Archivio di novembre 2016

THE ROBERT BOBBY DUO – Folk Art

di Ronald Stancanelli

30 novembre 2016

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THE ROBERT BOBBY DUO
FOLK ART
I like mike Records 2015

Duo proveniente da Lancaster, Philadelphia in Pennsylvania Robert Bobby e sua moglie della quale non è dato conoscere il nome, è infatti citata sul cd come Mrs. Bobby (!) maschilista il marito o vezzo di coppia non è dato sapere, propongono un breve, circa 35 minuti, cd di musica folk spartana e a tratti lamentosa che potrà far la gioia degli appassionati del genere e tediare tutti gli altri anche se onestamente bisogna dire che il secondo pezzo God Couldn’t Wait non è affatto male.
Dall’inizio del millennio si esibiscono live nei circuiti folk con show nei quali alternano alle loro composizioni musicali gag e vari dialoghi. Il cd pervenutoci per recensione non ha alcuna nota accompagnatoria ma dal poco che siam risusciti a scoprire lui oltre a cantare suona la chitarra mentre la consorte si diletta col basso. Da una foto che abbiam trovato in rete diremmo che non sono giovanissimi lui tra la sessantina e la settantina mentre lei sulla sessantina, quindi non di primo pelo nessuno dei due. Non è dato nemmeno sapere se questo sia un hobby musicale o un lavoro in piena regola. Si avvalgono dell’aiuto di sei musicisti e i brani sono quasi tutti a firma del Mr Bobby esclusi quattro. Il genere spazia dal country al folk con tinteggiature blues in Blue Chevrolet. Nelle cover omaggiano riproponendo Captain Beefheart, i Beat Farmer e i Temptation in modo modo alquanto pedissequo agli originali e anche piacevolmente bisogna dire. Come si legge in rete il Bobby tiene a sottolineare che piace loro riproporre anche pezzi altrui per omaggiane gli autori o esecutori mentre la Mr. Bobby nulla dice, limitandosi al silenzio, forse non avrà il permesso di parlare. Benedetti pare addirittura da John Prine si fanno alfine ascoltare con benevolenza e il brano finale Whatever I fell for You pare proprio avere un impronta marcatamente alla John Prine. Album senza l’anno di uscita, ma in rete scopriamo essere del 2015, si avvale di una copertina alquanto elementare come un disegno appunto di un bimbo nei primissimi anni di scuola.

FRANCESCO E GREGORI – Amore e furto

di Paolo Crazy Carnevale

29 novembre 2016

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FRANCESCO E GREGORI
Amore e furto
(Caravan/Sony 2015)

Amore e furto… D’istinto il titolo di questo disco potrebbe sembrare solo un rimando o una citazione del titolo di uno dei migliori dischi pubblicati da Bob Dylan – per quanto mi riguarda il suo ultimo bel disco davvero –, a ben vedere, e sentire, direi che è soprattutto una dichiarazione d’intenti da parte di Francesco De Gregori. Ho ascoltato il disco diverse volte quando è uscito, poi se ne è cominciato a parlare troppo, sulla carta stampata, nel web, tra amici, così ho deciso di lasciarlo decantare per un bel po’, per evitare di farmi suggestionare nel mio giudizio: questo genere di dischi di solito ha solo detrattori per partito preso o estimatori oltranzisti secondo i quali di questi artisti si deve solo parlare bene.

Così questa mia recensione arriva ad un anno dall’uscita del disco. Non so se servirà a qualcuno.

Comunque il disco è bello. Credo sia la cosa principale. Se un disco non è bello può essere così così, può essere carino, bruttino, brutto, pessimo… ma non sarà comunque bello. Certo, con delle canzoni come quelle del neo-Nobel è difficile fare un disco brutto, però poteva diventare un disco poco riuscito o per niente riuscito.

Invece De Gregori ce l’ha fatta, ce l’ha fatta proprio in virtù del titolo del disco, amore e furto: amore perché è cosa nota, e non da ieri, che in casa De Gregori la musica americana la si ama, e non è da ieri che si provano a tradurre nell’italico idioma le canzoni dei songwriter d’Oltreoceano, Francesco aveva già messo mano proprio sulla dylaniana Desolation Row insieme a Fabrizio De André, il fratello Luigi Grechi ha tradotto e adattato cantautori come Guy Clark e Tom Russell, e ancora Francesco aveva collaborato con Mimmo Locasciulli ad altre traduzioni dylaniane.

Un disco così, quindi, prima o poi bisognava aspettarselo.

Quanto al furto, quello va da sé, si tratta comunque di canzoni rubate, rubate e rimaneggiate, ma non è stato forse Bob Dylan un maestro di furto musicale? A quante canzoni popolari ha sottratto truffaldinamente le melodie per piazzarle sulle sue canzoni degli esordi?

La carta vincente di Francesco De Gregori – oltre ad un’ispirazione superlativa – è la conoscenza della materia da vero esperto, Bob Dylan per lui non è un esperimento, è proprio amore a primo ascolto; poi ci sono dei musicisti con le cosiddette contropalle che riescono a dare un suono uniforme ad un repertorio che originariamente risaliva a periodi ed incisioni differenti, e quindi suonato da Dylan in modo diverso. Il colpo di genio è però nella scelta del repertorio: pur spaziando dal 1965 di Acido seminterrato (Subterranean Homesick Blues) al 2001 di Tweedle Dum e Tweedle Dee, il cantautore romano privilegia il Dylan degli anni ottanta e novanta, evitando quasi del tutto di misurarsi con i classici fin troppo coperti ed usurati.

Qualcosa non è proprio del tutto nuovo, la versione di Via della povertà (Desolation Row) prende le mosse proprio da quella realizzata con De André, ma qui ci sono variazioni al testo e, soprattutto, l’arrangiamento è vibrante, lontano anni luce da quello acustico con cui Dylan aveva vestito questo brano torrenziale; Una serie di sogni (Series Of Dreams) era stata incisa con questo testo da Mimmo Locasciulli e Non dirle che non è così (If You See Her Say Hello) era stata incisa dallo stesso De Gregori per la colonna sonora di Masked & Anonymous (il film interpretato da Dylan nel 2003).

Le sorprese sono invece Come il giorno (I Shall Be Released), con un organo hammond e dei cori gospel che onorano una grande canzone che forse Dylan non ha mai inciso davvero sul serio, o la struggente Non è buio ancora (Not Dark Yet), una delle più belle tra le composizioni recenti, nota anche al grande pubblico grazie alla cover che ne ha fatto la britannica Adele qualche tempo fa: la versione di De Gregori è molto fedele all’originale, gli intrecci delle chitarre (la pedal steel di Alex Valle è da brividi) e il tappeto di tastiere sono un capolavoro.

E ancora la quasi filastrocca Tweedle Dum e Tweedle Dee, in cui la voce di De Gregori si fa quasi cavernosa come quella dell’autore quando pronuncia i nomi dei due protagonisti del brano. Dignità (Dignity), che chiude il disco conferma ampiamente la propensione del titolare a far proprio il Dylan più recente.

Vi chiederete come sono i testi. Che domande? Belli. Magari non sempre letterali, ma sempre in grado di rendere il senso (o il non senso) del brano originale. Tutt’altra cosa rispetto a quelle terribili traduzioni di Tito Schipa Jr. che l’Arcana pubblicò in tre eccessivamente acclamati volumi negli anni novanta.

L’8 dicembre il Vinile sbarca a Legnano

di admin

29 novembre 2016

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Dopo il successo della prima edizione, Il locale “Land Of Freedom” di Via Maestri del Lavoro, 27 ospiterà, il prossimo 8 dicembre, la seconda edizione della Mostra Mercato del Disco in Vinile e del CD di Legnano (MI). L’ingresso è libero e oltre a poter acquistare dischi e CD, c’è anche la possibilità di scambiare il prezioso materiale con gli espositori.
INTERVENITE NUMEROSI!

WAYNE HANCOCK – Slingin’ Rhythm

di Ronald Stancanelli

27 novembre 2016

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WAYNE HANCOCK
SLINGIN’ RHYTHM
Bloodshot Record 2016 Distrib da IRD

Se avete amato Bob Wills e i suoi Texas Playboy e/o anche gli Asleep at The Wheel e certo western swing allora questo dischetto potrebbe fare per voi, se invece detto genere non vi aggrada particolarmente andate pure oltre poiché potreste rischiare di tediarvi oltremisura! Album molto corto, siamo sui 32 minuti per ben 12 canzoni che ci porta a brani molto brevi come consuetudine nel mondo country o western swing. La produzione è affidata a un vecchio marpione come Lloyd Maines che è addirittura alla nona volta col suo protetto Wayne Hancock soprannominato Train. Slingin’ Rhythm continua a metà la tradizione voluta dal suo autore e imposta a Maines di non voler nei suoi lavori ne batterie ne tantomeno steel guitar. Qua infatti non vi è ombra appunto di batteria ma invece la steel suonata da Rose Sinclair vi trova posto e questo compromesso tra i due artisti arricchisce indubbiamente il dischetto che ha dalla sua le chitarre di Bart Weinburg e Greg Harkins oltre che quella di Hancock, il basso di Samuel Johnson e il dobro dello stesso Maines che chiudono la strumentazione utilizzata. Il disco è decisamente orientato verso il sound degli anni quaranta – cinquanta e risente notevolmente dell’influenza dei precedenti lavori di Hancock quindi niente di nuovo sotto il sole per chi lo segue da tempo che troverà un altro tassello simile agli altri mentre chi lo scopre con questo lavoro o potrà apprezzarne lo stile retrò o trovando il tutto noioso come dicevamo passare oltre. Onestamente che anche per noi non trattandosi di dolce stilnovo lasciamo tranquillamente scivolare il tutto, rivolgendoci a qualcosa di più consono ai nostri gusti.

PETER GALLWAY – Muscle & Bone

di Paolo Crazy Carnevale

27 novembre 2016

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PETER GALLWAY
Muscle & Bone
(Gallway Bay Music/Hemifran 2015)

Ammetto la mia ignoranza, prima di ricevere questo CD non avevo bene in mente chi fosse questo Gallway, e le note di copertina facevano intuire che si trattasse di un cantautore di quelli per cui la poesia è una cosa molto importante, dalle menzioni a Leonard Cohen, Peter Gabriel, James Taylor, Laura Nyro e una decina d’altri, incluso Marvin Gaye, a quella di Garcia Lorca come ispiratore del brano The Distance Of My Fall.

Facendo qualche ricerca ho scoperto che Gallway è un tizio con una ventina di dischi alle spalle, qualcuno anche per una major come la Warner, che è un produttore e che è un poeta. Troppa carne al fuoco forse – per giocare col titolo – ma senza muscoli. Forse per via delle citazioni di musicisti nei ringraziamenti di copertina mi aspettavo qualcosa di davvero diverso. Sicuramente i testi di questo disco devono essere piuttosto interessanti, peccato non ci sia un booklet che li accluda, e soprattutto peccato che la musica suoni brutta e di plastica. L’assenza di credits ulteriori in copertina fa supporre anche che Gallway abbia suonato tutto da solo, o, ancor peggio che abbia fatto suonare tutto ad una macchina: i suoni di batteria sono orrendi e datati, e tutto il resto non mi piace per nulla, a partire dalla voce monocorde, senza espressione ed estensione del titolare. I brani sono lunghissimi per dare chiaramente risalto alle liriche, che denotano un notevole impegno politico. Ma non bastano dei testi per fare delle canzoni, ci vogliono anche le musiche, magari stupide, ma possibilmente suonate e non affidate ad una macchina senza cuore, soprattutto se – come in questo caso – i testi di cuore sono pervasi.

Della serie vorrei essere Leonard Cohen (RIP), ma non posso (nonostante il tentativo di copiarne anche il look come si evince da una foto che appare nel sito web di Gallway).

JAIME MICHAELS – Once Upon A Different Time

di Paolo Crazy Carnevale

24 novembre 2016

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JAIME MICHAELS
Once Upon A Different Time
(Appaloosa 2016)

Casa Appaloosa, da quando ha ripreso a pubblicare dischi con continuità, ci sta letteralmente viziando: continuità infatti non è detto debba fare per forza rima con qualità, ma nel caso dei dischiJAIME MICHAELS – Once Upon A Different Time Appaloosa le due cose sembrano andare spesso a braccetto. Dischi belli, non innovativi forse, o quanto meno non sempre, ma dischi belli, piacevoli, apprezzabili. Dischi fatti in casa, spesso e volentieri, produzioni indipendenti dal profumo inconfondibile.

È il caso di questo disco di Jaime Michaels: cantautorato classico allo stato brado, canzoni che inneggiano ad una filosofia di vita semplice che tanto richiama alla mente brani come Simple Man e Our House, due classici di Graham Nash. Questo per quanto riguardai testi, la musica e la voce virano altrove e la produzione di quel volpone di Jono Manson contribuisce non poco ad arricchire lo spessore delle esili strutture su cui il songwriting di Michaels poggia.

Con lo stesso Manson in prima linea ed altri abitué delle sue produzioni come Jason Crosby (eccellente tastierista e violinista dal pedigree invidiabile) o David Berkeley (del cui disco prodotto da Manson ho già scritto in questa sede), il disco è sorretto da una strumentazione essenziale, molto folkie, e allinea una decina di brani in cui perlopiù il titolare canta dell’amore per la sua donna, della sua casa semplice e del suo bravo cane. Qualche brano si eleva sugli altri come la title track posta in apertura, come il brano di chiusura intitolato Singing For My Supper, caratterizzato da vaghi richiami di sapore irish, come Somewhere Like Italy in cui Michaels duetta col toscano Stefano Barotti, come Circlin’ Around, guidata da un banjo insinuante o ancora, A Little More in cui il finale è affidato ad una bella coda costruita dall’rogano del citato Jason Crosby.

Particolarmente riuscite sono Steal Light dall’andamento bluesy che si distacca dalle morbide e tiepide melodie che costituiscono l’ossatura degli altri brani e Warming, una canzone che anche nel testo si discosta dal resto, qui il tema è il riscaldamento globale, tema amarissimo che viene però affrontato con delicatezza e che trae giovamento da un bell’arrangiamento in cui Manson infila persino dei fiati in stile New Orleans Funeral Music.

BOB WEIR – Blue Mountain

di Paolo Crazy Carnevale

21 novembre 2016

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BOB WEIR
Blue Mountain
(Columbia/Legacy/Roar/Tri 2016)

Chi lo avrebbe mai detto che, tra un tribute a Jerry Garcia, una celebrazione dei Grateful Dead e altri progetti sparsi qua e là, Bob Weir, alla vigilia dei settant’anni, potesse trovare il tempo anche per un disco solista, argomento riguardo al quale in passato era stato per altro assai parco?

E invece eccolo qui, chissà quanti lustri fa è stato il suo ultimo disco da solo, con un bel doppio vinile (o singolo CD, ma inutile dirvelo, io ho preferito la versione vintage) che ci offre dodici nuove canzoni in bianco e nero, proprio come l’ottima foto di copertina e come quelle inserite nelle buste interne. E forse questo è il suo primo vero disco solo, quello che è maggiormente nelle sue corde: Bob Weir infatti ha soprattutto pubblicato dischi di gruppo, che fosse con i Kingfish o con l’allstar band Bobby & The Midnites (peraltro incredibile sulla carta quanto poi inconsistente su disco), con i Ratdog, o in duo con Rob Wasserman. Di fatto la prova migliore di Weir finora era stato il suo ottimo esordio del 1972, Ace, che in realtà potrebbe essere considerato un disco dei Grateful Dead senza le canzoni di Jerry Garcia e senza i blues di Pigpen.

Il nuovo disco è in tutto e per tutto un disco solista, con ospiti ricorrenti, ma di fatto un progetto unitario targato Weir a tutti gli effetti, anche se come nei dischi precedenti, l’ex Grateful Dead si fa assistere da un paroliere che stavolta non è il fedele John Barlowe, bensì Josh Ritter, cantautore con una rispettabile carriera a proprio nome a cui Weir ha affidato i temi da trattare nel disco, un disco ispirato alla sua adolescenza come apprendista cowboy, nei primi anni sessanta, quando dal sole della natia California si trasferì per un po’ nel montagnoso e freddo Wyoming.

Il disco non è comunque un disco di canzoni country o cowboy songs in senso lato, e tantomeno è una rievocazione delle sonorità dilatate esplorate nei trent’anni di permanenza nei Grateful Dead, per quanto qua e là ci sia qualcosa che sarebbe stato interessante ascoltare suonato insieme a Garcia e a gli altri, in particolare l’iniziale e struggente Only A River che non a caso prende le mosse da Shenondoah, un brano tradizionale che lo stesso Jerry aveva rivisitato insieme a David Grisman su Not For Kids Only (l’ultimo dei tanti dischi col mandolinista che fu pubblicato con Garcia ancora in vita): in quel caso Garcia faceva sfociare la splendida ballata nella Ninna Nanna di Brahms, qui Weir ci riscrive attorno una canzone nuova, bellissima ed ispirata.

Merito della riuscita del disco è la scelta dei suoni m
essa a punto da Weir stesso con Josh Kaufman, produttore legato alla scena alternative country che ha lavorato in passato con Ritter e con i National, che guarda caso sono tra i musicisti coinvolti nelle registrazioni e nell’ultimo anno si sono sbizzarriti nell’assemblare un quintuplo tributo ai Grateful Dead dai risultati molto discutibili (nel senso che “ce n’era bisogno?”).
Considerazioni a parte, il risultato della collaborazione tra Kaufman, Weir e i National, sembra più che positivo e la dice lunga sul fatto che troppo spesso i gruppi di alternative country o new folk vengano incensati con troppa facilità a dispetto della completa mancanza di buone canzoni o di voci memorabili. C’è un gran lavoro sui suoni, ma poi manca la sostanza. Qui invece, a suoni e bravura si possono sommare come valori aggiunti la gran voce di Weir e delle composizioni all’altezza. Il risultato brilla di luce propria. Ci sono brani intimisti come Cottonwood Lullaby e Whatever Happened To Rose, citazioni alla Johnny Cash (Gonesville, impreziosita da una bella armonica suonata dal batterista Ray Rizzo), brani ossessivi come Lay My Lily Down, escursioni quasi solitarie come Ki-Yi Bossie – con tanto di yodel di Ramblin’ Jack Elliot in sottofondo – e la conclusiva One More River To Cross.

La voce di Weir risuona cavernosa e venata di tonalità e sfumature che non starebbero male tra le corde vocali di Nick Cave, quello delle ballate criminali soprattutto, e i suoni sono tutti misurati su chitarre d’ogni tipo, pedal steel, elettriche, acustiche, tastiere discrete ma fondamentali. E i testi ci raccontano storie di fughe al galoppo per sfuggire all’arresto da parte di uno sceriffo che richiama alla memoria quello della deadiana Friend Of The Devil, storie di bimbi nati morti per cui un padre disperato scava una fossa nella terra fredda, di fiumi da attraversare, deserti, pianure e città fantasma con le finestre rotte, quasi a riscrivere un percorso già noto (pensiamo alle molte canzoni di Merle Haggard, Marty Robbins, Johnny Cash che Weir cantava dal vivo coni Dead) vestendolo con nuovi abiti sonori.

NEIL PEART – IL Viaggiatore Fantasma

di Ronald Stancanelli

15 novembre 2016

LIBRO VIAGGIATORE FANTASMA[15]

Neil Peart
IL VIAGGIATORE FANTASMA
Un anno in moto per ritrovare la vita
Tsunami Edizioni

Neil Peart è il batterista dei Rush oltre che essere il paroliere della maggior parte deI loro brani ed è considerato uno dei batteristi più capaci della storia musicale rock. Toccato da vicende terribili e dolorose tra i vari libri che ha scritto spicca questo Viaggiatore Fantasma scritto per narrare di una fuga da una vita che gli aveva riservato nel breve svolgersi di dieci mesi la morte della figlia in un incidente stradale e la susseguente morte della moglie che non era riuscita a superare la grave perdita. Più di un anno in moto per ritrovarsi e ritrovare la sua vita schizzata letteralmente via in poco tempo. Per sfuggire i ricordi che ormai gravavano sulla sua abitazione restata vuota ha deciso un giorno di salire sulla sua moto, una BMW R1100GS e partire senza meta alla ricerca di un nuovo se stesso con il suo fardello ancora visibilmente ancorato al suo io disperato e senza una meta precisa dove andare, decidendo lì per lì giorno per giorno. Un viaggio/fuga che è durato addirittura quattordici mesi per un totale di 80 mila kilometri toccando inizialmente Canada ed Alaska per poi scendere lungo la costa occidentale attraversando parte degli Stati uniti e poi giù sino al Messico e poi il Belize per poi risalire ritornando verso il Quebec, poi ritornare in California e infine rientrare nuovamente in Canada. Ricordiamo ai più distratti che i Rush sono un gruppo canadese. Gruppo toccato da considerevole successo orientato su una musica tra l’ heavy blues, il rock ed il progressivo e autore di oltre trenta dischi. Band insignita dell’Order of Canada e dal 2013 entrata nella Rock and Roll of Fame. Band che prende spunto da temi fantascientifici e mitologici ha il suo capolavoro sicuramente in 2112 ma gli album Fly by Night, A Farewell to Kings, , Hemispheres, Permanent Waves e Moving Pictures, tutti tra il 1976 e il 1981 sono lavori eccellenti e altisonanti, decisamente rimbombanti e di grande spessore artistico e mediatico, con vendite roboanti. Molto bello anche il disco strumentale del 1996 Test for Echo. Tornando al libro Peart alla difficile ricerca di se stesso si sottopone a una prova decisamente dura e pericolosa guidando spesso per oltre seicento/settecento kilometri al giorno tra intemperie, pioggia, varie volte neve, passando e toccando punti che sfiorano e superano i duemila metri girando e spesso cambiando luogo e hotel/rifugio giorno dopo giorno. Personaggio atipico nel mondo del rock Neil Peart è persona di profonda cultura e denso di innumerevoli interessi. Quando era in tour con i Rush, a volte, si spostava con la sua moto, fermandosi sempre a visitare, in ogni luogo ove si sarebbero esibiti, musei e opere d’arte di ogni genere, che fossero strutture architettoniche che semplici statue o monumenti. Sicuramente un artista anomalo ed inconsueto nel mondo del rock, quando la maggior parte dei musicisti si strina tra droghe, liquori , ragazze disponibili o videogiochi e follie da sbronzi fulminati. Lui invece fedele alla sua famiglia come detto si rivolgeva all’arte e al leggere divorando letteralmente anche caterve di libri nel tempo libero restante dagli show, i viaggi e le visite culturali.
Un personaggio quindi inconsueto che resta immediatamente simpatico e che ci tocca nelle sue vicende e nel suo voler cercare una redenzione a un qualcosa di cui lui non era certamente in colpa, sicuramente non la morte della figlia deceduta sola in un incidente stradale mentre da casa loro stava andando a l’Università; forse le sue colpe se l’è imputate nel non essere riuscito a salvare la moglie da una conseguente depressione che pian piano l’ha consumata del tutto, pur avendoci provato con tutto se stesso. Un libro di viaggi, pensieri, meditazioni e riflessioni condito da una forza a volte vacillante e nel contempo alla ricerca di poterne prima o poi venire fuori, libro nel quale la musica è marginale pur avendo una sua relativa parte. Crediamo questa sia l’unica pubblicazione italiana dei suoi libri, uno prima di questo e altri cinque scritti dopo dette vicende ivi narrate. Il Viaggiatore Fantasma è un racconto molto intenso, drammatico, emozionante e coinvolgente grazie sicuramente anche alla bravura del suo autore che dimostra pari capacità a quella di drummer, tra l’altro votato per ben tre volte come batterista dell’anno, e che rivela e palesa una rinascita individuale non indifferente. Un libro uscito per i tipi della Tsunami, casa editrice foriera in una bibliografia interessantissima, che ci permettiamo decisamente di consigliare.

Ritorna a Varese il binomio perfetto

di admin

14 novembre 2016

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La Fiera del Disco di Varese, ormai giunta alla sua 32° edizione, e il 7° appuntamento con la fiera del Fumetto si ritrovano a Varese il prossimo week-end per allietare musicomani e fumettomani.

come sempre, l’ingresso è gratuito e così anche il parcheggio.

luogo del misfatto: l’ATA hotel di Viale Albani 73, zona ippodromo.

quindi, galoppate all’ATA Hotel, ci vediamo là!

JOHN PRINE – For Better, Or Worse

di Paolo Crazy Carnevale

8 novembre 2016

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JOHN PRINE
For Better, Or Worse
(Oh Boy/IRD 2016)

Confesso di aver qualche preferenza in più per il John Prine singer songwriter che per quello interprete di ballate country, è evidente però, e basta dare un’occhiata alle vendite dei suoi dischi (da anni pubblicati indipendentemente sulla label Oh Boy) per rendersi conto che le vendite del Prine interprete hanno dato più soddisfazioni che non quelle del cantautore. Altresì vero è che dopo la lotta con il cancro alla gola, la voce di John si è resa più adatta al genere di canzoni incluse in questo CD, di fatto il sequel di In Spite Of Ourselves, pubblicato nel 1999 e composto da deliziose canzoni country incise rigorosamente in copia con cantanti donne dalle provate doti vocali. Il disco arrivò al ventunesimo posto delle classifiche country (in un’epoca in cui le classifiche di vendita avevano qualche peso ancora) e al 197° di quelle di Billboard. Comprensibile quindi che Prine, assente dal mercato da una decina d’anni – per quanto riguarda materiale nuovo – abbia ben pensato di proporre un secondo disco di duetti sulla scia di quel disco del ’99. Fin dal titolo (che tradotto suona più o meno come “nella buona e nella cattiva sorte”) il nuovo prodotto da a intendere di essere proprio il seguito di quel disco composto da duetti amorosi a cui si aggiunge una bellissima foto di copertina perfettamente in tema. Un paio delle comprimarie scelte da Prine sono le stesse del primo disco, ci sono infatti Iris Dement e Fiona Prine, ma ci sono anche alcune signore che all’epoca erano di là da affermarsi se non del tutto di là da venire. Il repertorio attinge nel vasto songbook della musica country, con brani di Hank Williams, George Jones, Buck Ownes, Jessi Colter, Vince Gill: Prine li canta come se fossero il suo repertorio abituale, come se li avesse scritti lui; le signore dal canto loro lo accompagnano mirabilmente, mentre un tappeto di strumenti tipici del genere si stende magicamente creando atmosfere risapute ma sempre adorabili. Non per nulla, rispetto a In Spite Of Ourselves, che era suonato dai musicisti abituali usati da John a fine anni novanta, questo For Better Or Worse vede coinvolti nomi eccellenti come Tim O’Biren, Al Perkins, Lloyd Green tanto per dirne tre che grondano bravura e fama, al bancone della regia troviamo Jim Rooney, che aveva prodotto anche il disco del ’99. Non so se questo disco riscuoterà lo stesso successo di vendite della prima raccolta di duetti, quanto a successo di critica pare ce la stia facendo e dopo la prima stampa in CD è già stata annunciata anche quella in vinile; quanto alle canzoni sono particolarmente riuscite Storms Never Last e Fifteen Years Ago, entrambe cantate in coppia con Lee Ann Womack, I’m Telling You, dal repertorio di Hank e Audrey Williams, con la loro nipote Holly a duettare col titolare. E brava è anche Miranda Lambert in un altro brano di Williams, l’ultraclassica Cold Cold Heart baciata dal dobro di Perkins. Color Of The Blues è forse il pezzo migliore del disco (quindici brani in tutto) e a fare da sparring partner con John c’è un’ispirata Susan Tedeschi, non deve essere un caso che il brano sia stato scelto per lanciare il disco nelle radio. Tra le altre signore coinvolte vanno poi citate Alison Krauss, Morgane Stapleton, Miranda Lambert e Kathy Mattea. Come il suo predecessore, anche questo disco si conclude con un brano cantato da Prine in solitaria, Just Waitin’ , ancora con la firma del grande Hank.

BRUCE SPRINGSTEEN – Chapter And Verse

di Paolo Baiotti

5 novembre 2016

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BRUCE SPRINGSTEEN
CHAPTER AND VERSE
COLUMBIA/SONY 2016

La motivazione di questa ennesima raccolta di Bruce Springsteen è la contemporanea pubblicazione dell’attesa biografia Born To Run da parte della casa editrice Simon & Shuster negli Stati Uniti. Un pretesto? Forse…di sicuro non si sentiva la necessità di questa nuova uscita, anche se in qualche modo giustificata dal criterio con il quale è stata compilata, con l’intenzione di comprendere il primo periodo della storia musicale di Bruce, precedente all’uscita del disco d’esordio Greetings From Asbury Park, andando di pari passo con la narrazione del libro. Per questo sono stati inseriti cinque brani inediti precedenti alle incisioni ufficiali per la Columbia, che possono solleticare i collezionisti e gli appassionati di vecchia data, lasciando indifferenti gli ascoltatori interessati al periodo più popolare del cantautore dei New Jersey.

Le prime tracce Baby I e You Can’t Judge A Book By The Cover ci portano a metà degli anni ’60, quando Bruce era cantante e chitarra solista di The Castiles, la sua prima band semiprofessionale. Baby I, composta con l’altro chitarrista George Theiss, è un brano ispirato dalla british invasion piuttosto ingenuo, mentre la cover dello standard di Willie Dixon è grintosa e un po’ caotica, con la voce in secondo piano, migliore nella parte strumentale che in quella cantata. Dopo avere militato negli Earth, Springsteen entra nei Child, formati ad Asbury Park con Vini Lopez e Danny Federici. Alla fine del ’69 diventano Steel Mill e incidono alcune tracce tra le quali He’s Guilty, un rock aspro che testimonia una certa influenza dell’hard rock dei Deep Purple nelle tastiere si Federici e nell’assolo di Bruce, che ad inizio carriera suonava molto di più la chitarra solista rispetto a quanto siamo abituati. A metà del ’71 nasce la Bruce Springsteen Band con Lopez, Tallent, Van Zant e Sancious, rappresentata dalla gustosa The Ballad Of Jesse James, debitrice dello stile di The Band. Ma Bruce deve ancora trovare la sua voce…canta in modo diverso, meno caratteristico e più sforzato. L’acustica Henry Boy incisa da solo nel ’72 è una versione embrionale di Rosalita, mentre in Growin’ Up, incisa nel maggio del ’72 negli studi della Columbia con John Hammond e già pubblicata sul box Tracks, possiamo ascoltare lo Springsteen che tutti conosciamo, con la voce adulta e matura e la capacità di raccontare storie più o meno personali.

Quanto agli altri brani le scelte non sono così scontate…non si può parlare di un greatest hits. Non possono mancare l’esplosiva Born To Run, l’epica Badlands, il racconto sofferto di The River o la rabbiosa Born In The Usa, ma ci sono anche la splendida ballata 4th Of July Asbury Park, l’emozionante ritratto di My Father’s House, uno dei cardini del seminale Nebraska, l’altrettanto significativa The Ghost Of Tom Joad dall’omonimo album solista e il gospel-rock di The Rising, simbolo della rinascita della E Street Band. Due soli brani, e non credo sia un caso, rappresentano il nuovo millennio: la scorrevole Long Time Comin’ e la brillante cavalcata di Wrecking Ball.
Sarebbe stato più opportuno un doppio disco, magari con altre outtakes o con versioni dal vivo inedite, ma tutto sommato Chapter And Verse, considerato come l’accompagnamento audio della autobiografia, non sfigura. Da segnalare il pregevole collage di foto, un po’ sacrificato nella dimensione del compact disc.