Archivio di gennaio 2013

Il Paradiso ritrovato

di Marco Tagliabue

24 gennaio 2013

 

Quale processo ha trasfigurato i Talk Talk milionari di It’s My Life e Such A Shame nei Talk Talk visionari di Spirit Of Eden? La scoperta di Dio, verrebbe da dire, tanta è la spiritualità che ammanta un disco che parla all’Anima come pochi altri. Un disco che gronda fede, passione, dolore e sangue, soprattutto sangue, da ogni solco. O forse, più semplicemente, è il miracolo che si rinnova ogni volta che una crisalide diventa farfalla. Oppure, perché in fondo è di una favola che stiamo parlando, ogni volta che un rospo si trasforma in un principe azzurro. Quel che è certo, in ogni caso, è che i Talk Talk sono stati i protagonisti della più incredibile e stupefacente metamorfosi che la storia della musica pop ricordi. Un paio di successi planetari destinati alla colonna sonora dei primi, ultra patinati anni ottanta, nel segno di un sinth pop danzereccio totalmente asservito alle leggi di mercato. Quelle stesse leggi che verranno letteralmente fatte a pezzi, senza remora ne’ pietà alcuna, nei due dischi della conversione, Spirit Of Eden (EMI, 1988) e Laughing Stock (Polydor, 1991), in barba ad un’industria discografica già sicura di aver trovato i nuovi Duran Duran. A dirla tutta, però, qualche avvisaglia c’era stata. Ai più attenti non era sfuggito che The Colour Of Spring (EMI, 1986), quello che doveva essere il disco della consacrazione dopo i fuochi fatui di It’s My Life (EMI, 1984), rappresentava un tentativo di lasciarsi alle spalle una stagione musicale, quella dei lustrini e delle paillettes, ormai logora e consunta. Un tentativo magari non completamente riuscito, o piuttosto non portato avanti in maniera uniforme, quasi il frutto di un conflitto interno senza ancora vincitori ne’ vinti, ma dove le armi riescono ad affondare vincendo la resistenza (Happiness Is Easy, I Don’t Believe In You, April 5th, Chameleon Day), lo stacco con il passato appare incolmabile e definitivo. Nonostante tutta la buona volontà di Mark Hollis e soci, il disco arriva al numero otto delle classifiche inglesi e fa sfracelli un po’ dovunque, spingendo la EMI a dare carta bianca e budget illimitato ai Talk Talk per dare alle stampe un degno successore. Quando, tre anni e trecentocinquantamila sterline dopo, gli avveduti e lungimiranti discografici della major si vedono consegnare il master con le nuove registrazioni, non possono fare a meno di strabuzzare occhi ed orecchie. Sei lunghe composizioni suonate al rallentatore che sfumano una nell’altra, come fossero movimenti di un’unica suite che verrà divisa in due dalle facciate del vinile: una musica intensa e profonda ai limiti dell’intollerabile, melodie avare e quasi inintelligibili, ampi spazi strumentali con incredibili giochi di luci ed ombre, una cura maniacale per ogni dettaglio, la voce di Hollis che sembra strappare le corde vocali da cui esce per arrivare fino a Dio. Sembra impossibile che dietro questo disco si possano celare gli stessi autori di un singolo come Such A Shame, eppure è così: anche per i più scettici –primo fra tutti proprio chi vi scrive- il piatto è servito. E che piatto. Sotterrato definitivamente il synth, sono suoni impalpabili ed indistinti (violino, fiati, chitarra) quelli che introducono The Rainbow, scoprendo una dimensione parallela dalla quale si libera lentamente il ritmo. La voce di Mark Hollis, soffusa, eterea, sfuggente, arriva dopo qualche minuto accompagnando i suoni e facendosi essa stessa suono, liberando le pause e scoprendo i silenzi in una melodia delicatissima e quasi celestiale. Si sfocia in Eden senza soluzione di continuità: un ritmo lento spezzato dalle impennate della chitarra e dai guizzi dei fiati, fra oasi di silenzio e lampi accecanti di rumore, e la voce, naturalmente, materia sonora inaudita dalle incredibili modulazioni. Desire segue fra fortissimi chiaroscuri, fra pause profonde e implacabili silenzi rotti da impennate ritmiche e risucchiati in un finale cacofonico. E la voce, come sempre, a condurre il gioco e dettare le regole. Inheritance si libera da un ritmo lento e regolare, da suoni delicati e trasparenti fatti di poche note, di accordi tirati, di impercettibili tocchi, di emozioni sfuggenti; la voce traccia una melodia sensuale e sublime che si scopre poco a poco fino a rivelare tutta la sua potenza. Da I Believe In You si libera, ad un certo punto, un coro di angeli che fa pensare di essere giunti alla sospirata meta, quell’Eden che, a dire il vero, sembrava già a portata di mano. Wealth, delicata e rarefatta, chiude con un flusso d’organo celestiale, mentre la voce si libera sopra ogni altra cosa in una disperata richiesta di aiuto. D’ora in poi il pop non sarà più lo stesso. E Mark Hollis nemmeno.

da LFTS n.92

Rock & Pop, le recensioni di LFTS/20

di admin

2 gennaio 2013

bettye

BETTYE LAVETTE

Thankful ‘n’ Thoughtful

Anti 2012

 

La storia di questa cantante afroamericana dovrebbe esservi nota: Bettye Lavette, le cui prime registrazioni risalgono agli anni sessanta, è stata riscoperta e rilanciata con la dovuta attenzione solo nella seconda metà del nuovo millennio, grazie all’etichetta olandese per cui sta continuando ad incidere. Ovviamente i fari si sono riaccesi su di lei, sono stati rispolverati e messi in circolazione molti suoi nastri degli anni settanta, il tutto sull’onda della riscoperta. Questo disco è l’ultimo tassello della rinascita artistica di questa potente cantante dalla voce impregnata di umori neri. Il disco è ben fatto, ben prodotto, lei canta sempre all’altezza della situazione e il risultato, se non fantastico è pur sempre su buoni standard, vuoi per l’accuratezza della scelta dei brani, vuoi per la produzione di Craig Street o per l’accompagnamento di una band ridotta e senza troppi fronzoli tra cui spicca alla chitarra il grande Jonathan Wilson. A ben vedere questo disco tutto è, fuorché un disco di soul music, ma di anima ce n’è talmente tanta nella voce della protagonista che basta a catalogare il prodotto. Si comincia con una bella interpretazione di Everything Is Broken, Dylan deve aver sicuramente apprezzato, e si finisce con Everybody Knows This Is Nowhere (la Lavette aveva già messo la sua voce su un altro classico di Neil Young quando negli anni settanta aveva inciso un’ottima versione di Heart Of Gold). Di notevole spessore è la classica Dirty Old Town (presente anche come bonus track in versione ancor più lenta e lunga, forse troppo), e tra le cose più riuscite c’è la rilettura di Crazy (proprio quella di Gnarls Barkley che ha spopolato qualche anno fa come tema di uno spot televisivo), che diventa una lenta ballata. The More I Search The More I Die è un brano molto intenso trapuntato dal banjo di Wilson e da un organo intrigante. Meno riuscita forse è la resa di Yesyerday Is Here di Tom Waits, meglio I’m Tired col suo treno di batteria e la chitarra a dare la giusta marcia alla canzone.

Paolo  Crazy Carnevale

 

 

bertocchini

LORENZO BERTOCCHINI

Live At Sidewalk Cafè

GOMB Pirate Series 2007

 

Risale a un po’ di anni fa questo live americano di Lorenzo Bertocchini, frontman della band varesotta degli Apple Pirates, si tratta della testimonianza di un breve tour (otto concerti in tutto) che questo artista ha fatto negli Stati Uniti alla fine del 2006, nella fattispecie, il disco è la cronaca di una gustosa serata in un piccolo club di New York, in cui il pubblico americano sembra apprezzare questa performance in stile folksinger/songwriter che Bertocchini infarcisce di divertenti brevi intermezzi tra un brano e l’altro.  La musica è quella dei cantautori americani che stanno un po’ alla base dei gusti musicali di questo cantante/chitarrista/armonicista che in tempi più recenti ha realizzato anche un personale tributo a Bruce Springsteen.  Le canzoni di Bertocchini sembrano tutte uscire dalla penna di uno qualsiasi dei suoi ispiratori – e forse proprio questo è il loro limite – ma sono comunque apprezzabili, in un caso, Sittin’ On The Throne, una quasi talking song che sembra più un tormentone stile La Balilla o La famiglia dei gobboni, la matrice si distacca notevolmente dai cliché nordamericani e il pubblico sembra apprezzare ancor più. Poi c’è l’ospite d’onore, la cantautrice Ruth Gerson, probabilmente più nota in Italia che in patria, che in un paio di occasioni duetta con Bertocchini e non mancano alcune cover che funzionano sempre in una serata da club: la dylaniana Forever Young (uno dei duetti con la Gerson), That’s The Way That The World Foes Round di John Prine, Marie Marie dei Blasters, Something Like Steve McQueen di Elliott Murphy e I Tried To Be True di Will T.Massey. In tutto questo le composizioni originali finiscono un po’ col perdersi perché per forza di cose, quando si assiste a uno spettacolo di questo genere, o si ascolta il disco da esso tratto, se il materiale non originale è troppo e di tale portata si rischia di non accorgersi di quello autografo che comunque – ascoltare Always On My Mind per credere – mantiene una sua dignità.

Paolo Crazy Carnevale

 

 

VCostantinoCinaski_Smoke

VINCENZO COSTANTINO CINASKI

Smoke (Parole senza filtro)

Autoprodotto Gibilterra/Venus 2012

 

Cinaski, nato Vincenzo Costantino, vede la luce nelle sinuosità milanesi intorno all’anno 1964 e di lui serbiamo un singolare e appassionante ricordo di quando si dilettava a battere tasti della sua macchina per scrivere alla mo’ di carbonaro nei sottosuoli del capoluogo lumbard. All’età di trent’anni come accadde ai più noti fratelli del Blues vede la luce  conoscendo l’asceta Vinicio col quale dopo nottate, crediamo, a parlare e raccontarsi scivolano via quasi in clandestinità a vergare un libro a venti dita che Feltrinelli editerà non sappiamo se in clandestinità. Ci sovvien voce che dopo “In Clandestinità”, questo era il titolo del libro propenda per una raccolta di poesie più underground di quanto non fosse il periodo conclusivo delle vicende di Jean Valjean quando vagava, ma con idee ben precise, nei sottofondi di Parigi. Ma da tali meandri sviscera, stavolta a dieci dita (delle mani) un singolare Chi è senza peccato non ha un cazzo da raccontare che rivela già dal suo anticonformista ma acuto titolo dove il personaggio voglia andare a parare o a sfruculiare e… se tanto nella vita a volte da tanto riscuote un eccellente successo di vendite. La strada lo porta a frequentare Folco Orselli, a perorare le sue cause poetiche per anni in notturni, una volta avremmo detto fumosi, ora non si può più, locali milanesi assieme a una band giustamente titolata Caravanserraglio che ben rende l’idea del profondo percorso sostenuto. E da lì localini, osterie, forse sottoscala o stanze nascoste di vita quotidiana. Insomma, un nugolo d’anni e un effluvio di posti a portar idee, poesie, inventive, anche invettive perché no, sin a conoscere il figlio di John Fante tal Dan, ovviamente Fante, suo grande fan d’oltreoceano che lo esorta a continuare a portarsi sera dopo sera a sviscerare le sue visioni miste sempre a grande poesia e ad eccelsi pensieri. Questo percorso di sudore e vitalissima energia ce lo consegna oggi con un lavoro che se ha sempre dalla sua i cardini della poesia, vengono qua  però espressi in tal contesto musicati in supporto fonografico, oggi dicasi volgarmente CD, ma un tal lavoro avrebbe meritato solchi e spazi del vecchio buon vinile. Trattasi quindi non di un CD di canzoni ma di poesie musicate e recitate tutte bagnate di autoproduzione ove trovano mirabilmente posto a perfetto incastro due tasselli di Leonard Cohen e Pete Seeger che nobilitano un lavoro che già di suo raggiungeva vertici di nobile, nobilissima caratura.

Tra gli ospiti ubicati qua e la dal Cinaski in deferente e stimato aiuto troviamo Simone Cristicchi, Raffaele Kohler e naturalmente VinicioCapossela.

Non citiamo alcun titolo poiché tutti interessanti e profondamente coinvolgenti e meritori non tanto d’esser citati ma ascoltati.

 

Ronald Stancanelli

 

 

jimmy webbJIMMY WEBB

Just Across The River

E1 2010

 

Penso che per i più il nome di Jimmy Webb sia un nome di nicchia, per molti forse uno sconosciuto, tutt’al più un autore di canzoni portate in giro da altri artisti. A ben vedere molto probabilmente è vero, le sue canzoni hanno avuto maggior successo nelle mani di altri autori, a partire da quel Richard Harris – più noto come attore che come cantante – che alla fine degli anni sessanta ha realizzato (proprio quando il mondo lo scopriva come uomo “chiamato cavallo”) un paio di dischi basati su composizioni firmate da Webb. Che dire, persino i nostri Nomadi hanno avuto modo di cimentarsi con una delle canzoni più celebrate di Webb, Wichita Lineman (un successo per Glen Campbell ripreso anche da Johnny Cash nelle sue session per l’American Recordings), facendola divenire l’improbabile L’auto corre lontano ma io corro da te.  A testimonianza del grande apprezzamento di cui Webb gode come autore, è uscito, poco più d’un paio di anni fa, questo grande disco in cui il nostro si misura con alcune delle sue più belle composizioni accompagnato qua e là da illustri colleghi e amici che gli danno una mano a rispolverare e far brillare nuovamente le sue perle.  Il risultato è incredibile, tanto da rendere il disco uno di quei dischi da avere, da ascoltare, in particolare in queste fredde serate invernali, complici il calore delle canzoni, la calda voce di Webb e dei suoi amici e la bellezza delle composizioni che a distanza di anni non hanno perso una virgola dello smalto originario.  Niente super produzioni dietro le quinte, solo suoni sani e vivi; Webb e la sua band rileggono Oklahoma Nights con l’aiuto di Vince Gill, Wichita Lineman insieme a Billy Joel, By The Time I Get To Phoenix con Glen Campbell. Lucinda Williams si unisce a loro per una spettacolare Galveston mentre Jackson Browne ci mette del suo per dare del lustro ad una formidabile P.F. Sloan – resa celebre a suo tempo da Johnny Rivers. E ci sono anche Linda Ronstadt e J.D. Souther, mentre Willie Nelson con la sua voce troppo di naso non mi convince in If You See Me Getting Smaller.  Per contro è molto bella Highwayman in cui il protagonista del duetto e un motivato Mark Knopfler che, oltre alla voce, presta a Webb anche la chitarra.  La voce di Webb si sposa sempre molto bene con quelle di tutti gli ospiti, tra i quali figura anche Michael McDonald, proprio nella canzone da un cui verso è tratto il titolo del disco.

Paolo Crazy Carnevale

 

 

tag my toe

TAG MY TOE

This Fear That Clouds Our Minds

Autoprodotto 2012

 

Interessante il risultato dell’abbinamento musicale che questo gruppo piemontese ha ottenuto con la sua proposta in chiave acustica contenuta in questo CD.  Infatti, il modo di cantare di Fabrizio Zortea, debitore ai vari modelli hard rock/heavy metal a cui chiaramente si rifà, nella veste acustica in cui i brani sono presentati, apre in qualche modo orizzonti musicali molto lontani da questi generi musicali. Il gruppo, nato qualche anno fa come quartetto ispirato da Black Sabbath e Alice In Chains, si è presto ridotto ad un duo di cui Zortea divide le sorti con il chitarrista Riccardo Stura e ora mette sul piatto, o meglio nel lettore Cd, undici tracce autografe e autoprodotte che si fanno apprezzare per l’originalità del progetto e per la bontà di alcune delle composizioni.  Del modo di cantare di Zortea ho già detto, ma mi sembra opportuno ribadire ulteriormente come questa voce (doppiata da sé stessa in alcuni punti) sia la principale caratteristica del prodotto, con una chitarra acustica che va ad inserirsi rispettosamente, a volte come semplice accompagnamento altre facendo qualcosa in più: quello che ascoltiamo ricorda a tratti certi cantautori oscuri degli anni settanta, dotati di vocalità particolare e presto caduti nel dimenticatoio (mi viene in mente tale Darius, ma anche Leopold Perry), e la chitarra quando non è mero accompagnamento rilascia degli interventi molto western, come accade nella traccia quattro, If God, uno dei momenti migliori del disco. Tra gli altri brani più interessanti di questo debutto dei Tag My Toe, ci sono il brano d’apertura Something Wicked This Way Comes, My Destiny Is Gone e 45 Rounds e lo strumentale 780.

Paolo Crazy Carnevale

Terra e Acqua

di Marco Tagliabue

1 gennaio 2013

D’accordo, da qualche parte, lungo i suoi 74 minuti, si ode pure qualche strano gorgoglio acquatico, ma mai titolo fu più fuorviante per una musica che evoca immagini di aride terre desolate, battute da venti caldissimi che riescono solo in minima parte a lenire i raggi di un sole cocente. Ma per inquadrare gli Scenic di Bruce Licher non basta il deserto, è salutare un salto indietro nel tempo alla Los Angeles dei primi anni ottanta, ad una scena che si auto battezzò trance della quale non si accorse nessuno salvo qualche pazzo sparso qua e là in Europa e, caso più unico che raro, in particolar modo gli appassionati della fanzine romana Viva, che assemblarono un paio di antologie dal titolo programmatico di “Viva Los Angeles”. Pochi nomi che ai più non diranno niente, eccezion fatta per i capostipiti Savage Republic, ma che, almeno fra i membri di un paio d’essi, Psi-Com e Shiva Burlesque, videro germogliare due delle formazioni più rappresentative della decade successiva, ovvero Jane’s Addiction e Grant Lee Buffalo. Ma è al genio dei Savage Republic che vogliamo tornare, che è poi in massima parte il genio del leader Bruce Licher, artista a tutto tondo nella musica e nella grafica, che rappresentava in fondo la sua professione originale, e responsabile per il tramite della sua Independent Project Records di alcuni dei manufatti più preziosi degli anni ottanta. Dischi che non avevano nulla di seriale: edizioni limitate e numerate, copertine pressate a mano in cartone grezzo che sovente si aprivano a busta o a croce, una gran quantità di inserti, cartoline, etichette, disegni di fattura squisitamente artigianale che facevano di ogni copia dell’album un pezzo unico. Che poi la maggior parte di essi contenesse musica decisamente all’altezza dell’involucro che la avviluppava era particolare non certo da poco. I Savage Republic pubblicarono quattro album fra il 1982 ed il 1989, tutti non meno che ottimi, i primi due dei quali, “Tragic Figures” e “Ceremonial”, possono essere considerati i manifesti del movimento ed i capolavori di tutta la trance. Ma sarebbe più giusto dire capolavori e basta. Gli Scenic, che accanto a Bruce Licher (chitarra) vedevano in formazione James Brenner (basso), Brock Wirtz (batteria) e Robert Loveless (tastiere), oltre ad essere una sorta di supergruppo di reduci da quella stagione ingloriosa, costituirono di fatto una sorta di appendice dell’esperienza Savage Republic, della quale ripresero i temi principali spogliandoli della voce. Nessuna parola, dunque, ma è un fattore del tutto trascurabile in un sound di squisita fattura che non ha bisogno del canto per evocare immagini e suggestioni straordinarie, per unire il kraut-rock a Morricone, per sposare la psichedelia con la musica etnica, il progressive con il primitivismo, l’ambient con qualche tocco di isolazionismo. Una musica dolce, solenne e visionaria, cinematica e cinematografica come poche altre. Dopo un singolo con tre brani che sarebbero stati integralmente ripresi nell’album, gli Scenic debuttavano sulla distanza maggiore nel 1995, naturalmente su Independent Record Project, con “Incident At Cima”, esordio coi fiocchi già perfettamente focalizzato sulle suggestioni visive che è in grado di suscitare la musica del gruppo. Un altro singolo, Sage/Another Way, destinato invece a rimanere inedito, prima di approdare l’anno successivo a “Acquatica”. Uno dei rarissimi CD la cui lunghissima durata non alimenti sacrosante accuse di eccessiva prolissità, merito di un sound che non conosce cedimenti e mantiene costantemente alte tensione e attenzione, e che oltretutto gratifica anche il suo possessore grazie ad un digipack, del quale sapete già chi ringraziare, che è forse il più bello che mi sia passato fra le mani. “Acquatica” amplia, insieme al minutaggio, le medesime suggestioni del predecessore, apportando elementi di novità che tendono anche a distaccarlo dall’esperienza Savage Republic. Merito soprattutto di una strumentazione molto più ricca che con fiati, bouzouki, synth, armonica ed un gran numero di diavolerie etniche, sottolinea il temperamento di una musica che non conosce confini, che ama guardare il mondo dall’alto, cullata da un vento che attraversa mari e deserti senza posare mai i granelli di sabbia che porta con sé. Dopo una lunghissima attesa, sette anni dopo, nel 2003, gli Scenic non avrebbero smesso di sorprendere con “The Acid Gospel Experience”, il terzo e finora ultimo atto della loro saga, ma Independent Record Project non esisteva più, e con essa buona parte di quel mondo al quale preziose esperienze come questa sono legate in maniera indissolubile.

(da LFTS n.96)