovano posto anche nove interviste di Cotto allo stesso Cohen avvenute nel periodo tra il 1984 e il 2001. Inoltre varie testimonianze, nelle parole di artisti come Kris Kristofferson, Fabrizio De André, Lou Reed, David Bowie, Jeff Buckley, Eugenio Bennato, Eugenio Finardi, Jennifer Warnes, Massimo Bubola, Rebecca De Mornay, Violante Placido e molti altri che aiutano ancor maggiormente non solo a comprendere ma a sentire la psicologia di questo personaggio unico e straordinario. Nel libro anche vari disegni dello stesso Cohen, che ricordiamo non essere solo musicista ma anche e soprattutto poeta e scrittore oltre che pittore. Nei testi del suo nuovo disco, Cohen esterna frasi che precludono alla stazione d’arrivo come “I’m leaving the Table, I’m Out of the Game”, “I’m Ready My Lord” e tante altre che lasciamo scoprire a voi in un gioco, forse un po’ triste, ma insolito e sublime di poetica ricerca e, se detto disco come accennato sopra commuove oltre ogni limite, questo libro ci aiuta a capire meglio il sacro fuoco e spirito che arde ancora forte in Cohen e ad entrare maggiormente in sintonia con lui.

LEONARD COHEN – You Want It Darker

di Ronald Stancanelli

30 ottobre 2016

2016LeonardCohenYouWantItDarkerPress

You want it Darker. Questo l’ultimo titolo in ordine di tempo e probabilmente l’ultimo in modo definitivo dell’immensa gigante discografia di Leonard Cohen.
L’artista che avemmo il piacere e il grande onore di vedere recentemente nella sua straordinaria performance nell’ Arena di Verona nonostante il passare degli anni, sono adesso 82, si difende sempre in modo mirabilmente splendido, ai limiti della commozione per chi lo ascolta. E per coloro, i pochi, che magari vengono da un altro universo e non lo conoscono, basterebbe semplicemente un’occhiata al video Dance me to the End of Love per innamorarsene per sempre e sempre per quei pochi, preciso che quel brano e quel video nulla hanno a che fare con questo suo ennesimo eccezionale album. Non servono miriadi di parole o lunghe frasi ad effetto per descrivere questo disco che sembra disceso dalla volta celeste più delicata e cortese che si possa immaginare e basta semplicemente ascoltarne anche solo due/tre tasselli su quattordici, Travelin in Light e It Seemed the Better Way e la title track per battezzarlo immediatamente al primo, primissimo ascolto un capolavoro e gestirlo e nasconderlo tra le cose più preziose che da tempo abbiamo care. Credo che non vi siano parole, che non serva dirne dei musicisti che vi suonano, della produzione o delle solite altre tante informazioni che si danno recensendo un album. E’ un disco bello da piangerci su senza ritegni e vergogna, un capolavoro assoluto. Uscite e andate a procurarvelo, vi illuminerà il cammino.

Sul Nobel a Bob Dylan

di Paolo Crazy Carnevale

26 ottobre 2016

https://www.salto.bz/de/article/17102016/viva-bob-dylan

DWIKI DHARMAWAN – Pasar Klewer

di Paolo Crazy Carnevale

25 ottobre 2016

dwiki dharmawan pasar klewer[22]

DWIKI DHARMAWAN – Pasar Klewer (Moonjune Records 2016, 2CD)

A poco meno di un anno dall’uscita del suo primo disco per la label newyorchese riecco il pianista indonesiano Dwiki Dharmawan, alle prese con un progetto ancor più ambizioso, poliedrico e senza dubbio riuscito. Stavolta al banco di regia al fianco di Dharmawan troviamo nientemeno che il titolare della casa discografica Leonardo Pavkovic, solitamente produttore esecutivo, che qui ci mette del suo per garantire la riuscita di un disco davvero efficace; c’è poi il chitarrista britannico Mark Wingfield che oltre a suon are la sua sei corde elettrica si occupa anche del missaggio e del mastering dio questo doppio CD.

Rispetto al disco precedente, in cui spadroneggiava il Fender Rhodes del titolare, qui Dharmawan preferisce cimentarsi col piano acustico, assemblando una decina di brani tutti piuttosto lunghi in cui inserisce anche molti elementi della musica tradizionale del suo paese, ampiamente esplorata dal catalogo Moonjune grazie alle produzioni di altri connazionali del pianista: ecco quindi fare capolino, tra la scioltezza del pianoforte e la sezione ritmica, strumenti della tradizione e temi tradizionali appositamente riarrangiati da Dwiki.

Ma la genialità di Pavkovic in sede di produzione emerge dalla scelta dei comprimari, tutti abitué della sua casa discografica ma mai usati per altre produzioni con artisti indonesiani accasati presso la Moonjune: così oltre al citato Wingfield, troviamo la sezione ritmica che lo accompagna solitamente, il bassista Yaron Stavi ed il batterista Asaf Sirklis, entrambi israeliani, come il clarinettista Gilad Atzmon, presente anch’egli nelle registrazioni, che si sono tenute a Londra nell’estate del 2015. A far sembrare il gruppo come una sorta di Moonjune Records Allstar Band troviamo poi il chitarrista Nicholas Meier e il cantante Boris Savoldelli. In definitiva un dispiegamento di forze che non poteva di certo fallire l’obiettivo. Il progetto è senza dubbio ambizioso, ma alla fine i risultati ci sono, eccome: dopo la lunga composizione che titola il disco con il piano ovviamente in evidenza e la bella chitarra di Wingfield, troviamo Spirit Of Peace in cui gli elementi etnici si sposano con le acrobazie della sezione ritmica e col clarinetto di Atzmon che inserisce atmosfere proprie della cultura musicale ebraica mitteleuropea a lui familiare. Caposaldo del primo dischetto è probabilmente la versione di Forest, un brano che porta la firma di Robert Wyatt, uno dei grandi amori musicali, forse il più grande, di Pavkovic, che da bravo produttore lo affida all’ispirazione di Dharmawan e alle corde vocali dell’ineguagliabile Boris che ne offre un a versione jazz-blues impeccabile con una bella chitarra elettrica di Wingfield. E lo zampino di Wyatt fa capolino anche nella breve improvvisazione di London In June, che si sviluppa proprio prendendo il la dal tema del brano di Wyatt a cui la label deve il proprio nome.

Sul secondo disco Dharmawan – non dimentichiamo che il titolare è sempre lui – rilegge Lir Ilir, un brano tradizionale e una composizione di Benny Corda intitolata Bubuy Bulan, particolarmente riuscita è la sua composizione originale Frog Dance, con la chitarra acustica di Meier, mentre Life Its Self, composta dal batterista è decisamente molto free e permette a tutto il gruppo virtuosismi e acrobazie, con Wingfield e la sua sei corde decisamente a ruota libera. Gran finale con Purnama intensa e struggente ballata pianistica con di nuovo Meier all’acustica, che pur staccandosi dal contesto generale del progetto conferma la statura dell’autore e dei suoi comprimari conquistandosi la palma come uno dei brani più riusciti del disco. La chiusura è affidata ad una versione strumentale della Forest che avevamo trovato sul primo dischetto, non c’è la voce di Savoldelli qui, ma lo spessore dell’esecuzione rimane.

MOTORHEAD – Clean Your Clock

di Paolo Baiotti

19 ottobre 2016

motorhead clean

MOTORHEAD
CLEAN YOUR CLOCK
UDR 2016

Non era difficile prevedere che la morte di Lemmy Kilmister, indiscusso leader e anima dei Motorhead, nonché voce solista e bassista del trio britannico, sarebbe stata seguita da qualche pubblicazione inedita. Per ora la Udr è stata sobria, limitandosi a questo cd/dvd dal vivo, inciso allo Zenith di Monaco di Baviera nel corso dell’ultimo tour della band. Nel novembre del 2015 le condizioni del musicista erano già precarie: soffriva di diabete e di cardiopatia ed era disturbato da problemi di respirazione che lo avevano costretto ad interrompere o annullare alcune date. Pur non essendo ancora stato diagnosticato il tumore che lo ha stroncato in pochi giorni il 28 dicembre del 2015, si aveva l’impressione che i Motorhead fossero giunti alla fine del loro percorso. Ed era evidente che senza Lemmy si sarebbero sciolti, come hanno dichiarato subito dopo la sua morte i colleghi Phil Campbell (chitarra) e Mikkey Dee (batteria) che lo hanno affiancato per più di vent’anni, formando la line-up più longeva del trio.

Clean Your Clock più che un omaggio è un’istantanea dell’ultimo periodo della band. Lemmy fatica, in alcuni momenti la voce è un rantolo (e sembra mixata un po’ bassa rispetto agli strumenti), ma il suono è sempre quello che ha reso i Motorhead apprezzati da un pubblico trasversale di metallari, punk rockers e appassionati del periodo psichedelico del bassista con gli Hawkwind.

Il concerto è breve, come gli altri del tour, un’ora e un quarto scarsa, con un paio di pause per il leader (assolo di chitarra e batteria). Quindici brani, otto tratti dai tre dischi fondamentali (Bomber, Overkill, Ace Of Spades), altri quattro dagli anni ottanta e tre provenienti dalla produzione del nuovo millennio. Una scelta equilibrata, che conferma l’opinione che gli anni novanta siano stati il periodo meno creativo della formazione.

Le partenza di Bomber è sparata come deve essere, sporca, grezza e ruvida, seguita dal rantolo di Stay Clean percorsa dal basso nervoso di Lemmy e dalla cadenzata e sulfurea Metropolis, classico di Overkill con gli inserimenti lancinanti della chitarra di Campbell. When The Sky Comes Looking For You, unico brano dall’ultimo disco in studio Bad Magic, è un rock ‘n’ roll nel quale la voce appare già affaticata, mentre in Over The Top e The Chase Is Better Than The Catch la band ritrova la vecchia energia. Il sorprendente intermezzo bluesato di Lost Woman Blues concede un attimo di pausa, poi il ritmo accelera con Rock It e una versione cadenzata di Orgasmatron nella quale la voce di Lemmy sembra veramente sul punto di cedere. Ma il vecchio rocker si riprende nel finale con la rabbiosa No Class e le inevitabili riprese di due classici immortali: Ace Of Spades e Overkill, che chiude la serata preceduta dall’atipico blues acustico Whorehouse Blues con Dee e Campbell alla chitarra acustica e il cantante anche all’armonica. Il dvd/blu-ray ha la stessa scaletta, aggiungendo come bonus alcune interviste. Non è sicuramente il live definitivo dei Motorhead, ma un degno ricordo del tour conclusivo del trio.

ALLMAN BROTHERS BAND – Live From A&R Studios, New York

di Paolo Crazy Carnevale

17 ottobre 2016

Allmans Live-From-AR-Cover

ALLMAN BROTHERS BAND – Live From A&R Studios, New York (Allman Brothers Band Recording Company 2016)

Un gioiello: non ci sono altri termini per descrivere questo irrinunciabile disco catapultato in commercio quasi in sordina dagli archivi della band sudista per antonomasia, laddove sudista non è chiaramente un riferimento alle posizioni politiche bensì allo stile di vita e alle radici del suono. In realtà non si tratta di materiale sconosciuto, anzi, il brano “perla” del disco – la versione di You Donm’t Love Me – era già apparso nel cofanetto Dreams uscito sul finire degli anni ottanta e nel fantastico box dedicato a Duane Allman e alle sue registrazioni.

Il concerto intero poi girava in qualche modo tra i collezionisti e, trattandosi di un concerto radiofonico, era stato semi ufficializzato dagli albionici qualche tempo fa: stavolta però ci troviamo di fronte alla versione legale, quella voluta da casa Allman!

Il suono è fenomenale, l’esibizione da cinque stellette – per quel che valgono – e d’altra parte siamo nell’estate del 1971, l’Allman Brothers Band in quel periodo era davvero quanto di meglio ci fosse in giro, all’apice del successo con il doppio vinile del Fillmore East in circolazione da appena un mese, una fama in costante crescita ed un chitarrista che grazie anche al suo lavoro di studio con altri artisti era stato catapultato nell’Olimpo dei migliori in circolazione.

Nel giro promozionale legato all’uscita del doppio dal vivo, il gruppo fu invitato a suonare negli studi A&R dove in quel periodo si esibivano spesso gli artisti, tenendo concerti che venivano poi trasmessi dalla stazione radio WPLJ, sui 95.5 MHZ in modulazione di frequenza. Duane e Greg vi si erano esibiti poco tempo prima insieme a Delaney & Bonnie and Friends, coi quali Duane suonava ogni volta che non era in tour con i “fratelli” e in quell’occasione alla session prese parte anche il sassofonista nero King Curtis, ucciso sotto casa propria poco tempo dopo. E proprio a questo tragico evento è dovuta la presenza – all’interno di You Don’t Love Me di una lunga e succulenta citazione del brano di Curtis Soul Serenade, cosa che rende unica oltre che bellissima questa versione del classico di Willie Cobb.

Ma questo brano, che con i suoi quasi venti minuti di durata è il tour de force del CD, non è l’unico tesoro del disco, che è un gioiello nel complesso: il gruppo è quello classico del primo periodo con il sound già ampiamente padroneggiato e distinto, non c’è una virgola fuori posto, gli applausi a scena aperta lo testimoniano, la registrazione come già detto è fantastica, e la scaletta è quasi un classico: dei brani che apparivano nella versione originale di At Fillmore East manca solo Whippin’ Post, in compenso ci sono One Way Out, Don’t Keep Me Wonderin’ e Trouble No More che lì non erano incluse.

La sezione ritmica che non perde un colpo, la voce di Greg matura al punto giusto e l’interplay delle chitarre di Duane e Betts col suo organo continua ad essere unico, sempre lo stesso e nel contempo sempre diverso: i fraseggi delle tastiere su In Memory Of Elizabeth Reed fanno drizzare i peli sulla schiena, e Stormy Monday è da urlo, Statesboro Blues continua ad essere il brano d’apertura ideale – non a caso era posto come traccia numero uno anche nel doppio vinile dal vivo, mentre per gli altri pezzi l’ordine cambia. Hot’lanta è sempre una bella prova della capacità del gruppo di creare un tema incalzante e infuocato su un giro improvvisato mentre i diciannove minuti e mezzo del medley You Don’t Love Me/Soul Serenade – introdotta a voce Duane stesso, con un breve commosso ricordo di King Curtis – sono una forza della natura: sul sostenuto riff di tastiere e sui consolidati interventi di chitarra che sono il marchio di fabbrica della prima composizione si innestano i delicati giri dello strumentale di Curtis, in una sorta di botta e risposta ripetuto più volte tra un brano e l’altro.

Credo di non sbagliare dicendo che se non fosse uscito poco prima At Fillmore East questo sarebbe stato il live ideale dell’Allman Brothers Band, per fortuna, dopo ben quarantacinque anni, hanno pensato di sdoganarlo integralmente consegnandoci una fotografia bellissima di un momento magicamente irripetibile: fotografia che avrebbe irrimediabilmente preso fuoco dopo appena un paio di mesi, col tragico incidente in cui Duane perse la vita. Ma questa è storia nota.
A noi restano questo disco, autentico monumento alla sua arte, e le fotografie che ne corredano il booklet ricco di informazioni sul concerto.

JUNE STAR – Pull Awake

di Ronald Stancanelli

13 ottobre 2016

June Star pull awake[136765]

JUNE STAR
PULL AWAKE
2015 autoprodotto

Anche se sembra il cd di un artista in solitario percorso June Star non si riferisce ad un nome e cognome bensì a un gruppo, gruppo tra l’altro molto piacevole che potrebbe ricordare a molti di noi per quanto concerne certo alternative country gruppi come i Willard Grant Conspiracy, i Son Volt, la Scott Laurent Band, gli Uncle TuPelo,i Buffalo Tom, i Whiskeytown e ….. insomma il territorio nel quale si muovono i June Star è quello lì.

Un suono decisamente piacevole per una band che lascia sicuramente il segno, formatisi ormai nel 1998 sono già arrivati ormai oltre i dieci albums, anche se da noi non è che siano molto noti. Eccellente la profonda e dosata voce del cantante Andrew Grimm, mai fuori tono che caratterizza indubbiamente lo stile del gruppo, Grimm che suona anche le chitarre e il banjo. Abbiamo poi Kurt Celtnieks alla batteria, David Hadley alla pedal steel e Andy Bopp alle tastiere, chitarre elettriche e percussioni. Loro vengono da Westminster, cittadina nei pressi di Baltimora nel Maryland e hanno preso il loro nome dalla scrittrice Flannery O’ Connor che aveva utilizzato il nome June Star per un personaggio nel suo libro di novelle A Good Man is Hard to Find del 1955. La O’ Connor autrice di soli due romanzi, La saggezza nel sangue (1952) e Il cielo è dei violenti (1960) ma di moltissime novelle memorabili imperniate in situazioni grottesche e ricche di personaggi indimenticabili che sottintendevano come nella vita di tutti le vicende fossero spesso determinate da circostanze imponderabili ed imprevedibili, visse solo 39 anni, morì nel 1964, a causa di una grave malattia, detta lupus, che aveva ereditato dal padre, ed è una delle romanziere del sud più note e amate negli Stati Uniti.

Tre ballate strepitose, House Call, Walk Away e Atrophy, caratterizzano questo album che mescolando con perizia rock, folk e country ci regala un gruppo di estrema solidità guidato da un leader di notevole forza e prestigio che potremmo sicuramente avvicinare a personaggi carismatici già più noti e affermati. Ma non solo queste due canzoni citate ci inducono propendere per un positivo riscontro riguardo a questo lavoro, anche molti altri pezzi come Proof, Coma e The King is Dead colpiscono notevolmente di primo acchito e come amo spesso dire quando un iniziale ascolto inebria l’ascoltatore, allora siamo tutti sulla buona strada. Prodotto da Andy Bopp si avvale di una sottile confezione cartonata che si apre piacevolmente ad lp e di una copertina semplice ma significativa.

ELSA MARTIN/MATTEO ANDRI – Amors

di Ronald Stancanelli

13 ottobre 2016

ELSA MARTIN AMORS[125594]

AMORS
ELSA MARTIN-MATTEO ANDRI
Project Colonos 2015

In occasione del Premio Tenco 2012 avevamo scoperto l’artista friulana Elsa Martin col suo ottimo disco Verso, album che ci aveva colpito particolarmente e che oggi è seguito dall’interessante Amor, lavoro sempre in dialetto o lingua friulana nel quale la brava e bella cantante si fa aiutare dal validissimo pianista Matteo Andri. Questa opera di indubbio spessore educativo-musicale edita dall’associazione Culturale Colonos in collaborazione con la provincia di Udine è un progetto ideato da Renato Miani che ha trasportato in una versione per pianoforte e voce alcune liriche della raccolta Amors del poeta Pierluigi Cappello. Il risultato finale sono stati tredici brani caratterizzati dalla voce della Martin e dal pianoforte di Miani senza altra strumentazione. Il dischetto si conclude con Verrà l’inverno, un pezzo del poeta letto da lui stesso. Album decisamente importante, ovviamente principalmente per quello che concerne il circondario friulano, ma che si fa apprezzare dopo ripetuti ascolti che aiuteranno l’ascoltatore ad entrarne in sintonia. Dicemmo all’epoca del precedente disco della Martin, anche se qua più che un vero e proprio suo album credo di debba parlare di progetto, che indubbiamente il friulano a differenza di altri dialetti non è tra i più recepibili all’istante e, fermo restante la bontà dell’opera, necessita una pervicace costanza da parte di chi lo ascolta orientata su ripetute audizioni. Dotato in un esauriente libretto che porta sia le liriche originali che la traduzione in italiano quello che colpisce, oltre la bravura del musicista e della cantante, sono i seducenti versi intrisi di passione e sensualità che se non recepiti in pienamente nella versione originale si esplicano vividi nella traduzione in lingua italiana. La Martin, oltre a notevoli consensi al Tenco, fu finalista, ha vinto anche un Premio Parodi e uno della critica titolato a Bianca D’Aponte ci stupisce e colpisce ancora una volta con un’altra opera accademicamente e sapientemente dotta ed importante. Non sono questi certo i dischi che fanno cassetta e vendite iperboliche, ma bensì opere che riconciliano con certa cultura, il sapere, il ricordare, il bearsi di certa piacevolezza e che sicuramente rendono più ricchi e preziosi verso un linguaggio che, in questo caso abbellito da musiche, è di fondamentale importanza. Credo si debba dire un forte grazie a Pierluigi Cappello, Renato Miani, Matteo Andri e alla cara Elsa Martin per la loro composita forma d’arte che ci ha affascinato. Bella confezione cartonata con estremo risalto del titolo nella front cover.

BEN GLOVER – The Emigrant

di Ronald Stancanelli

13 ottobre 2016

Ben Glover The-Emigrant[125418]

BEN GLOVER
THE EMIGRANT
Appaloosa Records 2016

Dell’irlandese Ben Glover del cui recente gruppo/progetto, gli Orphan Brigade, abbiamo parlato mesi fa e che abbiamo visto dal vivo in un eccellente performance al Giardino di Lugagnano-Vr, sempre benemerito per tutti i concerti che propone, abbiamo tra le mani The Emigrant suo lavoro in uscita in questi giorni per la Appaloosa .

Ben Glover che vive a Nashville, mette come spina dorsale del suo lavoro come evidenziato dal titolo appunto l’emigrazione, con un pugno di brani di cui sei tradizionali rivisitati, tre scritti assieme ad altri artisti corrispondenti ai nomi della Mary Gauthier, di Gretchen Peters e Tony Kerr mentre uno totalmente a sua firma. Tema questo che trae spunti sicuramente dalla situazione internazionale attuale e anche dal fatto che lui stesso essendosi spostato dall’Irlanda agli Stati Uniti ha vissuto questi cambiamenti con relative questioni di adattamento e burocrazia o problematiche da sostenere e risolvere. Infine da considerare che l’artista nordeuropeo ha tempo fa attraversato un periodo di notevole interesse riguardo la musica tradizionale irlandese e relative ballad-song folk delle sue parti. Tutto ciò a dato forma a questo album della durata classica degli lp di una volta, quaranta minuti circa.

Interessante nel suo background musicale il fatto che da giovanissimo già suonava e proponeva nel suo paese brani e ballate di Springsteen, Johnny Cash, Hank Williams, Dylan e quando per motivi universitari, studiava a Boston, era negli States lì proponeva pezzi della sua terra come canzoni dei Pogues o di Christy Moore; interessante interscambio che sicuramente deve avergli giovato parecchio nella sua formazione musicale. Alcuni anni fa, nel 2009, si è trasferito a Nashville ove si è molto interessato a certa cultura musicale americana che lo ha portato nel 2014 al suo album solista Atlantic nel quale è riuscito con notevole bravura a fondere sonorità diverse mescolandole in modo molto costruttivo e adesso con questo suo secondo lavoro porta avanti il suo percorso sonoro. Molteplici sono stati i pezzi di folk irlandese che Glover aveva selezionato e provato per questo progetto, pare oltre una quindicina mentre la title track The Emigrant è stato il primo puzzle composto per questo disco concepito in solitaria nelle campagne irlandesi e poi portato a compimento assieme alla Peters. Altri sette musicisti lo accompagnano in questo interessante viaggio prodotto da lui stesso assieme a Neilson Hubbard che nel disco suona basso, percussioni e piano e compagno con lui negli Orphan Brigade. Tra i pezzi proposti una scarna ma incisiva versione, ma molto più lenta, decisamente folk, di And the Band played Waltzing Matilda, che molti conoscemmo grazie ai Pogues. Disco molto bello e ricco di pathos, sentimenti e luminose parole, tra l’altro il libretto come era stato per il disco degli O. Brigade contiene anche la traduzione dei pezzi in italiano. Come dice giustamente l’artista “ A modo nostro siamo tutti alla ricerca del nostro posto nel mondo e proprio come gli emigranti desideriamo trovare pace e un senso di appartenenza dato da quella sicurezza di essere a casa. “ Quindi se a volte per cause di forza maggiore chi emigra trova una situazione più consona a un modo di vivere più sereno e tranquillo nel contempo perde quel filo che lo lega indissolubilmente al suo posto di piena e reale appartenenza. Comunque se conoscete lo splendido brano di Jonas Fjeld e Jim Sherraden che era in Danko-Fjeld-Andersen , eccellente disco del 1991 potete avere un’immediata idea di quello che significa e manifesta il disco di Glover che ci permettiamo vivamente di consigliare . La copertina è un particolare del bel dipinto The Crossing di Eamonn Higgins, scultore/pittore contemporaneo nordirlandese specializzato in sculture e quadri prevalentemente di animali.

JENAI HUFF – Color Wheel

di Paolo Baiotti

7 ottobre 2016

Jenai+cd+release+party

JENAI HUFF
COLOR WHEEL (Jenai Huff 2016)

Californiana di nascita, Jenai si è trasferita a New York dove si è integrata nella comunità dei cantautori folk. Lavora con una band chiamata The Core Four, formata da esperti musicisti locali: il produttore e tastierista Ben Wisch (ha vinto un Grammy per l’esordio di Marc Cohn), il cantautore Eugene Ruffolo (chitarra acustica e backing vocals), il chitarrista George Naha (coautore delle musiche con Jenai, esperto session man con Aretha Franklin, Donald Fagen, Roy Orbison e molti jazzisti), il bassista Zev Katz (James Taylor, Bette Midler, Donald Fagen…) e il batterista Chris Marshak (Steve Winwood, Bob Malone…). Ha esordito nel 2011 con Transitions, seguito due anni dopo dal mini album Grace & Elbow Greese e ora da Color Wheel. Jenai predilige le tonalità intime e tenui, che si adattano alla sua voce melodica, morbida, delicata, priva di aggressività e ai testi poetici prevalentemente basati su rapporti ed esperienze personali. La band costruisce un tappeto sonoro elettroacustico con un uso moderato della batteria e la prevalenza di atmosfere jazzate come nella romantica Where Did It Go?, rinforzata da un raffinato assolo di George Naha, perfetto per un’autrice che si ispira a nomi del passato come Carole King e Joni Mitchell. La difficoltà di porre fine a un rapporto viene raccontata con discrezione e toni eterei in Seconds And Inches e con malinconia in Now It’s Time, mentre l’avvolgente Out Of Nowhere descrive la nascita di un nuovo rapporto, Time Stood Still la sensazione unica di abbracciare il proprio bambino appena nato e la title track la forza data da un rapporto solido, con morbidi tocchi di piano e chitarra e backing vocals appena accennati. Alla lunga la prevalenza di tempi lenti e tonalità sommesse lascia una sensazione di ripetitività e di tedio, nonostante la raffinata cover di What’s Going On di Marvin Gaye aggiunga un pizzico di soul. Per fortuna il disco dura meno di 35’, ma qualche cambio di ritmo sarebbe stato gradito.

TEXAS MARTHA AND THE HOUSE OF TWANG – Long Way From Home

di Paolo Baiotti

7 ottobre 2016

long-way-cover

TEXAS MARTHA AND THE HOUSE OF TWANG
LONG WAY FROM HOME (Texas Martha.com 2014)

Marty Fields Galloway è una cantautrice degli Appalachi nata in una famiglia con origini nell’est del Kentucky e nel West Virginia con il folk e il country nelle vene. Si è fatta da sola, sia come chitarrista che come cantante, imparando molto da esperienze con Merle Travis e Ricky Skaggs. Dopo un paio di tour europei si è trasferita per parte dell’anno a Bordeaux, dividendosi con la residenza texana di Austin. Per Long Way From Home ha ribattezzato la sua band Texas Martha & The House Of Twang per richiamare le sue radici musicali country-rock e Red Dirt (un mix prevalentemente texano, seppur nato in Oklahoma, di rock, folk, country, blues, bluegrass, western swing, honky tonk…un po’ di tutto con un suono riconoscibile pur essendo difficile da definire) in un album basato sulla pedal steel e sulle chitarre “twangy” (il tipico suono country vibrato e metallico). Accompagnata da una competente band francese formata da Serge Samyn al basso e contrabbasso, Lionel Duhaupas alla chitarra e pedal steel e Herve Chiquet alla batteria, ha composto i dieci brani del disco inciso a Bordeaux e masterizzato a Nashville, aiutata da una campagna di raccolta fondi su Kickstarter. Voce chiara e ben modulata pur non risultando molto personale e un suono pulito caratterizzano un disco divertente, energico e pieno di entusiasmo che alterna ballate a tracce ritmate e trascinanti con apprezzabile fluidità. Tra le prime spiccano l’autobiografica Street Of Bordeaux, dedicata alla città adottiva, cantata parzialmente in francese, l’elettroacustica Long Way From Home con un riuscito intreccio di armonica, elettrica e pedal steel e Johanna caratterizzata dall’organo e dal piano di Vincent Samyn, tra le seconde la travolgente Born To Boogie che apre il disco tra rockabilly e blues, la swingata Do As You Are Told con una chitarra deliziosa, l’honky-tonk Take You Down nel quale la solista si prende il giusto spazio e il trascinante rock blues Gotta Move, texano fino al midollo.

ANNIE KEATING – Trick Star

di Paolo Baiotti

7 ottobre 2016

trick star

ANNIE KEATING
TRICK STAR (Annie Keating 2016)

Il Village Voice l’ha definita “un saggio mix della scrittura di Lucinda Williams e della chitarra di Gillian Welch con una voce personale…un incrocio tra Willie Nelson e John Prine…non può riuscire meglio di così”. La musica e la scrittura di Annie Heating contengono questi elementi ma, francamente, questa definizione mi sembra esagerata. Stiamo parlando di una cantautrice onesta, intima, con una voce sussurrata appena arrocchita con qualche tonalità ombrosa e misteriosa, che suona folk venato di country con un pizzico di rock. Originaria di Boston, ha esordito nel 2004 con The High Dive, seguito da cinque dischi prima di questo Trick Star (dedicato alla sua amata bicicletta). Nonostante le buone premesse e un paio di album interessanti non è riuscita ad emergere più di tanto, guadagnandosi una discreta fama in Gran Bretagna (il d.j. Bob Harris ha spesso trasmesso le sue canzoni su BBC Radio 2). Ha un valido gruppo di collaboratori che comprende Steve Mayone (chitarra e mandolino), Jason Mercer (basso), Chris Tarrow (chitarra), Yuval Lion (batteria) che dipingono Trick Star con pennellate raffinate e arrangiamenti gustosi, ma i problemi sono la scrittura e la voce, entrambe monocordi. Se è vero che mediamente le canzoni sono discrete e ascoltabili, dopo un po’ questa caratura media diventa un limite, in assenza di sterzate o virate verso l’alto. Gli episodi più riusciti mi sembrano Time Come Help Me Forget con le chitarre tra Byrds e Tom Petty, l’ottimistica You Bring The Sun e Trick Star dove il ritmo e le chitarre si impennano almeno un pochino, mentre sul versante delle ballate scelgo il country educato di In The Valley rispetto alla gentilezza monocorde di Trapeze e Orchard. Nel finale l’allegra Creatures è ravvivata dalla tromba di Shane Endsley, mentre l’intima Phoenix assume una veste sorprendente con l’azzeccato intervento del Brooklyn Youth Chorus.

LOVE ON DRUGS – I Think I’m Alone Now

di Ronald Stancanelli

7 ottobre 2016

Love on  Drugs[86557]

LOVE ON DRUGS
I THINK I’M ALONE NOW
PARAPLY Records 2016

Il nome Love on Drugs che identificherebbe il nome di una band è praticamente invece il nome d’arte, in questa occasione, per la carriera solista del chitarrista svedese Thomas Pontén già leader del gruppo nordico dei Little Green, band specializzatasi nel genere Americana, ormai termine consueto per definire un genere musicale che vuol dire molto e anche non vuol dire nulla, tanto e molto abbraccia musicalmente questo termine, peraltro ormai alquanto abusato. Si tratta di un piacevole disco acustico caratterizzato anche da una certa brevità, circa 25 minuti per soli otto brani ma tutti di notevole e piacevolissima fattura. L’album prende il nome ed inizia con il delizioso country rock I Think I’m Alone Now, pezzo dello stesso Pontén del 1987, qui recuperato e rimesso a nuovo per l’occasione.
Il dischetto è dedicato all’amico e collega Andreas Johanneson ( 1973-2015) autore del bel brano River Keep on Flowing composto assieme a Pontén, molto in stile Jim Croce, e voce nel pezzo Watercolors piacevolmente ritmato, scomparso l’anno scorso in un tragico incidente. Prodotto da Pontén medesimo l’album si avvale del bassista Krister Selander e della seducente voce di Jessica Bah Rosman in due pezzi, nella title track e nell’affascinante dolce ballata Queen Size Bed. Album uscito in Europa in rigida singola copertina cartonata come spesso si fa coi cd promozionali o mini con pochi brani. Diciamo che hanno il grande vantaggio di occupare pochissimo spazio. Copertina decisamente poco attraente con una foto dell’artista alquanto anonima e nebulosa. Ma il disco è molto carino, quasi solare nella sua uniformità acustica country folk, e la canzone finale Get Away tra il dylaniano e i Flying Burrito Brothers ce lo conferma.

Ad Agrate la prima edizione di Brianza Vinilica

di admin

7 ottobre 2016

Locandina Agrate Brianza[130418]

si svolgerà il prossimo 16 ottobre, ad Agrate Brianza, la prima edizione di BRIANZA VINILICA, fiera del disco, del CD e del DVD, un appuntamento irrinunciabile per i devoti amatori del disco in vinile che potranno setacciare bramosi le migliaia di long plain, 45 giri, e così via, oltre a una grande varietà di CD e DVD musicali e non, alla ricerca del disco perduto.

la manifestazione si svolgerà all’interno della Cittadella della Cultura “Mario Rigoni Stern”, in via G.M.Ferraio 53.
L’ingresso è gratuito. Orario: 10.00/18.00 CONTINUATO.

VI ATTENDIAMO E… BUON VINILE A TUTTI!

GYPSY SOUL – True

di Ronald Stancanelli

4 ottobre 2016

GYPSY SOUL[86128]

GYPSY SOUL
TRUE
Off The Beaten Track records 2016

I Gypsy Soul sono un duetto, lei Cilette Swann dotata di una piacevole ed incisiva voce e lui, Roman Morykit che suona chitarre, basso e drum programming. Li aiutano Michael Forney alla batteria e al djembe che sarebbe un tamburo a calice dell’Africa occidentale, Michal Palzewicz al cello e Mikey Stevens ai fiati e tromba. La voce di lei, man mano che i brani si susseguono è decisamente interessante, se proprio si vuole, può ricordare come timbrica quella di Carly Simon nei suoi momenti giovanili migliori, ma anche Jennifer Warnes o Wendy Waldman, quindi molto anni settanta oriented. Undici brani di cui nove a loro firma, un traditional come Amazing Grace che fa spessissimo capolino nei dischi americani e una bellissima versione di Hallelujah di Leonard Cohen. Decisamente una versione molto particolare ed avvincente con la voce della Swann che sale e scende quasi in modo impertinente. Non raggiunge il pathos ne di Cohen ne di Buckley ma è sicuramente una delle versioni più accattivanti di questo straordinario pezzo. I due, marito e moglie di Jacksonville, Oregon danno vita ad un album interessante e piacevole nel quale trova posto anche Magic Carpet Ride, un energico e piacevole strumentale. Da segnalare Mirabelle, bellissimo brano nel quale la voce della fanciulla eccelle e la chitarra di Roman tratteggia con malcelato soul un brano dalla grinta e dalla musicalità molto avvincente. Molto, molto belle anche He wore Sandals in the Snow e specialmente You’re Everything to me, che ancora una volta amplificano la bravura della cantante. Album numero tredici per questo apprezzabile duo che coniuga con facilità e notevole abilità folk, soul e pop ottenendo un risultato decisamente ammirevole nel quale risalta in primis, come più volte accennato, la voce della Swann. Lavoro ordinato e piacevole, può essere un’ eccellente musica per le serate trascorse in casa sia in compagnia di amici che da soli con un buon libro e un buon bicchiere che in due, intersecati in qualsivoglia piacevole diversivo. Armoniosa e ben fatta la foto di copertina in bianco e nero con giustamente lei in primo piano e in seconda battuta un po’ sfocato lui. Bel disco senza dubbi alcuni.

A Legnano la Fiera del Disco

di admin

4 ottobre 2016

legnano5small

La prossima domenica, 9 ottobre, si svolgerà a Legnano (MI) la Fiera del Disco e del CD.
Dalle ore 10 alle 18,30, in via Maestri del Lavoro, 27, presso Land Of Freedom.

Ingresso GRATUITO
BUONA CACCIA A TUTTI I VINILOMANI!

THE CARNIVALEROS – Dreams Are Strange

di Ronald Stancanelli

2 ottobre 2016

thecarnivaleros3[86257]

THE CARNIVALEROS
DREAMS ARE STRANGE
Roota Vega Records 2015 in Europa uscito 29/3/2016

Album questo, di brani sia strumentali che cantati che sono stati composti da Gary Mackender per serie televisive e film tv di genere gotico e fantastico. Quinto album del gruppo denominato The Carnivaleros cui fanno parte appunto i fratelli Mackender ed altri sei musicisti accreditati, che pur con brani formati per momenti cinematografici non disdegnano affatto uno stile a se stante fatto di soffuse ballate, spruzzate di folk, istanti tex-mex e zydeco, appalachian music e attimi ballabili di allegra matrice roots. Disco piacevole pregno di atmosfere che avevamo già assaggiato con gli Orphan Brigade nel loro ottimo Ghost Story, si distingue per notevole scorrevolezza e per una ricca strumentazione che fa capo a suggestive chitarre, banjo, mandolini, tambourine, lap steel, parade drum, violin, vibraphone che fanno anche tanto il paio con le emozionanti atmosfere de la Band negli scantinati dei loro Basement Tapes. Circa 50 minuti di eccellente musica prodotta da Gary Mackender e Karl Hoffmann e da quest’ultimo mixata negli Homestead Studios a Tucson, Arizona . Sapientemente curata e deliziosamente vintage la bella foto di copertina. Confezione cartonata molto semplice e sottile come un cd singolo ma con le specifiche per recuperare in rete testi e crediti vari.

FOGHAT – Under The Influence

di Paolo Baiotti

1 ottobre 2016

Foghat-Under-The-Influence

FOGHAT
UNDER THE INFLUENCE
Foghat Records 2016

Pur essendo considerati uno dei gruppi di classic rock americano più popolari degli anni settanta, i Foghat hanno origini inglesi, nascendo dal ceppo del british blues dei Savoy Brown. Nel ‘70 Kim Simmonds, chitarra solista e leader indiscusso della formazione, decide di cambiare per l’ennesima volta la line-up e scarica Dave Peverett (chitarra e voce), Roger Earl (batteria) e Tony Stevens (basso). Il trio prosegue insieme formando i Foghat con Rod Price (chitarra solista e slide, ex Black Cat Bones). Dall’omonimo esordio del ’72 prodotto da Dave Edmunds sono passati più di 40 anni, ma il gruppo è ancora attivo specialmente negli Usa dove ha una solida popolarità, anche perché le radio continuano a trasmettere i loro successi di quel decennio testimoniati da otto dischi d’oro o di platino. Alla fine degli anni settanta le vendite sono diminuite e la formazione si è sfaldata iniziando una serie di cambiamenti senza fine. L’unico membro originale ancora in sella è Roger Earl; Rod Price ha lasciato nell’80 (ed è morto nel 2005), Dave Peverett nell’84 (ed è morto nel 2000), Tony Stevens nel ’75. Ognuno di loro è tornato per qualche tempo nel gruppo, fino alla ricostruzione del quartetto originale nel ’94, durata cinque anni e un paio di dischi. La formazione attuale oltre a Earl comprende Craig MacGregor al basso, Bryan Bassett (Molly Hatchet) alla chitarra e slide e Charlie Huhn (Ted Nugent, Gary Moore, Humble Pie) alla voce e chitarra, che suonano insieme da più di quindici anni. Caratterizzati da sempre da un boogie influenzato dal blues e potenziato dai decibel di un hard rock non troppo pesante, i Foghat hanno accentuato la durezza del suono con l’inserimento di Huhn e Bassett, pur mantenendo le influenze blues. Anzi Last Train Home del 2010 ha rappresentato un ritorno alle radici voluto da Earl per ricordare Peverett. A sei anni di distanza, promosso da una campagna di grande successo su Pledge Music, esce Under The Influence, prodotto dall’esperto Tom Hambridge (George Thorogood, Buddy Guy, Susan Tedeschi…) e inciso nei casalinghi Boogie Motel South in Florida e nei Dark Horse Studios di Nashville con alcuni ospiti: il cantante e chitarrista Scott Holt, l’ex bassista e produttore della band Nick Jameson, la cantante Dana Fuchs e soprattutto il vecchio collega Kim Simmonds.
Under The Influence è un disco di rock energico e dinamico, a partire dalla trascinante title track nella quale spicca la slide di Simmonds. Se qualche traccia non brilla per originalità come la dura Knock It Off che potrebbe essere scambiata con una outtake degli Ac/Dc (ricorda Girls Got Rhythm) e la cadenzata Ghost, complessivamente il quartetto se la cava egregiamente, dalla bluesata She’s Got A Ring In His Nose al funky swingato di Upside Of Lonely illuminato dalla solista di Simmonds, dalla robusta cover di Heard It Through The Grapevine alla brillante ripresa di Made Up My Mind dal repertorio dei Savoy Brown, dal singolo Hot Mama che riproduce il suono del periodo migliore della band alla mossa Honey Do List cantata da Scott Holt e Dana Fuchs, per chiudere con l’energica ripresa di Slow Ride, il brano più famoso dei Foghat, inciso su Fool For The City nel ’75 e dal vivo nel classico Foghat Live del ’77.