Archivio di maggio 2015

PentAgrate Musicfest 2015

di admin

25 maggio 2015

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Emma Tricca e i Sacri Cuori
ospiti di PentAgrate Musicfest 2015

Artisti di prestigio in ambito rock e folk suoneranno alla prima edizione del Festival curato dal critico musicale Pier Angelo Cantù per il Comune di Agrate Brianza: Emma Tricca e i Sacri Cuori sono, infatti, due dei nomi di maggior spicco tra i musicisti di casa nostra, pienamente affermati sulla scena internazionale. Completa il cartellone il giovanissimo (14 anni) chitarrista e compositore locale Jacopo Stucchi, al debutto assoluto su un palco importante.
Il Festival sarà inaugurato dalla proiezione del film “Zoran il mio nipote scemo” del regista Matteo Oleotto, con la colonna sonora dei Sacri Cuori. Il film è stato premiato alla Mostra del Cinema di Venezia nel 2013.

Perché PentAgrate?

“Agrate Brianza è un puntino quasi invisibile sulla mappa del mondo – spiega il consigliere delegato alla Cultura, Patrizia Beretta – Ma, osservandolo con attenzione, questo puntino si rivela come un piccolo cuore che pulsa al battito della musica. Musica ascoltata o suonata nelle case, negli uffici, nelle strade, da soli o in compagnia. Che accompagna le corse quotidiane nei sentieri della zona, o i momenti di relax, quando le luci nella case si affievoliscono. Scopriamo allora che questo puntino quasi invisibile è una nota messa su un pentagramma ideale: l’inizio di un suono, di una canzone, di una partitura musicale”.

“PentAgrate – sottolinea il direttore artistico Pier Angelo Cantù – vuole essere un festival musicale trasversale, legato di volta in volta a tematiche specifiche e che potrà anche essere proposto in due edizioni ogni anno. Vogliamo mettere questo puntino in una dimensione più ampia: una cornice con al centro la musica, intesa non come semplice prodotto di sottofondo o di intrattenimento per la Tv, ma espressione artistica che diverte, emoziona, coinvolge; senza sudditanze rispetto alle altre forme d’arte che le faranno da contorno. Uno spazio aperto dove far convergere cittadini e appassionati che si incontrano per godere insieme dell’ottima musica suonata dal vivo”.

La prima edizione è dedicata agli artisti italiani che hanno lasciato una forte impronta all’estero, unendoli idealmente a una delle più interessanti espressioni locali nascenti.

Nell’ambito del Festival 2015 sarà allestita una mostra fotografica dedicata ai musicisti ospiti, con foto di Angela Anzalone, Eleonora Rapezzi, Chiara Meattelli e Attilio Marasco.

PentAgrate è organizzato dal Comune di Agrate Brianza in collaborazione con la rivista Late For The Sky organo d’informazione della Vinyl Legacy Association.

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Programma edizione estiva 2015

Giovedì 2 luglio
“Zoran il mio nipote scemo” – regia di Matteo Oleotto
Ore 21.30
Auditorium “Mario Rigoni Stern” presso la Cittadella della cultura di Agrate Brianza

Venerdì 3 luglio
Sacri Cuori

Sabato 11 luglio
Emma Tricca
in apertura: Jacopo Stucchi

Piazza San Paolo.
Inizio concerti ore 21.30
Ingresso gratuito.

In caso di maltempo i concerti si effettueranno all’Auditorium “Mario Rigoni Stern”
presso la Cittadella della Cultura di Agrate Brianza
Sacri Cuori

Sacri Cuori è il gruppo creato e guidato dal chitarrista e compositore Antonio Gramentieri. La formazione tipo è un quartetto (affianco a Gramentieri ci sono Francesco Giampaoli al basso, Franz Valtieri al sax baritono e Diego Sapignoli a batteria e percussioni) che, a seconda dei contesti e delle occasioni, si allarga a quintetto, sestetto e settetto. Il loro percorso artistico intreccia i suoni del folk e del blues (del deserto) americano e la tradizione della colonna sonora all’italiana (Nino Rota e Trovajoli). Una musica che, a spasso sulle strade della Los Angeles più meticcia, ritrova anche le suggestioni letterarie dell’italo-americano John Fante, le allucinazioni di David Lynch, il Messico immaginato dalla fisarmonica di Castellina/Pasi. Una musica dagli ascolti colti ma dall’anima popolare, che affronta senza remore la propria italianità e la sfida della melodia. Delone è il terzo disco in studio dei Sacri Cuori, recentemente premiato con una recensione a 4 stelle dal prestigioso quotidiano inglese “The Guardian”.
Il primo, Douglas and Dawn, è stato registrato presso il Wavelab Studio a Tucson (Arizona) nel 2008 con la partecipazione di John Convertino e Jakob Valenzuela dei Calexico, Howe Gelb, Thoger Lund, James Chance, Marc Ribot e tanti altri. Il secondo, intitolato Rosario (cd su Decor, vinile su Interbang), è stato realizzato fra Richmond, Los Angeles e Lido di Dante. In pratica: la Romagna delle origini che si specchia nell’America dei confini, l’Adriatico nel Pacifico, Rimini in Venice Beach. Un disco registrato su nastro, con strumenti analogici, in compagni di amici vecchi e nuovi: il leggendario batterista Jim Keltner (John Lennon, Dylan, Neil Young e mille altri), David Hidalgo dei Los Lobos, John Convertino dei Calexico, Marc Ribot (Tom Waits, Lounge Lizards), Woody Jackson, Stephen McCarthy (Long Ryders, Jayhawks), Isobel Campbell.
Nell’estate 2013, sotto l’egida del Ravenna Festival, i Sacri Cuori hanno messo su il progetto Sacri Cuori Social Club, con i “leoni” del liscio Primo Montanari e Michele Carnevali. E hanno suonato diversi concerti insieme a Evan Lurie (Lounge Lizards, compositore e autore di colonne sonore per Benigni e tanti altri), coinvolgendolo anche nella produzione artistica di Delone.
Sul finire del 2013 è uscita (su etichetta Brutture Moderne) la loro colonna sonora di “Zoran il mio nipote scemo”, film d’esordio di Matteo Oleotto con protagonista Giuseppe Battiston, premiato a Venezia nella Settimana della critica, vincitore di altri riconoscimenti presso festival italiani e internazionali e ottimo successo di pubblico nelle sale.

Emma Tricca

Definita dalla stampa internazionale “la regina della folk music”, Emma Tricca proviene da una famiglia di scienziati e artisti abruzzesi: il nonno lavorava per la Siemens studiando le onde sonore, lo zio dipingeva. Sua madre studiava poesia e il cugino scriveva versi. Emma ascoltava musica classica, ma anche Elvis Presley e gli artisti italiani che a lui si ispiravano.
Durante l’infanzia subisce il fascino dell’album “The Times They are A-changing” di Dylan e l’immagine sulla copertina porta Emma a investigare i luminari della scena musicale degli anni ’60: da Dylan alla Baez, e poi Joni Mitchell, Carolyn Hester, Phil Ochs e Dave Van Ronk. A 16 anni il nonno scienziato le regala dei soldi, che lei spende comprando la chitarra del cugino. Inizia così il lungo percorso che la porta prima al Folkstudio di Roma, poi in Inghilterra: inizialmente a Marlow dove impara canzoni tradizionali e inizia a suonare nei club di Oxford, venendo notata da personaggi come Roy Harper e Phil Guy. Il successivo trasferimento a Londra porta Emma a perfezionare la sua musica nelle serate a microfoni aperti in giro per la città, prima di formare una band vera e propria. La voglia di spostarsi e l’amore per i musicisti folk del Greenwich Village la portano prima a New York, poi in Texas, luoghi in cui vive e suona, prima di tornare ai club folk di Londra.
L’estate del 2006 la vede suonare al Green Man festival nel Galles: Il Dj e boss della Finders Keeprs/Twisted Nerve, Andy Votel e la moglie Jane Weaver la invitano sul palco del prestigioso Meltdown Festival del 2007, curato da Jarvis Cocker dei Pulp. La sua performance incanta il pubblico e la critica internazionale, facendole ottenere un tour sia in UK che in tutta Europa a supporto di John Renbourn. Dopo il tour, Emma registra finalmente il suo primo disco, Minor White, summa perfetta della sua storia, prodotto naturale di tutte le miglia percorse e delle canzoni suonate. L’eleganza e lo charme senza fronzoli delle sue canzoni è accompagnato da quel senso di vissuta malinconia che riflette l’educazione musicale internazionale di Emma che nel frattempo suona alla Royal Albert Hall di Londra e all’Apollo di Manchester come artista a supporto di Jools Holland, di fronte a 8mila persone.
Nel 2014 esce Relic, album acclamato dalla critica internazionale che porta nuovamente Emma Tricca a suonare dal vivo in un tour europeo.

Gli artisti sono disponibili a concedere interviste

Direzione artistica e informazioni:
Pier Angelo Cantù – pierangelo.cantu@lateforthesky.org – 333 9880094

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Comune di Agrate Brianza

JIMMY LAFAVE – The Night Tribe

di Ronald Stancanelli

24 maggio 2015

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THE NIGHT TRIBE – JIMMY LAFAVE

Esce oggi ufficialmente nei negozi il ritorno di Jimmy LaFave che con la sua splendida voce e le sue superbe armonie in The Night Tribe, ci dona l’ennesimo, eccellente album di una carriera che non ha mai conosciuto cadute di sorta ma neanche , almeno qua da noi, la notorietà meritata.
Ricordiamo oltre alla sua interessante discografia costellata di album quasi di culto con varie straordinarie cover, in buona parte di pezzi di Dylan, che ultimamente nel doppio album tributo a Jackson Browne dal titolo Looking Into you, Jackson Browne che a giorni sarà qua in Italia da noi per un breve tour, La Fave ne è stato uno degli interpreti migliori con For Everyman.
Tredici brani, più una ghost-song, di romantica passione che profumano di buono, bello, poetico e che riempiono con inusitata bellezza ed eleganza la mente e gli occhi di chi lo ascolta creando un solido quadro tinto di straordinarie pennellate colorate che scorrono piacevolmente una dopo l’altra.
Uomo di grande innata gentilezza sforna realmente un piccolo grande capolavoro che assieme al recente disco di James McMurtry non può non essere considerato tra le cose più piacevoli ascoltate in questo 2015 e che sicuramente ne sarà alfine protagonista. Ricordiamo anche che Zucchero nel suo ultimo disco, La Sesion Cubana, aveva inciso Never is a Moment appunto di Jimmy, tratta dal magnifico album Texoma del 2000.
Pare dalle note della cartella stampa che La Fave sarà anche lui prossimamente dalle nostre parti e l’avvenimento si preannuncia decisamente da non perdere.
Tutti i brani scritti dal cantautore dell’Oklahoma escluso Journey through the Part di Neil Young e Queen Jane Approximately di Bob Dylan , entrambe in splendide e sentite riproposizioni.
Atmosfere dolcissime e la voce del cantautore ancor più smussata e arrotondata del solito con inflessioni che evocano un grande trasporto emozionale. A differenza di vari suoi album precedenti ove la collaborazione di altri musicisti era alquanto parca qua abbiamo ben quindici aiuti musicali tra cui Radoslav Lorkovic al piano e all’organo, Andrei Pressman al basso, e Bobby Kallus alla batteria mentre ben tre i chitarristi, Antohy Da Costa, Larry Wilson e Garrett Lebeau. Ad addolcire il tutto infine viola,violino, violoncello e arpa che ingentiliscono ulteriormente un disco di leggiadra e delicata fattura. Prodotto dallo stesso LaFave il cd in digipack cartonato si avvale di una splendida foto di copertina in perfetta sintesi con il contenuto del disco.

YAGULL – Kai

di Paolo Crazy Carnevale

20 maggio 2015

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YAGULL – Kai (Moonjune Records 2015)

Il progetto musicale di Sasha Markovic, chitarrista e autore serbo, trapiantato nella Grande Mela, giunge al suo secondo capitolo, dopo la parentesi che l’artista aveva dedicato alla sua side band chiamata Sours, e per questo secondo capitolo il progetto cambia forma, si allarga: al fianco di Markovic non ci sono più i musicisti che con i loro archi avevano aiutato a definire il concetto di “post rock da camera”, la nuova partner musicale è la pianista giapponese Kana Kamitsubo, proveniente da studi classici e ora anche moglie di Markovic.
Il concetto non è cambiato di molto, l’idea di base rimane la stessa, una manciata di composizioni strumentali originali che si dipanano tra momenti più intimi e straordinari crescendo, solo che duettare con la chitarra c’è il piano al posto degli archi. E accanto alle composizioni originali, come nel primo disco accreditato a Yagull, troviamo anche due cover di rock degli anni settanta rivisitate alla perfezione nello stile Yagull, dopo Black Sabbath e Cream, stavolta a finire nel repertorio di Markovich ci sono i Free (Wishing Well) e i Deep Purple (Burn). Ma ci sono anche un sacco di ospiti a dare una mano in studio, a rendere il tessuto di questo disco ancor più bello, ospiti provenienti dalla scuderia Moonjune come il chitarrista indonesiano Dewa Budjana, il batterista Marko Djordjevic, il chitarrista Beledo e ancora l’armonica di Jackson Kincheloe e molti altri.
Notevoli sono sicuramente i due brani ripescati e rivisitati dal disco d’esordio di Yagull, la possente Dark i cui nuovi abiti sono un autentica sciccheria con il piano e la chitarra che si alternano nell’essere protagonisti e Sound Of M resa preziosa dall’armonica di Kincheloe. Ma a parte le rivisitazioni e le cover, a brillare in questo CD sono i brani nuovi di zecca, dall’iniziale North (che con East dal disco precedente potrebbe costituire una sorta di quartetto le cui terza e quarta parte sono ancora da incidere o comporre) alla breve Z-Parrow, in odore di irish folk anche per via delle suggestioni del flauto di Lori Reddy, alla title track dedicata al figlio dei due titolari.
Ma i pilastri del disco sono senza dubbio Blossom, il brano con Dewa Budjana, Omniprism dalle numerose invenzioni strumentali e l’eccelsa Mio, dal tessuto sonoro che incrocia atmosfere d’ispirazione iberica e evidenti richiami alla musica balcanica che evidentemente troneggia nel dna di Markovic.

PAT TRAVERS – Feelin’ Right

di Paolo Baiotti

17 maggio 2015

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PAT TRAVERS
FEELIN’RIGHT – The Polydor Albums 1975-1984
Polydor/Universal 2015

Pat Travers, canadese nato nel 1954 a Toronto, dotato di una voce aspra e non particolarmente gradevole, ma chitarrista di notevole qualità, ha avuto un periodo di discreta popolarità verso la fine degli anni settanta, pur restando in secondo piano rispetto a solisti come Ted Nugent o a gruppi come Aerosmith e Kiss. Analogamente ad altri chitarristi (penso a Frank Marino, Ronnie Montrose, Mike Pinera, Robin Trower e Rick Derringer) è stato considerato e stimato da molti colleghi e si è costruito una carriera senza particolari vette, con dischi apprezzabili che hanno venduto con una certa regolarità. Il recente box quadruplo della Polydor ripropone integralmente otto dischi del suo periodo migliore, l’intera produzione dagli esordi al 1984 per la label, ad eccezione di Crash And Burn (1980) stranamente escluso, forse per motivi di diritti anche se originariamente pubblicato dalla stessa etichetta.

Scoperto da Ronnie Hawkins che lo scelse come chitarrista, Pat decise di trasferirsi a Londra nel ’74 dove firmò per la Polydor, esordendo con l’omonimo album l’anno successivo. Nella band c’è già il bassista inglese Peter “Mars” Cowling che resterà con Pat fino all’83, tornando nell’89 fino al ’93. Il suono è un hard rock con influenze blues e rock and roll che si manifestano nelle covers di Boom Boom e Mabellene e un certo gusto nella melodia, evidenziato dalla morbida Magnolia di JJ Cale. In Makin’ Magic (1977) alla batteria siede Nicko McBrain (futuro Iron Maiden); il suono è molto più sicuro e personale e cresce anche la qualità dei brani autografi. Spiccano la title track, l’intensa ballata Stevie con un ottimo assolo e la cover di Statesboro Blues con ospite Brian Robertson dei Thin Lizzy. Putting It Straight (1977) è nella scia del precedente, hard rock solido impregnato di blues con venature funky e soul, limitato dalla voce poco attraente del leader. Il rock grintoso di Life In London e Speakeasy (con la seconda chitarra di Scott Gorham) e la sofferta Dedication con tastiere e sax in primo piano oltre a una chitarra limpida e melodica mi sembrano gli episodi più significati di un buon disco. Heat In The Street (1978) è il primo album della Pat Travers Band, che comprende oltre a Cowling il secondo chitarrista Pat Thrall (ex Stomu Yamashta’s Go e Automatic Man) e il solido batterista Tommy Aldridge. Crescono di pari passo popolarità, qualità compositiva e compattezza del suono, evidenziate dalla trascinante Heat In The Street, dal rock potente e intransigente dello strumentale Hammerhead e dalla conclusiva ballata One For Me And One For You venata di reggae con Pat anche alle tastiere.

E’ il momento di un disco dal vivo, dopo un tour di grande successo in compagnia dei Rush. Go For What You Know (1979), registrato tra gennaio e febbraio in Texas e Florida, è un ottimo riassunto dei primi quattro dischi, fotografando l’eccellente dialogo tra le due chitarre, quella più tradizionale e legata al blues di Travers e quella più veloce e moderna di Thrall, anticipatore dello stile di Van Halen e del metal degli anni ottanta. Il rock blues solido di Hooked On Music, il funky-rock di Gettin’ Betta, l’esplosiva versione di Boom Boom (Out Go The Lights) e la drammatica Stevie con l’introduzione vibrata e il dual sound delle chitarre sono le tracce migliori di un album che proietta Travers nei Top 40. Crash And Burn consolida questa posizione salendo al n.20, ma l’ascesa è al capolinea. Quando esce RadioActive (1981) la band è implosa, tanto che il disco è intestato al solo Pat Travers. Thrall e Aldridge partecipano alle registrazioni, ma lasciano prima della pubblicazione, il primo per formare una band con l’ex Deep Purple Glenn Hughes, il secondo per raggiungere Ozzy Osbourne. Il disco cerca di adeguarsi alle tendenze degli anni ottanta: meno chitarra, più tastiere, un po’ di elettronica, convincendo solo parzialmente. Da dimenticare la ballata I Can Love You e lo strumentale Untitled, da salvare Play It Like You See It. Il cambio di direzione è confermato da Black Pearl (1982) che contiene l’ultimo singolo di discreto successo di Pat, I La La La Love You, ma anche un’evitabile esecuzione di The Fifth di Beethover e una cover poco brillante di Misty Morning di Bob Marley. Il periodo Polydor è chiuso da Hot Shot (1984) che raggiunge solo il n. 108 in Usa, tornando ad un suono più rock nel momento sbagliato. Pat trova un valido appoggio nella chitarra di Jack Riggs (che lo accompagnerà fino al ’93), ma si circonda di session men e appare poco incisivo e convinto, ad eccezione del rock energico di Killer e di In The Heat Of The Night. La label lo scarica, il musicista continua a suonare dal vivo in circuiti minori e tornerà in sala di registrazione solo nel ’90, trovando una nicchia in ambito rock-blues con la Blues Bureau del produttore Mike Varney.

LUKE WINSLOW-KING feat.ESTHER ROSE – The Coming Tide

di Paolo Crazy Carnevale

15 maggio 2015

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LUKE WINSLOW-KING featuring Esther Rose – The Coming Tide (Bloodshot Records 2013)

Fantastico! Non conoscevo questo artista ma il suo vinile mi ha letteralmente conquistato. Non c’è nulla che non mi piaccia di questo esordio di Winslow-King su Blooshot, già seguito da un nuovo disco e preceduto da due autoproduzioni sulla più piccola label Fox On A Hill.
Le immagini di copertina farebbero pensare ad un vecchio disco di fine anni cinquanta, primi sessanta, quei dischi di folk revival in odor di Weavers riconoscibili fin dal look dei musicisti prima ancora che dalle note sprigionate dai solchi. E Luke Winslow-King non è da meno, il suo abbigliamento la dice lunga sulle sue referenze, sul suo perfetto equilibrio tra modernariato folk e tradizione, sull’essenzialità dei suoi suoni e degli arrangiamenti che ha approntato per le canzoni di questo felice disco. Brani originali, traditional o ripescaggi dal limbo: questo è il succo di The Coming Tide che vede qua e là Esther Rose, moglie di Luke, prestare la propria voce, talvolta duettando, tal altra facendo la protagonista (ad esempio in I’ve Got The Blues From Rampart Street) o suonando semplicemente l’asse da lavare.
Altra cosa che il sound di questo artista non tradisce assolutamente, sono le sue origini geografiche: Winslow-King è di New Orleans e le atmosfere della “crescent city” emergono prepotentemente qua e là, soprattutto quando allo scarno accompagnamento a base di soli batteria, basso e chitarra subentra un’altrettanto scarna ed essenziale sezione di ottoni.
Ma oltre ad essere bravo autore e cantante dalla voce in perfetto equilibrio tra soul e folk, Winslow-King è anche un sopraffino chitarrista (tutte le parti di chitarra sono sue) e i suoi interventi spesso in odore di Ry Cooder – ma la voce di Winslow-King ha un’originalità tutta sua – esaltano l’ascolto di questo vinile.
Se la title track un’orecchiabile composizione che non esita ad entrare presto in circolo col suo botta e risposta tra il leader e la sua signora, le successive Moving On (Toward Better Days) e Let ‘Em Talk sono più intimiste, venate di blues e dixie, col piano ed i fiati in evidenza. Bella la folkeggiante Staying In Town una sorta di valzerone guidato da una chitarra dai suoni hawaiani che riporta la mente a tempi lontani, mentre Keep Your Lamp Trimmed And Burning è un classicone che negli anni settanta faceva parte di rigore nel repertorio degli Hot Tuna e qui è ripresa da Winslow-King e soci con un piglio rilassato, ma non moscio, ed una slide ben suonata.
Il lato A si chiude con l’ottima You Don’t Know Better Than Me, uno dei brani migliori della raccolta – ma tenete conto che brani brutti non ce ne sono.
La seconda facciata si apre con I’ve Got The Blues From Rampart Street, con la voce della Rose in primo piano. Con You & Me torna ad essere Luke il protagonista e lo sarà fino alla fine, con I Know She’ll Do Right By Me, con l’intimista Ella Speed e col trascinante finale di i Got My Mind Made Set On You, proprio quella che a suo tempo aveva rifatto persino George Harrison, qui naturalmente in versione differente e minimalista.
Nella busta del vinile c’è tanto di buono per il download digitale che offre due bonus tracks in linea col disco, particolarmente interessante la strumentale Old Rug che non avrebbe sfigurato su Chicken Skin Music

Il 16 e 17 maggio torna VINILMANIA

di admin

14 maggio 2015

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HAYSEED DIXIE – Hair Down To My Grass

di Paolo Crazy Carnevale

13 maggio 2015

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HAYSEED DIXIE – Hair Down To My Grass (HD 999 2015)

Gli anni ottanta ci hanno consegnato del pattume musicale mica da ridere. Sono stati gli anni della musica plasticosa e, per quanto riguarda quella non plasticosa, delle produzioni ad hoc per le stazioni radiofoniche FM che hanno messo il rock più genuino in naftalina per diverso tempo, lasciando campo libero ad heavy metal e pop annacquato.

Gli Hayseed Dixie, capitanati dal vulcanico John Wheeler sono una di quelle band i cui componenti sono cresciuti con quella musica ma sono al tempo stesso legati profondamente alla musica delle origini, e la loro genesi sta proprio in questo: appassionati di heavy metal ad oltranza, fin dall’esordio risalente ormai a quindici anni fa, hanno cercato di coniugare il loro orgoglio redneck con i gusti musicali degli adolescenti della loro generazione. Il risultato è incredibile: se infatti all’inizio la loro missione era omaggiare gli AC/DC coverizzandoli in chiave bluegrass (e il nome Hayseed Dixie è un chiaro richiamo a quello della loro band preferita), con gli anni il progetto si è evoluto e affinato, non più solo AC/DC ma anche altri mostri sacri del rock, tutto suonato impeccabilmente come se fossero alle prese con il repertorio del miglior Peter Rowan o di Flatt & Scruggs, ma cantato col piglio da rock songs. Nel corso della loro carriera, gli Hayseed Dixie hanno “ripassato “ mostri sacri come Beatles (per altro non estranei alla rivisitazione secondo il verbo bluegrass), Aerosmith, Who, Queen, Ted Nugent, Status Quo, Alice Cooper.

Non storcete il naso, il risultato è davvero interessante e soprattutto in questo ultimo prodotto, che rivisita proprio alcune delle più becere composizioni degli anni ottanta, ci si riscopre ad ascoltare divertiti alcune canzoni che davvero fino a questo momento avevamo ascoltato per forza perché le trasmetteva la radio o perché magari eravamo in macchina con qualcuno che le ascoltava volontariamente.

Prendete per esempio Eye Of The Tiger, quella del film “Rocky”, io non l’ho mai sopportata, nemmeno quando la rifacevano i Big Daddy in chiave fifties, eppure qui, rivestita di banjo e mandolino è tutta un’altra cosa, con tanto di citazioni che vanno da Morricone a Ghost Riders In The Sky.

E che dire del violino quasi da musica classica che introduce la becera Final Countdown (detto per inciso una delle più inutili canzoni della storia) e che domina nella cover di Wind Of Change degli Skorpions qui cantata nella sua versione in tedesco. Ottima anche Summer Of ’69, proprio il grande successo di Bryan Adams, e fantastica Pour Some Sugar On Me dei Def Leppard. E poi ci sono Living On A Prayer di Bon Jovi, Dont’ Feel The Reeper dei Blue Oyster Cult (col banjo che conduce le danze e un break di violino da Deutsche Grammophon) e un’intensa rilettura, abbastanza fedele all’originale ma rigorosamente acustica, della pinkfloydiana Comfortably Numb, tra le migliori canzoni di The Wall.

DAVID WIFFEN – Songs From The Lost And Found

di admin

12 maggio 2015

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David Wiffen – Songs From The Lost And Found (True North, 2015)

Erraticità e mistero hanno accompagnato la storia artistica di David Wiffen, cantautore inglese di nascita ma canadese a tutti gli effetti. Un oscuro e acerbo live nel 1965, un paio di album nei primi anni Settanta molto amati dagli appassionati e un affaticato comeback a fine secolo, è tutto quello che Wiffen ha consegnato agli archivi del cantautorato di matrice folk country. Decisamente una miseria, soprattutto se comparata con la ricchezza, di scrittura e di esposizione, di David Wiffen (1971) e, soprattutto, di Coast To Coast Fever (1973), spazzati via da scelte di vita autolesioniste. A riempire il silenzio che intercorse tra quei lavori e il ritorno di South Of Somewhere (1999), ci prova ora questa eterogenea e inaspettata raccolta di inediti e versioni alternate. Songs From The Lost And Found contiene, infatti, 12 brani inediti registrati tra i Settanta e gli Ottanta, e 5 canzoni già presenti in South Of Somewhere, ma in versione differente. E a dispetto della non organicità della sequenza di canzoni, spesso fissate su nastro solo come promemoria di lavoro, questa raccolta racchiude qualche piccolo diamante grezzo. Come l’apertura di California Song, registrata il giorno in cui veniva pubblicato Coast To Coast Fever, le coeve Rocking Chair World e Ballad Of The Inland Sailors, e ancora l’omaggio (esplicito) a Gordon Lightfoot di Ballad Of Jacob Marlowe e la splendida melodia di In Your Room. Qui, ma anche altrove, ritroviamo quella voce pensierosa giocata spesso in chiave di baritono, e quel gusto per melodie attratte tanto dal blues che dal folk, tratti che accomunano Wiffen a maestri come Fred Neil e Gordon Lightfoot. C’è posto anche per due cover, Crazy Me dalla songwriter canadese Lynn Miles e No Expectations, della quale Wiffen si appropria con maggiore sicurezza, dai Rolling Stones. Chi scopre Wiffen solo oggi non deve certo partire da qui, ma gli altri sanno già cosa fare.

Mauro Eufrosini

Originariamente pubblicato su https://themusicbin.wordpress.com/

The Pop Group: La Cognizione del Dolore

di Marco Tagliabue

2 maggio 2015

Per salutare il ritorno del Pop Group con un disco di inediti, il recentissimo Citizen Zombie, a trentacinque anni di distanza da For How Much Longer Do We Tolerate Mass Murder, andiamo a ripescare un vecchio articolo sul gruppo di Mark Stewart scritto in tempi piuttosto bui…

Parla, illumina queste catene/Parole come azzurri cristalli/Rompiamo la barriera del suono/Rubiamo la velocità alla luce.   Seppelliamo il sole e beviamo /Beviamoci la notte.  Ti prego non vendere i tuoi sogni.  Parla, illumina queste catene/Dipingi un nuovo suono/Inventa un colore nuovo/Afferra, afferra, afferra un pensiero/Lacrime di polvere, disperse dall’aria. Ti prego non vendere i tuoi sogni/Non vivere nei sogni di qualcun’altro. (Don’t Sell Your Dreams-1979)

Per molto tempo il Pop Group è stato solamente un sogno. Un miraggio da rincorrere a prezzi assassini, buono per i pazzi ed i collezionisti, che è un po’ come dire la stessa cosa.  Spasmodicamente attratti dal quel piccolo e misterioso culto che da sempre circonda la band, in tanti ne siamo stati irrimediabilmente respinti, vittime dei cronici problemi di reperibilità di quelle irraggiungibili opere, quasi si fosse voluto sancire una sorta di “numero chiuso” da parte dei gelosi custodi del mito.  Eppure Y è uno dei dischi più radicali, innovativi, importanti ed influenti degli ultimi 25 anni di musica rock.  E dei più belli, naturalmente. Una recente (e purtroppo incompleta) ristampa in digitale della scarna discografia del gruppo ha reso solo parziale giustizia  a questa drammatica nefandezza: si tratta ancora una volta di materiale pubblicato in un numero limitato copie e di non facilissima reperibilità, ma tanto basta  per consentirci di spendere qualche parola su questa incredibile esperienza senza il rischio o il timore di suscitare, in coloro che ne cercassero un contatto tardivo, la bellicosa reazione per un interesse stimolato sulla carta e negato dai fatti…

Ognuno ha il suo prezzo/Ed anche tu imparerai/Ad accettare la menzogna. Aggressione/ Competizione/ Ambizione/Fascismo consumista. Il Capitalismo è la più barbara di tutte le religioni/ I centri commerciali sono le nostre nuove cattedrali/Le nostre automobili sono martiri per la   causa. Siamo tutti prostitute. I nostri figli si rivolteranno contro di noi/Perché noi siamo gli unici da biasimare/Siamo gli unici da condannare. Ci daranno un nome nuovo/Ci chiameranno ipocriti, ipocriti, ipocriti. (We are all prostitutes-1980).

Il Pop Group è anche rabbia, furia  e rancore.  Lo stesso sentimento che ispira la blank generation sfrondato  da  quel nichilismo autodistruttivo tanto caro ai fratellini punk:  al posto del no future fine a se stesso che tutto accomoda e tutto risolve in mera ed impotente accettazione dello status quo, il furore iconoclasta di chi non vuole sottacere i crimini  sui quali è stata edificata la civiltà dei consumi e la condivisione, forse ingenua e contraddittoria ma certo genuina, del dolore che si cela dietro ogni sorriso negato.  La sincera passione, insomma, di chi vuole esibire la propria diversità non come scudo per  proteggersi dal mondo ma come ariete per sfondarlo.

Stomaco testa e genitali/Soffocati fino a perdere conoscenza/Acqua ghiacciata sparata nelle orecchie/Borse di plastica strette intorno alla testa/Scagliati contro il muro/…/Colpiti sul viso/Stretti per i polsi/Alzati per le orecchie/Bruciati con le sigarette/Presi a calci sui denti/Poi gettati esanimi sul pavimento/Ed infine calpestati. (Amnesty Report-1980).

Ma Pop Group vuol dire soprattutto coraggio. Il coraggio di scuotere le coscienze e di rivoltarle come calzini appesi al sole, il coraggio di far male, di menare fendenti e coltellate, di produrre ematomi e lasciare ferite sanguinanti. Il coraggio di parole incontrovertibili e di uno degli assalti sonori più urticanti che ci sia mai stato dato di udire: una incredibile miscela di punk, funk, dub, free-jazz e noise dalle tinte inequivocabilmente new-wave ma distante anni luce da ogni esperienza collaterale o pregressa.  Accostarsi per la prima volta alla sua pressione devastante è un po’ come sottoporsi ad una violentissima centrifuga: un moto liberatorio capace di provocare non solo stordimento e confusione  ma anche una profonda, completa,  rigenerazione.  Una delle poche esperienze artistiche davvero in grado di creare una nuova  prospettiva.

…/Non moriremo insieme nel deserto/Scapperemo dagli uomini di preghiera/Urleremo di gioia come nella Rivoluzione Francese/E ci faremo beffe della ghigliottina. Cammineremo verso il mare selvaggio/E’ l’unica direzione per noi due. Disapprovando la vita intorno a loro/Hanno creato un mondo su misura/Sei il mio ultimo desiderio prima del plotone di esecuzione/Ma i proiettili non possono scalfire il mare. Ci nasconderemo nel mare selvaggio/E’ l’unica direzione per noi due. Perché gli eroi devono sempre morire in battaglia?/Prendi il violino/Siamo esuli. (Savage Sea-1979).

E mi piacerebbe poter dire che si intravede una luce in fondo al tunnel, ma non c’è speranza nella guerra del Pop Group:  la salvezza è altrove, non in questo mondo che reclama  un sacrificio dopo l’altro e che potrà rinascere soltanto dalle sue ceneri, siano esse le selvagge tribù antropomorfe della copertina di Y o l’innocenza perduta del celebre bacio terzomondista di For  How Much Longer Do We Tolerate Mass Murder?

Una domanda destinata a rimanere senza risposta come, del resto, la maggior parte dei quesiti posti dalla band. Ma è più onorevole la sconfitta di un ritiro, anche se questa rappresenta, innanzitutto, il crudele fallimento dei sogni e delle illusioni dei  vent’anni.

Già, perché Mark Stewart, Gareth Sager, Bruce Smith, John Waddington e Simon Underwood non hanno nemmeno vent’anni quando, nei primi mesi del 1978, decidono di passare dai banchi di una anonima High-School  di Bristol alle trincee del loro personalissimo campo di battaglia. Il nome che si scelgono,  The Pop Group, è spiazzante nella sua perversa semplicità: non esiste, con tutta probabilità, niente di più lontano dalla musica pop, nella comune accezione del termine, dell’incredibile assalto sonoro perpetrato dal gruppo…

Con un ventaglio di ispirazioni trasversali che abbraccia le suggestioni letterarie di Rimbaud  e Burroughs e quelle musicali di Ornette Coleman, Last Poets, James Brown, Can, John Cage, Archie Sheep, King Tubby e, perché no?, di quell’altro Pop(ular) Group che erano gli Area di Demetrio Stratos,  i nostri, dopo un breve tour estivo di supporto ai Pere Ubu, si accasano presso la Radarscope Records all’inizio del 1979 e pubblicano, nel giro di pochi mesi, il 7” di debutto She Is Beyond Good And Evil/3:38.

Opera per certi versi fuorviante e contraddittoria, il singolo è la perfetta esemplificazione   delle due anime che dipingono la primavera del  gruppo e rappresenta, in qualunque modo lo si voglia considerare, un ideale passaggio di testimone fra le influenze wave  opportunamente filtrate della title-track, tipiche dei primi esperimenti sonori dei cinque,  ed il superamento di ogni  confine stilistico  che caratterizza la b-side e  l’intera produzione successiva della band.

Se She Is Beyond Good And Evil (probabilmente il brano più conosciuto ed abbordabile del Pop Group) è una traccia dubbeggiante dalle forti connotazioni new-wave ottimamente costruita intorno alla voce magnetica di Mark Stewart, la vera sorpresa arriva con 3:38  (titolo dettato, è inutile dirlo, dalla durata del brano), un incredibile strumentale a metà strada fra i Can ed i This Heat, che si pone come autentico crocevia con le suggestioni sonore che ci attenderanno, di li a poco, nel mirabolante album d’esordio del gruppo. (Davvero inspiegabile a questo proposito la mancata inclusione di 3:38 in ogni successiva ristampa del materiale della band, come appare discutibile, del resto,  l’inserimento di She Is beyond Good And Evil nella release del  1997 di Y: un “allacciamento”  quantomeno un po’ forzato).

…/Ma a chi credere/Quando sei vittima di una nazione di assassini/Devo credere a me stesso? Mi sento come un vagabondo in gabbia/Fiori in Mosca/I perdenti si prendono tutto/Siamo qui per andarcene/Tutti gli amanti tradiscono… (Thief Of Fire-1979)

Y vede la luce dopo una manciata di settimane.  In copertina il primitivismo esasperato di una selvaggia tribù africana a rappresentare il punto di ripartenza di un immaginario (e forse auspicato) day after o, allo stesso modo, il punto di arrivo dei deliri di onnipotenza della contemporanea civiltà dei consumi.  All’interno un poster con i testi ed un collage esplicito di immagini militanti dalle varie parti calde del mondo: Cambogia, Vietnam, Irlanda…  Nei solchi un senso di rabbia, disperazione e frustrazione ai limiti della capacità di sopportazione, una serie ininterrotta di scene spaventose e sanguinarie, una tensione emotiva ai limiti dell’inumano…

Accompagnare la puntina a fine corsa è un’esperienza catartica e sconvolgente, un vero e proprio esercizio di auto flagellazione: un ascolto attivo può essere davvero tutto questo, ma ciò che rimane non è arrendevolezza o depressione, bensì uno spirito nuovo ed una nuova visione, una sensibilità diversa ed un diverso modo di sentire, un insperato vigore ed uno sguardo capace di andare oltre, attraverso la notte dei  propri  pensieri, nelle smisurate profondità dell’io.

Y è anche una messe furibonda di ritmi sconnessi e forsennati, di sussurri ed urla strazianti: pochi i momenti di respiro o abbandono, molteplici quelli di estasi e delirio.  Funk innanzitutto, ma anche jazz, avanguardia, musica tribale e folk urbano in un  caos sonoro all’insegna dello sperimentalismo e di una calcolata improvvisazione: un magma disarticolato aperto alle mille possibilità vocali di un Mark Stewart in forma come non mai.

Due i brani portanti dell’album: l’iniziale Thief Of Fire, un funky corposo che  riesce a dare  spazio

anche ad un inserto avant e ad una coda dalle forti tinte free-jazz,  e la lunga We Are Time, oltre sette minuti di assalto alla corteccia cerebrale con ogni strumento al meglio delle sue possibilità e, su tutto, la voce di Mark che ti buca la pelle.

…/Nessuno schema da seguire/Nessuna paura del domani/…/Domeremo la velocità del cambiamento/L’eternità sarà nostra. Il tempo è con te/Splende attraverso i tuoi occhi/Uccideremo la parola/Le menzogne in caratteri neri/Menzogne menzogne menzogne/Il tuo mondo è costruito sulle menzogne. (We Are Time-1979).

Ma c’è spazio anche per atmosfere più ardite prossime alla sperimentazione (Blood Money, Words Disobey Me, The Boys From Brazil), per insperati momenti di respiro (Snow Girl) ai limiti dell’intimismo più disperato (Savage Sea), per la fine anarchia jazz di Don’t Call Me Pain e per il drammatico finale di Don’t Sell Your Dreams, in cui la tensione si fa davvero insostenibile mentre Mark implora straziante il suo tragico refrain. Quando la rabbia si placa  e subentra il silenzio, la fine del disco giunge davvero come una liberazione.

…/Abbiamo paura di ciò che non possiamo comprendere/Soldati soldati soldati/Marciano attraverso i tuoi occhi/Bruciano le tue dita nell’oscurità/Non chiamarmi dolore/Il mio nome è mistero/Questa è l’epoca delle possibilità/O almeno così dicono. (Don’t Call Me Pain-1979)

Poco dopo la pubblicazione di Y cominciano ad apparire le prime crepe: Mark Stewart, in disaccordo con gli altri, saluta tutti e se ne va, mentre la Radarscope Records, di fatto una figlia illegittima del colosso Warner, sente la terra bruciare sotto i piedi e preferisce dare il benservito al gruppo, che definire scomodo è puro eufemismo…

Mentre la diaspora in seno alla band viene prontamente risanata dal manager Dick O’Dell, che mette sul piatto della bilancia la creazione della etichetta personale Y Records  a maggior garanzia della totale indipendenza del gruppo, si fa avanti la Rough Trade  offrendo la propria disponibilità per la distribuzione del materiale prodotto dalla nascente label.

Prima del grande passo  c’è comunque tempo per la pubblicazione, sempre su Rough Trade, dello storico 7” We Are All Prostitutes/Amnesty International Report in cui, per la prima volta, appare il nuovo bassista Danny Katsis al posto del dimissionario Simon Underwood. Il primo brano è un assalto al vetriolo con evidenti connotazioni funky in cui rabbia e pessimismo si uniscono in un desolato abbraccio, mentre, ancora una volta, la vera sorpresa arriva dal lato b. In Amnesty International Report On British Army Torture Of Irish Prisoners (questo il titolo completo della traccia), Mark Stewart non fa altro che enunciare stralci del citato rapporto con una rabbia feroce che trova  ideale compendio nel violento free-jazz-noise di fondo. (Una versione del brano più prossima alla forma-canzone è presente nel disco postumo di out-takes We Are Time).

Ad un altro 7” tocca  l’ingrato compito di inaugurare il catalogo della  neonata Y Records. Si tratta di uno split con le Slits, il più importante gruppo punk all-female con l’alto patrocinio di Mr. John Lydon, e da il via ad una collaborazione che proseguirà nei primi mesi del 1980 con una tournee europea che toccherà anche il nostro Paese. Il brano dei nostri, intitolato Where There Is A Will There Is A Way, è un altro tiratissimo funk antimilitarista ai limiti dell’isteria.

Solo una domanda/Per quanto tempo dovremo tollerare gli stermini di massa? La tolleranza è la maschera dell’apatia/L’assuefazione è una pratica quotidiana/C’è l’inferno di un mare di soldi prodotto dalle guerre/Com’è patetica la nostra apatia di fronte alla miseria degli altri/La nostra inazione di fronte al loro assassinio o alla loro schiavitù è un crimine violento. C’è la colpa e c’è l’azione/Tutto quello che chiediamo per noi è un tranquillo Eden personale/…/Nella nostra ignoranza la gente viene uccisa/Nella nostra decadenza la gente muore/…/ (For How Much Longer Do We Tolerate Mass Murder?-1980)

For How Much Longer Do We Tolerate Mass Murder?, opera inequivocabile fin dal titolo, esce nei primi mesi del 1980 su Y Records a rappresentare, dopo così breve tempo, una sorta di testamento politico e artistico della band, ormai giunta al capolinea della sua fugace corsa.

Più secco, diretto, esplicito e uniforme sia sotto il profilo musicale che sul versante dei contenuti, l’album conserva solo una morbida scia della vivida magia del suo nobile predecessore, del quale sembrano venire in buona parte meno l’originalissima vena creativa e le drammatiche atmosfere surrealiste.

Ciò che fin dalle prime note sembra irrimediabilmente perduto è proprio ciò che rendeva grande, unico ed irripetibile il precedente Y, vale a dire quel pathos a tratti insostenibile, quel senso di angoscia opprimente, quell’aspettativa di una catastrofe imminente che facevano di ogni ascolto un’esperienza diversa, contrastante ma ad ogni modo liberatoria. 

Confezionato in uno splendido packaging militante che comprende, oltre alla magnifica copertina, quattro fogli di controinformazione  su alcuni dei temi scottanti del cosiddetto mondo civile, il lavoro sacrifica la poesia a favore della politica e abbandona le infinite suggestioni sonore del passato per percorrere i binari di un massiccio funky  a 360 gradi.

Si tratta di un album più fisico che cerebrale insomma e non  sarebbe certo un sacrilegio immaginarlo quale danzereccia colonna sonora per una festa davvero in ove, oltre che con le gambe, si ballasse per una volta anche con la testa.

…/Nelle miniere in Bolivia/Nelle fabbriche in Sudafrica/Nelle strade in Indonesia/Sfruttamento, cupidigia/Nutriamo gli affamati.  Più di 10.000 uomini, donne e bambini/Muoiono di fame tutti i giorni/La causa principale della fame e della povertà/E’  l’avidità organizzata della razza umana/Nutriamo gli affamati.  Nei campi in Cambogia/Nelle baraccopoli in India/Nelle prigioni in Argentina/Sfruttamento della manodopera a basso costo.  Lo sfruttamento è la violenza carnale sul Terzo Mondo/I banchieri occidentali decidono chi deve vivere e chi deve morire./…/ (Feed The Hungry-1980)

Un  impressionante uno-due: Forces Of Oppression, un funky tiratissimo con incredibili inserti di chitarra ed una voce sguaiata e filtrata dai toni a tratti waitsiani, e Feed The Hungry, un accattivante reggae/dub,  costituiscono invariabilmente l’asse portante di un album che ha ulteriori punti di forza nel caos primordiale di One Out Of Many e Communicate, nei toni stemperati in odor di Giamaica di There Are No Spectators e nell’esplicito inno all’esproprio a ritmo di fanfara di Rob A Bank.

C’è solo il tempo di pubblicare, a bocce ormai ferme, il disco di out-takes ed alternate-version We Are Time (1981), che comprende materiale tratto da vecchi demo, registrazioni inedite dal vivo (Genius Or Lunatic, Spanish Inquisition) e in studio (Kiss The Book, Sense Of Purpose, Trap, Amnesty Report mk. II) oltre a versioni in presa diretta di vecchi classici (We Are Time, Thief  Of Fire) spesso penalizzate da una qualità di registrazione poco più che amatoriale, perché il torrente in piena del Pop Group rompa definitivamente gli argini a favore di un sorprendente numero di emissari diversi.

Dei quali ci basterà solamente ricordare i Pig Bag del già dimissionario Simon Underwood, titolari di un effimero successo nel nome del singolo Papa’s Got A Brand New Bag, i Maximun Joy di John Waddington e Danny Katsis, fautori di un approccio più easy al funky abrasivo del gruppo madre, e, soprattutto, i Maffia di Mark Stewart ed i Rip Rig & Panic di Gareth Sager e Bruce Smith, i più abili a raccogliere ed a portare più a lungo nel tempo lo scomodo ma inebriante testimone lasciato dal Pop Group.

Non ci sono spettatori/Devi partecipare che ti piaccia o no/Non ci sono spettatori/Sei responsabile che ti piaccia o no/Nessuno è neutrale, nessuno è innocente e nessuno sarà dimenticato/La fuga dalla realtà non equivale alla libertà/…/Certi uomini vedono le cose come sono e si chiedono perché?/Io sogno le cose come non sono mai state e mi chiedo perché no?/…/Solo tu puoi essere il tuo liberatore/ Solo tu. (There Are No Spectators-1980)

Il Pop Group consisteva nel fatto di crescere collettivamente in pubblico: terminato il periodo della crescita non avevamo più ragione di esistere. Ogni gruppo ha un periodo di vita limitato: abbiamo fatto bene a non oltrepassarlo. (Mark Stewart)

da LFTS n.59