Posts Tagged ‘Dewa Budjana’

DEWA BUDJANA – Mahandini

di Paolo Crazy Carnevale

14 gennaio 2019

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DEWA BUDJANA – Mahandini (Moonjune 2019)

La benemerita etichetta di Leonardo Pavkovic inaugura il 2019 col botto pubblicando nei primi giorni dell’anno un nuovo disco di Dewa Budjana, in assoluto uno dei suoi più prolifici ed al tempo stesso apprezzabili accoliti.

Budjana, non è la prima volta che se ne parla in questa sede, è un fantastico chitarrista indonesiano che nella sua musica riesce ad infondere le influenze della musica americana, il jazz-rock, certe atmosfere vagamente latine, ma sempre senza perdere di vista la sua terra d’origine, che ritorna puntualmente, a partire dalle sempre azzeccate copertine scelte per i dischi.

A riprova del fatto che non sia uno qualunque, nei suoi lavori riesce a coinvolgere sempre un sacco di artisti che riescono a integrarsi perfettamente con la visione musicale di Budjana. Per il disco in questione oltre alla brava e bella bassista indiana Mohini Dey, al batterista Marco Minnemann e al tastierista Jordan Rudess, che costituiscono la band basilare, il titolare ha coinvolto un paio di chitarristi parecchio famosi ed al tempo stesso diversissimi, segno della continua voglia di contaminare e fare evolvere la propria musica, fino a sfiorare, anzi toccare decisamente, anche sonorità rock: si tratta del Red Hot Chili Pepper John Frusciante e di Mike Stern.

Il risultato è entusiasmante in tutti i casi. Il primo brano, Crowded, porta la firma e la voce di Frusciante ed è un riuscito esperimento di contaminazione tra le due culture, mentre con Queen Kanya ci troviamo al cospetto di un raffinato brano in cui Dewa butta fuori tutto il suo chitarrismo. Poi e atmosfere si tingono di elettronica e ritmica industriale nella lunga Hyang Giri che conta sulla vocalità flessuosa della cantante balinese Soimah Pankawati, altro interessante esperimento in cui la bassista si conquista un meritato assolo. Il brano prelude alla pianistica Jung Oman, autentica vetrina per Rudess (che vanta precedenti nella souhtern band Dixie Dregs e nei Dream Theater), Dewa si innesta con una chitarra elettrica dalle atmosfere quasi gilmouriane (nel senso di David Gilmour) e un’ancor più deliziosa acustica.

A questo punto arriva la collaborazione con Mike Stern, con il brano ILW, in odore di progressive rock, ed è un altro buon risultato che fa crescere ulteriormente il disco. Poi è la volta della title track, una lunga (la più lunga del disco) traccia che si dipana come un’improvvisazione in cui tutto il gruppo ha la possibilità di mettere in luce le proprie virtù, nessuno escluso: nell’edizione in vinile è aggiunta come bonus una versione acustica del brano).

Poi la conclusione, fantastica, eccelsa, con Zone, di nuovo scritta (come il brano iniziale per il disco del 2014 Enclosure) e cantata da Frusciante, una composizione che lascia decisamente il segno e suggella una nuova grande intuizione marchiata Dewa Budjana, che del brano è arrangiatore e produttore.

DEWA BUDJANA – Zentuary

di Paolo Crazy Carnevale

18 dicembre 2016

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DEWA BUDJANA – Zentuary (Favored Nations/Moonjune Asia 2016, 2 CD)

Sembra davvero inesauribile la vena di questo chitarrista indonesiano che in quattro anni è giunto al quinto disco, per di più doppio, senza perdere un briciolo di smalto e, anzi, divenendo sempre più convincente, per quanto già dall’esordio del 2013 avevamo intuito di trovarci di fronte ad un soggetto di indubbio interesse ed elevate capacità. Per produrre questo Zentuary ci si sono messe ben due etichette, il dipartimento asiatico della Moonjune Records (a cui si devono anche i quattro predecessori) e la Favored Nations di Steve Vai.

Non solo, se nelle opere precedenti si era già assistito ad uno schieramento di accompagnatori di grido reclutati tra gli abituali collaboratori della Moonjune e turnisti titolati, stavolta il gruppo di base è a dir poco da Hall of fame: Dewa ha al suo fianco il bassista Tony Levin e i batteristi Jack De Johnette e Gary Husband (che siede anche alle tastiere e al piano), tutta gente dal curriculum enciclopedico e dal talento indiscusso.

Il doppio disco, il cui titolo è una crasi tra “zen” e “sancturay” è un omaggio del titolare alla madre scomparsa e ci offre varie sfaccettature del chitarrismo di Budjana che con una band solida alle spalle può davvero fare ciò che vuole.

La sua fusion (un brutto termine, ma davvero è difficile trovarne di più appropriati) è un continuo mescolamento tra oriente e occidente, con fraseggi di chitarre e pianoforte che si rincorrono (in particolare il primo dei due dischi sembra particolarmente riuscito) con una sezione ritmica che non perde un colpo e gli immancabili richiami alla madrepatria, qui rappresentata dal flauto tradizionale di Saat Syah e dalle vocalist Risa Saraswati e Ubiet, oltre che dalle frequenti citazioni geografiche indonesiane nei titoli delle tracce del disco.

Non solo, in due brani c’è anche l’Orchestra Sinfonica Ceca, con cui Budjana, a Praga, ha registrato proprio le prime tracce di questo disco, e ancora la chitarra di Guthrie Govan e i fiati di Danny Markovich e Tim Garland.

Sei brani per disco, tutti piuttosto lunghi ed evoluti: la prima composizione, Dancing Tears è già grandiosa, un viaggio di oltre nove minuti in cui Dewa suona anche una chitarra acustica, e il tenore del disco non si abbassa di un tono nella successiva e altrettanto lunga Solas PM, dove davvero chitarra e piano sono protagonisti lanciandosi in fughe con rincorsa.

Cambio di rotta per l’ariosa Lake Takengon, dall’inizio spiazzante e impreziosita da un assolo lancinante nel mezzo. Suniakala, unico brano del disco in cui Dewa non è chitarrista unico, vista la presenza dell’ex Asia Guthrie Gowan, è una composizione d’ispirazione meno orientata verso jazz e fusion, quasi rock piuttosto, a cavallo tra certe cose space-rock un po’ alla Pink Floyd un po’ in odor di progressive, senza dubbio uno dei vertici del disco, anch’essa con un bel passaggio di chitarra acustica.
La composizione seguente, Dear Yullman, ha un incedere cadenzato in crescendo, mentre nella finale Rerengat Langit (Crack In The Sky) troviamo finalmente anche l’orchestra ceca mescolata col flauto indonesiano: sicuramente un esperimento interessante di mediazione tra oriente e occidente, abbastanza differente dal resto di questo Zentuary, ma ricco di suggestioni legate anche alla voce di Risa Saraswati.

Nel secondo disco emergono particolarmente l’iniziale Pancaroba dall’andamento bello tosto, Manhattan Temple, un brano dall’impostazione fusion più tipica e dedicato a Leonardo Pavkovich, mentore di Dewa in occidente e responsabile della Moonjune. E ancora , degna di nota, la lunga Uncle Jack (la composizione più lunga del disco), dalle molteplici sfaccettature e – come tutto il disco – con la sezione ritmica in vena di prodigi.

Molto bella e rappresentativa l’immagine di copertina, che rende molto bene l’idea del melting pot non solo musicale. Del disco, udite udite, è disponibile anche la versione in vinile!!!!

Rock & Pop, le recensioni di LFTS/31

di Paolo Crazy Carnevale

28 aprile 2014

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DEWA BUDJANA – Surya Namaskar (Moonjune 2014)

 

Terzo disco in poco più di un anno per questo incredibile chitarrista indonesiano “scoperto” da Leonardo Pavkovic e lanciato alla grande dall’etichetta di New York il cui nome è un palese omaggio al Canterbury Sound. Lo scorso anno dopo il brillante debutto di Dawai In Paradise era uscito un altro disco di Budjana e nessuno si aspettava un seguito a così breve distanza, invece ecco qui un altro prodotto e, cosa che importa maggiormente, l’artista sembra non aver perso una virgola di smalto, manca giusto l’effetto sorpresa del primo CD, ma per il resto è di nuovo un signor disco che conferma il nome di Budjana come uno dei migliori della scuderia della Moonjune.

La musica indonesiana si fonde con rock e jazz in una miscela che va oltre la definizione comune di fusion, la chitarra domina ma il drumming solido di Vinnie Colaiuta ed il basso di Jimmy Johnson (entrambi accreditati sul fronte della copertina) fanno la loro buona parte e per quanto riguarda il resto, in un brano c’è persino la chitarra di Michael Landau (già con Miles Davis, Joe Cocker, Pink Floyd, nonché con tante star del nostro paese), in un altro le tastiere di Gary Husband e in Kalingga, la traccia più lunga e più bella, ci sono anche gli strumenti tradizionali indonesiani suonati da Kang Yia e Kang Pupung.

Il disco si compone di otto tracce, alcune più risapute come l’opening track Fifty o Campuhan Hill, molto jazz, altre più dinamiche ed originali come Capistrano Road, brano molto d’atmosfera, Duaji & Guruji, la già citata multiforme Kalingga in cui i suoni elettrici e gli strumenti della tradizione si fondono magistralmente in un crescendo rock dopo un inizio all’insegna della musica orientale e la title track dalle molteplici ispirazioni che lascia posto ai solismi del leader e dei suoi collaboratori senza mai stufare.

 

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MACHINE MASS – Inti (Moonjune Records 2014)

 

Machine Mass è una formazione mutevole che gira attorno al batterista americano Tony Bianco e al chitarrista belga Michel Delville: i due oltre ad aver fondato il gruppo Doubt avevano già inciso un CD qualche anno fa sotto il nome di Machine Mass Trio, dove il trio si completava col sassofonista Jordi Grognard. Ora il ruolo di sassofonista è stato raccolto da Dave Liebman, strumentista che nell’ambito del jazz elettrico al confine col free più estremo vanta collaborazioni a volontà, incluse quelle con Miles Davis, Chick Corea,  e John McLaughling. Per la precisione, Liebman è co-titolare di questo disco di Machine Mass, non più trio ma indicato in copertina come Machine Mass feat Dave Liebman

Dal canto loro, gli altri due compari non sono certo dei principianti, Bianco ha lavorato con Elton Dean dei Soft Machine, Delville è stato leader di vari progetti come Wrong Object e Doubt. Un’ora di musica quasi interamente strumentale, tutta o quasi sottolineata dalle evoluzioni di Liebman al sax, con gli altri due che tessono basi al limite dell’elettronica usando batteria, chitarra, loop vari, tastiere, percussioni. Unica concessione ad un sound più facile e digeribile, il brano The Secret Place cantato da Saba Tewelde. I brani sono firmati tutti in solitaria o collaborazione dai tre musicisti, con l’eccezione di In A Silent Way, scritto da Joe Zawinul e inciso da Davis nel 1969, come a indicarci dove affondino le radici questi Machine Mass.

 

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ZACHARY RICHARD – Le Fou (Huggy’s Music/Sony France 2014)

 

Un ritorno alla grande quello di Zachary Richard (visto recentemente anche dal vivo in quel di Vicenza e recensito da Ronny Stancanelli in “Late For The Sky” versione cartacea), un ritorno come si deve per un personaggio che dai suoi esordi nella seconda metà degli anni settanta ha disseminato nel corso dei decenni una serie di dischi non da poco, dai primi, irrinunciabili pubblicati dalla CBS Canada, a quelli un po’ furbetti – in quanto infarciti di sonorità e canzoni in stile New Orleans/Zydeco commerciale – del decennio successivo su Rounder Records, ai grandi dischi per la A&M negli anni novanta. Le ultime produzioni di Richard sono state tutte casalinghe, nel senso che le ha realizzate per la propria label, con distribuzione via CD Baby, destino a cui è andato incontro anche questo Le Fou nel 2012, salvo però essere poi ripubblicato quest’anno dalla Huggy’s Music e distribuito in Europa dalla Sony francese, quasi un ritorno alla label d’origine visto che la Sony è proprietaria dei cataloghi Columbia/CBS.

Il disco nuovo ci offre una dozzina di nuovi brani, tutti o quasi ispirati e godibili, riconducibili in qualche modo al filone di dischi come Migration del 1978 o Cap Enragè di metà anni novanta, vale a dire dischi in cui Zachary si discosta leggermente dalla tradizione più smaccatamente zydeco e cajun per mettersi in luce come autore – e che autore! – di canzoni. È la via che ha abbracciato da un po’ di tempo in qua, gli ultimi dischi prodotti in proprio fanno parte di questo filone infatti, salvo il fatto che in Last Kiss, del 2009, aveva infilato una riuscita cover di Acadian Driftwood in cui duettava nientemeno che con Celine Dion.

A costituire un trait d’union con la produzione precedente troviamo la presenza di Sonny Landreth che firma con la sua slide il bel brano d’apertura, Laisse le vent souffler, e l’unica concessione allo Zydeco, un brano dedicato a Clifton Chenier, maestro del genere e idolo di Richard da sempre. Ma ci sono altri grandi brani dentro questo disco, c’è la title track ad esempio, un’intensa ballata dedicata al disastro ecologico che nel 2010 ha colpito Deepwater Horizon a causa di una marea nera, e c’è La Ballade de Jean Saint Malo, uno dei classici omaggi di Richard agli eroi oscuri della sua terra, siano essi eroi d’Acadia come Beausoleil e Jackie Vautour, o eroi della Louisiana come questo Jean Malo, che capeggiò la prima rivolta di schiavi. E come a volersi ricondurre idealmente a quel Migration citato più sopra, Zack conclude il disco con un brano intitolato Les Ailes Des Hirondelles, proprio come il brano che chiudeva il lato A del vinile di Migration: la musica ed il testo sono differenti, ma il contenuto sembra essere davvero un seguito di quella canzone che era stata inclusa anche nel live del 1980. Tra i musicisti coinvolti nelle registrazioni troviamo Justin Allard, Roddie Romero e David Torkanowski, che hanno accompagnato l’artista anche nel recente tour europeo.

 

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XAVI REIJA – Resolution (Moonjune Records 2014)

 

Progressive jazz dalla Catalogna, passando però per la penisola balcanica. Questo disco lunghissimo, quasi ottanta minuti di contorsioni strumentali venate di elettricità geometrica e divagazioni chitarristiche di ispirazione talvolta post-industriale, tal altra ai confini con l’heavy rock, è sorretto principalmente dallo strumento del titolare, il batterista catalano Xavi Reija, a capo di un trio che si completa con la chitarra di Dusan Jevtovic, di Belgrado, già protagonista di un altro disco in trio per la medesima label, e con il basso elettrico mai scontato di Bernat Hernandez.

Rispetto al disco solista di Jevtovic, questo Resolution è soprattutto un lavoro del batterista – che non per nulla ne è il titolare – che fa dispiego di energia e muscoli per infondere alla musica una dinamica tutta sua. Undici le tracce che compongono il CD, alcune particolarmente lunghe e ricche di sviluppi strumentali in cui i ritmi e le melodie si intrecciano e sfociano in cavalcate ossessive, salvo poi ricondurre il tutto ad atmosfere più miti.

Un disco meno immediato e facile di altri prodotti dalla Moonjune Records, di sicuro interesse per gli amanti del genere, ma privo di certe connotazioni ai limiti della world music che fanno apprezzare maggiormente le altre produzioni della label di New York.

DEWA BUDJANA – Jaged Kayhangan

di Paolo Crazy Carnevale

26 dicembre 2013

dewa budjana

 

DEWA BUDJANA

Jaged Kayhangan

(Moonjune Records 2013)

 

Non ci sono dubbi, Leonardo Pavkovic e la sua casa discografica devono credere moltissimo in questo chitarrista indonesiano recentemente approdato alla scuderia della Moonjune Records, questo nuovo CD è infatti il secondo in poco meno di un anno ed un terzo è già annunciato per gennaio: non solo, basta ascoltare il disco per capire che la fiducia in Deva Budjana è più che ben riposta.

Il nostro, non più un ragazzino visto che lo scorso agosto ha tagliato il traguardo dei cinquant’anni, ha alle proprie spalle una prolifica discografia tra le fila della pop rock band Gigi, oltre ad alcuni album a proprio nome, ma in questo periodo sembra davvero più ispirato che mai, registra i propri dischi negli Stati Uniti, all’insegna di una fusion elegante e intelligente, e si serve di fior di musicisti dal pedigree assai altisonante.

Se il precedente disco, Dewa In Paradise, era uno splendido esempio della capacità compositiva di Budjana , in bilico tra i suoni occidentali a cui si rifà abbondantemente e le matrici asiatiche che ha nel DNA, ora l’asse si è spostato dalla musica dei suoi esordi verso orizzonti più legati al jazz e alla musica fusion, per quanto in alcune composizioni emergano evidentemente e talvolta prepotentemente le sue influenze iniziali.

Così accanto a brani dichiaratamente jazz come Dang Hiang Story o la languida title track, il disco offre prelibatezze come la zappiana Erskoman, l’etno-rock di Guru Mandala e l’avvincente As You Leave My Nest, cantata da Janis Siegel (che ne ha scritto anche il testo), proprio quella dei Manhattan Transfer, che impreziosisce non poco il già bel lavoro del chitarrista, che si occupa delle melodie ben coadiuvato dall’organo hammond  di Larry Goldings, altro solista e session man dalla chilometrica discografia. Alla batteria siede Peter Erskine, pluridecorato session man per un certo periodo nei Weather Report, al sax c’è Bob Mintzer, ex Yellowjackets, e il basso è suonato da Jimmy Johnson (con James Taylor, Albert Lee, Kenny Loggins e Stan Getz, tanto per comprovarne la poliedricità); Deva Budjana compone tutto e dirige la banda, mettendo a segno un altro ottimo colpo, il secondo in pochi mesi.

Rock & Pop, le recensioni di LFTS/24

di Paolo Crazy Carnevale

1 aprile 2013

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ARLO GUTHRIE & THE DILLARDS – 32 Cents Postage Due (Rising Sons 2008)

 

Woody Guthrie. Credo che il novero delle celebrazioni e dei tributi a lui dedicati sia quasi tendente all’infinito, soprattutto dopo quelli numerosi dello scorso anno, anno in cui cadeva il centenario della sua nascita.

Personalmente, nel corso degli anni ho sentito molti omaggi a questo padre dell’american music, e sono da sempre affezionato allo storico tributo del 1968, quello in cui Dylan & The Band (che si chiamava ancora Crackers all’epoca) eseguirono tre cover in chiave Basement Tapes, con un suono mai più sentito. Recentemente ho scoperto quest’altro bel tributo, particolarmente accorato visto che  proviene dal figlio di Woody, quell’Arlo che e stato uno dei personaggi di punta di Woodstock e grazie al film Alice’s Restaurant, basato su un suo lungo talking blues, ha continuato ad essere sulla cresta dell’onda per tutti gli anni settanta, legandosi artisticamente anche a Pete Seeger, forse il più noto tra i collaboratori musicali di Woody.

Questo bel cd pubblicato dalla Rising Sons nel 2008, vede Arlo affrontare una bella selezione di brani del padre, facendosi accompagnare da una delle migliori formazioni di musica acustica – parlare di bluegrass è limitante – che abbiamo mai calcato i palchi d’America. I Dillards (qui sono presenti ambedue i fratelli fondatori, Doug e Rodney) accompagnano Arlo Guthrie in maniera magistrale, rivestendo le folk song del padre con i loro strumenti e con arrangiamenti azzeccati. Il lavoro che ne viene fuori è davvero apprezzabile, il connubio tra l’approccio vocale da folk singer del canuto Brooklyn cowboy e gli arrangiamenti del gruppo appalachiano sembra fatto apposta per queste canzoni che devono alla tradizione molto più che un semplice qualcosa.

Riascoltare l’immensa Tom Joad, composta da Woody all’indomani dell’aver visto al cinema il film che John Ford aveva tratto dal capolavoro di John Steinbeck, fa sparire definitivamente la pallosa song che Springsteen ha dedicato in tempi più recenti allo stesso personaggio; The Sinkin’ Of The Rueben James, la children song Ship in The Sky (deliziosa e ben arrangiata), Grand Coulee Dam, East Texas Red, le ultra classiche Do Re Me e So Long It’s Been Good To Know You: tutte contribuiscono a fare di questo disco un piccolo prezioso classico. Non ultima l’immancabile This Land I You Land che Guthrie e i Dillards decidono di eseguire in chiave strumentale.

 

 

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DADDY WAS A DRIVER – Daddy Was A Driver (Zip 2010)

 

Non vi tragga in errore il nome del gruppo, né tantomeno la musica che sentirete uscire da questo dischetto, e non fate caso al fatto che sia pubblicato da una piccolo label di San Francisco: I Daddy Was A Driver sono una band Bolognese e questo dovrebbe essere il loro disco d’esordio, non ho notizie se vi sia stato un seguito o meno visto che me lo sono trovato in mano per caso, l’unica cosa che posso dirvi è che prima di chiamarsi così il gruppo si chiamava De Soto.

Fatta questa doverosa premessa, passo a parlarvi dei contenuti. Nonostante la copertina bruttina anzichenò il disco è decisamente piacevole, nulla di nuovo certo, ma fa inorgoglire il pensiero che nel nostro paese ci sai qualcuno che abbia voglia di fare musica così genuina e divertente, reinventando – a proprio modo – il vecchio adagio gucciniano sulla via Emilia ed il West. E di West puro qui si tratta, non country, proprio western, non in senso musicale quanto piuttosto cinematografico, con una dozzina di canzoni che suonano come se la band, dopo aver fatto propri certi riff alla John Fogerty li avesse applicati al suono di certe band di Tucson in voga negli anni ottanta, e a certi musicisti del movimento denominato Paisley Underground, con le chitarre suonate però non secondo la lezione dei Byrds bensì secondo i dettami di Duane Eddy e  Dick Dale, vale a dire baritonali e con tanto di tremolo surf. Una bella miscela insomma, con alcuni brani particolarmente riusciti, su tutte l’iniziale Postacrds From Des Moines, o l’omaggio ironico al punk newyorchese dei Ramones di Sheena Was A Country Girl, Disbanded In Flagstaff e The Meaning Of Your Dreams. Se poi vi dico che in cabina di regia c’è Craig Schumacher, già al fianco di Dan Stuart, Calexico, Steve Wynn, Giant Sand, e qui mi fermo, non dovreste più aver dubbi sui buoni propositi e sui contenuti del disco in questione.

 

 

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DEWA BUDJANA – Dawai In Paradise (Moonjune Records 2013)

 

Mi incuriosiscono sempre queste pubblicazioni che sfuggono abilmente ad ogni definizione o classificazione. Questo quinto disco del chitarrista indonesiano sta in bilico tra un sacco di generi musicali, senza mai propendere definitivamente per uno sol: ci sono chiaramente ingerenze jazz-rock, ma in alcuni brani il suono della batteria è tutto fuorché jazz, in passato si usava molto il termine fusion, ma anche qui si va oltre, Budjana e le sue chitarre spaziano e vanno oltre, in certi menti potrebbe suonar bene il termine etno-jazz, ma non è nemmeno di questo che si tratta. Questo cd, quasi tutto strumentale è stato realizzato con la collaborazione di diversi musicisti connazionali del titolare e qualche ospite straniero (il più noto è senz’altro il batterista Peter Erskine), con una strumentazione abbastanza classica, fatta eccezione per l’uso del flauto di bambù, e se il brano d’apertura è una specie di hard-jazz-rock col basso suonato in maniera possente, già con la successiva Gangga le atmosfere virano altrove facendoci sognare sulle ali delle voci delle coriste che creano atmosfere molto orientali. Masa Kecil un altro dei brani chiave del disco inizia invece come un tema musicale della tradizione irlandese, e prosegue, grazie agli interventi del flauto, mantenendo un perfetto equilibrio tra oriente e mondo celtico che si sviluppa per tutta la durata del brano. La parte centrale del disco è sicuramente quella più entusiasmante con i dieci minuti di Malacca Bay, ancora con le voci femminili, un break di pianoforte di impronta jazz che più classica non si può e influenze spagnoleggianti in apertura e in chiusura, e con le successive Kunang Kunang e Caka, entrambe caratterizzate da interventi strumentali di largo respiro.

 

 

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MARBIN – Last Chapter Of Dreaming (Moonjune 2013)

 

Ho scoperto questa formazione israeliano-statunitense col disco precedente a questo, che è il terzo, e sono subito rimasto affascinato dal suono e dalla proposta musicale di questo quartetto strumentale, tanto lontano dai miei ascolti abituali, quanto vario, interessante e soprattutto intelligente. La fascinazione e la buona impressione vengono confermate ampiamente in questo Last Chapter Of Dreaming, un signor disco che il gruppo facente capo al chitarrista Dani Rabin ed al sassofonista Danny Markovitch ha registrato nel corso dello scorso anno in giro per gli States, usando vari studi, a causa dell’estenuante e monumentale attività live (oltre quattrocentocinquanta date in meno di tre anni) che i Marbin – il nome è un’evidente crasi tra i cognomi dei due leader – conducono.

Quattrodici tracce all’insegna dell’elettricità, un risultato che è una bella mistura di generi, con una prevalenza all’insegna del rock, nella sua manifestazione che qualcuno potrebbe definire art-rock (Inner Monologue), striature di jazz (Redline e And The Night Gave Nothing), ma con moderazione, grande energia e soprattutto inventiva. Ogni traccia suona come se fosse una piccola colonna sonora, prendete ad esempio Breaking The Cycle, sembra fatta apposta per uno spaghetti western (ma la definizione potrebbe adattarsi anche alla title track, soprattutto nella sua ouverture acustica), così come Café de Nuit è pura nouvelle vague. Qua e là ci sono voci che danno una mano al gruppo e qualche altro strumentista si aggiunge al quartetto – il tastierista Matt Nelson riveste di grandi tappeti sonori alcune delle tracce -.

Al tutto, qua e là si innestano elementi yiddish, propri delle origini di Markovitvch e Rabin, senza mai sconfinare però nel tipico sound klezmer, ma piuttosto mescolando sapientemente le atmosfere popolari con il suono potente e sostenuto della formazione, mi riferisco a brani come The Ballad Of Daniel White, dall’andamento più sostenuto, e Down Goes The Day, più introspettiva.