Archivio di aprile 2016

PENNY NICHOLS – Golden State

di Paolo Crazy Carnevale

30 aprile 2016

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PENNY NICHOLS – Golden State (Pensongs 2015)

Le sorprese non finiscono mai quando ci si ritrova ad ascoltare dischi di artisti sconosciuti: il caso di questo CD è emblematico. Ammetto che il nome di Penny Nichols mi suonava del tutto nuovo quando ho cominciato ad ascoltare questo Golden State, ma la sua voce e le sue canzoni mi sono piaciute da subito e nell’accingermi a scrivervene qualcosa sono andato a documentarmi scoprendo che questa signora di sessantotto anni – ma dotata di una voce limpida e fresca come non mai – pur avendo fatto dischi più occasionalmente che altro ha frequentato artisti della scena che contava negli anni della sua gioventù, dai ragazzi della Nitty Gritty Dirt Band a Jimmy Buffett, suonando nei templi d’allora come il Troubadour e il Fillmore occidentale aprendo concerti per la Joplin, i Quicksilver e molti altri. E registrando il suo disco d’esordio proprio sul finire degli anni sessanta. Per saperne di più su Penny Nichols vi rimando però al numero 125 dell’edizione cartacea di Late For The Sky, dove Mauro Eufrosini, da par suo, ha approfondito l’argomento. Io mi limiterò a parlarvi di questo disco dedicato all’infanzia e alla gioventù della Nichols nell’Orange County in cui abitava con la sua famiglia. Golden State è un disco elegante e diretto, spumeggiante nella sua semplicità, con una produzione essenziale che lascia spazio alla bella voce di Penny e alle armonie vocali che intesse di volta in volta con gli amici che la assistono nella registrazione, una sezione ritmica leggera, quasi in punta di piedi, chitarre acustiche ed elettriche, un mandolino che fa capolino di tanto in tanto.

Un disco che piace fin dal digipack della copertina con tenui colori pastello che rispecchiano alla perfezione quanto troviamo all’interno della confezione. Dodici canzoni, quasi tutte autografe e per la maggior parte composte in tempi recenti, salvo qualche ripescaggio, come apprendiamo dalle date incluse nei credits riguardanti i copyright dei brani. Si inizia subito alla grande con Charlie Bad Boy, grande canzone che lascia subito intendere di che pasta siano il songwriting e la voce di questa signora, con il valore aggiunto di una bella chitarra slide suonata da Glen Roethel (musicista in proprio) a rafforzare il risultato finale. Di certo uno dei punti forti del disco, al pari della successiva Guadalupe, dalle forti atmosfere messicane, dedicata dalla Nichols a quattro donne ispano-americane che si prendevano cura di lei da bambina quando la madre era altrimenti affaccendata. Atmosfere che ritroviamo poi in Poco al Poco un brano quasi recitato, forse un po’ al di sotto della media del disco. Leanin’ Back & Laughing è il ripescaggio della canzone di uno dei suoi amici dei vecchi tempi, Steve Noonan; mi sembra però migliore il brano autografo che la segue, Kick The Can, oppure la delicata Winter Fires (firmata da Jonita Beede, presente a duettare con la Nichols) che nel break strumentale riprende il tema del traditional The Water IS Wide (per altro già saccheggiato da Neil Young per la sua Mother Earth). E poi arriva un altro dei capolavori del disco, Stevie Wonder, una canzone nuova di zecca ispirata ad un incontro con la “meraviglia” risalente al 1968, cantata con ispirazione incredibile e con un arrangiamento azzeccatissimo in cui Vito Petrocitto (responsabile di quasi tutte le chitarre del disco) ricama a suon di wah-wah conferendo al risultato un’atmosfera molto Motown. Meno immediate sono That’s You Jim e One & Only Life (che però cresce dopo ripetuti ascolti), quindi il disco si avvia verso il finale con l’ottima Carbon Canyon guidata da un bel mandolino, seguita dal fiume di ricordi in punta di piedi della delicata LA Man (scritta però da Nina Jo Smith, presente al canto) che comincia rievocando un concerto di Janis Joplin all’Hollywood Bowl. Chiusura con Mr. Sad Eyes, forte di un cantato in odor di Joni Mitchell, di nuovo con la slide di Roethel, che stavolta provvede anche ai cori.

JETBONE – Magical Ride

di Paolo Crazy Carnevale

25 aprile 2016

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JETBONE – Magical Ride (Juicy Peach/Rootsy Music 2015)

Dicevano i Rolling Stones che “è solo rock’n’roll”, e aggiungevano che però ci piace. Una dichiarazione che continua ad essere valida a più di quarant’anni di distanza. Questa band svedese distribuita dalla IRD sembra aver colto perfettamente il concetto e, se pur senza aggiungere nulla di nuovo alla vecchia ricetta che mescola i classici ingredienti di una volta, rhythm’n’blues intinto nella lezione dalla pelle bianca impartita dai padri fondatori in quel di Memphis, riveduto attraverso l’ottica british di Stones e Faces e dopato con una solida siringata di suono sudista della miglior fatta, ci propone un debutto coi fiocchi. Magari i Rolling Stones ci proponessero oggi un disco con suoni di questa fattura! Certo, i Jetbone non sono gli Stones, e nemmeno i Black Crowes, per quanto uno dei due cantanti ricordi abbastanza le timbriche delle corde vocali di Chris Robinson, ma la lezione sembrano averla imparata abbastanza e il loro disco è sicuramente più godibile di quanto non lo siano state le ultime produzioni di casa Stones (ma anche tutto il catalogo di studio degli Stones post Tattoo You) o quelle dell’attuale gruppo di Chris Robinson. Vorrei poter dire che si tratta di una questione di spirito: sicuramente è anche una questione di età, non possiamo certo pretendere che Jagger e Richards a settant’anni suonati abbiano questa energia e questo entusiasmo, e lo stesso Robinson non è più un ragazzino! Ma qui è proprio il tipo di sound a vincere, al di là dell’energia e della passione, siamo nei dintorni delle produzioni stonesiane a cura di Jimmy Miller e il disco dei Jetbone è infarcito di citazioni dotte. Lo dico subito: niente di nuovo e, probabilmente, in questo disco emerge più la voglia di suonare che non la tecnica, ma questo Magical Ride prende subito, fin dal primo ascolto, non è un disco che ha bisogno di ripetuti ascolti per piacere, è immediato, divertente, è anche suonato bene e tra le undici tracce che lo compongono più d’una ha il suo perché. Ci sono le chitarre lancinanti, i riff a presa rapida, una sezione fiati compatta ed efficace che ricorda il mitico duo formato da Jim Price e Bobby Keys: già dall’iniziale C’mon si capisce quale sia la sostanza del disco, Mixed Emotions ha un attacco che non può non ricordare You Can’t Always Get What You Want, ma poi si sviluppa in modo indipendente e No Way Out arriva a citare direttamente I Know You Rider, un classico rifatto da molti, dai Byrds ai Grateful Dead.

C’è tutta la grinta dei primi Black Crowes nell’adrenalinica Working Hard For Your Money e Woman è una lenta balata sudista, tanto sudista da riprendere pari pari un passaggio di Midnight Rider inserito con sapienza in un tema che vive poi per conto suo, ben sorretto da un coro azzeccato e da belle chitarre. Per essere un gruppo di ragazzi tra i venti e i trent’anni e per aver registrato per tre volte il disco (a causa di cambi di formazione) prima di arrivare alla versione che abbiamo tra le mani, i Jetbone sono davvero godibili, con qualche preferenza per le canzoni più energiche come Everybody Needs Somebody To Love (c’è solo il titolo in comune col brano di Solomon Burke) o Fifth Time Loser rispetto alle slow ballad (ma la citata Woman e Rosalie fanno comunque la loro figura). Il loro sound è dalla parte giusta, vediamo cosa ci riserveranno per il futuro.

LUCINDA WILLIAMS – The Ghosts Of Highway 20

di Paolo Crazy Carnevale

24 aprile 2016

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LUCINDA WILLIAMS – The Ghosts Of Highway 20 (Thirty Tigers/Highway 20 Records 2016)

E chi se lo aspettava un altro disco così bello a ruota del capolavoro di un anno e mezzo prima? Evidentemente la Williams sta attraversando un periodo baciato da un’ ispirazione molto profonda per riuscire a dare alla luce in così poco tempo la bellezza di due dischi del genere, due dischi tanto differenti eppure strettamente collegati: Ghost Of Highway 20 inizia infatti laddove si chiudeva il su predecessore.

Mi spiego: Where The Spirit Meets The Bone era un disco di chitarre dal solido background rock, tante chitarre suonate da tanti ospiti di riguardo, ognuno a pennellare le composizioni della cantautrice della Louisiana; proprio in conclusione di quel disco stava una drammatica e intensa rilettura della Magnolia di J.J. Cale, con le chitarre di Bill Frisell e Greg Leisz a dettare legge, Ghosts Of Highway 20 è un altro disco di chitarre molto più intimo, meno rock e ad accompagnare la titolare – con l’eccezione di due brani in cui appare Val McCallum – le chitarre sono solo quelle di Frisell e Leisz il cui affiatamento è già comprovato dalle numerose incisioni dello stesso Frisell a cui Leisz ha preso parte negli ultimi anni, oltre che naturalmente dalla citata Magnolia.

Con questi due fuoriclasse al suo servizio per tutto il disco e con la stessa sezione ritmica usata in Magnolia, Lucinda Williams ci consegna un disco desertico come pochi, quattordici brani in tutto, con la sua voce che si trascina stancamente attraverso lande desolate e paesaggi come quelli suggeriti – oltre che da decine di pellicole polverose – dalle foto usate per la copertina del disco (due vinili, un cd).

Fin dall’iniziale Dust, un titolo che già lascia sottintendere tutto, capiamo dove stia andando a parare la Williams con questi spettri che abitano l’autostrada numero 20, quella che dalla Louisiana porta in Texas, autostrada che la Williams deve aver percorso un’infinità di volte, come anche il testo della title track lascia capire: “Conosco questa autostrada come il dorso delle mie mani…”

Nel primo disco ci sono poi House Of Earth, un brano costruito su un testo inedito di Woody Guthrie, I Know All About It e il valzer country Place In My Heart in cui il suono si fa un po’ meno scarno, sorretto dagli armonici della sei corde di Frisell. Il lato B è inaugurato dall’immensa Death Came, uno dei brani chiave dell’intero disco, dominato dall’alone cupo dettato dalle recenti scomparse del padre e del suocero della Williams, entrambi dedicatari di Ghosts Of Highway 20. Segue la litania di Doors Of Heaven in cui il ritmo si fa più sostenuto, con una terza chitarra elettrica suonata dalla Williams e Leisz che si occupa della slide, Louisiana Story è un altro valzer, di quasi dieci minuti, lento e strascicato, ricco di immagini di un’America perduta e impolverata, che va a chiudere il primo dei due vinili.

Il secondo disco si apre col brano che intitola il lavoro, un’altra carrellata di paesaggi, motel, macchine usate e immagini sbiadite che scorrono lungo le due corsie dell’autostrada eponima. Bitter Memory è un bel country rock energico, con solo la Williams ed i due chitarristi a girare sul piatto, ma il risultato è una delle cose migliori dell’intero disco, una specie di esortazione ai brutti ricordi a farsi da parte, cantata con un bel piglio. Non da meno è la rilettura della Factory springsteeniana, che Lucinda fa diventare quasi una cosa sua, stavolta col solo Frisell e la sezione ritmica quasi minimale, in quello che potremmo definire un approccio elettrico allo stile di Nebraska. Altra canzone bellissima è poi quella che chiude il terzo lato: una deliziosa Can’t Close The Door On Love, un autentico barlume di speranza, cantato con voce struggente e attraversato da laceranti soli di chitarra. Giriamo il disco e ci imbattiamo in If My Love Could Kill, altra buona composizione, seguita dall’ancor migliore If There’s A Heaven, quasi una ninnananna, ultimo saluto al padre recentemente scomparso, a cui la Williams chiede di farle sapere se davvero esiste un paradiso. Il disco si chiude con i desertici dodici minuti della spettrale e scarna Faith And Grace, col solo Frisell a sbizzarrirsi sulla sezione ritmica a tratti tribale e inusuale per la Williams.

Il recente Record Store Day ci ha omaggiati di un maxi singolo con due differenti missaggi di questo brano, uno più breve e l’altro che supera addirittura i diciotto minuti.

CHARLIE CINELLI – Rio Mella

di Ronald Stancanelli

23 aprile 2016

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CHARLIE CINELLI
RIO MELLA
Appaloosa 2016

Disco non male, ma non da gridare al capolavoro come sentito in giro, questo Rio Mella del bresciano Charlie Cinelli, album che effettivamente inizia alla grande con una inconsueta ma divertente versione di Gallo del Cielo, capolavoro di Tom Russell già ripresa poi da Joe Ely e dal vivo proposta anche da Butch Hancock. Segue una notevole versione tex-mex del noto pezzo Pablo di Francesco De Gregori e poi il disco pare sedersi un po’ in una certa ripetitività e standardizzazione anche se Primaera è sicuramente un’ottima canzone country rock tra Byrds e Flying Burrito Bros. Forse è un cd che necessita di svariati ascolti per essere assimilato in toto, forse i primi due brani sono così sostanzialmente incantevoli che il resto tende un po’ a sparire, sta di fatto che pur restando un piacevolissimo album, l’uso del tex mex è indovinato e anche perfetto si può dire, ma il tutto risente secondo noi della difficoltà del dialetto bresciano che tutto è meno che comprensibile e affascinante. Se si paragona l’effetto di detto dialetto col comasco/laghèe di Van De Sfroos e anche col piacentino di Daniele Ronda non c’è storia.

Dialetto a parte il resto dei brani sono di Cinelli, uno con Andrea Parodi mentre verso il finale si ha una terza cover, la notevole via Della Scala, splendido pezzo di Stefano Rosso, cantautore romano che meriterebbe sicuramente una visibilità maggiore essendo stato negli anni settanta artista di notevole spessore, purtroppo prematuramente scomparso.

Ospiti di lusso e di gran lignaggio, Joel Guzman già con Joe Ely alla fisarmonica, Andrew Hardin, per anni con Tom Russell, Augie Meyers pard di Dough Sahm, l’amico Andrea Parodi e ancora Bocephus King. Insomma un parterre di tutto rispetto per un disco che ascolto dopo ascolto diventa sempre più piacevole. Prodotto da Andrea Parodi vede il buon Charlie Cinelli alle chitarre, basso, contrabbasso, percussioni e armonica. Un simpatico ed eccellente artista a 360 gradi. Ben vengano lavori di questo genere, sono isole di fiducia e speranza in mezzo a tanto squallore musicale che ci perseguita stabilmente da radio, televisioni e jingle commerciali insopportabili. Chiudete le orecchie a tutte ‘ste nefandezze che vi vengono proposte e acquistate questo nostrano disco per sentire della vera coinvolgente musica . Tex-mex al mille per cento il disegno di copertina.

BUFORD POPE – The Poem & The Rose

di Paolo Baiotti

21 aprile 2016

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BUFORD POPE
THE POEM & THE ROSE
Unchained 2015

Contrariamente alle apparenze, Buford Pope non è anglosassone. Nasce nel ’71 come Mikael Liljeborg a Gotland, isoletta svedese nel cuore del Mar Baltico, ma come tanti nell’adolescenza si innamora dei cantautori americani, a partire da Bob Dylan e Neil Young. Si trasferisce nel sud del paese all’alba del nuovo millennio ed esordisce nel 2003 con l’album omonimo, seguito da Blood Relatives nel 2010, Too Young To Be Old nel 2011 e Matching Numbers nel 2012, forse il suo disco migliore, nel solco dei cantautori rock sopra citati con l’aggiunta di Tom Petty e Bruce Springsteen. Disco elettrico, stradaiolo, nel quale ballate dolenti si alternano a tracce rockeggianti con qualche incursione nel country, interpretate abilmente dalla voce malinconica e sporcata dal Bourbon, avvicinabile a quella di Rod Stewart.

The Poem & The Rose non è un disco nuovo; è stato inciso nel 2006, doveva essere il secondo album dopo Buford Pope, ma è rimasto nei cassetti per scelta artistica, in quanto Buford lo riteneva troppo influenzato dal country, mentre la sua intenzione era quella di virare verso un suono più vicino al rock delle radici degli artisti già indicati. Adesso ha deciso di pubblicarlo senza modifiche e ha fatto bene, perché è un disco interessante, seppure un po’ monocorde nella scrittura.

L’impronta della tradizione country è evidente nella title track che apre il dischetto, caratterizzata dalla pedal steel di Peter Andersson (che imperversa in tutto il disco) e dal violino di Filip Runesson, presenti in primo piano anche in Talk Of The Town, nella quale si inserisce anche il mandolino di Amir Aly. My Heart Don’t Lie richiama le melodie di The Band, mentre il valzerone Bless These Arms Of Mine non brilla per fantasia. All I Took Was You alza il ritmo, ma non aggiunge molto alla qualità dell’album, che si riprende con la deliziosa ballata At The End Of The Week, nella quale si conferma il cambiamento della tonalità vocale di Buford, più alta e pulita rispetto ai dischi recenti. In Can’t Feel It Anymore Pope inserisce un’armonica rootsy nel tessuto country, mentre I Light Up A Candle ricorda i primi Eagles. Nella parte finale del disco spiccano la mossa Young Girl, un country campagnolo con fisarmonica e banjo in sottofondo e l’intensa If Ties Don’t Bind, molto curata nelle parti corali. Disco non indispensabile, utile a valutare l’evoluzione della carriera del cantautore svedese.

GINEVRA DI MARCO – Stelle

di Ronald Stancanelli

21 aprile 2016

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GINEVRA DI MARCO
STELLE – DAL VIVO
2015 (2013) Funambulo/Materiali Sonori

Finalmente dopo una spasmodica attesa è disponibile su cd il live di Ginevra Di Marco, album che racchiude canzoni che sono tese alla riscoperta di certa musica tradizionale che l’artista fiorentina sta utilizzando, riscoprendo e cantando in questa sua nuova dimensione artistico-musicale.

Siamo direi dalla parte non di Spessotto, come direbbe Vinicio, o forse si, ma dalla parte dei Dischi del sole, di Giovanna Marini e di un versante caro a Gabriella Ferri. Sicuramente non un cd di cassetta, ne un album che cerca visibilità facile ma che punta a un pubblico di livello e preparazione cultural-storico-musicale che ha nel cuore la canzone d’autore e l’ impegno sociale. Potremmo definirlo, visto che ci bazzichiamo da anni, un perfetto album da Premio Tenco.
Questo lavoro era già uscito nel 2013 in limitatissima versione solo per un fan club e poi in versione digitale ed è album, a tratti invero un po’ lento, che prende però per le corna ingiustizie, disuguaglianze, asperità, disparità e sperequazioni in modo forte, deciso e sincero, diciamo vero.

Ginevra Di Marco con la sua spettacolare voce si avvale dell’aiuto di Francesco Magnelli al piano e ai magnellophoni che sono marchingegni sintetici, forse figli del vecchio mellotron, ideati proprio da Magnelli, da qui il nome, con un suono che evoca sia l’organo che il piano elettrico che il moog o il mellotron stesso. Invece Andrea Salvadoti suona chitarre, tzouras, sorta di bouzouki greco col manico più lungo e il kazoo mentre Luca Ragazzo è alla batteria. Dodici brani che come è scritto nelle note di copertina “ A volte non servono neon, lampioni o insegne luminose. Canzoni queste come stelle che vengono da lontano e brillano costanti nel tempo e nello spazio e che aiutano a illuminare il cammino. Tradizionali nostrani di varie regioni oltre a Gracias a la vida di Violetta Parra che tutti ricordano nella nota versione di Joan Baez. La Di Marco in quasi sei minuti spettacolari la fa sua e infine degna di menzione una superba riproposizione di amara Terra mia di Domenico Modugno ed Elisa Bonaccorti. Grande lavoro di spessore prodotto e arrangiato dalla stessa Ginevra assieme a Magnelli e Salvatori. Ci preme ricordare il rapporto personale e artistico tra la Di Marco e l’astrofisica Margherita Hack, uno spettacolo teatrale, un libro e un dvd insieme dal titolo L’anima della terra vista dalle stelle, anche da qui il titolo del disco live. Semplice come i tempi andati il disegno di copertina.

A Varese un week end con il sano vinile (e il salutare fumetto)

di admin

18 aprile 2016

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Si svolgerà il prossimo fine settimana ( 23 e 24 aprile) la prossima edizione della Fiera del Disco e del Fumetto di Varese.
Come sempre al’Ata Hotel, dalle 10 alle 18.
Ingresso libero, parcheggio anche.
VI ASPETTIAMO!

RACHEL GARLIN – Wink At July

di Paolo Crazy Carnevale

17 aprile 2016

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RACHEL GARLIN – Wink At July (Tactile Records 2016)

Piacevole, scorrevole, delicato, ispirato: questo disco della cantautrice californiana Rachel Garlin è una delle cose più graziose, musicalmente parlando, che mi siano capitate sulla scrivania negli ultimi tempi. Come per la maggior parte delle pubblicazioni che mi arrivano, anche in questo caso si tratta del disco di una perfetta sconosciuta e vi assicuro che non vi è davvero nulla di meglio che ascoltare questi dischi che altrimenti non mi capiterebbe mai di avere per le mani, forse non saranno capolavori assoluti, ma per quanto mi riguarda è difficile che anche i miei eroi musicali di un tempo si mettano a fare capolavori assoluti, anzi, sovente capita che finiscano per deludermi, e allora ben vengano dischi come questo Wink At July.

Questa signorina (o signora) che ha la sua base a San Francisco, è sulla scena da un po’ di tempo, ha cominciato a far parlare di sé quando ha vinto un contest per nomi nuovi da mandare al Newport Folk Festival ed ha al suo attivo diversi dischi, ma tutti EP, questo se le informazioni su di lei sono corrette dovrebbe essere il suo primo prodotto a lunga durata. Con una voce limpida che ricorda in qualcosa la più nota Norah Jones (ma il genere è meno mainstream) e le Indigo Girls (nei cori), arricchita di sfumature pastello che ben s’intonano con le copertine dei suoi dischi, Rachel Garlin è davvero una bella scoperta.

Wink At July è composto da dodici canzoni dalla struttura essenziale, a volte sorrette dalla chitarra della titolare e poco altro, altre da interventi azzeccati di slide e chitarre varie, organo, sezione ritmica mai invadente e con comune denominatore quella voce davvero convincente. E prestando attenzione ai testi appare chiaro quanto oltre che una brava cantante, la Garlin sia anche un’apprezzabile cantastorie, o storyteller, come dicono dalle sue parti, che si tratti della bella canzone dedicata all’artista Keith Harring (Hey Keith Harrin), dell’iniziale Gwendolyn Said incentrata sui ricordi d’infanzia, o della bellissima Stranded che racconta di un viaggio in Arizona. Proprio questa è una delle composizioni più belle di un disco che però ha davvero molte frecce al proprio arco, storie ma anche impressioni, come quelle di un altro punto forte del disco, Colorado Rain dal refrain accattivante e dall’andatura molto orecchiabile, o di The Sea You See in cui l’ispirazione è la Scozia, paese natale della madre della cantautrice, o ancora Spin e Flying Together per sole chitarra e voce.

Gli accompagnatori sono soprattutto amici, sia per quanto riguarda le parti vocali che strumentali, tra i più noti almeno due nomi spiccano nell’elenco, i due batteristi Michael Urbano (gli anni novanta nel giro di John Hiatt) e Prairie Prince (dal prestigioso pedigree musicale).

MARIAN TRAPASSI – Bellavita

di Ronald Stancanelli

15 aprile 2016

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Marian Trapassi
Bellavita
Adesiva Discografica 2015

Tra i cd recentemente ricevuti volevamo da tempo recensire questo Bellavita di Marian Trapassi che ogni volta restava purtroppo dietro proposte straniere che come ricevevamo ci affrettavamo ad ascoltare e poi a recensire relegando questo album sempre nelle retrovie. Album solare, divertente, allegro e che entra in circolo al primo ascolto, così oggi a fronte di una pila di roba che staziona qua sulla mia scrivania riprendo in mano il disco della Trapassi e mi accingo a parlarvene.

La fanciulla nasce in quel di Palermo ove si diploma all’accademia delle Belle Arti iniziando la sua formazione musicale con gruppi rock della sua città iniziando un percorso che la porterà all’attuale delizioso album che stiamo riascoltando per l’ennesima volta, finalmente in procinto di farne uscire resoconto sul nostro sito. Soggiorna per un certo periodo nella città di New York il che le da lo spunto per il suo primo album, uscito nel 2002, dal titolo Sogno verde, prodotto da Simone Chivilò, chitarrista e collaboratore di Massimo Bubola che per me che abito da anni anche a Verona è sinonimo di garanzia e qualità per non parlare di Bubola che resta assieme a Fabrizio De Andrè il cantautore tra i più validi del nostro paese; il brano Essere verrà inserito nella compilation internazionale European Roadworks Music, cd a rappresentanza della scuola cantautorale italiana. Nel 2004 esce Marian Trapassi, disco finalista del concorso L’artista che non c’era vincendo poi l’autorevole Premio Ciampi come artista debuttante. Prima dell’uscita nel 2008 di Vi chiamerò per nome, album imperniato su ritratti di donne e tragitti prettamente al femminile assieme a Syria e Veronica Di Marchi ed altre artiste, collabora con Asley Hutchings dei Fairport Convention.

Adesso è la volta di Bellavita, l’arancia e altri viaggi, dieci solari e luminosi brani con testi e musiche scritti da lei stessa esclusa una cover. Disco prodotto da Chivilò e Paolo La felice si avvale di un ottima schiera di musicisti tra cui lo stesso Chivilò alle chitarre, Edu Hebling al contrabbasso, Lele Rodighiero al piano ed altri che si esibiscono in strumenti particolarmente ricercati, come il l’iraniano santur, il nordafricano bendir e il persiano ney.

Voce rosata, piccatamente vellutata quella della cantautrice che inizia con l’autobiografica Bellavita, brano piacevole e decisamente orecchiabile. Segue L’arancia, pezzo acustico, deliziosamente ed eroticamente elegante dal passo leggero e vellutato. Giovanni è invece canzone ritmicamente cadenzata, delicata come una bolla di sapone attraverso una vicenda dolce e surreale nella quale viene ricordato il grande Mimmo Modugno mentre Le formiche, un altra bellissima pagina di questo continuo viaggio, stavolta la nostra artista giramondo è a Siviglia, ove si pone varie domande con la solita eleganza guardandosi attorno e focalizzandosi su quello che delicatamente propone la vita. Disco questo, intelligente, piacevole e decisamente vero e sincero, molto intimo ma nel contempo aperto verso l’ascoltatore, brani gentili, misurati ma concisi, strutturati con semplicità ma abbelliti come uno splendido albero di Natale. My Love che concluderebbe la prima facciata se avessimo sul piatto il vinile è ballata che ricorda molto la texana-messicana Carrie Rodriguez a noi molto cara mentre la fumosa Barfly già dal titolo ci porta sia all’omonimo film che al personaggio letterario di Buckovsky, bel pezzo molto cinematografico e coinvolgente. Divertentissima e dall’esilarante testo fuori dagli schemi usuali, un plauso all’artista come autrice in questo caso, e ritmicamente accattivante la canzone L’attesa mentre in Finimondo che si conclude con un omaggio a Jim Morrison la cantautrice si interroga tra ironia e preoccupazione sul nostro oggi e di conseguenza sul nostro domani. Bel pezzo, scritto con intelligenza e cantato con amara saggezza. Concludono due brani piacevoli molto lenti e sospirati , Por el amoe de amar, cover da Concha Buika, cantante spagnola di origini ecuadoregne, e A casa, che pare d’impronta autobiografica. Bel disco sicuramente tra le proposte femminili nostrane più interessanti degli ultimi tempi. Strana la copertina, molto più accattivante la foto dell’artista all’interno del digipack.

LANCE CANALES – The Blessing And The Curse

di Ronald Stancanelli

13 aprile 2016

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LANCE CANALES
THE BLESSING AND THE CURSE
Music road Records 2015 distrib da IRD

Specie di clone di vari artisti questo Lances Canales che parte in stile Elvis, California or Bust, per ricordare subito dopo sia nello stile che nella voce anche il miglior Leonard Cohen, Hich-wyah Man. L’artista, originario di Fresno, si avvale della produzione di Jimmy La Fave che da un tocco di credibilità e accettabilità anche per l’interlocutore più scettico. Voce, potente, roca, diremmo profondamente gutturale per un cantautore dal piglio molto interessante e che propone anche una straordinaria, vedere il bellissimo video su you tube, cover da Woody Guthrie con una delle sue più belle canzoni di recriminazione verso le ingiustizie, ovvero quel capolavoro di Deportee qui in una lunga appassionata versione, da rimarcare che per la prima volta vengono elencati durante lo svolgersi del brano, a cura dello scrittore messicano Tim Z. Hernandez i nomi dei lavoratori/deportati morti nell’incidente aereo!! Disco affilato come un coltello e deciso come un accetta, chitarra slide come un vecchio bluesman del Delta, Canales si appassiona e nel contempo appassiona. Immensamente penetrante anche la cover di Death Got No Mercy del Reverendo G. Davis, che i più ricorderanno nella bellissima versione degli Hot Tuna, ma non è da meno in questa occasione il Canales aiutato splendidamente da Eliza Gylkinson. Gli altri brani del cd a sua firma. Nel disco abbiamo come ospiti anche Jimmy La Fave e Joel Rafael in vari pezzi oltre a Daniel Burt al piano, percussioni e batteria, Andrew Pressman al basso e Mike Hardwick alla chitarra elettrica. Decisamente notevole anche Old Red perfettamente resa dalla caratteristica voce del cantautore che sembra graffi l’aria con l’ugola tutta. Un gran bel disco, che avvince immediatamente, uscito per la Music Roads, etichetta texana che ha come direttore artistico Jimmy La Fave, il che è ovviamente sinonimo di garanzia. Come un vecchio 78 giri d’epoca la suggestiva copertina.

THE WESTIES – Six On The Out

di Paolo Crazy Carnevale

10 aprile 2016

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THE WESTIES – Six On The Out (Appaloosa/Pauper Sky Music 2016)

Secondo disco per questa band capitanata da Michael McDermott, singersongwriter chicagoano con ormai alle spalle una venticinquennale carriera solista: di fatto sembrerebbe proprio che in seno a questi Westies, McDermott abbia voluto sviluppare una carriera parallela affidandosi ad una vera e propria band di cui lui è “solo” autore dei brani e cantante. E se nel disco precedente i credits recitavano “The Westies featuring Michael McDermott”, stavolta il nome del leader lo troviamo solo all’interno del digipack insieme a quelli dei suoi compari: la moglie Heater Norton (violino e voce), il chitarrista Will Kimbrough (produttore in passato per Todd Snider, Rodney Crowell, session man e titolare di una carriera solista a proprio nome) e la sezione ritmica composta da Lex Price e Ian Fitchcuk.

Il disco, inciso a Nashville ma anni luce distante da quel luogo, è una bella raccolta di canzoni elettroacustiche in cui la voce di McDermott è di volta in volta sottolineata da arpeggi di chitarre, violino, strumenti tradizionali tutti inseriti a puntino per rendere al meglio la drammaticità che fa da filo conduttore alla maggior parte dei testi (qui presenti sia in inglese che in italiano nel corposo booklet allegato alla confezione). Storie di emarginazione, strada, galera, bassifondi, con personaggi come il pusher Lucky Leo, Willie il guardone, le prostitute Suzanne e Rita, lavori di ripiego tipo fare le pulizie in un locale fatiscente come il Paddy B (nella fattispecie nel trittico iniziale formato da If i Had A Gun, Pauper’s Sky e Parolee).

Ma anche canzoni d’amore, come Like You Used To Do (cantata dalla Horton) e Everythin Is All I Want For You, canzoni dal tono epico come Henry McCarthy in cui McDermott non sa resistere dal cantare a proprio modo la leggenda del medesimo Billy The Kid già cantato da Dylan, Tom Pacheco e Tom Petty. Il tutto attraverso itinerari che ci portano dalle periferie/ghetto delle metropoli (cantate in Pauper’s Sky, che è anche il nome dell’etichetta personale di Mc Dermott) all’America periferica di un west che va da La Grange (cantata in Parolee) a Santa Fe (che è anche il titolo di una delle composizioni più belle del disco insieme alla conclusiva Sirens), suggerendo suggestive immagini cinematografiche a bizzeffe.

Con quella voce che paga pegno a Springsteen e forse ancor più a Elliott Murphy, McDermott e i Westies riescono a regalarci un suono spesso spettrale (forse con l’eccezione dell’andamento irish – dovuto al whistle che vi appare – di The Gang’s All Here), epigono in molti modi di quello del Nebraska springsteeniano coniugato però alla dimensione band e debitore anche a certe sonorità del Knopfler solista (Will Kimbrough ha collaborato proprio con l’ex Dire Straits).

BARBARA BLUE – Memphis Blue/Sweet, Strong & Tight

di Paolo Baiotti

8 aprile 2016

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BARBARA BLUE
MEMPHIS BLUE – SWEET, STRONG & TIGHT
Big Blue Records 2014

Se passate a Memphis (non una brutta idea se si ha la possibilità di farlo), un giro per Beale Street, la strada del blues, è d’obbligo. Tra i locali della via al n. 183 noterete un pub di stile irlandese, il Silky O’Sullivan’s. Questo è il regno di Barbara Blue, cantante originaria di Pittsburgh che si è trasferita a Memphis nel ’97 ed è diventata un’istituzione cittadina, tanto da essere considerata la regina di Beale Street. Giunta al decimo album indipendente, Barbara ha deciso di registrare nei Royal Studios con la produzione di Lawrence Boo Mitchell, proprietario degli studi che ha lavorato con Al Green, Solomon Burke, Rod Stewart, William Bell…non proprio un pivello, nonché figlio di Willie Mitchell, musicista, produttore e discografico di primo piano della scena locale. Ha utilizzato The Royal Rhythm Section, la band dello studio (un po’ come la famosa sezione dei Muscle Shoals) guidata da Charles Hodges alle tastiere e la Royal Horn Section, con la partecipazione di alcuni ospiti che citerò in seguito, scegliendo prevalentemente brani di artisti locali più o meno conosciuti. Memphis Blue è un ritratto della musica cittadina: una miscela di blues, soul, rhythm and blues, funky, gospel e country piacevole e accattivante, interpretata dalla voce allo stesso tempo potente e melodica di Barbara ed eseguita con classe da musicisti di prima qualità. Il jump blues di Hands Off, composto da Jay McShann, apre il dischetto, con un brillante intervento dell’armonica di Bobby Rush, seguito dalla scattante No Time To Cry, illuminata dalla chitarra di Ronnie Earl. Il disco alterna tracce ritmate come Rudy’s Blues e Voodoo Woman profumata di zydeco con Cody Dickinson al washboard e Sonny Barbato alla fisarmonica a tracce riflessive quali lo splendido country-gospel Me And Jesus e Coat & Hat, nella quale riappare la fisarmonica. Altri brani richiamano più chiaramente lo stile cittadino, dalla ritmata Rollin’ Up On Me con un assolo calibrato di Earl e il piano scorrevole di Barbato all’errebi Love Is After Me, scritta da David Porter e Isaac Hayes. Nella parte finale del disco spiccano il blues sporco Sweet, Strong & Tight, la ballata soul I’m Gonna Tear Your Playhouse Down cantata in modo splendido, irrorata dalla sezione fiati e da un organo avvolgente e 800 Mile Blues, scritta ed eseguita da Barbara e Ronnie Earl, un country-blues acustico che chiude in modo elegante un disco di pregio.

Il prossimo week-end tutti a Vinilmania!

di admin

5 aprile 2016

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Ci vediamo nella nuova sede di Via Mecenate 84/10, nello Spazio East End.
Buon vinile a tutti!

WILY BO WALKER/E.D.BRAYSHAW – Stone Cold Beautiful

di Paolo Baiotti

4 aprile 2016

wily bo [666]

WILY BO WALKER/E D BRAYSHAW
STONE COLD BEAUTIFUL
Mescal Canyon Records 2015

Wily Bo è un artista di origini scozzesi caratterizzato da una voce grezza un po’ alla Rod Stewart o James Maddock che nel 2015 ha realizzato ben tre dischi: A Long Way From Heaven, un mini album con la cantante Karena K. che gli ha consentito un ottimo piazzamento nei Blues Awards britannici, Moon Over Indigo e Stone Cold Beautiful, quest’ultimo in compagnia del chitarrista E D Brayshaw. Nato nel ’57 ha alle spalle una lunga carriera nella quale non si contano le collaborazioni, sempre con altri artisti di nicchia e ha pubblicato una ventina da dischi da solo o in compagnia. In particolare con Brayshaw ha militato in The Baddies e in The Jawbreakers, due formazioni discretamente conosciute nell’ambito del circuito blues inglese.
Stone Cold Beautiful è un mini album (sei brani per quasi quaranta minuti) di rock blues cantato e suonato con passione e talento. Spicca una versione eccellente di Loan Me A Dime, il blues lento di Fenton Robinson reso immortale dall’esecuzione di Boz Scaggs con Duane Allman alla solista nell’omonimo disco di Scaggs del ‘69, ma già dal solido opener rock blues di Storm Warning, composto da Brayshaw e caratterizzato dalla voce roca di Wily e da una chitarra incisiva e lancinante con i backing vocals di Karena K., seguito da una raffinata cover di Motel Blues di Loudon Wainwright III si intuiscono le capacità non indifferenti della coppia. Loan Me A Dime è oscura ed espressiva, cantata con una voce che si avvicina al primo Tom Waits e percorsa da una chitarra emozionante, mentre I Want To Know composta da Wily è più vicina al soul, con un tocco di morbidezza che non guasta, pur non brillando per originalità. In chiusura September Red, una traccia cadenzata con dei cori e una tastiera dalle tonalità gospel che culmina in un brillante assolo di Brayshaw e la lunga Killers On The Run, caratterizzata da un organo avvolgente e da una chitarra aspra e potente che domina la seconda parte del brano, confermano le potenzialità del duo e la qualità complessiva di un disco meritevole di un attento ascolto.

GOD DON’T NEVER CHANGE – The Songs Of Blind Willie Johnson

di Paolo Crazy Carnevale

3 aprile 2016

god don't never change [673]

GOD DON’T NEVER CHANGE – The Songs Of Blind Willie Johnson (Alligator 2016)

Jeffrey Gaskill, il produttore di questo disco, ha già al suo attivo una bella raccolta analoga dedicata alle canzoni gospel composte da Bob Dylan nel biennio 1979/80, stavolta, con la complicità dell’Alligator, etichetta specializzata in pubblicazioni blues, ha messo insieme un cast eccellente per rendere omaggio alle canzoni di Blind Willie Johnson, personaggio fondamentale per quanto riguarda il blues degli albori, celebrato – seppure indirettamente – anche dal regista Wim Wenders nel suo ottimo documentario Soul Of A Man, incentrato sulle figure di Skip James e J.B. Lenoir facendo però uso di Blind WIllie Johnson come filo conduttore della pellicola che proprio da una sua canzone prendeva il nome.

Gaskill, per mettere a segno la sua produzione, corredata da un bel booklet ricco di foto e note storiche, ha assemblato un cast di tutto riguardo, un cast rigorosamente composto da musicisti bianchi, fatta eccezione per i superstiti dei Blind Boys Of Alabama che, nonostante l’età consegnano ai posteri una struggente e inarrivabile versione di Mother’s Children Have A Hard Time, baciata dalla slide di Jason Isbell, di cui potrebbero benissimo essere, oltre che interpreti, anche protagonisti. Sicuramente il più squillato dalla carta stampata in occasione dell’uscita di questo tribute, è il nome di Tom Waits, assente da un po’ dalle scene e quindi sempre molto atteso. Personalmente non so se sono io che non lo capisco o se lui giochi a fare delle cose inascoltabili perché tanto tutti lo incensano qualunque cosa faccia, comunque delle due composizioni con cui si cimenta, The Soul Of A Man è anche interessante, ma la sua interpretazione “industrial” di John The Revelator poteva anche tenersela nei cassetti che era meglio. Di tutt’altra pasta Lucinda Williams (anche lei titolare di due contributi in questo disco) che riesce a mettere del suo laddove ce l’avevano messo nel secolo scorso i Led Zeppelin, consegnando una It’s Nobody Fault But Mine lacerante e una più ordinaria ma sempre immensa God Don’t Never Change. Da togliersi il cappello (hat off, come si dice in inglese) anche per la rilettura minimale (voce e slide) che Derek Trucks e Susan Tedeschi danno di Keep Your Lamp Trimmed And Burning e, autentiche chicche sono la Trouble Will Soon Be Over di Sinead O’Connor e Jesus Is Coming Soon dei Cowboy Junkies, introdotti dalla voce gracchiante di Blind Willie proveniente da un vecchio 78 giri che dopo pochi secondi lascia lo spazio a quella sempre suadente e penetrante di Margo Timmins. Meno bene, secondo me, il brano affidato a Luther Dickinson, forse perché a sentirlo fare questo genere ci siamo abituati, mentre dagli altri artisti coinvolti rimaniamo più sorpresi, e non mi piace molto nemmeno Rickie Lee Jones, alle prese con Dark Was The Night, brano difficile da prendere in considerazione dopo le versioni di Ry Cooder. Ultima gradita sorpresa è la presenza di Maria McKee, i cui percorsi artistici sono ormai distanti anni luce da quelli per cui l’avevamo apprezzata al momento del suo esordio, la sua rilettura di Let Your Light Shine On Me è un altro piccolo capolavoro.

THE NEW APPALACHIANS – From The Mountaintop

di Ronald Stancanelli

2 aprile 2016

APPALCHIANS [257017]

THE NEW APPALACHIANS
From The Mountaintop
2015 Chesy Records in Italia distrib da IRD

Il momento fulgido di quest’album è il traditional Wayfaring Stranger cantanto dalla affascinante voce di Noah Wall. I 17 brani di From the Mountaintop sono eseguiti dal gruppo dei New Appalachians vertendo sul recupero sia di vecchi brani che di storici traditional. Esecuzioni accattivanti a tratti esaltanti ma rispettose delle tradizioni ci regalano superbe songs quali Though Luck di Clarence Ashley, la notissima John Henry recuperata alcuni anni fa anche da Springsteen con la Seeger Session Band, la sempreverde Will the Circe be unbroken ormai alla sua millesima versione, qua in una atipica riproposizione solo voce e basso e la storica Coal Miner’s Blues di A.P. Carter che è ormai solida nella tradizione musicale americana. Il dischetto racconta quindi di storie antiche se non remote mettendo in evidenza la bravura degli otto musicisti che utilizzano cello, violino, mandolino, banjo, basso, chitarra e batteria e percussioni in ottemperanza a quanto richieda ogni singolo specifico brano mentre per quanto concerne la voce Noah Wall, Jake Baine e Tyler Hughers si dividono vicendevolmente i compiti mentre un pezzo, I wonder what they’re doing in Heaven Today è eseguito a cappella dal solo Baine e un altro è lo strumentale Billy in the Low Ground del quale ricordiamo una strepitosa versione della Nitty Gritty Dirt Band sul suo Unclie Charlie & his Dog Teddy del 1967.

Se questo invece che un cd fosse un dolce potremmo definirlo di gusto squisito, gradevole e succulento essendo proposto ed eseguito con un’anima folk e padronanza dei mezzi decisamente notevole. Escludendo i nativi americani le prime persone ad insediarsi nella zona est degli Usa furono pionieri e coloni giuntivi dall’Europa quindi un melting-pot formato da scozzesi, irlandesi, tedeschi, inglesi, francesi, gallesi, italiani . Di conseguenza la matrice musicale della zona fu un misto di dette culture che rielaborate, mischiate e legate assieme hanno dato origine a quella che oggi viene appunto detta la musica degli Appalachi, zona impervie montuosa come il variegato stile musicale che da lì è uscito. Ben vengano dunque dischi di reminescenza Old Time Music come questo che esaltano la pura e profonda radicalità musicale che concorre a far conoscere a tutti, anche ai più giovani il retroterra culturale che ha arricchito il percorso musicale di dette persone diventando poi patrimonio culturale di tutti. Il disco è prodotto da Dave Eggar che parrebbe essere il principale artefice di questi The New Appalachians ove bellezza e qualità vanno felicemente a braccetto. Da tenere d’occhio Noah Wall dalla voce semplicemente superba. Semplice ma significativa la foto di copertina.