Archivio di aprile 2014

Rock & Pop, le recensioni di LFTS/31

di Paolo Crazy Carnevale

28 aprile 2014

dewa budyana 2014

DEWA BUDJANA – Surya Namaskar (Moonjune 2014)

 

Terzo disco in poco più di un anno per questo incredibile chitarrista indonesiano “scoperto” da Leonardo Pavkovic e lanciato alla grande dall’etichetta di New York il cui nome è un palese omaggio al Canterbury Sound. Lo scorso anno dopo il brillante debutto di Dawai In Paradise era uscito un altro disco di Budjana e nessuno si aspettava un seguito a così breve distanza, invece ecco qui un altro prodotto e, cosa che importa maggiormente, l’artista sembra non aver perso una virgola di smalto, manca giusto l’effetto sorpresa del primo CD, ma per il resto è di nuovo un signor disco che conferma il nome di Budjana come uno dei migliori della scuderia della Moonjune.

La musica indonesiana si fonde con rock e jazz in una miscela che va oltre la definizione comune di fusion, la chitarra domina ma il drumming solido di Vinnie Colaiuta ed il basso di Jimmy Johnson (entrambi accreditati sul fronte della copertina) fanno la loro buona parte e per quanto riguarda il resto, in un brano c’è persino la chitarra di Michael Landau (già con Miles Davis, Joe Cocker, Pink Floyd, nonché con tante star del nostro paese), in un altro le tastiere di Gary Husband e in Kalingga, la traccia più lunga e più bella, ci sono anche gli strumenti tradizionali indonesiani suonati da Kang Yia e Kang Pupung.

Il disco si compone di otto tracce, alcune più risapute come l’opening track Fifty o Campuhan Hill, molto jazz, altre più dinamiche ed originali come Capistrano Road, brano molto d’atmosfera, Duaji & Guruji, la già citata multiforme Kalingga in cui i suoni elettrici e gli strumenti della tradizione si fondono magistralmente in un crescendo rock dopo un inizio all’insegna della musica orientale e la title track dalle molteplici ispirazioni che lascia posto ai solismi del leader e dei suoi collaboratori senza mai stufare.

 

machinemass_inti

 

MACHINE MASS – Inti (Moonjune Records 2014)

 

Machine Mass è una formazione mutevole che gira attorno al batterista americano Tony Bianco e al chitarrista belga Michel Delville: i due oltre ad aver fondato il gruppo Doubt avevano già inciso un CD qualche anno fa sotto il nome di Machine Mass Trio, dove il trio si completava col sassofonista Jordi Grognard. Ora il ruolo di sassofonista è stato raccolto da Dave Liebman, strumentista che nell’ambito del jazz elettrico al confine col free più estremo vanta collaborazioni a volontà, incluse quelle con Miles Davis, Chick Corea,  e John McLaughling. Per la precisione, Liebman è co-titolare di questo disco di Machine Mass, non più trio ma indicato in copertina come Machine Mass feat Dave Liebman

Dal canto loro, gli altri due compari non sono certo dei principianti, Bianco ha lavorato con Elton Dean dei Soft Machine, Delville è stato leader di vari progetti come Wrong Object e Doubt. Un’ora di musica quasi interamente strumentale, tutta o quasi sottolineata dalle evoluzioni di Liebman al sax, con gli altri due che tessono basi al limite dell’elettronica usando batteria, chitarra, loop vari, tastiere, percussioni. Unica concessione ad un sound più facile e digeribile, il brano The Secret Place cantato da Saba Tewelde. I brani sono firmati tutti in solitaria o collaborazione dai tre musicisti, con l’eccezione di In A Silent Way, scritto da Joe Zawinul e inciso da Davis nel 1969, come a indicarci dove affondino le radici questi Machine Mass.

 

front

 

ZACHARY RICHARD – Le Fou (Huggy’s Music/Sony France 2014)

 

Un ritorno alla grande quello di Zachary Richard (visto recentemente anche dal vivo in quel di Vicenza e recensito da Ronny Stancanelli in “Late For The Sky” versione cartacea), un ritorno come si deve per un personaggio che dai suoi esordi nella seconda metà degli anni settanta ha disseminato nel corso dei decenni una serie di dischi non da poco, dai primi, irrinunciabili pubblicati dalla CBS Canada, a quelli un po’ furbetti – in quanto infarciti di sonorità e canzoni in stile New Orleans/Zydeco commerciale – del decennio successivo su Rounder Records, ai grandi dischi per la A&M negli anni novanta. Le ultime produzioni di Richard sono state tutte casalinghe, nel senso che le ha realizzate per la propria label, con distribuzione via CD Baby, destino a cui è andato incontro anche questo Le Fou nel 2012, salvo però essere poi ripubblicato quest’anno dalla Huggy’s Music e distribuito in Europa dalla Sony francese, quasi un ritorno alla label d’origine visto che la Sony è proprietaria dei cataloghi Columbia/CBS.

Il disco nuovo ci offre una dozzina di nuovi brani, tutti o quasi ispirati e godibili, riconducibili in qualche modo al filone di dischi come Migration del 1978 o Cap Enragè di metà anni novanta, vale a dire dischi in cui Zachary si discosta leggermente dalla tradizione più smaccatamente zydeco e cajun per mettersi in luce come autore – e che autore! – di canzoni. È la via che ha abbracciato da un po’ di tempo in qua, gli ultimi dischi prodotti in proprio fanno parte di questo filone infatti, salvo il fatto che in Last Kiss, del 2009, aveva infilato una riuscita cover di Acadian Driftwood in cui duettava nientemeno che con Celine Dion.

A costituire un trait d’union con la produzione precedente troviamo la presenza di Sonny Landreth che firma con la sua slide il bel brano d’apertura, Laisse le vent souffler, e l’unica concessione allo Zydeco, un brano dedicato a Clifton Chenier, maestro del genere e idolo di Richard da sempre. Ma ci sono altri grandi brani dentro questo disco, c’è la title track ad esempio, un’intensa ballata dedicata al disastro ecologico che nel 2010 ha colpito Deepwater Horizon a causa di una marea nera, e c’è La Ballade de Jean Saint Malo, uno dei classici omaggi di Richard agli eroi oscuri della sua terra, siano essi eroi d’Acadia come Beausoleil e Jackie Vautour, o eroi della Louisiana come questo Jean Malo, che capeggiò la prima rivolta di schiavi. E come a volersi ricondurre idealmente a quel Migration citato più sopra, Zack conclude il disco con un brano intitolato Les Ailes Des Hirondelles, proprio come il brano che chiudeva il lato A del vinile di Migration: la musica ed il testo sono differenti, ma il contenuto sembra essere davvero un seguito di quella canzone che era stata inclusa anche nel live del 1980. Tra i musicisti coinvolti nelle registrazioni troviamo Justin Allard, Roddie Romero e David Torkanowski, che hanno accompagnato l’artista anche nel recente tour europeo.

 

xavi reija

 

XAVI REIJA – Resolution (Moonjune Records 2014)

 

Progressive jazz dalla Catalogna, passando però per la penisola balcanica. Questo disco lunghissimo, quasi ottanta minuti di contorsioni strumentali venate di elettricità geometrica e divagazioni chitarristiche di ispirazione talvolta post-industriale, tal altra ai confini con l’heavy rock, è sorretto principalmente dallo strumento del titolare, il batterista catalano Xavi Reija, a capo di un trio che si completa con la chitarra di Dusan Jevtovic, di Belgrado, già protagonista di un altro disco in trio per la medesima label, e con il basso elettrico mai scontato di Bernat Hernandez.

Rispetto al disco solista di Jevtovic, questo Resolution è soprattutto un lavoro del batterista – che non per nulla ne è il titolare – che fa dispiego di energia e muscoli per infondere alla musica una dinamica tutta sua. Undici le tracce che compongono il CD, alcune particolarmente lunghe e ricche di sviluppi strumentali in cui i ritmi e le melodie si intrecciano e sfociano in cavalcate ossessive, salvo poi ricondurre il tutto ad atmosfere più miti.

Un disco meno immediato e facile di altri prodotti dalla Moonjune Records, di sicuro interesse per gli amanti del genere, ma privo di certe connotazioni ai limiti della world music che fanno apprezzare maggiormente le altre produzioni della label di New York.

In arrivo la nuova edizione di Vinilmania

di admin

28 aprile 2014

LATE copia

 

Avviso ai vinilomani sparsi qua e là: sabato 10 e domenica 11 maggio  aprirà i battenti VINILMANIA, fiera del disco e del cd, giunta alla sua 83esima edizione.

Tutte le indicazioni nella locandina qui sopra. Late For The Sky sarà al solito presente. Vi aspettiamo!

FreaKraut – 5. TANGERINE DREAM

di Marco Tagliabue

21 aprile 2014

Non sono certo i jolly del mazzo ma, nel bene come nel male, rappresentano l’icona del kraut rock nella sua accezione più classica: quella di una musica cosmica (termine in effetti coniato in riferimento al loro Alpha Centauri) di esclusiva matrice elettronica. “Noi non avevamo l’attitudine per il rock’n’roll o per il blues… Cosa puoi fare quando sei costretto a girare intorno a qualcosa che esiste già senza avere la minima possibilità di sfiorarlo? In quel tempo Clapton impazzava con i Cream ed Hendrix era il più grande. Con quale coraggio un ragazzo tedesco poteva imbracciare una chitarra e cercare di suonare come loro? Sarebbe stato semplicemente ridicolo…” (E. Froese).

I Tangerine Dream sono titolari di una discografia sterminata che, ahimè, ha per grandissima parte giustamente alimentato la tremenda fama che il gruppo gode da almeno venticinque anni a questa parte. Ancora più di Genesis, Pink Floyd e Co., sono proprio loro la specie di dinosauri contro la quale il punk ha scagliato i suoi meteoriti più distruttivi e, in verità, anche senza la rivoluzione settantasettina, molta della musica prodotta dal gruppo dalla seconda metà degli anni settanta in poi risulterebbe inascoltabile senza la precisa volontà di perdersi in onanistiche celebrazioni di gigantismo ed autocompiacimento in insipida salsa elettronica. Non è solo per la cronica mancanza di spazio, quindi, se concentriamo la nostra attenzione sugli esordi e sui lavori del periodo più creativo dei Tangerine Dream, che iniziano la propria parabola discendente nel 1973 con la pubblicazione dell’album Phaedra: per tutte le uscite successive, fatte salve pochissime eccezioni, basterà pescare a caso una carta nel mazzo per avere un’idea del contenuto di tutte le altre.

La prima formazione del gruppo, attiva già nella seconda metà degli anni sessanta, gravita intorno alle figure di Edgar Froese, chitarre, Klaus Schulze, percussioni, e Conrad Schnitzler, tastiere e violoncello. Froese, che rimarrà nel corso degli anni il pilastro intorno al quale si avvicenderanno le diverse line-up, aveva già vissuto i propri cinque minuti di celebrità con The Ones, band giovanile dedita ad un acerbo acid-rock in grado di vantare un’esibizione in occasione di una mostra di Salvador Dalì. Anche se nessuno si ricorda come, i nastri di quello che sarebbe diventato Electronic Meditations, album di debutto dei Tangerine Dream, giunsero nella casella di Rolf Ulrich-Kaiser che, eccitatissimo, non ci pensò due volte prima di offrire al gruppo un contratto con la propria OHR, etichetta di riferimento della nascente corrente teutonica. Il lavoro, che esce nel 1970, è sicuramente il più atipico, e per certi versi il più interessante, dell’intera discografia della band. Intriso degli aromi della psichedelia floydiana periodo A Saucerful Of Secrets/Ummagumma, ma con più di un punto di contatto con le avanguardie lisergiche d’oltreoceano dei Red Crayola di The Parable Of Arable Land, si sviluppa lungo una serie di improvvisazioni che si materializzano fra chitarre distorte, percussioni selvagge e torture operate su un violoncello elettrificato. Schulze se ne andrà subito per formare gli Ash Ra Tempel, altra esperienza lampo prima di intraprendere una faraonica carriera solista, e Schnitzler arriverà ai Kluster attraverso l’esperienza Eruption: Froese sarà costretto a reclutare i due sostituti nelle figure di Steve Schroyder, sintetizzatore, e dell’ex Agitation Free Chris Franke alle percussioni, per non chiudere anzitempo l’esperienza Tangerine Dream.

La nuova formazione, che tradisce una spiccata vena avanguardistica con il celebre Flipper Konzert, esibizione per strumenti elettronici e sei flipper amplificati, arriva nel 1971 alla pubblicazione di Alpha Centauri. L’album, sia a livello grafico che nei titoli delle composizioni, connota ormai chiaramente la nuova dimensione spaziale della musica dei Tangerine Dream, che sembra innalzarsi verso l’infinito attraverso lunghe suite a base di sintetizzatori, chitarre, flauti e cori che nascono come improvvisazioni sulla scia di esperienze come il rock psichedelico, il jazz rock e l’avanguardia colta. Il mondo dell’ignoto, del mistero e della fantascienza sembra avere trovato la propria colonna sonora.

Con il forfait di Schroyder e l’ingresso di Peter Baumann il gruppo compone la propria formazione classica e prende una decisione importante e definitiva, quella di bandire completamente la strumentazione tradizionale ad esclusivo favore dell’elettronica. Zeit (1972) è una lunga sinfonia in quattro movimenti ispirata alle tecniche minimaliste di Stockhausen, Ligeti, Cage. Il suono perde ogni connotazione ritmica e diventa un lunghissimo filo, soffice, etereo, impalpabile, immateriale, che si insinua negli strati più profondi della mente umana. L’ascoltatore, al pari di un corpo celeste che fluttua in un viaggio senza fine nel grande vuoto dell’universo, è immerso in un’atmosfera cupa ed angosciante, in una dimensione senza spazio e senza tempo, nella quale giungono in lontananza dissonanze elettroniche, clangori metallici e timide distorsioni come echi lontani di corpi celesti in movimento, riverberi spaziali di nebulose lontane, sibili di asteroidi impazziti. Note dilatate, lente e maestose al tempo stesso, che pongono l’interlocutore al cospetto di uno spazio infinito, di galassie irraggiungibili come gli abissi della propria coscienza.

Il successivo Atem (1973) prosegue nella stessa direzione elaborando un concetto ancora più avanzato di improvvisazione, distante dalle freakerie di Electronic Meditations come da certe pesantezze dei due album successivi, che si sviluppa attraverso un sound più fluido e spontaneo, privo di forzature e prolissità, con risultati di indubbio fascino e grande perfezione formale. L’ambientazione di fondo è sempre quella dello spazio, ma l’odissea senza fine del capitolo precedente, con i suoi toni sommessi, rarefatti e completamente meditativi, si colora di nuovi ritmi e di sapori più forti, come negli umori quasi apocalittici della progressione iniziale dell’omonima suite, in cui selve di percussioni, cori maestosi e cupi bordoni d’organo sfociano lentamente nella quiete del cosmo. Atem è anche il primo album ad avere un discreto seguito al di fuori dei teutonici confini: disco dell’anno per un John Peel ancora lontano dai fervori del punk, ottiene un’ottima cassa di risonanza in Inghilterra dove l’import mail-order della freschissima Virgin ne distribuisce circa 15.000 copie. Nonostante le prime, acerbe soddisfazioni commerciali è sempre più problematica l’attività live: la musica del gruppo, invero particolare, richiede una predisposizione mentale da parte dell’ascoltatore che è difficilmente conseguibile nei luoghi e dal tipo di pubblico deputati al rock più canonico. Non si contano davvero i concerti sospesi dopo una manciata di minuti sotto un fitto lancio di ortaggi o i danni inferti alla strumentazione elettronica dai fans più facinorosi.

Dopo il largo successo di vendite di Phaedra del 1974, il primo album pubblicato dalla Virgin che nel frattempo ha messo sotto contratto il gruppo, stanco degli atteggiamenti un po’ troppo paternalistici del guru Ulrich-Kaiser, i Tangerine Dream vengono invitati a suonare in una sede più consona al proprio universo sonoro: la cattedrale di Rheims, in Francia. Un concerto davvero memorabile sotto diversi punti di vista, ma più che per l’interesse artistico, accentuato dalla superba presenza di Nico, siamo oggi a ricordarlo per ragioni prettamente di costume, in quanto l’affluenza del pubblico ben superiore alla capienza massima della struttura ed il conseguente malcontento dei numerosissimi esclusi, esternato senza alcun rispetto per la sacralità del luogo, costarono alla cattedrale una cerimonia di purificazione ed ai nostri una scomunica per iscritto dalla penna del Papa, con la diffida di suonare in futuro nelle chiese. Diffida prontamente raccolta dalle autorità della chiesa protestante inglese che, nell’ottica di un passo avanti nei rapporti già travagliati con la Santa Sede, invitarono i Tangerine Dream a suonare l’anno seguente nella cattedrale di Coventry ed in altri luoghi sacri…

Abbiamo detto di Phaedra e del suo largo successo: con questo lavoro inizia l’istituzionalizzazione del sound della band, che abbandona gradualmente le trame intricate delle opere precedenti per introdurre atmosfere liquide ed eteree, solcate da fitte trame ritmiche di stampo elettronico, che convergeranno verso lande via via più quiete, limpide e melodiche nei successivi Rubycon (1975) e Stratosfear (1976) donando ai nostri fama e fortune commerciali ed alla loro musica quel tanto di kitsch da cui avrebbe attinto a piene mani il nascente filone new age. Poi sarebbero venute le numerosissime colonne sonore, dalla prima, il film Sorcerer di William Friedkin del 1977, a quelle di qualche episodio della serie Miami Vice. In seguito sarebbe toccato a Froese, per risollevare le quotazioni del gruppo, arrivare perfino all’impensabile, introducendo il canto nell’album Cyclone del 1978. E poi ancora…lasciamo a voi il piacere della scoperta. Ci preme soltanto ricordare, in chiusura, l’importanza capitale dei Tangerine Dream nell’esportazione del modello tedesco: sono stati infatti la prima band sulla quale una major straniera –la Virgin- ha investito in maniera massiccia con adeguati ritorni economici e ciò ha contribuito, in parte, alle fortune dell’intero movimento. Pur nelle ovvie differenze stilistiche, inoltre, l’uso esclusivo del synth da parte del gruppo ha prefigurato la grande importanza assunta dallo strumento in ambito post-punk e new-wave. Senza contare, infine, che nella nostra musica come nella vita prima o poi tutto ritorna, e tanta parte del filone post-rock ha attinto a piene mani dalla magica odissea della pazza astronave Tangerine Dream.

da LFTS n.70

FreaKraut – 4. POPOL VUH

di Marco Tagliabue

7 aprile 2014

Con un nome preso in prestito dal Libro dei Morti degli antichi Maya, Florian Fricke, critico e regista cinematografico diplomato in pianoforte presso il conservatorio di Friburgo, costituisce il nucleo originale dei Popol Vuh agli inizi del 1969. Sono della partita Frank Fiedler, sintetizzatore, e Holger Trulzsch alle percussioni. Cultore appassionato di civiltà arcaiche e studioso di tematiche religiose, Fricke cerca di trasporre nella sua arte la sacralità delle proprie passioni. Una ricerca di spiritualità che non è figlia della musica classica né, tantomeno, della musica rock: sembra porsi piuttosto ad un crocevia, in un punto di osservazione privilegiato che scandaglia attraverso l’essenzialità di un suono limpido e solenne al tempo stesso le regioni più profonde dell’essere, che attinge direttamente dalla dimensione del sogno, dell’inconscio, dell’impalpabile, dell’irrazionale per spiccare un volo verso l’alto, per tentare il contatto con un’Armonia Superiore.

 

 Un anelito che, pur presente, trasuda ancora a stento da Affenstude, l’album d’esordio dei Popol Vuh pubblicato nel 1971 e troppo comodamente affiliato alla nascente scuola cosmica di Tangerine Dream e Klaus Schulze, ma che libera con decisione la propria forza fin dal successivo In Den Garten Pharaos (1972). Il Giardino Dei Faraoni reca il peso, il mistero e l’inquietudine di una storia millenaria scandita attraverso riti ancestrali, d’antiche divinità che attendono al dogma della creazione, di una natura incontaminata che ne cadenza le tappe con l’armonia dei propri suoni. La title-track, che occupa la prima facciata con i suoi 17’39”, si libera lentamente tra lo scrosciare dell’acqua: un filo di moog si attorciglia nei sensi dell’ascoltatore fino al sopravanzare di un fitto tappeto percussivo; ma il processo di purificazione giunge a compimento poco più avanti, sulle note paradisiache di un piano Fender che volge fin quasi alla fine, prima di essere restituito al silenzio dagli stessi rigurgiti d’acqua che proprio dalla quiete lo avevano strappato.  Ma è Vuh, sul secondo lato, a togliere il fiato e spingere il cuore in gola. 19’58” scanditi da un gong e da un unico, immane ciclo continuo di organo a canne al quale si aggiungono, in un crescendo apocalittico ad altissima tensione emotiva, percussioni, timpani e cori filtrati. Un suono che si fa sempre più pesante e pressante, fino a contorcersi, a mutare direzione, a cercare un’impossibile via di fuga prima di venire gradualmente riassorbito in una dimensione più umana per sfociare finalmente nel nulla eterno, nel silenzio redentore.

Dopo una prova impressionante come In Den Garten Pharaos, Fricke scioglie il gruppo per una breve collaborazione con i Tangerine Dream di Zeit, salvo poi riesumare la vecchia sigla nel volgere di pochi mesi per trasformare il progetto in un ensemble instabile orbitante intorno alla propria carismatica figura. Per il successivo Hosianna Mantra, che uscirà sul finire del 1972, Fricke ingaggia cinque collaboratori di scuola classica: la soprano coreana Djong Yun, Conny Veit (chitarra), Klaus Wiese (percussioni), Robert Eliscu (oboe) e Fritz Sonnleitner (violino). Il lavoro, che contende storicamente a In Den Garten Pharaos  la palma di capolavoro del gruppo, persegue, e porta al massimo grado d’intensità, lo stesso anelito del nobile predecessore, ma sceglie nuove e impensabili traiettorie per portare a compimento il proprio tormentato cammino spirituale. La Messa più sublime dell’intera cultura rock si fonda, innanzitutto, su una completa abiura della strumentazione elettronica. Per celebrare la purezza di un suono che raggiunge un grado d’intensità tale da rasentare la soglia del dolore, Fricke sceglie una strumentazione quasi esclusivamente acustica: piano, oboe, violino, tamboura, oltre alla voce celestiale della Yun ed a qualche nota dolcemente pizzicata sulle corde di una chitarra elettrica. Poi opera una totale scarnificazione del suono e della melodia: poche note preziose e una totale assenza di ritmo per restituire la musica alla sua dimensione più intima e naturale, per innalzarla ad una realtà mistica e sovrannaturale. Hosianna Mantra è il compimento di un cammino che passa attraverso la cultura indiana e quella rinascimentale, i temi barocchi e i canti gregoriani, la musica classica e quella minimalista: la sua influenza, giusto per citare un esempio, su tutta la scuola del cosiddetto folk esoterico (David Tibet/Current 93) sarà fortissima e determinante. L’iniziale Ah si sviluppa intorno ad un tema circolare per pianoforte, cembalo e violini, mentre il successivo Kyrie è un canto sacro dolcemente sussurrato su un fondo di piano, oboe e tamboura. Il brano eponimo fluttua in un’atmosfera via via più onirica e paradisiaca dominata dal tessuto armonico dell’oboe, protagonista anche del successivo Abschied, che richiama quasi temi rinascimentali. In Segnung e Nicht Noch Im Himmel si affidano agli eterei vocalizzi della soprano per portare al massimo grado un afflato celestiale che si fa, nel finale, incanto, visione divina di una grazia celeste cui tendere, finalmente, senza timore alcuno.

In Den Garten Pharaos e Hosianna Mantra saranno destinati a rimanere capolavori ineguagliati anche se Fircke, mai domo, insisterà negli anni successivi con un’intera trilogia ispirata ai testi sacri. Ma Seligpreisung (1973), Einsjager Und Siebenjager (1974) e Das Hohelied Salomos (1975) denoteranno, più che altro, un parziale avvicinamento a schemi più prevedibili ed un progressivo abbandono dell’ispirazione da parte del leader. Andrà un tantino meglio con le numerose colonne sonore per i film del regista tedesco Werner Herzog, Aguirre, Fitzcarraldo, Nosferatu, ma saranno ancora tantissimi i titoli di una nutrita discografia che attraversa, in pratica, tre decadi senza aggiungere nulla di nuovo ad un discorso che, nei suoi temi essenziali, era già stato del tutto sviluppato.

29ma Fiera del Disco di Varese

di admin

1 aprile 2014

 

Pub. Varese Late aprile copia

 

 

LA DATA SI AVVICINA

SABATO 5 e DOMENICA 6

A VARESE

LA FIERA DEL DISCO E DEL FUMETTO

(ci vediamo là!)