Archivio di novembre 2013

Pere Ubu 1995/20..: Verso l’infinito, ed oltre.

di Marco Tagliabue

19 novembre 2013

Fra gli scarsissimi video che un insolitamente così avaro YouTube dedica ai Pere Ubu, è abbastanza facile incappare nella puntata di un David Letterman Show di qualche anno fa con la band di David Thomas, per nulla a proprio agio sotto quei popolari riflettori televisivi, impegnata ad eseguire il proprio brano pop per eccellenza, quella Oh Caterine che, nel tentativo di sospingerlo verso le zone alte delle classifiche, stava trascinando il gruppo verso una nuova, salutare, autodistruzione. Si era più o meno intorno al 1991: l’epoca di “Worlds In Collision”, terzo album del periodo Fontana e secondo tentativo, per fortuna non riuscito, di diffondere il verbo Ubu alle masse. Forse saranno state anche le battute non sempre irreprensibili del sagace anchorman televisivo a far capire a David Thomas che quello non era il suo mondo ed a riportarlo sulla retta via: dopo un lavoro messo insieme alla bell’e meglio l’anno successivo, “Story Of My Life”, il processo di disgregazione della band giungeva a naturale compimento ed il corpulento cantante tornava a rifugiarsi in seno a quella carriera solista che, in quegli anni, costituiva probabilmente la naturale propagazione dell’originale spirito dei Pere Ubu. Un periodo da dimenticare, quindi, quello della seconda incarnazione degli Ubu? Tutt’altro: un grande disco (“The Tenement Year”, 1988), un paio d’album di “pop” di classe (“Cloudland”, 1989 e “Worlds In Collision”, 1991) e quello che rimane probabilmente il punto più basso, ma poi non così rasente il suolo, di una carriera fino a quel momento esemplare, il fiacco “Story Of My Life” (1992). Poi la naturale implosione ed il nulla, quello definitivo? Forse il Re questa volta era morto per davvero, ma per Thomas non si profilava certo la pensione. Titolare di una carriera solista semi clandestina che aveva generato cinque album fra il 1981 ed il 1987, in seguito raccolti nel cofanetto “Monster” (Cooking Vinyl, 1996), più un live addirittura fantasma, quel “Winter Comes Home” di cui il Nostro arriverà perfino a negare l’esistenza, David riscopre una vena più sperimentale con i Two Pale Boys, l’esperienza nata dall’incontro, avvenuto già agli inizi degli anni novanta, fra il leader dei Pere Ubu ed i due polistrumentisti Keith Molinè e Andy Diagram. Il primo album della nuova formazione, “Erewhon” (Cooking Vinyl, 1996), oltre ad essere un disco bellissimo, è il lavoro che definisce l’estetica che ispirerà la vicenda umana ed artistica di Thomas negli anni successivi e che, giusto dodici mesi prima, era anche stata alla base del ritorno in grande stile della più grande Araba Fenice che abbia attraversato i cieli della musica rock.

“Ray Gun Suitcase” (Tim Kerr/Cooking Vinyl, 1995) è il primo, quasi inconsapevole tassello, di quella geografia del “nessun luogo” le cui mappe immaginarie verranno districate da Pere Ubu e Two Pale Boys nel decennio successivo, alla ricerca delle coordinate di un suono speculare ma profondamente distante che ha pochi termini di paragone nella popular music degli ultimi due/tre lustri. “Erewhon è l’anagramma di Nowhere. Si tratta di un album ‘utopico’: erewhon, nowhere, un posto che non esiste. Amo i luoghi, soprattutto quelli che non esistono, ecco perché arriverò a ‘Pennsylvania’ dopo Erewhon. Tutto quanto ha a che fare con la geografia, il suono stesso ha a che fare con la geografia; in particolare i suoni moderni, i suoni dell’era magnetica, hanno a che fare con lo spazio, e lo spazio viene compreso da noi in termini di geografia. Dietro a tutto il rock’n’roll c’è la nozione del suono come geografia. Oggi però le persone vivono progressivamente in luoghi che non esistono, in città che non esistono. I luoghi, le culture del mondo stanno tutti scomparendo, sono tutti Erewhon. Oggi viviamo in un mondo in cui la cultura è stata ridotta alle scelte da fare dentro una boutique, la cultura oggi è comprare un paio di jeans, la cultura è ridotta ad un’unica boutique mondiale. E l’Italia non è più l’Italia, l’America non è più l’America, le persone considerate ‘di cultura’ , quelle che sanno usare bene le parole, sono mentitori. Lo scopo delle parole scritte è mentire alla gente normale, sono un’arma in mano agli ingegneri sociali. L’unica cosa che non può mentire è la geografia, la terra, la tua terra non mente mai. /…/ La mia generazione è l’ultima a potersi definire americana. I ragazzi che hanno meno di tredici anni in America non sono più americani, così come gli italiani che hanno meno di tredici anni non sono più italiani, sono tutti abitanti di un immaginario villaggio globale. Nel villaggio globale non si è più niente, e guarda che non è una critica, è una constatazione. Quindi l’unica cosa che ci collega al passato è la terra, dove ci sono le colline che ti osservano, dove ci sono le montagne che dominano, dove il vento soffia, dove ci sono gli alberi e i frutti, dove cresce l’erba. Tutte queste cose sono le uniche che non ti  mentiscono mai. Ecco perché Erewhon-Nowhere.” (David Thomas, da un’intervista a Blow Up, 1997).

La formazione dei nuovi Pere Ubu viene, una volta di più, completamente rivoluzionata: oltre al geniaccio al microfono, il solo Jim Jones, chitarra, proviene dall’esperienza precedente, per il resto una totale rifondazione affidata al basso di Michele Temple, al synth ed al theremin di Robert Wheeler, alle percussioni di Scott Benedict. Fra le comparse un altro ex, Scott Krauss, che suona la batteria in un paio di brani, oltre al violoncello di Garo Yellin ed al basso di Paul Hamann, produttore dell’album insieme a David Thomas. Una copertina che evoca immagini urbane con nome della band e titolo dell’album a caratteri cubitali, come a dire “credete pure ai vostri occhi: siamo tornati!”; qualche nota completamente svasata, a ributtare in primo piano quello spirito nonsense che del resto non aveva mai abbandonato il gruppo, come quella che recita testualmente: “Pubblicammo i testi sul retro copertina di “Song Of The Bailing Man” perché non sapevamo come altro fare per riempire quello spazio/…/Pubblicare i testi è un brutto affare”. Sotto un profilo più squisitamente musicale, “Ray Gun Suitcase” è il convincente compromesso fra la vena melodica degli album precedenti e lo sperimentalismo dei lavori storici della band: una sintesi perfetta, insomma, fra il Mark I ed il Mark II. Ma è soprattutto, come del resto gli altri tre dischi in studio che seguiranno, un album di grande musica. Folly Of Youth è un ottimo inizio: un’atmosfera torbida, cupa e opprimente con il martello di un basso claustrofobico, svisate di synth, la chitarra che mena fendenti, rumori ed effetti, e la voce di Thomas affogata in un ritornello spastico nel magma ribollente degli strumenti in libertà vigilata. La successiva Electricity è uno dei vertici dell’album e della produzione della band: un brano più intimista, protagonista la chitarra, perduta in struggenti crescendo percorsi dalla demoniaca presenza del synth, il basso sempre in primo piano, vero protagonista della base ritmica, ed il canto che raggiunge vette di liricità assoluta. Beach Boys ha invece una struttura più canonica, quella di un rock’n’roll senza particolari guizzi strumentali, eccezion fatta per l’assolo chitarristico centrale, ed un refrain orecchiabile ed accattivante. Turquoise Fins è forse il brano che meglio rappresenta lo spirito dell’album: una marcata componente melodica, pur distante anni luce da certe amenità pop del periodo Fontana, e parti strumentali assai poco convenzionali, quasi deviate, insieme ad una voce insolitamente sgraziata, assai poco accomodante. Vacuum In My Head è un blues lento e stralunato, con una lunga introduzione strumentale ed il canto di Thomas a lambire nuovi mezzi espressivi. Niente batteria, solo qualche percussione sfasata, con il basso a farsi strada ed una chitarra lamentosa in sottofondo. Memphis è un altro rock’n’roll diretto e lunatico mentre Three Things ha una struttura più complessa, aperta a molteplici cambi di atmosfera, in mezzo a frammenti elettronici, impennate ritmiche, piccole giungle strumentali e la voce di Thomas a legare le parti, come si addice ad un Grande Cerimoniere. La misteriosa Horse ha una lunghissima introduzione strumentale per basso e grilli notturni, poi la chitarra sale in un’unica, lunghissima nota tirata allo spasimo per tornare subito dietro le quinte. Avanti senza parole, fra arpeggi delicati e sinistri, in un’atmosfera opprimente che riesce a stemperarsi solo con la successiva Don’t Worry, un rock’n’roll chitarristico percorso da un synth poco rassicurante. Ray Gun Suitcase inizia come una litania perversa, con la voce perduta in un lamento su una base lenta e sconclusionata, per acquistare ritmo e vitalità nel finale, che sfocia in una curiosa cover acustica e ultra rallentata di un brano dei Beach Boys, quella Surfer Girl alla quale Thomas riesce a conferire un’intensità strana insieme alla sua pazza vitalità. Red Sky è una delle vette dell’album: un affascinante gioco di voci fra recitato e cantato, una melodia sottile e circolare che pervade l’intero brano fra continui cambi di tempo e preziose aperture chitarristiche che, nel finale, esplorano gli inediti territori di una psichedelia soffice e vellutata. Montana, primo fra i luoghi ufficiali e non da appuntare sulla cartina geografica, sprofonda in una bellissima atmosfera bucolica con un valzerone folk astratto e visionario, intenso e malinconico, condotto da fisarmonica e strumenti ad arco. My Friend Is A Stooge For The Media Priests è un nuovo rocckettone ironico e potente, mentre la splendida melodia di Down By The River II chiude l’album nella maniera migliore, con una ballata agrodolce di grande efficacia ed intensità.

“La Pennsylvania è uno Stato molto lungo, chiunque voglia andare a New York o sulla costa atlantica deve passare per la Pennsylvania, ma nessuno ci si ferma. Quindi l’album ha a che fare con cose che devi attraversare per andare da qualche parte, posti per cui devi viaggiare per arrivare in qualche altro posto. Questo è il concetto che sta dietro l’album. Pennsylvania è un po’ un altro posto che non esiste, un altro ‘nowhere’. Quando noi parliamo di Pennsylvania sappiamo cosa significa, significa solo un lungo viaggio per andare da qualche parte.”  (David Thomas, interv.citata).

E’ una metafora, quindi, di tutti i luoghi di passaggio e, perché no?, forse anche della vita stessa, il secondo atto dei nuovi Pere Ubu. Per “Pennsylvania” (Tim Kerr/Cooking Vinyl 1998), c’è però da registrare anche un’importante novità che riguarda la formazione, la quale, tolto l’avvicendamento dietro le pelli di Steve Mehlman al posto del dimissionario Scott Benedict, rimane praticamente immutata fatto salvo l’ingresso, o meglio il ritorno, di Tom Herman alla chitarra. Proprio lui, uno dei membri fondatori degli Ubu ed uno dei primi ad andarsene, all’indomani di “New Picnic Time”, terzo preistorico album del 1979. Le chitarre raddoppiano, quindi, e graffiano ancora di più, contribuendo a dare all’album una dimensione elettrica abbastanza inusuale, forse proprio a scapito del synth, il cui lavoro è puntuale e perfetto, ma non così centrale come nel lavoro precedente. Una grinta rock per nulla canonica, sia chiaro, ma sghemba e disarticolata come nella migliore tradizione del gruppo. Si può anzi dire che quella bilancia fra spirito melodico e tensione sperimentale i cui piatti erano perfettamente in linea in “Ray Gun Suitcase”, pende ora pericolosamente verso un sound ancora più torbido e claustrofobico, solo occasionalmente tentato dall’attitudine pop dei dischi del periodo Fontana. Ne è un ottimo compendio l’atmosfera perversa ed inquietante dell’iniziale Woolie Bullie: le chitarre stendono tappeti distorti su una base ritmica lenta ed oppressiva, i violenti stacchi dissonanti del theremin straziano il brano ad intervalli irregolari, il canto è un mesto recitativo per un testo che non lascia scampo. “La realtà è definita secondo i desideri dei media/La Storia viene riscritta prima ancora che avvenga/La cultura è un’arma usata contro di noi/La loro cultura è solo una palude di superstizioni, ignoranza e menzogne/La geografia è il linguaggio che loro non possono distruggere/La terra e quello che sappiamo aggiungerle non possono mentire”. Dopo il breve intermezzo acustico di Highwaterville, sono gli affascinanti contrappunti elettrico/acustici di Sad/Txt a destare meraviglia, il suo ritmo quasi in levare sporcato da effetti e rumori d’ogni tipo con la voce di Thomas filtrata in un sussurro. Con la wave disturbata di Urban Lifestyle le pulsioni salgono su un efficace tessuto chitarristico, che un synth scatenato tenta invano di scomporre ed aggrovigliare, mentre la successiva Silent Spring, lenta ed inquietante, costruita su un giro di basso ossessivo dal quale, come i tentacoli di una piovra, si dipanano gli altri strumenti in piccole fughe improvvisative, sprofonda in un’atmosfera oscura e sperimentale, con i toni perversi della voce di Thomas che non fanno altro che aumentare la tensione. Mr. Wheeler prosegue nella stessa scia densa e melmosa, in una dimensione che poco o nulla concede alla forma canzone, con i medesimi ingredienti opportunamente miscelati, mentre con Muddy Waters l’album riacquista una forma più umana, grazie ad una più canonica cavalcata elettrica che, seppur non esente dai soliti elementi di disturbo, vede le chitarre girare a mille e portarsi dietro tutti gli altri strumenti. Seguono Slow, un angosciante break strumentale fra tastiere ed inserti elettronici, e Drive, con le chitarre che sfrigolano e pungono su un fondale sintetico abbastanza inquietante e la voce di Thomas che si sforza di dare un senso lirico al tutto. Dopo il breve bozzetto strumentale di Indian Giver, tocca alla splendida Monday Morning scomodare ingombranti fantasmi del passato, forse addirittura quello di 30 Seconds Over Tokyo. Con Perfume la voce di Thomas recita, quasi spaurita, su una fragile base strumentale, fra tappeti sintetici, effetti ed interferenze varie, mentre in Fly’s Eye (che secondo una dichiarazione dello stesso Thomas sarebbe stata scritta per Kylie Minogue, ma sarà vero?) sceglie un refrain vincente in una scarica di genuino rock’n’roll. Con The Duke’s Saharan Ambitions, invece, il Narratore diventa muezzin e libera la sua litania per un’incredibile the nel deserto. Tocca a Wheelhouse dare l’illusione che il disco sia finito, con  un brano lungo e coinvolgente perfetto compendio di tutti gli elementi del suono Ubu, prima di liberare, dopo una manciata di secondi d’attesa, tutta la magnificenza della ghost track. Gli oltre quindici minuti di My Name Is…partono come un bluesaccio sporco alla Tom Waits per sfociare, dopo uno stacco netto, nelle atmosfere liquide ed ossessive di affascinanti strati di tastiere a mezza strada fra i Doors ed i Neu!.

“Se si va a nord sull’highway 61, l’Arkansas è dalla parte opposta. Il punto di vista di St. Arkansas è quello della testa voltata di lato, delle parole sussurrate all’orecchio, di posti visti mentre corri a testa bassa.”  (note di David Thomas dal sito internet del gruppo)

Ideale completamento di quel trittico ispirato alla geografia del “nessun luogo” iniziato nel 1995 con il grande ritorno di “Ray Gun Suitcase”, lo svincolo di “St. Arkansas” (Glitterhouse, 2002), perfetto crocevia per tutte le strade che conducono in un luogo immaginario, è anche la prima porta che i Pere Ubu aprono nel nuovo millennio. Ed è evidente al primo ascolto che, nonostante siano passati quasi trent’anni dal debutto, poche cose suonano fresche, eccitanti ed innovative come la musica di questa band; che nel duemila, come del resto probabilmente anche nel tremila, ci sarà ancora un dannato bisogno di loro. Formazione praticamente immutata rispetto a “Pennsylvania” con il solo Jim Jones un po’ defilato rispetto al resto del gruppo in cui compare solo come ospite, probabilmente a causa dei problemi di salute che si fanno sempre più pressanti e di quel cuore matto che se lo porterà via, nell’indifferenza generale, nei primi mesi del 2008. Copertina zeppa di segnali stradali, numeri di autostrade e indicazioni per raggiungere luoghi che non esistono, uno dei quali porta anche il nome della band. Nello smilzo package del CD trova anche posto, corredata da deliziose foto vintage, un’affascinante ma strampalata teoria secondo la quale il nostro cervello riceve le sollecitazioni acustiche da sinistra a destra, quindi, per un ascolto ideale, è necessario posizionarsi più vicini alla cassa destra. E la musica? Parafrasando i Rolling Stones si potrebbe dire che It’s Only Pere Ubu. Sarà pure rock’n’roll e basta, insomma, ma nulla suona come loro. Tocca a The Fevered Dream Of Hernando De Soto aprire l’album con un basso vorticoso che si porta dietro tutti gli strumenti, il synth che sbuffa, la chitarra che punge e sfrigola qua e là, la voce di Thomas insolitamente “sana” in una melodia che colpisce e spiazza al primo ascolto. Slow Walking Daddy è un bluesaccio tutto giocato sui tasti, con il synth come elemento di disturbo, che con il volgere dei minuti si arricchisce di campanelli e percussioni, echi e rifrazioni, di una melodia facile ma non banale. Michele mostra almeno due anime nel violento stacco di atmosfera fra le parti cantate, voce calda e carezzevole sommersa da una valanga di effetti, e le stordenti aperture strumentali, protagonista una chitarra con pochi freni inibitori. 333 rientra in canoni più tradizionalmente rock, mentre Hell sfodera un ritmo esasperatamente lento tutto giocato sui piatti, qualche battuta scoordinata sulle pelli, le tastiere a stendere tappeti disarmonici e la voce di Thomas, un recitativo su toni molto bassi, a coordinare il disordine. Lisbon inizia come un synth pop deviato, un ritmo lento con qualche impennata, tetri fondali di tastiere e intermittenze elettroniche a rendere l’atmosfera ancora più malsana: una spirale sempre più perversa che sembra convergere tutto a sé. Steve vede la chitarra tornare protagonista in un brano dalla forte impronta blues: un blues secondo il vangelo Pere Ubu, naturalmente, con qualche rifrazione industriale ed un costante inquinamento elettronico. Phone Home Jonah è un rock’n’roll tirato, mentre con Where’s The Truth il ritmo torna a rallentare, l’atmosfera ad intorbidirsi sulle pulsioni di un basso paludoso e di un synth che sbuffa e fa le linguacce dietro le spalle. I quasi dieci minuti della monumentale Dark chiudono l’album con uno dei capolavori degli Ubu di sempre: un lungo mantra circolare con una superba melodia che continua ad avvitarsi su se stessa, portandosi dietro tutti gli strumenti in un vortice che sembra non avere mai fondo, in una progressione convulsa che si vorrebbe, magicamente, prolungare oltre ogni limite.

“L’idea di ‘Why I Hate Women’ era quella di rendere in musica un romanzo di Jim Thompson che Thompson non ha mai scritto; è un disco ossessivo, ma la migliore musica rock è brutalmente ossessiva” (note di David Thomas dal sito internet del gruppo)

Altri quattro anni e l’ennesimo cambio nella formazione, che vede ora alla chitarra Keith Moliné, già accanto a Thomas nei Two Pale Boys, per avere fra le mani “Why I Hate Women” (Glitterhouse, 2006), quello che nel momento in cui scriviamo –agosto 2009- è l’ultimo lavoro a firma Pere Ubu (ma il sito del gruppo annuncia novità imminenti) e quello che, senza mezzi termini, è uno dei tre, massimo quattro, dischi più belli dell’ormai sterminata discografia della band. In un lavoro di cui l’ossessione è dichiaratamente il tema principale, gli ingredienti dell’Ubu sound sono più o meno sempre i medesimi, ma l’insieme, il corpo principale, raramente è stato così diretto, unitario ed efficace. Il loro avant-rock ormai più che trentennale, insomma, riesce tranquillamente a farsi beffe delle schiere di ragazzini che affollano i-pod e download illegali, che danno da mangiare a MTV, che riempiono del nulla tonnellate di carta stampata oltre, naturalmente, alle orecchie di tanti ascoltatori. Lo strumento principe di “Why I Hate Women” torna, incredibilmente, ad essere il synth/theremin di Robert Wheeler, la cui presenza, oltre ad essere costante ed ossessiva, è in molti casi davvero prioritaria nell’economia di un suono continuamente sfregiato, appesantito, cosparso di un bitume tossico e radioattivo da quei tasti che dai gloriosi tempi dello scienziato pazzo Allen Ravenstine non erano mai stati così “pesanti”. Two Girls (One Bar) è un’apertura squillante: un ritmo convulso sulle corde del basso, frange chitarristiche in sottofondo, un synth che sbuffa e freme, la voce di Thomas come sempre in gran spolvero in una melodia sottilmente malinconica. Babylonian Warehouses è già un attacco al cuore: un brano intenso, disturbato e disturbante su un ritmo lento e convulso, la chitarra che puntella, le evoluzioni del theremin in primissimo piano a dipingere pareti torbide ed evocative al tempo stesso, il canto filtrato in una melodia nostalgica. Blue Velvet è ancora più lenta, ancora più tossica, ancora più intensa, con Wheeler che cerca di strappare lacrime da una roccia e Thomas mai così vicino alla disperazione. Con Caroleen riesplodono ritmo ed energia in un punk rock percorso da una voce scorticata e da un theremin impazzito, mentre Flames Over Nebraska è un wave rock perverso inzuppato dal synth disturbato e malefico che sembra fagocitare, insieme a tutto il resto, anche una melodia gioiosa e accattivante. In Love Song il ritmo si placa, ma la tensione aumenta sulle ali del solito theremin, che si frappone fra musica e parole lasciando la sua maleodorante scia, creando un’atmosfera talmente carica da sembrare sempre sul punto di esplodere. Mona è un brano breve e veloce con il fantasma di Ravenstine mai così vivido e presente, e My Boyfriend’s Back concentra, in uno spazio ancor minore, rabbia ed energia che farebbero invidia a molti nipotini. Stolen Cadillac fa il paio con Babylonian Warehouses quanto a grigiore, intensità, pazzia e perversa bellezza, mentre in Synth Farm, che omaggia fin dal titolo il protagonista del disco, la presenza dello strumento è più discreta, quasi un supervisore occulto, ma ci pensano percussioni e rintocchi vari, disordinati sbuffi di sax e rifrazioni industriali a rendere l’atmosfera opprimente e malsana. Tocca a Texas Overture sancire un album da trionfo con un blues rock sporco e disarticolato alla maniera dei Nostri, una lunga disquisizione quasi rappata con le controverse ragnatele del synth a dare anima e spessore al brano, lasciando alzare la testa alla chitarra solo nei lunghi assoli in chiusura.

“Il giorno che comporrò un album di cui potrò dirmi pienamente felice sarà il giorno in cui deciderò di fermarmi.” (David Thomas, da un’intervista a Sentireascoltare.com)

Confidando nella proverbiale meticolosità, nel ricercato perfezionismo del leader dei Pere Ubu, pensiamo che quel giorno sia ancora lontano, appuntamento quindi fra quindici anni per la quarta parte della loro storia. Nel frattempo nessuno si scandalizzi se chi scrive è sempre più convinto che, per longevità artistica e qualità compositiva, i Pere Ubu siano la più grande rock band di tutti i tempi. Con tanti saluti a Beatles, Rolling Stones e chi volete voi…

da LFTS n.97

Disco e fumetto, binomio perfetto.

di admin

12 novembre 2013

fiera

 

Sabato 16 e domenica 17 novembre (orario 10-18) a Varese, presso l’Atahotel di Viale Albani 73, si svolgerà la 28° edizione della Fiera del Disco che quest’anno ha un motivo in più per farsi apprezzare. Oltre ai sempre più preziosi e ricercati dischi in vinile, ai CD, video e memorabilia varia, la rassegna tiene a battesimo anche la 1° Fiera del Fumetto, un prodotto editoriale che insieme ai dischi ha beatamente rovinato generazioni di appassionati. Siccome la passione è sempre doveroso coltivarla, al diavolo la crisi, ecco che l’invito e d’uopo. Anche perché l’ingresso è libero e potete quindi spendere tutto per dischi e comics. Che cosa volete di più?

Rock & Pop, le recensioni di LFTS/29

di Paolo Crazy Carnevale

5 novembre 2013

ry cooder corridos

RY COODER AND CORRIDOS FAMOSOS

Live

Nonesuch/Perro Verde 2013

Non è il nuovo disco di Ry Cooder, nel senso che non si tratta di una registrazione di quest’anno, però è un grande live della storia recente di Cooder, risalente alla promozione del suo penultimo lavoro di studio. Ascoltandolo si ha la sensazione che Ry abbia perso del gran tempo per tutti gli anni ottanta e novanta, dedicandosi quasi esclusivamente alle colonne sonore e alla ricerca etnica, mentre fin dalle prime note del disco si ha la certezza che il vero Cooder sia qui, dentro le atmosfere che gli sappiamo care fin dagli anni settanta. Non so se sia un caso che la registrazione sia effettuata proprio nello stesso teatro dove era stato inciso il suo unico altro disco dal vivo così cpme non so se sia un caso che ben quattro tracce coincidano con quello storico, adorabile Showtime del 1977. Qualcosa però vorrà pur dire.

E come se non bastasse, in questa nuova produzione, ci sono anche due comprimari in comune con quella del 1977: il cantante Terry Evans e il fisarmonicista Flaco Jimenez.  Quello che conta comunque è il risultato, il gruppo che accompagna Ry in questo nuovo disco è senza dubbio più compatto ed energico (ci sono il figlio Joachim alla batteria e Robert Francis al basso che pompano come stantuffi) e in alcune composizioni si aggiungono i fiati della Banda Juvenil, combo di ottoni che riesce a rendere ancor più esplosivo il risultato finale.

A vincere è comunque il repertorio scelto dal chitarrista californiano, un mix azzeccato come pochi di brani del suo passato, a cui si aggiungono due delle composizioni del disco che aveva in promozione all’epoca di questo concerto – superlativa El corrido de Jesse James, dal testo ironico e con i fiati finali che spaccano.

I brani in comune col live degli anni settanta sono la pimpante School Is Out, Do Re Me di Woody Guthrie (come nel vecchio disco preceduta dall’intro di fisarmonica di Jimenz), ideale anello di congiungimento tra il vecchio Cooder che pescava nella tradizione e quello nuovo che scrive da sé le sue canzoni i cui temi sono però molto legati a quelli del suo illustre ispiratore, c’è poi una splendida Dark End Of The Street, non chiedetemi se migliore di quella che figurava su Showtime, ho amato troppo quel disco per dover ora decidere se questo sia più bello. Il quarto brano in comune è la messicana Volver Volver affidata – ahinoi! – alle corde vocali di Juliette Commagere, per conto mio un passo falso: la cantante, pare nuora di Cooder e sorella del bassista, poco ha a che vedere col brano, lo canta con accento terribilmente yankee e voce poco consona (l’originale la cantava Flaco) e lascia davvero il tempo che trova. Il resto del disco è però tutto notevole, ci sono Crazy ‘bout An Automobile, Why Don’t You Try Me e Boomer’s Story, due delle canzoni di Cooder che preferisco, c’è un omaggio a Domingo Samudio con Wooly Bully e, soprattutto ci sono le conclusive Vigilante Man ancora di Guthrie, con la chitarra di Ry che impazza e cancella tutte le versioni del brano che abbiamo conosciuto in precedenza, e Goodnight Irene di Leadbelly con l’inserimento finale della Banda Juvenil che è pura dinamite.

 

simakdialog-6th-story-2013

Simak Dialog

The 6th Story

Moonjune Records 2013

 

Questo gruppo condiviso col tastierista Riza Arshad (di fatto il leader del gruppo) è uno dei cosiddetti “side-projects” del chitarrista indonesiano Tohpati, insieme allo statunitense Dennis Rea uno dei più prolifici artisti della Moonjune Reocrds.

Ma se nei dischi a proprio nome e nei progetti in cui il suo nome è co-titolare Tohpati imperversa totalmente, in questa formazione – pur imperversando con la sua sei corde – lascia comporre tutto ad Arshad.

Naturalmente siamo sempre in territori in cui jazz e fusion si mescolano dando origine ad un composto in cui le composizioni si dilatano lasciando spazio ai due musicisti per dialogare, Tohpati con una serie di interventi che potremmo definire hard jazz  ma che in brani come Lain Parantina richiama addirittura certi passaggi della chitarra geometrica e liquida di tale Jerry Garcia, Riza Arshad con un pianismo molto sciolto che riporta alla menta le sonorità elettriche degli anni settanta. Alle loro spalle, oltre al basso di Adhitya Pratama c’è un trio di percussionisti che imprime alla produzione una sorta di elemento etnico che la fa diventare un prodotto caratteristico, che pur realizzato da artisti asiatici occhieggia decisamente ai gusti degli ascoltatori occidentali.

Rock & Pop, le recensioni di LFTS/28

di Paolo Baiotti

3 novembre 2013

carugi ponchartrain

CESARE CARUGI

PONCHARTRAIN

2013    Roots Music Club

 

Se fosse nato a Little Rock o a Wichita e avesse un cognome anglosassone probabilmente sarebbe considerato uno degli artisti emergenti della musica roots americana, come Israel Nash Gripka, Amos Lee o James Maddock. Invece è nato a Cecina che si trova a quattro km. da California, ma non quella a ovest degli Usa e si chiama Cesare Carugi. Il resto non cambia: è un cantautore rock  emergente, suona musica roots nella migliore tradizione americana di Springsteen e Petty e ha inciso un album che ogni appassionato di questo genere musicale dovrebbe ascoltare. Dopo il promettente esordio di Here’s To The Road, Cesare conferma con Ponchartrain doti non comuni nella scrittura di ballate melodiche che restano in testa, arrangiate con gusto e interpretate senza strafare con la preziosa collaborazione della chitarra di Leonardo Ceccanti e della batteria di Matteo D’Ignazi, con l’aiuto di un manipolo di amici scelti con cura. Il disco sembra ricalcare le suggestioni della copertina e delle foto del retro: una stanza di legno che sa di antico, un lago (forse è proprio quello di Ponchartrain vicino a New Orleans) in una giornata uggiosa, immagini di calma non prive di inquietudine. La musica scorre veloce con melodie che si ricordano senza difficoltà a partire da Troubled Waters, con un riff alla Tom Petty e un bel suono di slide da paludi della Louisiana offerto da Paolo Bonfanti. Carry The Torch è interpretata con voce lievemente arrochita, accompagnata dal mandolino di Gianni Gori e dal piano di David Zollo, mentre l’accattivante ballata elettroacustica Long Nights Awake con un brillante assolo di Ceccanti e il trascinante roots rock di Your Memory Shall Drive Me Home confermano la predilezione per i tempi lenti e medi, ribadita da Charlie Varrick, melanconico duetto con Marialaura Specchia che racconta la storia della rapina a Tres Cruces dell’ex pilota acrobatico interpretato da Walter Matthau in un film di Don Siegel. La bluesata Ponchartrain Shuffle con la pungente resonator di Francesco Piu, la drammatica ballata Morning Came Too Early con il piano in primo piano, un organo avvolgente e un incisivo assolo di chitarra nel finale e la toccante Drive The Crows Away nella quale si inserisce il violino di Chiara Giacobbe confermano le impressioni positive sul disco, che ha un piccolo calo con Crack In The Ground, un rock sparato che ricorda i Clash e sembra un po’ fuori posto come la successiva My Drunken Valentine, traccia notturna waitsiana anche nel modo di cantare, forse un po’ scolastica. Ma la ballata When The Silence Breaks Through, debitrice nella scrittura dello Springsteen più romantico, con un riuscito impasto di clarinetto e piano e il finale spensierato di We’ll Meet Again Someday con l’accompagnamento dei Mojo Filter rimettono le cose a posto e fanno venire voglia di ripartire dall’inizio…un buon segno.       

 

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NANDHA BLUES BAND

BLACK STRAWBERRY MAMA

2013    MeatbeatGrooveyard   

 

Max Arrigo, cantante e chitarrista torinese, ha avuto esperienze formative importanti con i southern rockers Voodoo Lake e poi con i Shangai Noodle Factory, prima di trasferirsi ad Aosta dove ha formato un nuovo trio con Paolo Barbero al basso e Giuliano Danieli alla batteria. Si chiamano Nandha Blues Band (nome ispirato a una figura di fattucchiera a metà tra realtà e finzione) e cercano di ripercorrere i gloriosi sentieri di storici power trio come Cream, Cactus o i più recenti Gov’t Mule. Il loro album d’esordio fin dalla veste grafica richiama l’epoca psichedelica; pubblicato qualche mese fa, ha ottenuto riscontri positivi in Italia e all’estero ed è stato recentemente ristampato dalla Grooveyard Records per il mercato americano, dove il trio ha esordito anche dal vivo nelle scorse settimane. Siamo in pieno vintage o retro rock, hard blues aspro e coinvolgente con la pungente chitarra di Max in primo piano. Arrigo nel corso degli anni è migliorato molto anche come cantante e si dimostra all’altezza sia nei ritmi più intensi e trascinanti che nelle ballate profumate di psichedelia. L’opener Grand Combin Love Affair ha un’armonica insinuante che si inserisce in un riff poderoso che ricorda i Mule di Warren Haynes, una delle ispirazioni del musicista. La seconda traccia Cant’t Get Out Offa My Mind dimostra che il trio non è solo poderoso, ma è anche in grado di ammorbidire i toni con un un riff melodico al quale di adatta la voce ed un assolo finale allmaniano. La bluesata Still On My Feet evidenzia le egregie capacità di Max alla slide, mentre Playin’For Peanuts è pungente e trascinante, specialmente nella parte centrale jammata senza strafare e nel brillante assolo finale. Qualche limite compositivo si rileva in Life Is For Learnin’ e nel blues Rollin’Alone che richiamano il passato senza grande originalità, ma si torna su ottimi livelli con le suggestioni elettroacustiche della raffinata Mr America e con l’aspra Nandha’s Slave Blues tra blues del Mississippi e southern rock, nella quale la slide sembra uscire da un vecchio vinile di Johnny Winter. Il disco è chiuso da Back Where I Belong, caratterizzata da un riff sudista e un andamento skynyrdiano e dalla grintosa Black Strawberry Mama, interpretata con voce aspra e inquietante da Arrigo, con un interessante break chitarristico. Con questo interessante esordio mi pare che la Nandha Blues Band possa aggiungersi al panorama sempre più vasto di gruppi rock italiani di livello internazionale.

 

evasio

 

 

EVASIO MURARO

SCONTRO TEMPO

2013    Volo Libero

 

La storia musicale di Evasio Muraro parte dagli anni ottanta, quando è stato uno dei protagonisti della scena alternativa post punk come frontman dei Settore Out. In seguito è stato bassista dei Groovers, prima di alternare l’attività solista alla ricerca delle tradizioni contadine sfociata in un disco di canti di lavoro e nella produzione di due album del Coro delle Mondine di Melegnano. Un impegno politico e sociale ribadito da Festa d’Aprile e Siamo i Ribelli, basati sulle canzoni della Resistenza. Canzoni Per Uomini di Latta (Universal ’09) e O Tutto o l’Amore (Universal ’10) lo hanno riportato sulla strada di un cantautorato originale e atipico, caratterizzato da una particolare attenzione per gli arrangiamenti. Ricerca e qualità ribadite da Scontro Tempo, un progetto ambizioso che comprende un cd al quale è allegato un corposo libretto con le note, i testi (molto curati e interessanti, sia quelli di carattere personale o intimista sia quelli socialmente impegnati) e il surreale racconto Radar di Marco Denti, ispirato alle dieci tracce del disco. Scontro Tempo è stato registrato con i Fans (Forensic And The Navigators) che lo accompagnano anche in concerto e con il trio vocale dei Gobar; in seguito è stato completato e mixato con Chris Eckman, leader dei Walkabouts, che in questi anni ha collaborato con artisti africani di rock desertico come Tamikrest e Dirt Music e che ha prodotto l’album con Michele Anelli e lo stesso Muraro. L’influenza di Eckman è evidente nella scelta di un suono essenziale, senza fronzoli, asciutto e molto personale tra folk acustico, rock e jazz. La ballata rarefatta Venti Volte apre il disco con le tonalità melanconiche della voce di Evasio accompagnata da un arrangiamento minimalista guidato dagli arpeggi della chitarra di Fabio Cerbone, seguita dall’affascinante Infinito Viaggio, nella quale i backing vocals dei Gobar hanno un ruolo essenziale e dall’inquietudine di Scontro Tempo, più recitata che cantata dal cantautore lombardo. Il mid-tempo Giorni e l’aspra Puzzo di Fame ribadiscono l’attenzione per il mondo degli “ultimi”, mentre il testo riflessivo di Il Mondo Dimentica è accompagnato da un delicato tappeto elettroacustico. Il melanconico ricordo di Il Maestro E La Sua Chitarra, non lontano dall’Ivan Graziani più intimista, le dissonanze della già citata Puzzo di Fame e l’atipica love song Lettera Da Spedire Prima O Poi precedono la melodia lieve di Un Grido, sussurrata da Evasio, che chiude un disco non facile che merita un ascolto approfondito.

 

thackery as live

JIMMY THACKERY & THE DRIVERS Feat. JP SOARS

AS LIVE AS IT GETS

2013    White River Records

 

Jimmy Thackery è in pista dai primi anni settanta. Per quindici anni è stato il chitarrista dei Nighthawks, una delle migliori band americane di blues, fondata con il cantante e armonicista Mark Wenner. Li ha lasciati nell’87 per una carriera solista che ha prodotto una ventina di dischi con la sua band (The Drivers) o con qualche altro artista (Tom Principato,David Raitt, Tab Benoit, John Mooney, The Cate Brothers). Feel The Heat del ‘11 è il suo lavoro in studio più recente, seguito da questo doppio dal vivo registrato a San Diego nel corso della Legendary Rhythm and Blues Cruise con una formazione allargata che oltre ai Drivers (Mark Bumgarner al basso e George Sheppard alla batteria) comprende gli Hydraulic Horns (Joe McGlohon al tenor sax e Jom Spake al baritone sax) e l’ospite JP Soars, chitarrista blues emergente influenzato anche dal jazz e dall’hard rock. Il disco lascia ampio spazio all’improvvisazione, comprendendo nove brani dei quali quattro superano i dieci minuti, dove le chitarre soliste e i sax si alternano e si contrappongono in lunghi assoli molto piacevoli. Nel primo dischetto spiccano l’opener A Letter To My Girlfriends, cover di Guitar Slim in una versione jazzata e scorrevole, l’intensa ballata tra blues e roots Blind Man In The Night, la ritmata Gangster Of Love che ricorda le atmosfere dei Blues Brothers e il formidabile lento Gypsy Woman di Muddy Waters, quindici minuti di blues sofferto con i fiati in particolare evidenza nella prima parte e le due chitarre nella seconda, con cambi di ritmo, rallentamenti e ripartenze da manuale. Il secondo dischetto è aperto dalla grintosa Feel The Heat seguita dalla swingata The Hustle Is On dal repertorio di T. Bone Walker, improvvisata in scioltezza senza strafare e da Hobart’s Blues, aspro mid-tempo strumentale nel quale trovano spazio i quattro solisti. La chiusura è affidata al tour de force di I’ve Been Down So Long di J.B. Lenoir, quasi venti minuti di blues lento di alta scuola introdotto da un lancinante assolo di Thackery. Jp Soars è protagonista di un intenso assolo dopo la prima strofa, mentre dopo la seconda Jimmy risponde con note più raffinate e quasi sussurrate che crescono lentamente fino quasi ad esplodere con fraseggi sempre più veloci ed intricati, accompagnato discretamente dai fiati in ritmica. Un valido disco dal vivo di blues elettrico da parte di un artista che non è mai stato un genio, ma un mediano del blues solido ed affidabile. 

 

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BLACK STAR RIDERS

ALL HELL BREAKS LOOSE

2013   Nuclear Blast

 

Nell’ottobre dell’anno scorso Scott Gorham annuncia che i Thin Lizzy non pubblicheranno un nuovo disco in studio per rispetto della memoria di Phil Lynott e per avere constatato la scarsa disponibilità dei famigliari ad accettare nuovo materiale con il vecchio nome della band. Anche il cantante Ricky Warwick conferma che si sarebbe sentito imbarazzato a registrare con il vecchio nome. Una mossa saggia perché un conto è suonare dal vivo i classici in un concerto nostalgico che onora Lynott, creatore e leader indiscusso della band, cantante e autore di gran parte del materiale, un altro conto incidere un nuovo disco senza il grande Phil, morto nell’86 dopo lo scioglimento del gruppo. Inoltre la nuova line-up che inizialmente comprendeva il batterista Brian Downey e il tastierista Darren Wharton, entrambi nei vecchi Lizzy, è cambiata con l’entrata del batterista Jimmy De Grasso e la rinuncia alle tastiere. Quindi attualmente abbiamo un quintetto con le chitarre di Gorham (unico ex Thin Lizzy) e Damon Johnson, il basso di Marco Mendoza, la batteria di De Grasso e la voce di Warwick, che ha tratto il nome Black Star Riders da una banda di fuorilegge del film western Tombstone. Entrati in studio con Kevin Shirley i BSR hanno pubblicato un album di hard rock solido e grintoso, ma eccessivamente derivativo. C’è poco da fare, tutto richiama i Thin Lizzy: la voce ha inflessioni e tonalità molto simili a quella di Lynott con una minore profondità, i riff di chitarra, i testi e le atmosfere sono i medesimi, il dual guitar sound tipico della band è ripetuto quasi in ogni brano. Il suono è indurito, specialmente nella parte centrale e la sezione ritmica è decisamente meno brillante e varia rispetto al duo Lynott/Downey, ma alla fine sembra un disco dei Lizzy modernizzato nel suono e più hard. I primi tre brani bastano a capire la scelta dei BSR: la title track ha un riff poderoso con la voce che ricalca quella di Phil, le due chitarre affiancate e una melodia azzeccata, Bound For Glory sembra un rifacimento di The Boys Are Back In Town con i cori, il riff, la linea melodica e le inflessioni vocali prese di peso da un vinile degli anni settanta e Kingdom Of The Lost sarebbe un’eccellente irish folk rock se nel ’79 Lynott e Gary Moore non avessero scritto Black Rose (A Rock Legend). Invece è un’imitazione, ben fatta fin che si vuole, ma sempre un’imitazione. E questo vale più o meno per il resto del materiale, con note di merito per l’epica Before The War e per la conclusiva Blues Ain’t So Bad. Un disco che è stato accolto positivamente dai vecchi fans… in fondo li capisco e non posso dire che sia brutto. Ma credo che la madre di Phil abbia avuto ragione a chiedere al gruppo di cambiare nome.