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COPERNICUS – Immediate Eternity

di Paolo Crazy Carnevale

21 giugno 2014

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COPERNICUS – L’Etérnité Immediate (Nevermore Inc. 2013)

COPERNICUS – Immediate Eternity (Nevermore Inc. 2014)

 

Due dischi nel giro pochi mesi, in realtà lo stesso disco in due lingue diverse, per il poeta rock newyorchese Copernicus, al secolo Joseph Smalkowski. Una ristampa di un suo lavoro già uscito – ma poco distribuito – una decina di anni fa in differenti versioni e lingue. Non è un caso che Copernicus lo reputi il suo disco migliore, il fatto che ne abbia realizzato versioni in inglese, francese, spagnolo e tedesco la dice lunga.

E non si può dargli torto, se pure le altre produzioni, sia le ristampe di vecchi lavori che i nuovi lavori usciti dopo che la Nevermore Inc. ha dato i propri dischi in distribuzione alla Moonjune, erano più che apprezzabili e tutte caratterizzate da quel sound da New York notturna in cui le chitarre di Larry Kirwan (dei Black 47) spaziavano e dominavano facendo da solido compendio alla voce allucinata di Copernicus, questa “eternità immediata” ha un suono tutto suo, completamente differente, più organico se vogliamo, sia che lo ascoltiamo in francese, sia che lo ascoltiamo in inglese (ma vi consiglio quest’ultima versione), cosa dovuta anche al fatto che gli accompagnatori siano solo quattro e non siano del giro abituale del titolare.

Anzi, non sono nemmeno di New York, sono ecuadoregni, e proprio in Ecuador è stato registrato il disco. Certo, le atmosfere sono comunque notturne, e la chitarra lancinante di Cèsar Aragundi non ha nulla da invidiare a quella di Kirwan. La novità è che le musiche sembrano meno casuali, come se alla base di tutto ci fosse una ricerca ben definita, cosa che non può che far bene al disco. Se i dischi precedenti e successivi questa produzione del 2003 avevano più il sapore della performance, qui siamo da tutt’altra parte: chitarra, basso, batteria, tastiere e in un brano il sax sembrano saper bene dove andare, come se stavolta ci fosse un copione scritto su cui il recitativo di Copernicus non può che trovarsi comunque a proprio agio.

Rock & Pop, le recensioni di LFTS/25

di Paolo Crazy Carnevale

14 giugno 2013

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LIGRO – Dictionary 2 (Moonjune 2012)

 

Con l’Italia, l’Indonesia è sicuramente uno dei paesi più rappresentati nel catalogo della label newyorchese Moonjune Records, che continua a sfornare interessanti produzioni nel campo del jazz rock, progressive e art-rock, in questo caso con atmosfere addirittura gotiche già annunciate dalla copertina del disco in questione.

Questa volta tocca ad un trio di Jackarta che ci conferma l’esistenza di una solida ed interessante scena musicale laddove meno ce lo saremmo aspettato.

Il nome del gruppo – un classico trio chitarra, basso e batteria – altro non è che la scrittura al contrario del vocabolo “ogril” che nella lingua nazionale indonesiana significa gente pazza.

Registrato in Indonesia nel 2011, il disco si compone di otto tracce, tutte piuttosto lunghe, in cui si va a trarre ispirazione, di volta in volta in Robert Fripp, Jimi Hendrix, John McLaughlin fino a Terje Ripdal, ma nelle composizioni ci sono ampi riferimenti e citazioni anche alla musica classica e contemporanea, nella fattispecie a Igor Stravinsky e a J.S. Bach.

A fare la parte del leone è il chitarrista del gruppo, Agam Hamzah, seguito diligentemente dai due soci nei continui cambi di ritmo delle composizioni.

Un brano su tutti: la policroma e ispirata Future.

 

 

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COPERNICUS –Deeper (Nevermore 1987/2012)

 

Non è il nuovo disco di Copernicus, il poeta undeground rock newyorchese, questo Deeper è la versione in CD di un suo vecchio vinile del 1987 che ora viene ripubblicato con distribuzione Moonjune Records come era accaduto a due lavori che lo avevano preceduto in una serie di ristampe programmatiche che un po’ alla volta hanno il compito di mettere a disposizione in versione digitale tutta l’opera di questo curioso personaggio.

Come nelle altre produzioni, incluse quelle più recenti, il poeta è accompagnato dai fidi Larry Kirwan (quello dei Black 47) e Pierce Turner, due artisti irlandesi, da tempo stabilitisi nella grande mela, con carriere musicali autonome e cospicue, che forniscono la base musicale dei dischi di Copernicus e lo accompagnano anche on stage, come testimonia il DVD praghese uscito un paio di anni fa.

Rispetto ai dischi precedenti ci sono molti più musicisti coinvolti, con uso di violini, varie chitarre, tastiere, addirittura un pianoforte, e poi flauti andini, percussioni, fiati, bodhram – a testimoniare le origini irish dei due accompagnatori principali – e su tutto, ovviamente lo sgraziato recitato/cantato del leader che quasi declama i suoi versi con disperazione.

Ci sono alcuni dei brani più interessanti, non a caso questo Deeper è tra i dischi più gettonati dal nostro durante i concerti: c’è la drammatica Son Of A Bitch Of The North in cui si denunciano gli abusi dei gringos nei paesi latinoamericani, e c’è Chichen Itza Elvis, in cui Kirwan e Turner fanno eco alle declamazioni di Copernicus con citazioni da Hound Dog, Can’t Help Falling In love With You e altri brani di presleyana memoria.

Un paio di ulteriori citazioni per la cupa Once Once Once Again, per la suggestiva Disco Days Are Over, sottolineata magistralmente proprio dal bodhram, quel particolare tipo di percussione originaria dell’area celtica che produce un suono che da solo può tenere in piedi un brano, e per concludere The Death Of Joe Apples, aperta da un’intro di ottoni con un sound che più newyorchese non si potrebbe.

 

 

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POCO – All Fired Up (Drifter’s Church Productions 2013)

 

In copertina il profilo del cavallo in fiamme sembra volerci dire che i Poco cavalcano ancora. Quanto a cavalcare, niente da dire. Il problema è il nome del gruppo. Poco. Non per fare giochi di parole, ma oltre al nome del gruppo, poco sembra essere anche quanto è rimasto della gloriosa formazione che abbiamo amato negli anni settanta in quella che cavalca in questo secondo decennio del terzo millennio, sotto la guida di Rusty Young, unico componente originale rimasto nel gruppo.

Diciamolo senza tema di smentite, se Rusty Young ha caratterizzato per anni il suono della band con la sua pedal steel, la sua voce non è sicuramente di quelle che fanno impazzire, troppo zuccherosa: i vocalist nei Poco erano ben altri e molto più dotati. Eppure questo All Fired Up non è un brutto disco, solo non riesce ad essere un disco dei Poco. Young e suoi soci attuali (il bassista Jack Sundrud e il polistrumentista Michael Webb, già coi Brooklyn Cowboys) ce la mettono tutta ma il risultato è anonimo, potrebbe essere chiunque ad aver registrato il disco, i suoni non sarebbero male, il dobro nelle mani di Young viaggia bene, il piano di Webb anche – ma quando mai il piano è stato determinante nella musica dei Poco? -, le canzoni scorrono piacevolmente, ma non è un disco dei Poco. D’altra parte, ammettiamo pure questo, i Poco geniali e innovativi non sono quelli dei dischi con il  logo del cavallo in corsa, quel logo è arrivato dopo, col successo di vendite, quando il gruppo pubblicò Legend nel 1978. Nei Poco delle origini, quelli in cui un inconsolabile Richie Furay si struggeva per non riuscire ad ottenere il successo degli ex soci Steve Stills e Neil Young, ed era vessato dal fatto che i Poco dimissionari (Messina e Meisner, ma più tardi anche Schmidt) ottenessero immensi riscontri mentre lui non se lo filava nessuno, nei Poco delle origini dicevo, c’erano gli impasti delle voci, c’erano le chitarre, le grandi canzoni e la produzione di studio era improntata in direzione di una ricerca sonora non da poco. I Poco degli ultimi trent’anni hanno continuato a cavalcare su terreni lontani da quelli delle origini, a volte incidendo dischi da dimenticare, altre ritrovando sprazzi di serenità e motivazione, come nel disco dal vivo – con tanto di dvd – in cui per una volta Furay tornava a fianco degli ex soci. Non mancano buone intuizioni in questo disco, la title track è buona, Hard Country convince particolarmente, Love Has No Reason viaggia bene. Per contro Rockin’ Horse dall’andamento finto blues è abbastanza fiacca, nonostante alcuni cori azzeccati, d’altra parte riuscite ad immaginare la voce al miele di Rusty Young alle prese con un riff dalle pretese black? Neil Young (Is Not My Brother) prende lo spunto dal fatto che in passato è girata di tanto in tanto la voce che Rusty e Neil fossero fratelli: il chitarrista dei Poco sembra quasi  polemico a riguardo e il brano è cantato imitando proprio il canadese, con tanto di armonica, magari le intenzioni erano buone ma il risultato convince poco, non andando molto al di là della parodia. Persino lo strumentale a base di dobro, Pucky Huddle Stomp, è ben lontano dagli strumentali che Rusty ha composto in passato.

In definitiva, nessuno vieta a Young (Rusty ovviamente) e ai suoi nuovi soci di continuare a fare musica, ma saremmo loro grati se lo facessero senza scomodare un nome che negli anni settanta ha significato qualcosa per molti.

 

 

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ROBERT RANDOLPH & THE FAMILY BAND – Live In Concert (Dare Records 2012)

 

Un grande in tutti i sensi questo Robert Randolph, sia per come suona la pedal steel sia per come usa questo strumento inserendolo in un contesto totalmente diverso da quello in cui siamo solitamente abituati ad ascoltarlo. E la dimensione live è di certo quella che gli si confà maggiormente. Il suo esordio è avvenuto nel 2001 per caso, quando, scoperto miracolosamente – è il caso di dirlo – nel circuito dei suonatori di pedal steel da chiesa, prende parte al suo primo disco importante, The Word, un progetto a tutt’oggi insuperato in cui fa parte di un supergruppo che comprende i North Mississippi All Stars e John Medeski. Di fatto il disco era stato concepito e costruito ad arte proprio per far emergere questo giovane talento. A quel disco hanno fatto seguito i diversi episodi della Family Band in cui Robert è affiancato dai cugini Marcus e Danyel, dalla giunonica sorella Lenesha e altri amici che lo assistono nel mettere insieme un suono che oscilla tra funk e blues, con inevitabili sfumature gospel. Questo disco dal vivo è il quinto inciso dalla formazione (che per la cronaca aveva esordito con un altro live nel 2002) ed è una delle cose migliori in cui compare il nome di Randolph, seconda solo a The Word. A parte infatti il primo disco di studio, le altre prove del nostro non sono parse troppo convincenti, nemmeno quando a produrlo si è scomodato addirittura T-Bone Burnett: il problema sta probabilmente nelle composizioni, non sempre azzeccate. Dal vivo però viene fuori tutta la grinta, tutta l’arte, tutta la grandezza di questo musicista che oltre a saper fondere diverse influenze, dimostra di aver una vasta conoscenza del patrimonio della black music, che sa sfruttare e adattare alla bisogna, usando brani di illustri colleghi per dare sfogo al proprio talento.

Il disco si apre con Travelin’ Shoes, firmata con Burnett e Tonio K (!) e tratta dal più recente disco di studio, un buon brano che però nella melodia ricorda troppo la Sailin’ Shoes di Lowell George, Squeeze è invece di pasta più solida e memorabile, con passaggi southern rock che ricordano l’Allman Brothers Band di quando c’era ancora Dickey Betts, Shining Star invece rende maggiormente l’idea dell’abilità della formazione nel fondere funk e blues alla maniera di Sly Stone, Don’t Change è un solido rock che si avvale di una grande introduzione strumentale.  Il vero talento esplode però più avanti, prepotentemente, con gli strumentali Sacred Steel, in odor di Hawaii e soprattutto con Electric Church e Peckaboo, autentici e riusciti tour de force per Randolph e soci, che nel corso del disco sono affiancati anche da ospiti, ma il booklet preferisce indugiare sulle foto – peraltro belle – del gruppo che non nello specificare chi suona e dove suona.

Sicuramente ci sono altri suonatori del circuito pedal steel da chiesa – che con Randolph scambiano assoli a ripetizione – e c’è Susan Tedeschi. Ma le delizie scaturiscono anche quando il protagonista fa duettare la sua pedal steel con l’organo di Brett Haas. Tra gli artisti a cui si rende omaggio ci sono gli Staple Singers con una bella versione di I’ll Take You There, Prince di cui viene eseguita Walk Don’t Walk e l’immancabile Jimi Hendrix, con una Purple Haze per nulla scontata.

Rock & Pop, le recensioni di LFTS/16

di admin

24 maggio 2012

Copernicus-LiveInPrague-L COPERNICUS – Live in Prague DVD (Nevermore 2011)

Nel 1989, qualche mese prima del crollo  del muro di Berlino, il poeta/performer  Copernicus intraprese un tour europeo  che lo portò a toccare alcune città di quei  paesi che all’epoca erano comunemente  definiti d’oltrecortina. Un tour di  successo con cui promuoveva il suo  recente disco Deeper, che grazie ad  un’adeguata radiodiffusione era stato  accolto molto positivamente in quei  paesi, che per quanto riguarda la data  nella capitale dell’allora Cecoslovacchia è  stato anche videofilmato e trasmesso in televisione. Il contenuto del Dvd Live In Prague, pubblicato lo scorso autunno dalla Nevermore con distribuzione Moonjune, ci riconsegna, del tutto intatta l’atmosfera di quella serata. Chi ha avuto modo di visitare i paesi dell’est nei primi tempi dopo la caduta del muro, ritroverà certe atmosfere in queste riprese. Copernicus è accompagnato qui da un quartetto di musicisti comprendente il fido Larry Lirwan, che oltre a suonare tastiere e chitarra, si occupa di alcune parti vocali più cantate, rispetto a quelle recitate da Copernicus. L’atmosfera è la stessa cupa e pessimista che domina anche nelle produzioni discografiche del performer, che nel corso dell’esibizione non disdegna di cambiare d’abito per calarsi meglio nei testi delle sue composizioni, tanto che in Son Of A Bitch From The North lo ritroviamo con un sombrero calato in testa, quasi fosse un campesino guatemalteco come quello di cui il testo parla. In Chichen-Itza Elvis, invece, è Kirwan che sfodera un riff che ricorda alla lontana Not Fade Away, usando la musica al posto del travestimento. I brani conclusivi, Nagasaki e Blood, provenienti dal disco d’esordio di Copernicus, si confermano come composizioni di grande effetto, rafforzato in questo caso dalle immagini provenienti da diverse riprese della serata montate – come tutto il Dvd – in una duplice inquadratura, quella ripresa e trasmessa dalla tivù praghese e quella di Corbett Santana.

Paolo Crazy Carnevale

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DANIELE RONDA  & FOLKLUBDa parte in folk (2011)

Anche se il nome di Daniele Ronda, cantautore piacentino, classe 1983, può suonarvi del tutto sconosciuto, le sue canzoni sono finite nei dischi di alcuni noti personaggi del panorama musicale leggero italiano, da Mietta a Nek, a Massimo Di Cataldo, e prima di questo debutto in chiave folk rock, Ronda aveva al proprio attivo un altro disco solista. Il cambiamento di rotta, la virata verso una sorta di combat folk energico ed ispirato, più in senso musicale che per quanto riguarda i testi, sembra aver fatto bene a Ronda che pur pagando dazio a molta musica italiana riesce ad inanellare una serie di canzoni ben eseguite e sorrette da una strumentazione scarna ed efficace in cui la fisarmonica fa la sua bella parte, senza mai sovrabbondare eccessivamente. Il disco si apre con una canzone in dialetto, La nev e ‘l sul, che non può non farci pensare a i primi Modena City Ramblers o a Van De Sfroos, che guarda caso è ospite in Tre Corsari, una delle canzoni portanti del disco, cantata però in italiano. Altro ospite d’eccezione è Danilo Sacco dei Nomadi, che canta in un intenso brano ispirato alla tragedia di Cernobyl. E la musica dei Nomadi ha sicuramente la sua buona dose di responsabilità nell’ispirazione di Ronda, così come certe cose dei Gang, ma anche –complici la voce e il modo di cantare di Ronda – Ruggeri (ascoltate Polvere e sabbia o la bella Ogni passo per rendervene conto) o il Battiato anni ottanta (l’inizio di Cenerentola, altro brano chiave del disco). Il disco nel complesso è piacevole e tra le note positive vi è anche una produzione abbastanza felice che contribuisce a caratterizzarne il suono.

Paolo Crazy Carnevale

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ED LAURIE – Cathedral (V2  2011)

Una delle belle sorprese di  inizio anno. Devo ammettere che l’occhio, o  meglio l’orecchio, su questo  disco mi è caduto in virtù  del fatto che ho notato i  nomi di alcuni miei  concittadini tra i musicisti  che accompagnano questo  songwriter scozzese, giunto  ormai alla terza prova e  spinto ora da una casa discografica di un certo rilievo come la V2. Cathedral è un bel disco di una quarantina di minuti, come si usava una volta, con dieci tracce mediamente caratterizzate da una buona ispirazione. Si tratta di un disco che entra in circolo mano a mano che lo si ascolta, ben costruito, ben suonato, composto con mano felice ed arrangiato altrettanto felicemente. Nelle recensioni apparse qua e là sono stati fatti paragoni con i Buckley, con Fred Neil e Nick Drake, ma la verità è che Ed Laurie brilla sufficientemente di luce propria senza dover scomodare grossi paragoni, piuttosto, da indiscrezioni ottenute parlando con i musicisti coinvolti si scopre che se mai l’intenzione era di partire da un’idea alla Astral Weeks. Tutta un’altra cosa insomma. E le intenzioni  trovano conferma in brani come Side Of A Candle e la conclusiva title track, una lunga composizione in cui fanno capolino anche le campane del duomo di Bolzano – perché il disco è stato inciso proprio nella mia città – entrate proditoriamente nei microfoni. Il suono gira attorno ad una base di basso, batteria e chitarra su cui si inseriscono sax e violino, un vibrafono, con l’aggiunta in seconda battuta di una scarna sezione d’archi e di  una slide. Ma la colla di tutto è la voce di Laurie caratterizzata da una certa originalità e da un lirismo tutto suo.  Tra i brani migliori, oltre ai due già citati è bene ricordare le iniziali High Above Heartache, East Wind – particolarmente ispirata – e Spirit Of The Stairway. Meno riuscita Across the Border, caratterizzata da suoni troppo stridenti che mal si mescolano col resto di questo interessante disco.

Paolo Crazy Carnevale

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JONATHAN WILSON – Gentle Spirit (Bella Union 2011)

Uno dei dischi migliori tra quelli usciti lo scorso anno. Lo sto ascoltando da mesi a più riprese e di volta in volta mi sento sempre più coinvolto dall’ascolto. Ci sono brani che mi hanno impressionato da subito, ma col passare del tempo mi sembrano più familiari anche gli altri… Jonathan Wilson, a dispetto del cognome, non è uno dei Beach Boys, non è californiano, ma da anni si è trasferito sulla West Coast e per la precisone a Los Angeles, in quel Laurel Canyon che alla fine degli anni sessanta è stato un ricettacolo di artisti di levatura bestiale. Sarà l’aria, saranno i tramonti che si vedono guardando verso il mare, non lo so, ma questo lungo disco di Jonathan Wilson, offre una serie di mappe sonore degne degli illustri colleghi che hanno abitato il canyon molto prima di lui.  Tredici tracce in tutto, alcune molto lunghe ed elaborate, suoni ricercatissimi che vanno a rispolverare un periodo della musica californiana che è difficile dimenticare. Forse la voce di Wilson non è memorabile come quella di David Crosby, non ha le inflessioni nasali di Neil Young o quelle gutturali di Garcia, ma è proprio da quelle parti che il cerchio va a quadrare, perché queste sembrano le influenze principali di questo disco, ci sono le atmosfere rarefatte, le ballate zuccherose, ci sono chitarre acide (Desert Raven e la title track) abilmente mescolate con acustiche delicate (Magic Everywhere e The Way I Feel), ci sono gli assoli distorti trionfali (Valley Of The Silver Moon, autentico inno conclusivo del disco) e ci sono echi di musica cosmica alla Aoxomoxoa.  Il tutto senza che il disco perda un grammo in originalità e credibilità, perché per tessere questo capolavoro Jonathan Wilson si è fatto accompagnare da fior di amici, più o meno noti, il più conosciuto è Chris Robinson, ottenendo i giusti suoni e il le giuste atmosfere, registrando praticamente in casa.  Difetti? Certo, uno davvero grande: l’edizione europea in cd in mio possesso ha note di copertina a stento leggibili, anche con la lente d’ingrandimento. Per fortuna esiste anche in vinile, doppio, naturalmente, vista la durata, ma non so dirvi se ci siano note più esaurienti su chi suoni, cosa suoni e dove suoni. Ma è tutto secondario, la musica è quel che conta: qui ce n’è molta ed è molto buona.

Paolo Crazy Carnevale

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MORAINE – Metamorphic  Rock (Moonjune 2011)

Tra gli artisti in forza  alla  casa indipendente  Moonjune, con sede a New  York, il chitarrista Dennis  Rea è senza dubbio uno dei  più prolifici ed eclettici.    Negli ultimi tre anni è stato  protagonista di altrettanti dischi con altrettante formazioni, esplorando territori jazz rock (in particolare con il quintetto Iron Kim Style), etnici, art rock con la formazione dei Moraine. Questo quarto disco, inciso proprio con i Moraine, è un po’ il sunto di tanto lavoro e la coronazione di tanti progetti con  un bel live registrato a Bethlehem, Pennsylvania, nel corso del North East Art Rock Festival del 2010. La dimensione live si addice molto bene alla musica prodotta da Dennis Rea, che assecondato da un gruppo di musicisti preparati, su tutti la violinista Alicia De Joie (già Alicia Allen, ora sposa del sassofonista del gruppo James DeJoie) offre una performance di altissimo livello.  Il repertorio del live del gruppo di Seattle va a pescare soprattutto in Manifest Density, il disco di studio del 2009, riproponendo una lunga versione di Middlebräu, un medley tra Disillusioned Avatar e Ephebus Amoebus, e ancora Kuru e Uncle Tang’s Cabinet of Dr. Caligari, ma ci s sono anche brani nuovi come Okanogan Lobe e Blues For A Bruised Planet. A impreziosire il disco, il cui missaggio è opera di Steve Fisk (Nirvana, Soundgarden), c’è poi la bella ripresa di un medley che va rispolverare le incursioni di Rea nella musica orientale del suo disco solo: Views Fron Chicheng Precipice, uscito nel 2010.

Paolo Crazy Carnevale

pura fè

PURA FÈ – Tuscarora Nation Blues (Dixie Frog 2006)

Mi sono imbattuto in questo prezioso cd sull’onda della mappa di Late For The Sky cartaceo dedicata agli indiani d’America. Purtroppo l’ho scoperto solo dopo la pubblicazione di quello speciale uscito la scorsa primavera, altrimenti sarebbe entrato di diritto tra i dischi consigliati in quella sede. Cerco di rimediare ora.  Ai più attenti consumatori di note di copertina, il nome di Pura Fè non dovrebbe risultare del tutto ignoto, trattandosi di un’artista che oltre ad aver partecipato a dischi delle Indigo Girls, è anche una delle componenti del trio vocale Ulali, presente tra l’altro nel Red Road Ensemble di Robbie Robertson.  Pura Fè ha origini irochesi della nazione Tuscarora, portoricane e corse ed è titolare di una carriera discografica di tutto rispetto. In questo disco, ribadisco prezioso, fonde con capacità e gran gusto le proprie radici native col blues più tradizionale, realizzando un connubio riuscitissimo che ha dell’incredibile. Tuscarora Nation Blues si compone di tredici tracce per lo più acustiche quasi tutte a firma della protagonista che oltre a sfoderare una voce piena di pathos e molto duttile, suona la slide con sapienza e in qualche frangente anche il piano. Prima di questa edizione europea il disco era uscito negli States col titolo di Follow Your Heart’s Desire, con un paio di brani in meno.  Pochi musicisti la accompagnano in questo blues nativo, un basso, percussioni qua e là, qualche chitarra aggiunta e canti pellerossa ad opera dei Deer Clan Singers che si innestano miracolosamente su trame blues che profumano di altri tempi.  Importante nella riuscita del lavoro è senza dubbio la produzione sobria e calibrata di Tim Duffy e Sol.  Delle tredici tracce non ce n’è una brutta, cosa da non sottovalutare, ma citarle tutte sarebbe dispersivo. Personalmente mi piacciono parecchio You Still Take in cui il coro nativo si infila nel finale di un brano tutto slide, Sweet Willie, forse dedicata a Willie Lowery che accompagna Pura Fè alla chitarra e al canto in tutto il disco. Going Home sembra in qualche modo imparentata col Ry Cooder degli anni settanta, mentre Follow Your Heart’s Desire, forse la perla del disco, è una ballata in cui il piano s’intreccia con una chitarra elettrica acida che ci riconduce ad atmosfere westcoastiane come nella west coast non se ne producono da troppi anni, con armonie vocali che sembrano figlie di David Crosby e Joni Mitchell. Forse non è un caso che la traccia successiva, una delle due cover (ma l’altra è un brano di Willie Lowery) del disco, sia una rilettura di Find The Cost Of Freedom introdotta da un testo originale e terminata in francese.  Credetemi non esagero nel dire che questo disco è una delle produzioni più belle che mi sia capitato di ascoltare negli ultimi anni, se pur con cinque anni di ritardo sulla sua pubblicazione.

Paolo Crazy Carnevale

Robyn

ROBYN LUDWIK – Out Of  These Blues (Late Show  Records 2011)

Un disco così non poteva  sfuggire all’attenzione di  “Late For The Sky”, non  fosse altro per la bella  copertina  che ricalca a  partire dalle tonalità della  foto per finire con la grafica del titolo, quelle del capolavoro di Jackson Browne da cui la nostra rivista ed il nostro sito prendono il nome.  Premesso che il contenuto del disco poco ha a che fare col cantautore californiano (ma nativo di Heidelberg in Germania!) e che la citazione si limita all’artwork del disco, ascoltando questo prodotto la prima cosa che balza all’orecchio è che si tratta davvero di un buon disco. Buono come se ne producono molti, ma titolare di un suono originale o quanto meno ben prodotto. Robyn Ludwick appartiene chiaramente alla schiera dei songwriters texani, lo si evince subito dal modo di comporre e di cantare, e penso ai texani delle ultime generazioni, non a Willie Nelson e soci.  Nelle sue canzoni ci sono sicuramente le influenze di Lucinda Williams e Steve Earle, ma qua e là emergono anche radici più nere, messe in particolare luce dall’ottimo accompagnamento a base di organo Hammond del sempre grande Ian MacLagan, che si alterna alle tastiere con Gurf Morlix (responsabile come sempre anche di altri strumenti).  Chitarre sobrie, voce decisa, sezione ritmica scarna e precisa, queste le caratteristiche del disco che ha dalla sua anche la presenza di un violino suonato da Gene Elders che  in alcune situazioni fa tornare in mente (e non poco) quello di David Lindley per i dischi di Jackson Browne. Forse perché questa dotata cantautrice texana pare aver imparato bene la lezione dei songwriter della west coast mescolandola perfettamente con quella dei suoi conterranei. Ecco perché i certi momenti l’ascolto della title track e di Hillbilly ci fanno venire in mente certe produzioni di casa Asylum e For You Baby e Woman Now hanno un richiamo, la prima in particolare all’inizio, con lo stile del Neil Young dei primi settanta.  Le dodici tracce del disco scorrono con una piacevolezza unica, forse con l’eccezione della campagnola Can’t Go Back che si discosta stilisticamente dal resto, e piace un po’ meno.  Tra i brani forti si segnalano Fight Song, lenta e cadenzata, l’iniziale Hollywood che fa subito capire di che pasta siano fatti autrice e disco, Steady col B-3 che entra subito sotto la pelle fin dall’attacco.  Questo è solo il terzo disco della Ludwick, ma tutto fa supporre che ce ne dovremo aspettare altri, e di buon livello.

Paolo Crazy Carnevale

Rock & Pop, le recensioni di LFTS/13

di admin

27 maggio 2011

The Duke and The King

THE DUKE AND THE KING

Long Live The Duke And The King

2010 Silva Oak/ Loose LP/CD

 

Sono mesi che ascolto questo disco. Sempre con l’intenzione di mettermi a scrivere qualcosa in proposito. Uno dei migliori dischi “nuovi” in cui mi sia imbattuto negli ultimi tempi, e per nuovi intendo attribuiti ad artisti giovani e con una proposta musicale fresca, per quanto con le radici ben piantate in tutto quanto è stato prodotto nei quattro decenni precedenti. Si tratta del secondo disco per questa formazione dello stato di New York (Catskill Mountains per la precisione), ma rispetto al debutto la formazione ha raddoppiato il numero dei propri componenti, aggiungendo alla propria musica più punti di forza. Risulta difficile dire chi faccia cosa all’interno del combo il cui nome rimanda a due personaggi truffaldini creati da Mark Twain per il suo Huckleberry Finn, ma è evidente che la voce principale sia quella di Simone Felice, uno dei Felice Brothers di cui avrete senz’altro sentito parlare. Ma anche gli altri (Bobby Bird Burke, cofondatore, Simi Stone e il Nowell Haskins) ci mettono del proprio e la magia del risultato è proprio nello strano melange di voci che si impastano molto bene in questo disco, dando vita a dieci composizioni ben prodotte, con chitarre mai debordanti, sezione ritmica d’impianto folk rock, qualche intromissione fiatistica, armonica e accordeon sparsi qua e là. E che dire della confezione, un bell’album sullo stile dei vecchi vinili (il disco è naturalmente edito anche nel vecchio caro supporto), con libretto contenente i testi e il CD inserito in una busta nera proprio come i vecchi trentatré giri. Ma ciò che vince sono davvero le canzoni: dall’opening di O’ Gloria alla convincente e ben strutturata Shine On You a Right Now giocata sull’amalgama e sull’alternarsi delle voci. Hudson River è una soul ballad che si regge sul cantato davvero black e su una melodia che entra facilmente in testa. No Easy Way Out è invece una canzone folk rock dominata dalla cantante Simi Stone ed è un altro dei punti forti del disco, che come si usava un tempo dura poco meno di quaranta minuti, ma tutti allo stesso livello (personalmente sono sempre stato convinto che i compact disc di più di cinquanta minuti vadano bene per le antologie e per le retrospettive con bonus track, salvo qualche raro caso). E ancora, Children Of The Sun e Have You Seen It?, un brano in cui le influenze younghiane (il gruppo dal vivo esegue spesso brani come Helpless e Long May You Run, ma non fatevi fuorviare da questo, la loro è una proposta originale e non derivativa!) emergono qua e là. In Gran Bretagna le riviste musicali li hanno incensati e anche il “Rolling Stone” tedesco ha speso grandi parole per loro. In Italia sono ancora sconosciuti o quasi. Loro si definiscono folk-soul-glam (quest’ultima definizione soprattutto per ciò che riguarda il look) ma la loro musica va davvero oltre le classificazioni di routine. Provare per credere.

 Paolo Crazy Carnevale

 

 

marbin

MARBIN

Breaking The Cycle

2011 Moonjune CD

 

Proprio un bel disco questo Breaking The Cycle, intestato alla formazione israeliana che fa capo a Danny Markovitch (sassofonista) e Dani Rabin (chitarrista), tanto che il nome del gruppo è il risultato di una crasi fra i due cognomi: un disco di musica strumentale che, pur essendo i due leader indirizzati nel filone jazz rock, va oltre le definizioni inventandosi un genere tutto suo che pur facendo trasparire (soprattutto nella prima traccia) la matrice jazzistica, si apre poi verso orizzonti molto diversi dove di volta in volta gli strumenti di Rabin e Markovitch dettano legge creando sublimi atmosfere (Western Sky, Outdoor Revolution, Burning Match, la coinvolgente Old Silhouette tanto per fare qualche titolo) a volte cullate dal sax, altre sferzate dalla chitarra tagliente.  Virate più d’impronta rock si innestano sapientemente su atmosfere più pop che non mancano di fondersi, senza strafare, con la matrice yiddish che fa immancabilmente parte del DNA dei due musicisti. A rinforzare il gruppo ci sono poi il batterista Paul Wertico (con una lunga militanza nella band di Pat Metheny) e il percussionista Jamey Haddad (dalla corte di Paul Simon). A suggellare questo brillante prodotto c’è l’intensità della conclusiva Winds Of Grace, unico brano cantato affidato sia nelle liriche che per quanto riguarda le corde vocali a Daniel White.

 Paolo Crazy Carnevale

 

 

Garth Hudson

GARTH HUDSON

A Canadian Tribute To The Band

2011 Curve Music/Sony CD

 

Non proprio un’occasione sprecata, ma un’operazione riuscita a metà. Certo, al grande Garth Hudson vanno il plauso e il riconoscimento per aver prodotto un disco tutto canadese dedicato alla musica del suo vecchio gruppo, un disco peraltro caratterizzato, e questo è proprio uno dei suoi pregi, dalle sue tastiere inconfondibili che danno all’opera un senso di continuità che solitamente non si respira nei tribute album tradizionali. Attingendo poi dal repertorio meno scontato di The Band. Il disco inizia alla grande con quattro brani di rilievo: Danny Brooks propone la poco nota e ben realizzata Forbidden Fruit, per non dire del graditissimo e ispirato ritorno di una delle canadesi più interessanti, Mary Margareth O’Hara, che offre subito una delle perle del disco, Out Of The Blue, avvolgente ballata che figurava sulla parte in studio dell’Ultimo Valzer. Acadian Driftwood, brano tutt’altro che facile è invece affidato a Peter Katz che si dimostra molto all’altezza della situazione, come del resto fa Neil Young affiancato dai giovani Sadies nella rilettura di This Wheel’s On Fire, dove la sua chitarra inconfondibile duetta con l’organo di Hudson. Da qui in poi però le cose cambiano e le sorti del disco si fanno alterne: qualche scelta poco oculata nel repertorio, o forse negli esecutori mettono in pericolo il tributo. Ain’t Got No Home, You Ain’t Goin’ Nowhere, I Loved you Too Much, Move to Japan abbassano il livello del disco in maniera irreparabile. Per fortuna, qua e là si aprono altri spiragli notevoli, come in The Shape I’m In (ancora i Sadies, senza Young però), o la brillante Clothes Line Saga dei Cowboy Junkies (anche se il brano è tutto a firma di Dylan), con una Margo Timmins ispirata e Hudson a stendere tappeti di tastiere di cui nessun altro è più capace. Buone anche le due rivisitazioni in cui compare Bruce Cockburn, Sleeping (accompagnato dai Blue Rodeo) e Chest Fever in cui è lui ad accompagnare Ian Thornley. La versione di Yazoo Street Scandal passa invece abbastanza anonimamente. Meglio Tears Of Rage affidata alle corde vocali di Chantal Kreviazuk. Da segnalare, in positive, anche The Moon Struck One, Knockin’ Lost John in chiave irish e King Harvest. Ecco: questo è quanto. Forse è il problema dei CD che hanno più capienza di un trentatre giri, così si tende a riempirli troppo. Questo tributo a The Band dura intorno ai settanta minuti, quarantacinque sarebbero forse bastati e ne avrebbero fatto un ottimo disco, che purtroppo invece non è.

 Paolo Crazy Carnevale

 

 

copernicus

COPERNICUS

Cipher And Decipher

2011 Nevermore Inc.- distribuzione Moonjune

 

Un nuovo disco di Copernicus, un performer e un poeta soprattutto, prima che un musicista. Questo artista newyorchese, sulla scena fin dagli anni ‘80, dopo aver provveduto tramite la sua etichetta a rendere disponibili i suoi vecchi lavori e a distribuire quelli più recenti in più lingue, è tornato recentemente con un nuovo disco, un lavoro attraversato dal lirismo e dalla nervosità: Cipher And Decipeher è la nuova testimonianza dello smalto che pervade la poetica di questo cantore della grande mela, e del cosmo intero con tutti i suoi mali. Un disco di dieci tracce, per una durata di ben settanta minuti, con Copernicus intento a declamare i suoi versi, accompagnato da un fedele gruppo di collaboratori, alcuni al suo fianco fin dalla prima ora, alcuni titolari di carriere discografiche in proprio a un certo livello, come Larry Kirwan, Thomas Hamlin e Fred Parcells, noti al pubblico per le loro imprese nei Black 47. Il disco, non facile, regge bene anche nella parte finale dominata dal quarto d’ora di The Cauldron, ma le cose migliori sono senza dubbio i brani iniziali Into The Subatomic e Free At Last e le centrali Where No One Can Win e Infinite Streght, forse la traccia più interessante, pervasa dall’inizio alla fine dal sax nervosissimo e tutto newyorchese di Matty Fillou, con la voce di Copernicus che (per fare un paragone) ricorda certe intonazioni tipiche di Moni Ovadia.

 Paolo Crazy Carnevale

 

 

nma

NORTH MISSISSIPPI ALLSTARS

Keys To The Kingdom

2011 Songs Of The South CD

 

Giunti al sesto disco in studio a tre anni di distanza da Hernando, i NMA pubblicano il loro album più personale, fortemente influenzato dalla morte del musicista e produttore Jim Dickinson, padre di Luther (voce e chitarra) e Cody (batteria) che compongono il trio con Chris Chew (basso). Inciso nello studio di famiglia Zebra Ranch, Keys To The Kingdom ha un suono meno duro che in passato, permeato di blues e gospel, incentrato sulle canzoni più che sulla chitarra di Luther, presente ma non dominante. Detto questo non è che manchino brani potenti o ritmati, come l’aspro rock di This A’ Way che apre il disco, il successivo trascinante blues Jumpercable Blues nel quale la slide di Luther è affiancata dall’amico Gordie Johnson o la grintosa Hear The Hills. Ma gli episodi migliori mi sembrano quelli più riflessivi e personali: il gospel blues di stampo sudista The Meeting, cantato con il cuore da Luther aiutato dall’inconfondibile voce di Mavis Staples, la deliziosa How I Wish My Train Would Come, il gospel Let It Roll (già presente nel disco solo di Luther Onward & Upward) e la splendida Ain’t No Grave, con un testo dedicato al padre, arricchita dalla slide di Ry Cooder. Da non trascurare l’originale versione di Stuck Inside Of Mobile di Bob Dylan con un arrangiamento suggerito da Jim Dickinson ai figli pochi giorni prima di morire. Dopo un paio di brani meno riusciti, Jellyrollin’ All Over Heaven chiude il disco celebrando la vita eterna con leggerezza e serenità.  

Paolo Baiotti

 

 

israel nash

ISRAEL NASH GRIPKA

Barn Doors And Concrete Floors

2011 Israel Nash Gripka CD

 

Dopo l’interessante esordio New York Town di due anni fa, Israel ha lasciato la grande mela rifugiandosi in un vecchio granaio nelle Catskill Mountains con il produttore Steve Shelley e un gruppo di amici per registrare il secondo album. L’ambiente rilassato e l’assenza di pressioni hanno sicuramente contribuito alla riuscita di Barn Doors And Concrete Floors, un disco eccellente che ha già ricevuto recensioni molto positive sia negli Stati Uniti che in Europa. Figlio di un pastore battista, Israel Nash ha avuto un’adolescenza complicata tra alcool e carcere, con quei contrasti di positività e negatività che hanno caratterizzato grandi artisti. Influenzato dai cantatutori rock classici (in primis Neil Young e Ryan Adams), ma anche dal gospel, dal country, dal folk e dalla roots music, Gripka dimostra soprattutto una capacità compositiva non comune a partire da Fool’s Gold un mid-tempo accattivante di presa immediata che può anche richiamare gli Stones di Exile On Main Street. L’ambiente bucolico sembra incidere sul country malinconico di Drown e sulla riflessiva ballata Sunset, Regret. Non ci sono tracce deboli in questo disco, ogni brano meriterebbe una citazione, dall’irresistibile melodia di Four Winds con la pedal steel di Rich Hinman al grintoso rock di Louisiana che precede la splendida Baltimore nella quale la voce di Gripka ricorda il maestro Young e la chitarra solista si lascia andare in un brillante assolo affiancata dall’armonica. Ma si possono dimenticare il country rock di Red Dress o la sofferta ballata acustica Bellwether Ballad? Quando si spengono le note di Antebellum (inzio lento, chitarra elettrica distorta e finale in crescendo) viene voglia di schiacciare nuovamente il tasto play per riascoltare un disco che sicuramente finirà nella mia top ten dell’anno.  

Paolo Baiotti

 

 

pendragon

PENDRAGON

Passion

2011 Toff Records/ Snapper CD

 

In attività dagli anni ’80, sempre guidati dal leader Nick Barrett (voce, chitarra, compositore e produttore con Karl Groom), i Pendragon tengono alto con gli I.Q. il nome del progressive britannico. Con Passion proseguono nel cammino intrapreso con il precedente Pure (Toff 2008), che aveva evidenziato un indurimento del suono con alcune sperimentazioni. Un disco aspro e oscuro, almeno nell’iniziale title track e in Empathy, caratterizzata da una chitarra insinuante e da un drumming potente, accostabili al prog metal. Anche Feeding Frenzy, pur non priva di melodia, segue lo stesso schema, mentre il suono si apre alla melodia in The Green And Pleasant Land, uno splendido brano prog con un testo nostalgico sugli aspetti positivi della Gran Bretagna del passato, contrapposti ai difetti odierni. It’s Just A Matter Of Not Getting Caught ha una struttura complessa con una ritmica hard che contrasta la voce melodica, Skara Brae alterna toni diversi con un inserimento di voce rappata, una ritmica ripetitiva e una confusione di fondo. Si chiude con Your Black Heart, un brano evocativo improntato sull’uso del pianoforte, con una chitarra floydiana, caratteristica dello stile melodico di Barrett. Un disco controverso che lascia qualche dubbio, con meno chitarra solista del solito, un approccio più vicino al rock, una presenza quasi di contorno delle tastiere di Clive Nolan e una qualità compositiva inferiore ai momenti migliori della band. Oltre all’edizione normale è reperibile un’edizione limitata con un DVD nel quale Barrett racconta la genesi dell’album.     

Paolo Baiotti

 

 

kw shepherd

KENNY WAYNE SHEPHERD BAND

Live! In Chicago

2010 Roadrunner CD          

 

Quando esordì a diciassette anni nel 1995 con Leadbetter Heights, Shepherd sembrava destinato a una carriera folgorante. Le promesse sono state mantenute solo in parte; come per altri talenti della chitarra blues più o meno recenti (Joe Bonamassa, Jonny Lang e Jeff Healey i casi più eclatanti) le capacità tecniche indiscutibili non hanno sempre trovato materiale o produttori all’altezza. Così Kenny ha alternato album poco convincenti fino al brillante 10 Days Out, un omaggio ai vecchi bluesmen del Sud diventato un documentario e un album di grande qualità nel 2007. Questo recente live si ricollega al precedente progetto, essendo stato registrato nel corso del tour di 10 Days Out alla House of Blues di Chicago con ospiti due grandi veterani come Hubert Sumlin (ex chitarrista di Howlin’ Wolf) e Willie “Big Eyes” Smith (ex batterista di Muddy Waters) e due chitarristi che hanno aiutato Kenny a inizio carriera, Bryan Lee (che lo invitò on stage a New Orleans a tredici anni) e Buddy Flett. E non si può dire che si tratti di un disco poco riuscito! Shepherd dimostra le sue qualità fin dai primi brani Somehow, Somewhere, Someway e King’s Highway, fortemente influenzati dallo stile di Stevie Ray Vaughan e nella swingata Deja Voodoo, esplosiva nella coda chitarristica. Il concerto sale ulteriormente di tono con gli ospiti; Buddy Flett è protagonista della sua Dance For Me Girl, un blues tosto profumato di Louisiana, mentre Willie Smith svetta alla voce e all’armonica in Baby Don’t Say That No More e nello slow Eye To Eye, classico blues di Chicago. Notevoli le versioni di How Many More Years e di Sick And Tired, entrambe con Sumlin alla chitarra e voce solista. La qualità resta alta fino alla cadenzata Blue On Black, nella quale spiccano la voce di Noah Hunt, cantante del gruppo di Kenny e la chitarra del leader che si distende in un assolo in crescendo molto efficace, seguita dalla conclusiva I’m A King Bee, grintosa e tagliente al punto giusto.

Paolo Baiotti

 

 

drive by

DRIVE BY TRUCKERS

Go-Go Boots

Sometimes Late At Night

2011 Ato Records    

 

Che la band di Athens sia una delle più interessanti prodotte dal Sud degli Stati Uniti negli ultimi quindici anni è indubbio. Riuscendo a miscelare con notevoli capacità influenze diverse (punk, rock sudista e alternative country) creando un suono riconoscibile e personale, la band di Patterson Hood (figlio di David Hood, celebrato bassista degli studi Muscle Shoals) ha avuto una prima fase underground culminata nel brillante doppio Southern Rock Opera, seguita da un periodo con la New West che ha prodotto album di ottima qualità come Dirty South e A Blessing And A Curse. La separazione con il chitarrista e cantante Jason Isbell, che aveva contribuito a questi ultimi dischi e   qualche incertezza di Hood e dell’altro compositore Mike Cooley hanno inciso sulla riuscita di The Big To Do, uscito l’anno scorso, e di questo Go-Go Boots, un disco strano (e troppo lungo) rispetto alla produzione precedente in quanto giocato quasi interamente su brani mid-tempo, a volte privi di incisività, troppo simili tra loro e con un suono un po’ piatto e compresso. Il livello medio è discreto con poche vette: la ritmata e insinuante I Used To Be A Cop, la conclusiva Mercy Buckets e le due cover di Eddie Hinton, Everybody Needs Love e Where’s Eddie. L’edizione inglese è uscita con un interessante Bonus EP in omaggio (reperibile su www.roughtrade.com) comprendente una inedita cover di When I Ran Off And Left Her di Vic Chestnutt, intensa ballata intimista venata di country e cinque brani registrati dal vivo ad Atlanta e Madison: I Used To Be A Cop e Mercy Buckets, più intense e grintose rispetto alle versioni in studio, una suadente Everybody Needs Love, la trascinante Get Downtown e un medley aspro e dissonante di Buttholeville (tratto dall’esordio Gangstabilly) con State Trooper di Bruce Springsteen. Dal vivo i Drive By Truckers si confermano eccellenti, mentre in studio forse è il momento di concedersi un attimo di pausa dopo anni di attività frenetica. 

Paolo Baiotti         

 

 

       decemberists

THE DECEMBERISTS

Live At The Bull Moose

2011 Capitol CD

 

The King Is Dead, il recente album della band della costa ovest, è considerato uno dei migliori dischi di questi primi sei mesi. Colin Meloy e compagni hanno lasciato da parte le influenze prog presenti in passato (ad esempio nell’eccellente The Crane Wife), privilegiando una scrittura aderente al formato della canzone breve tra folk, country e pop. L’innato gusto per la melodia e la qualità dei brani hanno contribuito alla riuscita di un disco tanto piacevole da ascoltare quanto lontano dalla banalità spesso accostata al pop rock. Questo mini album di sette brani, registrato a gennaio in un negozio di dischi di Scarborough in Maine, e uscito in occasione del Record Store Day in edizione limitata di 2500 copie, conferma i pregi della recente produzione della band. Sette brani dei quali sei tratti da The King Is Dead che, anche dal vivo, non perdono nulla della loro naturale fluidità, guadagnando in carattere e calore. Il singolo Down By The Water (chiaramente ispirato dai REM…non a caso Peter Buck è ospite nella versione in studio) e This Is Why We Fight sono due brani trascinanti dalla melodia irresistibile, Rox In The Box riprende con sapienza la lezione folk-rock dei Fairport Convention, June Hymn è riflessiva e intimista, mentre All Arise! è allegra e coinvolgente e Rise To Me evidenzia le qualità vocali di Meloy e i raffinati arrangiamenti dei compagni (deliziosi la pedal steel di Chris Funk e l’armonica di Colin). Si chiude con la preziosa cover della ballata country If I Could Win Your Love dei Louvin Brothers. Peccato che l’album duri solo mezz’ora!  

Paolo Baiotti

 

 

mcreynolds

JESSE McREYNOLDS & FRIENDS

Songs Of The Grateful Dead

2010 Woodstock Records CD

 

 

 

THE WHEELthe_wheel

 A Musical Celebration Of Jerry Garcia

2011 Nugs.net CD    

 

 

L’anno scorso, sviluppando un’idea di Sandy Rothman (musicista di bluegrass e compagno di Jerry Garcia nei Black Mountain Boys e nella Acoustic Band), il grande cantante e mandolinista bluegrass Jesse McReynolds ha pubblicato un eccellente tributo alla musica del leader dei Grateful Dead. Nato nel 1929 in Virginia, McReynolds ha formato con il fratello Jim nel 1947 il duo Jim & Jesse ed è considerato un musicista innovativo e influente in ambito bluegrass. Ed è stato uno degli artisti preferiti di Garcia negli anni dell’adolescenza, come racconta Rothman nel booklet del dischetto. McReynolds ha chiamato i componenti del suo gruppo Virginia Boys e alcuni amici che in passato hanno collaborato con Garcia in ambito acustico come Stu Allen e David Nelson, scegliendo dodici tracce (quasi tutte scritte da Jerry con Robert Hunter) riarrangiate tra country e bluegrass con ottimi risultati. In particolare la dolente Black Muddy River, la raffinata Ripple, l’improvvisata Bird Song (che mantiene un sapore psichedelico di fondo), la melanconica Loser (ottima prestazione vocale di McReynolds) e la ballata Standing On the Moon spiccano in un dischetto che si ascolta con grande piacere, chiuso da Day By Day, unico brano composto da McReynolds con Robert Hunter. Di pari livello il concerto organizzato dalla Rex Foundation (l’organizzazione benefica fondata dai Grateful Dead) il 4 dicembre del 2010 al Fillmore di San Francisco che ha riunito McReynolds con David Nelson, Peter Rowan, Barry Sless e altri musicisti presenti nel disco o comunque legati a Garcia. I brani migliori sono stati raccolti in un compact disc reperibile sul sito www.nugs.net che dimostra per l’ennesima volta la valenza universale del songwriting di Jerry. Dodici tracce tra le quali una liquida Ripple con Nelson (uno dei fondatori dei New Riders Of Purple Sage) alla voce solista e Steve Thomas al violino, la ballata Peggy-O (un tradizionale interpretato più volte da Garcia sia da solo che con i Grateful Dead) sempre con Nelson alla voce e un prezioso Mookie Siegel alla fisarmonica, una deliziosa Standing On The Moon con intreccio di violino, mandolino, fisarmonica e pedal steel nella coda strumentale, Franklin’s Tower trascinante anche in veste prevalentemente acustica, il tradizionale Dark Hollow con Peter Rowan (compagno di Garcia nella seminale band di bluegrass Old And In The Way) e la trascinante The Wheel, improvvisata in grande scioltezza.

Paolo Baiotti

 

 

nighthawks live

 THE NIGHTHAWKS

Last Train To Bluesville

2010 Rip Bang CD

 

Gli inossidabili Nighthawks proseguono nel loro cammino iniziato nel 1972 quando l’armonicista Mark Wenner formò la band a Washington D.C. con il chitarrista Jimmy Thackery (che ha avviato una carriera solista nel 1986). In questo disco acustico, registrato dal vivo negli studi della radio Sirius/XM, la formazione comprende due membri originali, Wenner e Pete Ragusa (batteria) che si è ritirato proprio dopo questa incisione sostituito da Mark Stutso (che curiosamente proviene dalla band di Thackery), oltre a Paul Bell (chitarra) e Johnny Castle (basso). Anche in veste acustica il quartetto non delude, muovendosi con scioltezza e naturalezza tra blues e roots music, guidato da Wenner principale voce solista a proprio agio sia nello swingato rock and roll The Chicken And The Hawk (famosa la versione di Big Joe Turner) che nello slow blues di Muddy Waters Ninenteen Years Old e nella raffinata Rainin’ In My Heart. Ragusa canta il divertente doo-wop I’ll Go Crazy di James Brown, mentre Johnny Castle è protagonista in You Don’t Love Me e nel classico di Chuck Berry Thirty Days. Il blues jazzato di High Temperature e le note inconfondibili di una ritmata Rollin’ And Tumblin’ chiudono un disco fresco e incisivo che non sfigura nel corposo catalogo di una band che ha dato molto alla musica tradizionale americana.                             

 Paolo  Baiotti