Archivio di giugno 2013

Il volo magico di Claudio

di Marco Tagliabue

20 giugno 2013

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Neanche un mese fa, il 25 maggio, dalle pagine virtuali del proprio profilo Facebook, Claudio Rocchi si premurava di metterci al corrente della gravissima malattia che l’aveva colpito, un virus degenerativo “non reversibile” alle ossa che lo aveva costretto a letto facendogli perdere l’uso degli arti inferiori e minando progressivamente il resto del suo organismo.

Lo faceva con spirito da combattente e con la consueta ironia: all’aggravarsi della situazione che già da parecchi mesi lo costringeva a muoversi a fatica con l’uso delle stampelle, solleticato da “una risata incontenibile” che aveva sentito “risalire forte da dentro“, non aveva potuto fare a meno di porsi una domanda, semplice ma destinata a rimanere senza risposta: “Ma cazzo, non era sufficiente così? Pure paraplegico ora?”

Con il quadro clinico già beffardamente fissato, costretto a rimanere a letto per evitare che il minimo movimento potesse causare una nuova invasione midollare pregiudicando anche l’uso degli arti superiori, si apprestava a prepararsi coraggiosamente a quella che definiva la sua settima vita, dopo quelle, nelle sue parole, da studente, da aspirante rockstar, da aspirante santo indù, da aspirante “normale” professionista, da musicista ritrovato e da malato ancora ”autosufficiente”. Quella del malato terminale costretto all’immobilità. “Non male, vero, per mettere alla prova il buonumore? Sappiate che il buonumore tiene, la Coscienza pure e il libro è iniziato stamane”.

“La Settima Vita”, infatti, è anche il titolo dell’autobiografia alla quale, proprio quel giorno, Claudio aveva assestato le prime battute. Una vita che, conscio dei suoi nuovi limiti, si apprestava a vivere con un doloroso taglio ad un passato ormai per forza di cose da dimenticare, riservandosi di informare gli utenti di una prossima vendita di strumenti e memorabilia di ogni genere per finanziare le attrezzature necessarie al nuovo corso.

Purtroppo, o per fortuna, Claudio Rocchi non ha fatto in tempo a cancellare anche solo dagli occhi le tracce delle sue vite precedenti ed è morto fra le sue amate chitarre,  fra i volumi rilegati dove aveva raccolto testi e disegni negli anni settanta, fra i propri libri esoterici ed i quadri mai esposti. In fondo, forse, è stato meglio così.    

La notizia della sua morte è giunta nel primo mattino, una non sorpresa tristissima che ha gettato la propria ombra su una giornata non come tutte le altre.

Questa sera non ho potuto fare a meno di ricordarlo mettendo sul piatto ”Volo Magico n.1″, il disco che ha segnato un’epoca perduta per sempre, un modo di fare musica perduto per sempre, un’attitudine verso la vita e le cose della vita perduta per sempre. Stavo ascoltando quasi in lacrime “La Realtà Non Esiste” quando mio figlio, diciasettenne, ha lanciato il fatidico “ma che è sta roba?”. I tempi sono cambiati e la realtà, purtroppo, esiste. E’ esistita per Claudio, in tutta la sua devastazione, e si è rivelata anche a me con quello svogliato richiamo all’ordine. Due realtà estremamente diverse, è chiaro, e diversamente tristi, ma comunque dolorose.

Rock Music & Cover Art a Gemona del Friuli

di admin

18 giugno 2013

A Gemona del Friuli, dal 15 giugno al 4 agosto prossimi si svolgerà la manifestazione/mostra “ROCK MUSIC & COVER ART” dove quattro decadi di rock music (dagli anni ’60 agli anni ’90) saranno rivisitate attraverso oltre 220 copertine dei più famosi e interessanti dischi in vinile. La manifestazione, inaugurata appunto lo scorso 15 giugno, ha potuto vantare la presenza di Carlo Massarini, che i più anziani fra voi ricorderanno prezioso distillatore di country rock nella trasmissione radiofonica “Pop Off”, così come conduttore di programmi televisivi, giornalista e tante altre belle cose ancora.

L’evento ha potuto anche contare sullo zampino di Alex Carminati, storico giornalista di “Late For The Sky”. Qui trovate la locandina con il programma che comprende anche concerti e, essendoci di mezzo Alex, immaginiamo anche pantagrueliche mangiate e bevute.

Rock & Pop, le recensioni di LFTS/25

di Paolo Crazy Carnevale

14 giugno 2013

ligro

LIGRO – Dictionary 2 (Moonjune 2012)

 

Con l’Italia, l’Indonesia è sicuramente uno dei paesi più rappresentati nel catalogo della label newyorchese Moonjune Records, che continua a sfornare interessanti produzioni nel campo del jazz rock, progressive e art-rock, in questo caso con atmosfere addirittura gotiche già annunciate dalla copertina del disco in questione.

Questa volta tocca ad un trio di Jackarta che ci conferma l’esistenza di una solida ed interessante scena musicale laddove meno ce lo saremmo aspettato.

Il nome del gruppo – un classico trio chitarra, basso e batteria – altro non è che la scrittura al contrario del vocabolo “ogril” che nella lingua nazionale indonesiana significa gente pazza.

Registrato in Indonesia nel 2011, il disco si compone di otto tracce, tutte piuttosto lunghe, in cui si va a trarre ispirazione, di volta in volta in Robert Fripp, Jimi Hendrix, John McLaughlin fino a Terje Ripdal, ma nelle composizioni ci sono ampi riferimenti e citazioni anche alla musica classica e contemporanea, nella fattispecie a Igor Stravinsky e a J.S. Bach.

A fare la parte del leone è il chitarrista del gruppo, Agam Hamzah, seguito diligentemente dai due soci nei continui cambi di ritmo delle composizioni.

Un brano su tutti: la policroma e ispirata Future.

 

 

copernicus deeper

COPERNICUS –Deeper (Nevermore 1987/2012)

 

Non è il nuovo disco di Copernicus, il poeta undeground rock newyorchese, questo Deeper è la versione in CD di un suo vecchio vinile del 1987 che ora viene ripubblicato con distribuzione Moonjune Records come era accaduto a due lavori che lo avevano preceduto in una serie di ristampe programmatiche che un po’ alla volta hanno il compito di mettere a disposizione in versione digitale tutta l’opera di questo curioso personaggio.

Come nelle altre produzioni, incluse quelle più recenti, il poeta è accompagnato dai fidi Larry Kirwan (quello dei Black 47) e Pierce Turner, due artisti irlandesi, da tempo stabilitisi nella grande mela, con carriere musicali autonome e cospicue, che forniscono la base musicale dei dischi di Copernicus e lo accompagnano anche on stage, come testimonia il DVD praghese uscito un paio di anni fa.

Rispetto ai dischi precedenti ci sono molti più musicisti coinvolti, con uso di violini, varie chitarre, tastiere, addirittura un pianoforte, e poi flauti andini, percussioni, fiati, bodhram – a testimoniare le origini irish dei due accompagnatori principali – e su tutto, ovviamente lo sgraziato recitato/cantato del leader che quasi declama i suoi versi con disperazione.

Ci sono alcuni dei brani più interessanti, non a caso questo Deeper è tra i dischi più gettonati dal nostro durante i concerti: c’è la drammatica Son Of A Bitch Of The North in cui si denunciano gli abusi dei gringos nei paesi latinoamericani, e c’è Chichen Itza Elvis, in cui Kirwan e Turner fanno eco alle declamazioni di Copernicus con citazioni da Hound Dog, Can’t Help Falling In love With You e altri brani di presleyana memoria.

Un paio di ulteriori citazioni per la cupa Once Once Once Again, per la suggestiva Disco Days Are Over, sottolineata magistralmente proprio dal bodhram, quel particolare tipo di percussione originaria dell’area celtica che produce un suono che da solo può tenere in piedi un brano, e per concludere The Death Of Joe Apples, aperta da un’intro di ottoni con un sound che più newyorchese non si potrebbe.

 

 

poco all fired up

POCO – All Fired Up (Drifter’s Church Productions 2013)

 

In copertina il profilo del cavallo in fiamme sembra volerci dire che i Poco cavalcano ancora. Quanto a cavalcare, niente da dire. Il problema è il nome del gruppo. Poco. Non per fare giochi di parole, ma oltre al nome del gruppo, poco sembra essere anche quanto è rimasto della gloriosa formazione che abbiamo amato negli anni settanta in quella che cavalca in questo secondo decennio del terzo millennio, sotto la guida di Rusty Young, unico componente originale rimasto nel gruppo.

Diciamolo senza tema di smentite, se Rusty Young ha caratterizzato per anni il suono della band con la sua pedal steel, la sua voce non è sicuramente di quelle che fanno impazzire, troppo zuccherosa: i vocalist nei Poco erano ben altri e molto più dotati. Eppure questo All Fired Up non è un brutto disco, solo non riesce ad essere un disco dei Poco. Young e suoi soci attuali (il bassista Jack Sundrud e il polistrumentista Michael Webb, già coi Brooklyn Cowboys) ce la mettono tutta ma il risultato è anonimo, potrebbe essere chiunque ad aver registrato il disco, i suoni non sarebbero male, il dobro nelle mani di Young viaggia bene, il piano di Webb anche – ma quando mai il piano è stato determinante nella musica dei Poco? -, le canzoni scorrono piacevolmente, ma non è un disco dei Poco. D’altra parte, ammettiamo pure questo, i Poco geniali e innovativi non sono quelli dei dischi con il  logo del cavallo in corsa, quel logo è arrivato dopo, col successo di vendite, quando il gruppo pubblicò Legend nel 1978. Nei Poco delle origini, quelli in cui un inconsolabile Richie Furay si struggeva per non riuscire ad ottenere il successo degli ex soci Steve Stills e Neil Young, ed era vessato dal fatto che i Poco dimissionari (Messina e Meisner, ma più tardi anche Schmidt) ottenessero immensi riscontri mentre lui non se lo filava nessuno, nei Poco delle origini dicevo, c’erano gli impasti delle voci, c’erano le chitarre, le grandi canzoni e la produzione di studio era improntata in direzione di una ricerca sonora non da poco. I Poco degli ultimi trent’anni hanno continuato a cavalcare su terreni lontani da quelli delle origini, a volte incidendo dischi da dimenticare, altre ritrovando sprazzi di serenità e motivazione, come nel disco dal vivo – con tanto di dvd – in cui per una volta Furay tornava a fianco degli ex soci. Non mancano buone intuizioni in questo disco, la title track è buona, Hard Country convince particolarmente, Love Has No Reason viaggia bene. Per contro Rockin’ Horse dall’andamento finto blues è abbastanza fiacca, nonostante alcuni cori azzeccati, d’altra parte riuscite ad immaginare la voce al miele di Rusty Young alle prese con un riff dalle pretese black? Neil Young (Is Not My Brother) prende lo spunto dal fatto che in passato è girata di tanto in tanto la voce che Rusty e Neil fossero fratelli: il chitarrista dei Poco sembra quasi  polemico a riguardo e il brano è cantato imitando proprio il canadese, con tanto di armonica, magari le intenzioni erano buone ma il risultato convince poco, non andando molto al di là della parodia. Persino lo strumentale a base di dobro, Pucky Huddle Stomp, è ben lontano dagli strumentali che Rusty ha composto in passato.

In definitiva, nessuno vieta a Young (Rusty ovviamente) e ai suoi nuovi soci di continuare a fare musica, ma saremmo loro grati se lo facessero senza scomodare un nome che negli anni settanta ha significato qualcosa per molti.

 

 

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ROBERT RANDOLPH & THE FAMILY BAND – Live In Concert (Dare Records 2012)

 

Un grande in tutti i sensi questo Robert Randolph, sia per come suona la pedal steel sia per come usa questo strumento inserendolo in un contesto totalmente diverso da quello in cui siamo solitamente abituati ad ascoltarlo. E la dimensione live è di certo quella che gli si confà maggiormente. Il suo esordio è avvenuto nel 2001 per caso, quando, scoperto miracolosamente – è il caso di dirlo – nel circuito dei suonatori di pedal steel da chiesa, prende parte al suo primo disco importante, The Word, un progetto a tutt’oggi insuperato in cui fa parte di un supergruppo che comprende i North Mississippi All Stars e John Medeski. Di fatto il disco era stato concepito e costruito ad arte proprio per far emergere questo giovane talento. A quel disco hanno fatto seguito i diversi episodi della Family Band in cui Robert è affiancato dai cugini Marcus e Danyel, dalla giunonica sorella Lenesha e altri amici che lo assistono nel mettere insieme un suono che oscilla tra funk e blues, con inevitabili sfumature gospel. Questo disco dal vivo è il quinto inciso dalla formazione (che per la cronaca aveva esordito con un altro live nel 2002) ed è una delle cose migliori in cui compare il nome di Randolph, seconda solo a The Word. A parte infatti il primo disco di studio, le altre prove del nostro non sono parse troppo convincenti, nemmeno quando a produrlo si è scomodato addirittura T-Bone Burnett: il problema sta probabilmente nelle composizioni, non sempre azzeccate. Dal vivo però viene fuori tutta la grinta, tutta l’arte, tutta la grandezza di questo musicista che oltre a saper fondere diverse influenze, dimostra di aver una vasta conoscenza del patrimonio della black music, che sa sfruttare e adattare alla bisogna, usando brani di illustri colleghi per dare sfogo al proprio talento.

Il disco si apre con Travelin’ Shoes, firmata con Burnett e Tonio K (!) e tratta dal più recente disco di studio, un buon brano che però nella melodia ricorda troppo la Sailin’ Shoes di Lowell George, Squeeze è invece di pasta più solida e memorabile, con passaggi southern rock che ricordano l’Allman Brothers Band di quando c’era ancora Dickey Betts, Shining Star invece rende maggiormente l’idea dell’abilità della formazione nel fondere funk e blues alla maniera di Sly Stone, Don’t Change è un solido rock che si avvale di una grande introduzione strumentale.  Il vero talento esplode però più avanti, prepotentemente, con gli strumentali Sacred Steel, in odor di Hawaii e soprattutto con Electric Church e Peckaboo, autentici e riusciti tour de force per Randolph e soci, che nel corso del disco sono affiancati anche da ospiti, ma il booklet preferisce indugiare sulle foto – peraltro belle – del gruppo che non nello specificare chi suona e dove suona.

Sicuramente ci sono altri suonatori del circuito pedal steel da chiesa – che con Randolph scambiano assoli a ripetizione – e c’è Susan Tedeschi. Ma le delizie scaturiscono anche quando il protagonista fa duettare la sua pedal steel con l’organo di Brett Haas. Tra gli artisti a cui si rende omaggio ci sono gli Staple Singers con una bella versione di I’ll Take You There, Prince di cui viene eseguita Walk Don’t Walk e l’immancabile Jimi Hendrix, con una Purple Haze per nulla scontata.

It’s not hard to play in the city of the saint

di Gianfranco Vialetto

4 giugno 2013

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BRUCE SPRINGSTEEN
Padova 31.05.2013

È proprio vero, esistono due tipi di persone. Gli appassionati di musica e quelli che non hanno mai visto Bruce Springsteen dal vivo. È incredibile a dirsi, ma io fino a pochi giorni fa facevo parte di questa seconda sfortunata categoria. Per un motivo o per l’altro infatti non avevo mai potuto partecipare all’”evento”. È quindi superfluo dire che quando in dicembre è stata ufficializzata la notizia di un nuovo tour italiano del mio musicista preferito, e per di più in una location a me comoda come lo Stadio Euganeo di Padova, ho subito acquistato i biglietti trascinando l’intera famiglia e pianificato ferie ed impegni vari per non mancare. Anche perché l’età, mia e dei musicisti, avanza e non so quante altre occasioni mi si potranno ancora presentare.
Il 31 maggio quindi, emozionato come uno scolaretto al primo giorno di scuola, eccomi pronto per quella che è sicuramente “la festa” per ogni vero appassionato di rock.
Stadio non sold out, con qualche evidente spazio vuoto nelle tribune laterali, ma comunque con almeno quarantamila presenti. Condizioni meteo accettabili visti i giorni precedenti e soprattutto considerando che Bruce è un “rainmaker”, quando arriva lui infatti piove sempre. Solo un po’ di pioggerellina sottile stile inglese durante la seconda metà dello spettacolo.
Già, lo spettacolo. Iniziamo togliendoci subito il dente e quindi il dolore, dalle critiche chiudendo a chiave per un attimo il fan che è in me.
Innanzitutto il suono, con un brutto effetto palasport che open space non dovrebbe esistere. Suono troppo pompato, con alcuni strumenti mal calibrati. Il grande Nils Lofgren, sopraffino chitarrista, quasi non si sentiva, mentre invece il piano dello strepitoso Roy Bittan era regolato su volumi troppo alti, quasi distorti. Forse dipenderà anche dal fatto che i musicisti sul palco sono veramente tanti e non è semplice equilibrare il volume di tutti ma, soprattutto in alcuni brani, l’impressione è stata più quella di frastuono. Che per i Manowar potrebbe anche andare bene ma per Bruce molto meno. E questo è l’unico svantaggio di una E Street Band allargata.
Altro piccolo appunto è sui vari siparietti con il pubblico che ormai sono una costante nei concerti del nostro. Tutti se li aspettano, si sa quando arriveranno e l’impressione è quasi di qualcosa costruito a tavolino con conseguente perdita di spontaneità. Come, nel caso di questa serata, il ragazzetto salito sul palco, sotto lo sguardo divertito di Nils e Little Steven, già munito di washboard e cucchiai per una peraltro travolgente e godibilissima Pay Me My Money Down.
Bisogna però dire che dopo tutti questi anni a suonare in giro per il mondo, giunto alla sua età, fra l’altro in perfetta forma fisica, Bruce ha trovato nuovi stimoli e soddisfazione nel suo lavoro buttando i suoi spettacoli sul piano della festa, con voglia di divertirsi e divertire. E dobbiamo ammettere che ci sta riuscendo in pieno.
Ultima considerazione, tutta personale, sulla scaletta. E’ risaputo che siamo tutti CT della nazionale, ed alle partite degli azzurri ognuno di noi inserirebbe una formazione diversa, e questo vale anche per la tracklist di Bruce. A me sono mancati tanto brani come Racing In The Street, The River, Pointblank, No Surreder e Bobby Jean. Ma un concerto non può durare dieci ore e Bruce non è un juke-box umano, avendo pienamente il diritto di suonare quello che più gli aggrada; e comunque con lui comunque vada, va bene.
Adesso mandiamo a dormire quel vecchio brontolone rompiscatole che è in me e diamo voce al fan per dire che questa sera, ad esempio, ha riproposto per intero, e mi ripeto PER INTERO, tutto l’epocale Born To Run, dalla prima all’ultima canzone. Grande emozione e brividi quindi per le varie Thunder Road, Backstreets, Jungleland (strepitosa), la travolgente Born To Run, una sentitissima Tenth Avenue Freeze Out, con immagini sul maxischermo di Big Man e Danny con ovazione del pubblico e per la notturna Meeting Across The River con la tromba meravigliosamente jazzy suonata da Curt Ramm.
Dopo una uscita sul palco a sorpresa nel pomeriggio con la sua chitarra acustica per offrire ai fedelissimi del pit due chicche come The Promised Land e Growin’ Up, il nostro ha dato il via allo show alle 20.45 da solo per l’acustica The Ghost Of Tom Joad per poi far entrare la numerosa band e spaziare attraverso tutta la sua lunghissima carriera. Brani storici come The Ties That Bind, Something In The Night ed una sublime Spirit In The Night si sono alternati a quelli più recenti dell’ultimo album, che dal vivo fanno comunque un figurone come We Take Care Of Our Own, Wrecking Ball e la travolgente Shackled And Drawn. Immancabili Badlands a chiudere la prima parte del concerto e Born In The U.S.A. nei bis, cantate da tutto il pubblico.
Pubblico molto diversificato come età, da alcuni bambini ad arzilli ultrasessantenni scatenati a cantare e ballare sugli spalti.
Di Pay Me My Money Down ho già parlato, ma sottolineo la splendida prestazione della sezione fiati, dove ognuno ha goduto di un piccolo spazio ed assolo personale, per finire con una marcetta finale in pieno stile New Orleans Mardi Gras di tutta la band.
Come da copione il bambino a cantare Waiting On A Sunny Day (con dedica ad una rappresentanza di fan croati presenti nello stadio), la signora di mezza età a ballare sulle note di Dancing In The Dark (scelta simpaticamente da Bruce grazie al cartello esposto in prima fila con la scritta “Per favore, balla con mia suocera!”) e, durante la stessa canzone la ragazza a suonare la chitarra sul palco.
Sono stati proposti anche brani eseguiti molto di rado come ad esempio una versione potentissima della Boom Boom di John Lee Hooker.
A mandare tutti a letto, dopo due ore e cinquanta minuti di musica, Twist And Shout/La Bamba, lì dove un tempo era il momento del Detroit Medley.
Due ore e cinquanta, un po’ sotto i suoi soliti standard di minutaggio, ma bisogna dire che i brani sono stati tutti tiratissimi, con quasi nessuna pausa tra un pezzo e l’altro (aveva fretta?)
One-Two-Three-Four e via, con impeto quasi punk, soprattutto nella prima parte. E comunque chi, oggi, riesce a far durare uno spettacolo così a lungo e soprattutto con tale intensità. Non potevamo onestamente chiedergli di più. A tutt’oggi Bruce è quanto di meglio si possa vedere dal vivo.
Due parole sulla band. In primo piano sicuramente l’inossidabile Max Weimberg, una roccia, di una potenza incredibile (visto peraltro nei giorni precedenti nel vicentino a cenare e visitare una nota azienda di abbigliamento di cui indossa abitualmente, da noto elegantone, i prodotti) ed il bravo Jake Clemons, sempre meglio inserito nei meccanismi della E Street. Little Steven sempre sugli scudi come sparring partner del capo; già detto dei talentuosi Nils Lofgren e Roy Bittan, Gary Tallent si è tenuto un po’ in disparte; bravo Charlie Giordano ad organo e fisa, Soozie Tyrell non si è sentita molto al violino a causa dei problemi di amplificazione di cui ho già parlato all’inizio.
Molto, molto bravi gli ottoni Barry Danielian, Clark Gayton, il già menzionato Curt Ramm ed la vecchia conoscenza Eddie Manion (già negli Asbury Jukes), i coristi Curtis King, Cindy Mizette e Micelle Moore ed il percussionista-tastierista aggiunto Everett Bradley.
Tutti a casa contenti quindi, con la speranza che Bruce possa resistere ancora a lungo così in forma. La sua voce è sempre migliore e più profonda, ed anche fisicamente è assolutamente tonico, con numeri atletici da venticinquenne.
Anche perché c’è da chiedersi quale possa essere lo stato di salute attuale della nostra musica se oggi, dopo quarant’anni, riferendoci ad un quasi sessantaquattrenne, siamo ancora qui a dire: Ho visto il futuro del rock ed il suo nome è Bruce Springsteen.

TRACKLIST

The Ghost Of Tom Joad
Long Walk Home
My Love Will Not Let You Down
Two Hearts
Boom Boom
Something In The Night
The Ties That Bind
We Take Care Of Our Own
Wrecking Ball
Death To My Hometown
Spirit In The Night
Thunder Road
Tenth Avenue Freeze Out
Night
Backstreets
Born To Run
She’s The One
Meeting Across The River
Jungleland
Shackled And Drawn
Waitin’ On A Sunny Day
The Rising
Badlands
Pay Me My Money Down
Born In The U.S.A.
Dancing In The Dark
Twist And Shout/La Bamba