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CHEAP WINE – Dreams

di Paolo Baiotti

15 ottobre 2017

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I pesaresi Cheap Wine pubblicano il loro undicesimo album in vent’anni di attività, nono in studio (oltre al mini album d’esordio del ’97), sempre orgogliosamente indipendenti, questa volta con il supporto di una raccolta di fondi organizzata in casa sul sito www.cheapwine.net. E ancora una volta il quintetto guidato dai fratelli Marco e Michele Diamantini centra il bersaglio, dimostrandosi la migliore realtà del roots rock italiano.

Dreams chiude una trilogia aperta nel 2012 con Based On Lies e proseguita nel 2014 con Beggar Town. In questi due albums hanno raccontato la situazione drammatica dell’Italia di oggi, evidenziando dapprima personaggi distrutti dalla crisi economica e raggirati da un sistema fondato sulla finzione supportata da mass media manipolati (in Based On Lies) e poi gli stessi uomini che, preso atto delle macerie e della desolazione, cercavano di sopravvivere, di rimettersi in cammino e di trovare una prospettiva più decente di vita, lottando e non limitandosi a compiangersi.

Con Dreams la band cerca, con qualche illusione, di vedere un futuro che in qualche modo offra delle speranze, basandosi sulla forza dell’amore e dei sogni. E questo attraverso la ricchezza data dalla famiglia, dalle amicizie e dalla complessità dei sogni, non necessariamente logici o positivi, in ogni modo indispensabili per capire a fondo la nostra anima. Dal punto di vista musicale il quintetto prosegue nella maturazione avviata con Spirits nel 2009, che ha rappresentato la scelta di un rock meno estroverso e più intimista, a tratti raffinato e complesso, nel quale la chitarra di Michele ha uno spazio ristretto dal punto di vista degli assoli, svolgendo un importante lavoro di raccordo e di arrangiamento, affiancata dal ruolo determinante delle tastiere di Alessio Raffaelli, diventato un elemento determinante nello sviluppo del suono. La sezione ritmica, sempre precisa ed efficace, è affidata ad Alan Giannini (batteria) e al nuovo bassista Andrea Giaro.

Il rock stonesiano incalzante di Full Of Glow apre il disco, seguito dall’eccellente Naked, che esprime lo sconcerto del testo con una chitarra insinuante, sventagliate di tastiere e la voce intensa di Marco. The Wise Man’s Finger è un mid-tempo cadenzato con un tocco di psichedelia, che si apre nel finale lasciato alla chitarra raffinata di Michele. L’ossessiva e avvolgente Pieces Of Disquiet ha qualcosa di Nick Cave, chiudendosi con un calibrato assolo distorto di chitarra. Altri due brani lenti caratterizzano la parte centrale: la ruvida Bad Crumbs And Pats On The Back e la malinconica ballata Cradling My Mind. Il ritmo torna a crescere con For The Brave, roots rock con un riff di stampo western, ma il mood del disco è più riflessivo come dimostrano gli ultimi tre brani. Dapprima la lenta I Wish I Were The Rainbow, ballata classica con l’organo in primo piano e un testo liberatorio, poi la quieta e sognante Reflection con Andrea Giaro al violoncello, per finire con la splendida Dreams, la traccia più lunga del disco, pacata riflessione che rappresenta un messaggio di speranza narrato più che cantato da Marco con le tastiere e un ticchettio di batteria in sottofondo, fino all’entrata della chitarra che costruisce con discrezione un assolo in crescendo.

Come sempre molto curata la veste grafica, con i testi in inglese e italiano, mentre l’animazione del pregevole video di Full Of Glow è curata dall’ex batterista Francesco Zanotti. I pregevoli testi della band, un’altra caratteristica non comune con il rock contemporaneo, sono stati raccolti in un volume in vendita sul sito. Dreams cresce con gli ascolti e si candida a diventare un altro classico in una discografia ricca di qualità. E se i Cheap Wine suonano dalle vostre parti, fatevi un regalo e andate ad ascoltarli: sono sicuro che non rimarrete delusi.

Rock & Pop, le recensioni di LFTS/11

di admin

29 dicembre 2010

BBB COVERBUTTERED BACON BISCUITS
From The Solitary Wood
2009 Black Widow CD

 

Buttered Bacon Biscuits chi sono costoro? Forse un nuovo psichedelic breakfast di recente fattura? No, solamente un intrigante gruppo di musicisti che arrivano dalla Romagna e assemblatisi in questa avventura dopo aver suonato in varie band locali. Una per tutte la citazione va ai Goldrust dei quali abbiamo parlato precedente su queste pagine. La loro è una ricerca tesa a ricreare sonorità tipiche degli anni ‘70 che miscelano nello spazio di poco più di cinquanta minuti rock, prog, metal, southern e psichedelia occulta. La sua principale prerogativa è quella di essere molto ben suonato e di rendere l’anima al diavolo sotto forma di suoni a tutto tondo, esattamente al loro posto e assolutamente ben delineati. Perfettamente azzeccata la voce che si unisce in modo mirabile alla notevole ritmica strumentale con tastiere e chitarre di eccellente livello. In attività dal 2008, i BBB ci regalano decisamente un ottimo gioiellino che recensiamo sul nostro sitoblog grazie al consiglio dell’amico Eufrosini che ben gliene incolse quando ebbe l’illuminazione di illuminarci e alle sempre attiva Black Widow che ne cura la distribuzione e alla quale abbiamo chiesto e ottenuto il dischetto. Suona come le migliori cose di tranta/ quaranta anni fa ma come detto arriva dai giorni nostri per questo crediamo che Ricky, Aro, Alex, Pera e Steve, pur disdegnando nelle note del libretto i loro cognomi, possano considerarsi decisamente promossi e data la loro forza, bravura ed energia attesi al prossimo esame con immenso piacere. Il problema a volte è sempre quello della provenienza, ovvero che se detti personaggi con tutto il loro dischetto arrivassero che ne sappiamo dall’Ohio o da qualche sperduta cittadina dell’Ontario o da Abilene allora forse susciterebbero maggior interesse. Ma visto che arrivano da lidi nostrani rischiano di passar inosservati. Ci fa piacere comunque di aver trovato recensione del loro lavoro su una nota testata musicale di qualche mese fa, questo ci conforta e ci stimola ad andar avanti, sempre avanti, abbiamo superato anche il fatidico numero 100. Eccellente la copertina che ci trasporta indietro magicamente nel tempo, peccato sia penalizzata dalle misure del CD, un cartonato formato vinile sarebbe stato straordinario. Per concludere cercate su www.myspace.com/butteredbaconbiscuits quando e dove ci sarà un loro concerto e non fatevelo scappare.

Ronald Stancanelli

BODEANS
Still
2008 Shy Songs CDbodeansstill_cov

 
Carriera altalenante quella più che ventennale dei Bodeans di Kurt Neumann e Sam Llanas, con almeno due lavori da avere assolutamente: l’esordio Love & Hope & Sex & Dreams del 1986 e lo splendido doppio dal vivo Homebrewed del 2005. L’ultimo capitolo, Mr. Sad Clown, uscito quest’anno, francamente non è un gran che, quindi vi parlo del disco precedente, datato 2008 e intitolato Still. Album sicuramente da ascoltare, molto ispirato e ricco di belle canzoni, prodotto da “Re Mida” T-Bone Burnett. Belle canzoni come l’iniziale scheletrica Pretty Ghost o la splendida The First Time che ci riporta ai monumentali Del Fuegos di Smokin’ In The Fields (disco da recuperare e rivalutare assolutamente) e che ti si appiccica addosso senza staccarsi più. Willin’ (non quella) è springsteeniana fino al midollo, Lucile invece l’abbiamo già sentita molte volte, con altri titoli, negli ultimi quarant’anni, ma è destinata comunque a fare faville dal vivo. Mi piacciono molto anche la più tirata Waste A Lifetime (via di mezzo fra Gin Blossoms e Jesse Malin), la ballata Everyday e l’autunnale e malinconica Hearing; anche se in realtà tutti i pezzi sarebbero degni di menzione perché, pur senza la pretesa di cambiare la storia del rock, e ce ne vuole, non ce n’è uno di brutto. Ad accompagnare i due leader ,chitarre e voci, un gruppo di tutto rispetto, con quell’autentico mantice di Kenny Aronoff alla batteria, sempre alla batteria e percussioni in un paio di brani troviamo Jay Bellerose e Noah Levy. Bukka Allen (figlio d’arte) alle tastiere e alla fisa, Michael Ramos al B3 più Eric Holden al basso. Una piccola nota di demerito invece per il libretto interno, con i testi scritti a caratteri microscopici, a toglierci per lo sforzo anche le ultime diottrie rimasteci. Un po’ più grandi non si poteva proprio? Non inventano niente i Bodeans, ma si lasciano ascoltare veramente con molto piacere, fatelo anche voi.

Gianfranco Vialetto

MARILLION
Marbles
2004 Intact Recordings CDmarillionmarblescop

 
I Marillion sono un nome storico del prog; storico perché hanno, nel 1983, quando nessuno o quasi si filava più questo genere musicale, rivitalizzato la scena con un album meraviglioso come Script For A Jester’s Tear e dato il “la” a un movimento che ha tra i suoi protagonisti altri gruppi validissimi come Pallas, Pendragon, Jadis, It Bites, IQ e molti altri. Perso per strada il cantante e frontman Fish, si sono dovuti ricostruire una nuova immagine e verginità, ma hanno avuto la fortuna di incontrare il validissimo Steve Hogarth, per tutti semplicemente H. Molto diverso, sia come personaggio che musicalmente, dal suo predecessore, H ha saputo dare un nuovo sound, molto più moderno, al gruppo e ha vinto le naturali e comprensibili perplessità dei fan, riuscendo a entrare nel cuore di tutti con una evoluzione (e come potrebbe essere altrimenti) che tiene conto delle sonorità del nuovo millennio (Radiohead?) album dopo album. Qui ci occupiamo di Marbles, pubblicato nel 2005, tredicesimo prodotto della loro discografia e registrato grazie al finanziamento dei fan tramite prenotazione anticipata del lavoro finito (quasi tredicimila adesioni). Molti i momenti memorabili in questo Marbles. Ascoltate l’evolversi delle tastiere in The Invisibile Man, quattordici minuti di prog assolutamente moderno e adatto al XXI° Secolo, con un pizzico di psichedelica che non guasta; oppure il crescendo di You’re Gone, potenziale hit single, vagamente U2, ritmata, orecchiabile e bellissima. Se Bono avesse deciso di entrare in un gruppo progressive, avrebbe cantato così. I componenti storici del gruppo, Steve Rothery alla chitarra, Pete Trevawas al basso, Ian Mosley alla batteria e Mark Kelly tastiere, sono sempre in grandissima forma e si dimostrano eccellenti strumentisti. Ascoltateli nella stupenda Angelina, che da soffuso pezzo quasi blues, si trasforma in un brano dolcissimo con delle chitarre e tastiere quasi pinkfloydiane, ma con un senso del pop che fu dei primi 10cc. Come resistere all’intro di Don’t Hurt Yourself, altro brano che farebbe un figurone in qualsiasi scaletta radiofonica degna di tal nome, con un ritornello di quelli che “acchiappano” al primo ascolto. Affascinante poi il crescendo di Fantastic Place, che da un inizio molto d’atmosfera, si eleva fino a coinvolgere e trasportare chi ascolta fin lassù, fra le nuvole. Provate ad ascoltarla a occhi chiusi. Concettualmente, come trasporto emotivo, sembra di essere tornati ai tempi dei migliori U2, anche se si tratta di generi musicalmente abbastanza diversi. Drilling Holes è un ideale punto d’incontro fra Beatles, XTC (citati anche nel testo) e i Porcupine Tree, il cui tastierista, ex Japan, Richard Barbieri, è amico di H e suona nei dischi solisti di quest’ultimo. Degna chiusura di uno splendido album, la pianistica Neverland, anche questa, come tutte, molto coinvolgente e con uno splendido lavoro alla chitarra da parte del solito, sempre più bravo, Steve Rothery. Undici minuti che passano veramente in un batter di ciglia, e vorresti non finissero mai. Bello anche il concepì di copertina con la foto del bimbo che sovrappone agli occhi delle colorate biglie di vetro, Marbles appunto, come quelle con cui giocavamo da piccoli, e che sono un po’ il filo conduttore dell’intero lavoro. Se il senso del prog letteralmente deve essere quello di progredire costantemente, e musicalmente è soprattutto uno stato della mente, bene, i Marillion sono ancora fra i suoi esponenti migliori. Album fantastico questo Marbles, di cui mi sono letteralmente innamorato. Procuratevelo nella versione in doppio CD con quattro brani in più (fra i quali i diciotto strepitosi minuti di Ocean Cloud, prog allo stato puro, e la meravigliosa Genie, canzone che ti ritrovi a canticchiare quasi senza accorgertene) o, meglio ancora, in quella lussuosissima in vinile. Entrambi sono rintracciabili solo sul sito del gruppo. Grandi Marillion!

Gianfranco Vialetto

THE PINEAPPLE THIEF
Somenone Here Is Missing
2010 Skope153 CDPINEAPPLE

The Pineaaple Thief. Ma chi li conosceva sino a un paio di mesi fa! Poi al festival prog di Veruno un volantino ne pubblicizzava il concerto nell’interland milanese da li a pochi giorni. Data la straordinaria suggestione della copertina del loro disco che troneggiava sul volantino ne sono restato notevolmente colpito e interessato. Più tardi, in uno dei vari banchetti che contornavano la famosa Piazzetta della Musica ove era collocato il palco, trovavo in una bellissima confezione cartonata a mo’ di libro rilegato il loro CD e, a dispetto di un prezzo non certamente a buon mercato, ma sulla fiducia della copertina che mi aveva magicamente stregato, acquistavo questo sconosciuto CD. È un disco strano ma che al primo ascolto ti colpisce per la sua disarticolata peregrinazione musicale, parte e va e non si riesce a capire dove voglia arrivare. Non ricorda praticamente altri gruppi per fare paragoni o esempi. O, forse, in alcuni frangenti sembra di trovarsi in un deja vu senza però venire a capo della radice della questione. Un amico mi dice rammentino i Muse. Boh, sarà ma io sinceramente non li ho mai ascoltati! Ormai l’ho sentito oltre una decina di volte e ogni ascolto mi colpisce positivamente in maniera maggiormente preponderante alla precedente. I suoni passano veloci, sincopati, si rincorrono e vari crescendo esaltano l’ascoltatore dandogli la sensazione di scoprire qualcosa di nuovo a ogni ascolto. Mi ero ripromesso di andare a vederli, poi, non avendo trovato alcuna anima pia disposta ad accompagnarmi ho desistito mangiandomi però le dita ora che i miei ascolti mi hanno portato a considerare questo CD uno dei più interessanti dell’ultimo periodo, ma ahimè il concerto è passato la festa andata e il santo gabbato e chissà quando ci sarà una successiva occasione. Della particolare e fantasiosa copertina si è già detto come del fatto che sia stata la stessa a incuriosirmi e così complice anche un adesivo che li bollava come prog-rock adesso detto CD gira nel mio lettore. Ho al momento Internet non attivo e non posso quindi documentarmi in questo momento su di loro. Scartabellando la messe di innumerevoli libri che ho sull’argomento nessuno li cita o ne parla. L’unico tomo, plauso agli autori, è “Prog40” da noi recensito nei numeri scorsi che così ci erudisce: trattasi di band britannica nata inizialmente come progetto spin off dei Vulgar Unicorn. Il gruppo si appoggia totalmente alla figura del cantante chitarrista Bruce Sord, infatti testi e musiche di tutti i brani sono a sua firma. Gli altri componenti sono Jon Skykes ai bassi, Steve Kitch alle tastiere e Keith Harrison alla batteria. Secondo “Prog 40” la loro musica potrebbe far pensare a qualcosa che in ambito di space rock (!) erano soliti proporre i Pink Floyd nel primissimo loro periodo. Sinceramente a me non hanno dato questa impressione! Diciamo che la loro caratteristica, che è poi quella che mi ha colpito nei vari ascolti, è la capacità di attuare inizialmente suoni soffusamente pacati ed eterei per portarli con sistematica bravura a crescendi che focalizzano in toto l’attenzione dell’ascoltatore. Queste sospensioni psichedeliche in maniera decisamente garbata, pulita ed elegante, ne fanno decisamente un gruppo da prendere in seria considerazione. Esiste un loro precedente lavoro del 2007 dal titolo What We Have Sown. Per quanto concerne invece questo abbiamo nove splendidi momenti musicali con uno decisamente stratosferico dal titolo So We Row, ma ribadiamo che è tutta l’opera nella sua interezza che colpisce in modo diretto e preciso verso un risultato che alla fine non può non appagare. Le tematiche musicali sono alquanto simili come se si trattasse di un’unica suite cementata con notevole soluzione di continuità. I musicisti suonano con imperitura maestria col risultato finale di proporre un disco di grande interesse e un supporto dai suoni puliti, decisamente precisi e delineati come quelle giornate in cui la visione sino all’orizzonte è nettamente chiara e incisiva. Questa versione cartonata, comprendente ottime e curiose fotografie nell’interno del libretto, contiene due bonus track di cui una totalmente inedita e l’altra che è versione acustica di un pezzo facente parte dell’ossatura dell’album. Sicuramente un CD e un gruppo su quale gettare un occhio e un orecchio.

Ronald Stancanelli

DARK QUARTERER
Symbols
2008 My Graveyard Prod. CDdarkquarterercov_

È proprio vero che nascere in un luogo anziché in un altro ti modifica l’esistenza. Se i Dark Quarterer provenissero infatti da qualche città industriale inglese, tipo Sheffield o Birmingham, anziché dalla Toscana, sarebbero delle stelle di prima grandezza del firmamento heavy metal. Sono più di trent’anni che il gruppo di Gianni Nepi, voce e basso, Paolo “Nipa” Ninci, batteria, Francesco Sozzi, chitarre, e Francesco Longhi, tastiere si sbatte per farsi un nome nell’ambito del panorama metal internazionale. E alla luce di questo Symbols sarebbe un vero peccato non ci riuscisse. Sì, perché questa loro quinta prova sulla lunga distanza è davvero un monolite di incredibile potenza e bellezza, e il fatto che arrivi da un gruppo italiano riempie di orgoglio. Sessantotto minuti per solo sei brani, il più corto dei quali ne dura nove, il più lungo quasi quindici. Non un solo secondo è però da buttare, tutti i passaggi, raffinati e tecnicissimi sono essenziali allo svolgersi del pezzo. Il comun denominatore fra i brani dell’album è che sono tutti ispirati e dedicati a famosi personaggi storici. Il giovane faraone egizio Tutankhamen parla di sé in Wandering In The Dark (grandissimo l’assolo di chitarra di Francesco Sozzi). Ides Of March è ovviamente dedicata a Caio Giulio Cesare. Parte con delle tastiere molto evocative e cresce davvero potente con intervalli più soffusi quasi progressive e un’ottima prova interpretativa del cantante e autore (anche se in comproprietà) di tutti i brani Gianni Nepi. Una dovuta menzione va anche ai testi, molto curati nel descrivere e ripercorrere la vita del protagonista del brano. Pyramids Of Skulls parla di Gengis Khan, e sembra davvero di trovarsi nel bel mezzo delle scorrerie della cavalleria dell’esercito mongolo. Nella voce e nel canto di Gianni Nepi si sente tutta la potenza, la cattiveria e la ferocia del condottiero. Maestosa nel suo incedere, The Blind Church racconta di Giovanna D’Arco e descrive fin dal tono nel canto la fede della pulzella d’Orleans. Un brano bellissimo con una chitarra elettrica che mi ricorda a tratti il ritornello di Child In Time dei Deep Purple. Bravissimi. Tutti. Il senso del titolo, Symbols, sta nel fatto che, come spiegato nelle note di copertina, ogni sentimento umano può essere simbolicamente identificato nei soggetti protagonisti dell’album, che, come simbolo per la copertina ha scelto L’Uomo Vitruviano di Leonardo Da Vinci, in quanto rappresentazione della perfezione del corpo e della spiritualità. Ultimi due brani Shadows Of Night, molto ritmato e con accenni quasi jazz, con protagonista lo schiavo Kunta Kinte e la sua fuga per la libertà, e Crazy White Race, che inizia sulle note di una inconfondibile marcetta dell’esercito confederato all’epoca della guerra di secessione, dove siamo trasportati nel tepee del capo Apache Chiricaua Geronimo che, nel momento della caduta, chiede aiuto per sé ed il suo popolo a Manitou. Veramente grandioso. Forse ai nostri per sfondare davvero manca un po’ il cosiddetto physique du role, ma noi, che del look ce ne fregiamo, dischi come questo li vorremmo sempre in cima alle classifiche. Lasciate perdere l’ultimo lavoro degli Iron Maiden e prestate invece attenzione ai Dark Quarterer. Nel suo genere questo disco è un capolavoro. Credetemi.

Gianfranco Vialetto

 

THE SADIES
Darker Circles
2010 YepRoc Records CDsadiescov_

I canadesi Sadies sono come il buon vino, invecchiando migliorano. Dopo una serie di album (sette prima di questo) disseminati in dodici anni di carriera, ma mai andati oltre un vago interesse solo per pochi e informati appassionati, e alcune collaborazioni, più (Neko Case) o meno (John Doe) riuscite, giungono a questo Darker Circles che, prodotto dall’ex Jayhawks Gary Louris, inconfondibile il suo tocco, è senz’altro il loro parto più riuscito. Piacciono i Sadies, sia quando giocano a modernizzare i Byrds, quelli degli inizi come in Violet And Jeffrey Lee o nell’iniziale, strepitosa e leggermente più garage Another Year Again, e quelli più country in Postcards, sia in brani come Whispering Circles, dove giocano invece a fare i R.E.M. che giocano a fare i Byrds. Quelli di Reckoning, forse i miei preferiti. Bellissima anche Cut Corners, con la sua epicità da frontiera americana, piacerà sicuramente a Sid Griffin. Solo trentasei minuti, che passano in un lampo, tra il garage/ fuzz con richiami anche a Link Wray di Another Day Again e una ballata come Tell Her What I Said, a metà strada fra il primo Neil Young e i Green On Red più rilassati e tradizionalisti. Sono molti i riferimenti rintracciabili in questo disco, oltre ai già citati Byrds e, per ovvie ragioni, ai mai troppo rimpianti Jayhawks. Si va dal Paisley Underground al country rock californiano di Idle Tomorrows; da una ballata come The Quiet One, che avrebbe fatto un figurone in un qualsiasi disco delle più titolate band degli anni ’80 e mi ricorda un po’ anche i monumentali Church di The Blurred Crusade, al country/ punk di Choosing To Fly col suo tripudio di fidale e banjo fino alla strumentale conclusiva 10 More Songs, dove si possono trovare anche richiami alle colonne sonore di Ennio Morricone e perfino alcune cose degli Shadows. Un ultimo gruppo che viene in mente, attivo una decina di anni fa, sono i Cosmic Rough Riders, britannici, che ormai forse non se li ricorda più nessuno. Davvero bravi Sean Dean, Mike Belitsky, Dallas e Travis Good. Si fossero formati trenta o quarant’anni fa adesso sarebbero un gruppo di culto. Ma non è mai troppo tardi, i bei dischi non hanno data di scadenza, e noi di “Late For The Sky”, che di sterili questioni cronologico/ anagrafiche ce ne freghiamo, non possiamo assolutamente perderci questo gioiellino senza tempo. Grande Disco.

Gianfranco Vialetto

 

 

CHEAP WINE
Stay Alive
2010 Cheap Wine Records 2CDStay_ALive[1]

 
Da tempo non ascoltavo un disco come questo nuovo doppio dal vivo dei Cheap Wine, registrato nell’aprile del 2010. La band marchigiana è maturata incredibilmente, specialmente negli arrangiamenti e nella qualità delle composizioni, ponendosi ormai ai vertici della scena rock europea. Non sto scherzando! Il primo dischetto, incentrato sulla produzione più recente, è semplicemente perfetto. La voce calda e insinuante di Marco Diamantini e la raffinata chitarra del fratello Michele guidano l’opener Just Like Animals; poi il suono si inasprisce nello splendido boogie The Sea Is Down, nel quale emergono il prezioso piano dell’ospite Alessio Raffaelli (dei riminesi Miami & The Groovers), una slide paludosa e l’armonica di Marco. La ballata Circus Of Fools e le atmosfere da frontiera americana dell’evocativa A Pig On A Lead (la chitarra acustica di Michele e il piano si completano alla perfezione) completano il poker di brani tratti da Spirits, il recente indispensabile disco in studio della band. Ma ogni brano merita una citazione: l’intensa Murdered Song, la cantautorale Nothing Left To Say (quell’inizio di armonica e piano è un evidente richiamo a Springsteen, anche se la voce ricorda Steve Wynn), la gloriosa Among The Stones tratta dall’esordio del 1998, l’evocativa e malinconica Evil Ghost con un emozionante crescendo strumentale di slide e piano, una bella cover di Youngstown, lenta nella parte cantata, trascinante nella lunga coda strumentale e la ritmata Shakin’ The Cage. Il secondo dischetto è più elettrico e trascinante, con tracce provenienti in prevalenza da Moving del 2004 e Freak Show del 2007 che evidenziano ancora di più le qualità prorompenti della chitarra di Michele. Il cambiamento di clima si percepisce in Dance Over Troubles che parte con un riff potente, accoppiato con il piano rock ‘n roll di Raffaelli, l’armonica e la voce di Marco e un assolo di chitarra distorto il giusto; un’impressione confermata nella sparata Reckless, un rock punk tiratissimo. Il resto si mantiene su ottimi livelli, ma una citazione è inevitabile per il fulcro del dischetto, il tour de force della strepitosa Loom And Vanish, un brano epico con un inizio acustico che si sviluppa con un progressivo crescendo, raggiungendo l’apice nel magnifico assolo di Michele. Un doppio live degno dei classici degli anni ‘70; il riassunto glorioso della storia di una band che, se prevenisse da Seattle o da Birmingham, godrebbe di ben altra considerazione e popolarità.

Paolo Baiotti

 

 

BLUE COUPE
Tornado On The Tracks
2010 Blue Coupe CDblue_coupe[1]

 

I tre componenti dei Blue Coupe hanno un passato glorioso. I fratelli Albert e Joe Bouchard sono stati la sezione ritmica dei Blue Oyster Cult nel periodo d’oro della band americana, il primo alla batteria e il secondo al basso; entrambi sono ottimi compositori e cantanti discreti. Dennis Dunaway è stato il bassista di Alice Cooper sino al 1976, poi ha collaborato con Joe nel trio Bouchard Dunaway & Smith, mentre Albert ha formato i Brain Surgeons con i quali ha inciso numerosi dischi. Ovviamente, il suono è ispirato principalmente dall’hard rock classico degli anni ‘70, ma non solo. Joe in questi anni ha ripreso a suonare la chitarra, ha insegnato musica e ha affinato le sue capacità di compositore e cantante, mentre Albert ha mantenuto le caratteristiche di mistero e inquietudine presenti nei suoi brani migliori. E il disco è impregnato di questo particolare tipo di atmosfera che ha reso grandi i BOC, non a caso definiti le menti pensanti dell’hard rock americano. I Blue Coupe hanno iniziato a suonare insieme tre anni fa; qualche concerto e numerose prove sono sfociati nella registrazione di Tornado On The Tracks. L’inquietante opener You (Like Vampires) è stata nominata per i Grammy nella categoria di migliore canzone rock e se lo merita appieno, mantenendosi in equilibrio tra rock e gusto per la melodia. L’aspra Angel’s Well ha un testo del poeta Jim Carroll e la partecipazione di Robbie Krieger alla chitarra, mentre Deep End è una tipica composizione di Albert (anche voce solista). La melanconica ballata God I Need You Tonight scritta da Dunaway completa l’ottimo poker iniziale dell’album. I brani successivi sono più alterni; interessante la cover di Dolphin’s Smile, una traccia minore dei Byrds nella quale il trio evidenzia impasti vocali inattesi, ottima Untamed Youth che riesce a mantenere un clima di mistero con una melodia pop, dura e cadenzata Waiting For My Ship composta e cantata da Dennis nello stile dell’Alice Cooper Band. Un esordio promettente da parte di tre professionisti che non si accontentano di riproporre solo i brani classici del loro repertorio. Il sito della band è www.bluecoupeband.com.

Paolo Baiotti

 

 

IQ
The Wake Live At De Boerderij
2010 Gep/Spv CD+DVDiq_live[1]

 
La new wave del progressive britannico dei primi anni ‘80 ha prodotto alla fine una sola band di successo, i Marillion almeno fino a quando il cantante Fish è rimasto nella formazione e tante band rimaste confinate in una nicchia, tra le quali Twelfth Night, Pendragon, Pallas, IQ. Questi ultimi si sono sempre caratterizzati per una coerenza di fondo e la testardaggine nel restare fedeli ai dettami del prog (con una sbandata alla fine degli anni ‘80). Sono ancora sulla breccia faticando come tutte le band indipendenti, ma hanno mantenuto uno zoccolo duro di fan che hanno apprezzato la loro coerenza. Il secondo album The Wake è uno dei più amati dalla band; per celebrarne il venticinquennale ne hanno pubblicato un’edizione limitata quadrupla con demos, outtakes, qualche inedito e un DVD (di qualità video modesta) seguita da un tour nel corso del quale per la prima volta l’album è stato eseguito interamente. Dalla data olandese di Zoetermeer è stato pubblicato un doppio, con un CD che ripropone The Wake e un DVD che aggiunge i bis del concerto. The Wake è un disco emozionante, sicuramente debitore del prog dei Genesis, ma la band non è puramente derivativa, ha personalità forti nel cantante Peter Nicholls e nel chitarrista Mike Holmes, mentre il nuovo tastierista Mark Westworth non fa rimpiangere Martin Orford che ha lasciato il quintetto tre anni fa. Ogni traccia meriterebbe una citazione; la cadenzata title track, la complessa The Magic Roundabout con cambi di ritmo e atmosfera che dimostrano il gusto per la melodia, le capacità strumentali dei musicisti e la teatralità del cantante (che si apprezza maggiormente nel DVD) con un epico crescendo finale della chitarra di Holmes, la drammatica Widow’s Peak, uno dei classici del progressive degli anni ‘80 e la conclusiva, melodica Headlong che si apre in un finale splendido, prima cantato e poi strumentale. Il concerto è piacevole da vedere sul DVD con le proiezioni di immagini e video che accompagnano le canzoni e l’aggiunta di tre brani, Infernal Chorus (con una drammatica interpretazione di Nicholls) e Failsafe dall’ambizioso doppio concept Subterranea e l’intricata suite The Darkest Hour, fluida nonostante i molteplici cambi di ritmo, dal non dimenticato Ever, un altro album che meriterebbe di essere eseguito interamente.


Paolo Baiotti

 

 

FLYNNVILLE TRAIN
Redemption
2010 Next Evolution CDflynnville[1]

 

Vengono da Middletown, una cittadina dell’Indiana nel mezzo del Midwest, i quattro componenti dei Flynnville Train, il cantante Brian Flynn (dotato di una bella voce potente e profonda che a tratti ricorda Ronnie Van Zant), il chitarrista Brent Flynn, il bassista Damon Michael e il batterista Tommy Bales. Hanno esordito nel 2007 con l’omonimo album per l’etichetta del country singer Toby Keith, ma non sono riusciti a emergere; ci riprovano con Redemption, decisamente più spostato verso il rock rispetto all’esordio. Le radici sudiste si sentono eccome e non solo nella voce di Brian, ma è evidente anche l’influenza dell’hard rock classico e del country più ruspante, non quello industriale di Nashville. L’opener Home e la grintosa Preachin’ To The Choir evidenziano con orgoglio la matrice southern del quartetto, anche nei testi vicini alle tematiche della working class. On Our Way è un up-tempo country che resta in testa, 33 Steps una ballata che nelle parti vocali ricorda CSN, Alright un rock energico con richiami agli Aerosmith degli anni ‘70. Notevole Friend Of Sinners, un brano ben costruito con cambi di ritmo e un testo di carattere religioso. Più scontati lo slow country The One You Love e l’honky-tonk di Tip A Can. Molto piacevole il southern country Turn Left con un riuscito intreccio di chitarra elettrica, slide e violino, trascinante il boogie blues Scratch Me Where I’m Itchin’ (non particolarmente originale). Si chiude con una cover di Sandman degli America, con intrecci vocali degni della versione originale nella prima parte e una coda accelerata in puro stile sudista. Undici brani abbastanza brevi e serrati per una band interessante anche in prospettiva. Reperibile sul sito www.flynnvilletrain.com.

Paolo Baiotti

 

PREACHIN STONE
Uncle Buck’s Vittles
2010 Preacher Stone CDpreacher[1]

 

Ci sono ancora band che suonano southern rock. Certo, contaminato dal country e da qualche schitarrata hard rock, ma fondamentalmente il buon vecchio rock sudista dei Lynyrd Skynyrd e degli Outlaws. Una di queste è formata da quattro ragazzi del Nord Carolina giunti al secondo album. I Preacher Stone aderiscono alle parole d’ordine dei bravi redneck (Dio, patria, famiglia, rispetto per la natura, amore per le armi). Inoltre sono talmente attaccati al locale che è diventato quasi la loro seconda casa da dedicargli il titolo del disco: Uncle Buck’s All American Grill è il pub di Salisbury, NC. nel quale suonano ogni fine settimana e che li ha sostenuti a inizio carriera. E di strada ne hanno già fatta! Curato nella confezione e nel suono, il disco ribadisce con forza le radici e le intenzioni di Ronnie Riddle (voce) e Marty Hill (chitarra), leader e principali compositori del quartetto che comprende Josh Sanders al basso e Brent Enman alla batteria. Tra i brani spiccano la granitica Can’t Keep A Good Man Down, la ballata Carved In Stone con un testo dedicato ai veterani, il morbido country rock Come On In, la classica ballatona sudista Hand On The Bible (il testo riguarda il legame indissolubile tra genitori e figli) nella quale emergono la voce potente di Riddle e una chitarra raffinata. A tratti (Nuff Said ad esempio) siamo ai confini con l’hard rock o con il country pop (lo slow Don’t Take Me With You), ma la strada maestra non viene smarrita e Save My Soul ci riporta in piena atmosfera sudista nel testo relativo a un condannato all’impiccagione e nel suono skynyrdiano con un ottimo assolo di Hill. Nel finale due brani atipici: Judge Me Not, un rock vicino al suono grunge composto e cantato da Sanders e una cover di Come Together tosta e ruvida, forse un po’ greve. Per informazioni il sito della band è www.preacherstone.com.

Paolo Baiotti

 

 

TOM GILLAM & TRACTOR PULL
Play Loud… Dig Deep
2009 Blue Rose CDtom_gillam[1]

 

Tom Gillam è un compositore, cantante e chitarrista cresciuto tra il New Jersey e Philadelphia che da anni si è trasferito ad Austin. Con i suoi Tractor Pull ha inciso quattro album in studio, questo live e una raccolta con inediti pubblicata solo in Europa dalla preziosa label tedesca Blue Rose. È uno dei tanti musicisti di roots rock ai confini con il country che macinano chilometri faticando il giusto (e anche di più) per riuscire a emergere. Commesso in un negozio di dischi ha iniziato tardi a incidere, ha avuto gravi problemi di dipendenza dall’alcool e dalle droghe sfociato in una serie di infarti più o meno gravi che lo hanno portato a un passo dalla morte nel 2006. A quel punto è riuscito a ripulirsi e a cambiare vita, quasi un nuovo inizio coinciso con lo spostamento in Texas. Ha una voce che nelle canzoni più morbide ricorda Don Henley e in quelle più veloci e grintose Joe Walsh. La qualità delle composizioni non è straordinaria e questo è un suo limite; ma non mancano passione, energia e carattere, specialmente dal vivo. Registrato tra il 2007 e il 2008 nel corso del tour di Never Look Back, il dischetto offre un riassunto significativo della carriera di Gillam. La grintosa Outside The Lines, la melodica Disappearing Act, il roots rock trascinante di Dallas con il prezioso apporto della solista di Craig Simon e la jammata Shake My Hand con le chitarre che si inseguono senza paura mi sembrano le tracce più convincenti. Interessante la cover della pop song The Girl I Knew Somewhere dei Monkees (una delle band preferite di Tom) in medley con l’inedito strumentale Nova’s Journey. Un live energico e ruspante con versioni allungate e improvvisate senza strafare, che ha il pregio di evidenziare i meriti di Gillam e della sua band più di quanto non avvenga negli album in studio.

Paolo Baiotti

RAY WILSON
Propaganda Man
2008 xxx CDwilson prop man

Di Ray Wilson si può dire, oltre al fatto di essere un ottimo cantante e un bravo autore di canzoni, di avere un gran limite. Ovvero di continuare perseverando oltre ogni misura a confrontarsi in modo ormai quasi irritante coi Genesis. Ci eravamo già permessi precedentemente sulle pagine di “Late” di far notare come nei suoi concerti i pezzi da lui proposti dei Genesis erano ben la metà se non oltre rispetto a quelli a sua firma, anche se nell’ambito di un live show ci può stare, considerando anche che alcuni brani erano decisamente di piacevole ascolto, ricordiamo per fare un esempio tangibile Dancin’ With The Monnlight Knight che pur potendo soffrire un confronto con la voce di Peter Gabriel era da Wilson proposta con notevole spessore. Ma il fatto che a volte ci disorienta è che Ray Wilson è autore di brani non solo piacevoli ma decisamente belli e potremmo qui citare Change, Another Try, Lemon Yellow Sun, She, Sarah, Show Me The Way, Goodbye Baby Blue, The Airport Song, Bless Me, Propaganda Man, On the Other Side, Not About Us con Banks e Rutheford e ci fermiamo qui, essendocene molti altri. Di conseguenza, una accusa rivolta al buon artista scozzese, e non solo da noi, era quella di essersi da un po’ di tempo un attimino fossilizzato sul versante Genesis, pur avendo spiccate doti personali (ovviamente come cantante ma soprattutto come autore di testi) e, infine, il che non guasta, aver fisique du role e notevoli doti di performer sul palco. Questa peculiarità espressa dal vivo che rasentava un certo rischio da un lato era controbilanciata dal fatto che i brani targati Genesis avevano una valenza e un impatto decisamente superiori sul pubblico di quanto non potessero fare canzoni a lui ascritte. Il che potrebbe anche essere vero, ma il vostro cronista le varie volte che lo ha visto dal vivo ha sempre apprezzato e atteso i suoi pezzi più che le varie cover anche se è indubbio che un brano molto noto vive di una sua palese efficacia. Pur ribadendo che tutto questo discorso è riferito al versante live del nostro amico musicista. Quello su cui adesso ci sentiamo di dissentire in toto è il suo nuovo album dal titolo Genesis Klassic nel quale ripropone, questa volta in studio, dopo averle fatte dal vivo in salse varie, ovvero elettriche o acustiche, dette canzoni con una band supportata da un quartetto d’archi. Piacevole o meno, bello o non bello pensiamo che questo sia solamente un disco di cui non si sentiva il bisogno e la riprova è nel fatto acclarato e assodato che il pezzo migliore ovvero Constantly Reminded, peraltro già proposta dal vivo nel CD Live With The Stiltskin, è brano suo! Pur ammettendo che il disco in questione non è malaccio lo saltiamo orientandoci sul precedente del quale per questioni di tempo, che a volte manca e vola pure via, non eravamo riusciti a parlare in altre occasioni. Propaganda Man è un bel disco, certamente inferiore a Change del 2003, ma a differenza di quello che era immediato per quanto concerneva la ricezione da parte dell’ascoltatore questo che forse al primo ascolto può lasciare un pochino indifferenti cresce in modo esponenziale nei successivi fino a divenire decisamente un ottimo, piacevole album. Tutte le canzoni sono firmate da lui in modo solitario o con l’aiuto di Scott Spence, Ali Ferguson e Graeme Hughes. La durata del CD è quella canonica dei vecchi LP che stavano a pelo nella facciata di una C90 e che restano tuttora i tempi più esatti per l’assimilazione di un album.

Ronald Stancanelli

Rock & Pop, le recensioni di LFTS/2

di Roberto Anghinoni

29 dicembre 2009

Nuovo appuntamento con le recensioni di dischi più o meno nuovi arrivate in redazione e curate da Sonia Cheyenne Villa, Ronald Stancanelli e Paolo Crazy Carnevale. A tutti buona lettura, ma soprattutto tantissimi auguri per il prossimo anno da parte di tutti noi. E che il vinile invada i vostri scaffali e vi rimanga per sempre!

 

 

 CHEAP WINE
Spiritscheapwine
2009 Venus CD

I Cheap Wine sono un gruppo di Pesaro che ha deciso di acquisire un sound americano, una scelta probabilmente costata molto cara per potere andare avanti. È sicuramente più facile cantare in italiano e fare musica più commerciale, piuttosto che continuare su questa linea, forse solo per pochi, ma sicuramente affezionati fan a cui, a ogni album, se ne aggiungono di nuovi. Il primo lavoro è un mini di cinque tracce uscito nel 1997. La loro carriera inizia però dal loro secondo lavoro A Better Place del 1998. Il disco ricorda le atmosfere dei Green On Red (da una loro canzone prendono infatti il loro nome) e la voce di Marco sembra quella di Steve Wynn dei Dream Syndicate. Segue nel 2000 Ruby Shade, e da quest’album iniziano a inserire nel booklet interno i testi con la traduzione in italiano. Nel 2002 esce Crime Stories con copertina e artwork del batterista Francesco “Zano” Zanotti il quale, avendo scelto altre strade, non fa più parte della band ed è stato sostituito nell’ultimo album da Alan Giannini. Nel 2004 tocca a Moving che è, a mio parere, uno dei lavori migliori della band. Dal primo pezzo all’ultimo non ha un attimo di cedimento, la chitarra di Michele, soprattutto nel brano che chiude l’album, è a dir poco struggente. Si arriva poi a Freak Show del 2007, e finalmente giungiamo al superbo lavoro del 2009, Spirits, che è stato pubblicato verso la fine di settembre in confezione digipack e che, ovviamente, ho comprato il giorno stesso in cui è uscito. Appena preso il disco in mano, mi sono soffermata a osservarlo e ho subito notato sulla copertina la moltitudine di bottiglie impolverate le quali mi hanno fatto supporre che si trattasse di qualcosa di diverso, di più profondo. Apro la custodia, metto il CD nel lettore e iniziano a fuoriuscire dalle casse i primi accordi di Just Like Animals e successivamente gli ultimi di Pancho & Lefty. Sono sembrati una manciata di secondi, da tanto sono piacevoli e orecchiabili, invece degli effettivi quarantanove minuti e rotti per undici tracce! Il commento comune di tutti quelli a cui mi sono rivolta è stato: “un album che non ha niente da invidiare ai dischi dei più stimati artisti, forse meno rock, ma più intimista e maturo degli ultimi lavori, un vera svolta, uno tra i migliori album del 2009!”. La sera stessa decido di riascoltarlo, ma questa volta per approfondire con i testi in mano. Man In The Long Black Coat di Bob Dylan e Pancho & Lefty di Townes Van Zandt sono le due cover dell’album e sono eseguite divinamente, in particolar modo la prima. Infatti, sostengo che siano davvero in pochi quelli che sono riusciti a interpretarla con tale trasporto e sentimento. Poi c’è Alice, bellissimo pezzo strumentale e Dried Leaves a parer mio uno dei brani più belli dell’album. Per quanto mi sia subito piaciuto, penso non si possa completamente comprendere fino a quando non si ha davvero bisogno di riorganizzare la propria mente e se si mette, come ho fatto io, come colonna sonora ai propri pensieri, il melodico suono coinvolgerà mente e spirito, entrambi questa volta. Lo si assimila in tutti i suoi aspetti più nascosti e da quell’ascolto sembrerà quasi un altro disco. Penso che per cogliere la vera essenza di questo album si debba essere soli, seduti con un buon bicchiere di vino, quando si ha bisogno di riflettere. Con questo disco credo si siano davvero superati, il genere è chiaramente sempre il loro, ma il livello che hanno raggiunto non può certo lasciare indifferenti. Sinceri complimenti a questo gruppo italiano/ americano che riesce a coinvolgere con sempre più passione il proprio pubblico.

Sonia Cheyenne Villa

 

 FELICE BROTHERS
Yonder Is The Clockyonder
2009 Team Love Records CD

Tra le note liete di questo fine anno, sicuramente un posto d’onore lo hanno occupato i Low Anthem ma, vorrei aggiungere un altro gruppo recentemente scoperto, anche se hanno già pubblicato vari CD. Il crinale è quello dei Low Anthem anche se i Fratelli Felici sono ancora qualche curva indietro. La prima cosa che salta agli occhi, curiosando nel libretto, è che appunto i primi tre musicisti del gruppo si chiamino appunto Felice essendo senza ombra di dubbio fratelli ma è col quarto che ci viene da sorridere essendo il suo nome di battesimo Christmas. Di conseguenza Felice Natale a tutti e andiamo ad ascoltare e riascoltare il CD. La cover è molto spartana, su carta riciclata, e ricorda tantissimo, ancora direte voi, quella dei Low Anthem. La strumentazione adottata dal gruppo non è citata nella copertina del disco, comunque si tratta di strumenti acustici con fisarmonica e piano a tessere. Tutti i pezzi sono accreditati a i fratelli Felice escluso un traditional che da loro stessi è comunque arrangiato. Le canzoni sono molto minimali, troviamo anche qualche strumentale, e si trascinano con scarno abbellimento musicale che ha dalla sua un certo fascino, sicuramente non hanno la potenzialità intellettuale di un gruppo come i Cowboy Junkies o la grinta dei Low Anthem, ma in questa loro strada del dolore percorsa con affanno ma ricercatezza gettano le basi per catturare con immediatezza un loro pubblico. Sailor Song sussurrata come un lamento d’oltreoceano o del mondo perduto si lascia traversare da una incipiente fisarmonica e quando la voce si fa giungere all’ascoltatore par un Tom Waits entrato nell’ade che manda un canto, un messaggio dal mondo dei defunti. Strascicatamente vetrosa una voce ci narra di Katie Dear in modo così realista che par di vederla di fronte a noi con la sua mappa stradale persa nel diluvio della sue esistenza, mentre giunge a noi che pendiamo da questo racconto che ci porta al successivo, quello del pollo che corre ma che deve correre di più, con l’inasprimento dei toni che non sono quelli dei Pogues ma la direzione sicuramente si. Introdotta da un cappello strumentale Run Chicken Run sveglia l’incauto ascoltatore che magari s’era perso tra i meandri anestetici di questo inizio dei Fratelli Felice che sin’ora di felice ben poco aveva. Meno male che è arrivato il chicken che ci sveglia tutti, attenti o distratti che fossimo. Sicuramente si può dire tanto di questo disco, con idee indubbiamente contrastanti, ma non che non sia un lavoro fascinoso e che ogni ascolto lo renda più palesemente vicino a noi. All When We Were Young nasconde tra i solchi le prime soffici e acustiche elucubrazioni di un Neil Young giovanissimo e come il brano vira e s’arricchisce ci si rende conto che ci troviamo dinanzi a un lavoro che col tempo avrà la sua collocazione e, se ci siamo chiesti qualcosa, avremo anche la sua risposta. Boy From Lawrence County la risposta la da, è un bel disco, invernale, intimo, interiore, interno, scavato dentro e a fondo. Con una trama dipanata tra viottoli riottosi e bugigattoli nodosi ecco un album straordinariamente in tema coll’oggi che ci sovrasta, non sai da dove venga ne dove vada, ma ti piace seguirlo.

Ronald Stancanelli

 

GIULIO REDAELLICONNEMARA
Connemara
2008 F-Net CD

Questo è decisamente un ottimo disco per coloro che amano i suoni acustici con un orientamento verso le sonorità nord-americane o irlandesi. Giulio Redaelli, musicista lecchese di grande talento e già autore nel 2001 dell’album Blue Eyed Duckling si ripresenta con un lavoro dal titolo appunto decisamente irlandese. Connemara è un disco prevalentemente acustico- strumentale ove spiccano le chitarre suonate ordinatamente da Redaelli. Il Connemara è un massiccio montuoso dell’Irlanda occidentale con una limitata altitudine, non supera i mille metri, ma con un aspetto montuoso molto intenso dovuto sia al modellamento glaciale sia all’inesistente vegetazione. Il CD si avvale della collaborazione di ottimi musicisti come Socrate Verona al violino e viola, Dario Tanghetti alle percussioni, Nicola Oliva al basso e chitarra ritmica, Gisella Romeo al violoncello, Franco D’Auria alla batteria e delle voci di Elisabetta Rosa e Marco Gallo. Redaelli ci tiene a far sapere che nel CD non vi sono parti campionate ma tutto è genuinamente dal vivo. Per aiutare il lettore possiamo dire che lo stile del dischetto ricorda musicisti come il talento genovese Beppe Gambetta e anche, ma in minor misura, il didascalico toscano Untemberger o artisti stranieri quali Stefan Grossman o Leo Kottke. Tanto per non essere smentiti, tra le cover del disco una è proprio un brano di Kottke, la piacevole The Ring Stealing. Le altre tre sono What A Wonderful World di Armstrong, Maple Leaf Rag di Scott Joplin e Doc’s Guitar di Doc Watson, non Wotson come segnato sull’ultima di copertina. Il resto è a firma dello stesso Redaelli, così come gli arrangiamenti delle cover succitate. Molto suggestiva, Puzzle mentre evoca nostalgia la bella riproposizione del brano di Armstrong cantato da Elisabetta Rosa. Il dischetto della media e giusta durata, ovvero circa cinquanta minuti, è il trionfo del fingerpicking ove si esalta la grande produzione acustica musicale in un susseguirsi di brani uno più piacevole dell’altro e dai quali si evince la splendida padronanza allo strumento dell’artista lombardo. Arrangiato dallo stesso Redaelli, è stato registrato mixato e masterizzato all’Acoustic Design Studio di Milano ed è lavoro meritorio di notevole conoscenza e diffusione. Consigliato vivamente. Vi ricordo anche l’ottimo For Guitars Clan che Redaelli assieme ad altri musicisti ha inciso nel 2007 e che noi abbiamo recensito sul numero 92 di “Late for the sky” a pagina 48. Per erudirvi maggiormente vi consiglio una puntatina su www.giulioredaelli.com.

Ronald Stancanelli

 

 GREG HARRIStherecord
The Record
2009 Autoprodotto CD

I più se lo ricorderanno tra le file dei Flying Burrito Brothers a cavallo tra anni ‘70 e anni ‘80, periodo in cui Greg Harris ci ha consegnato anche alcuni dischi come solista che si erano fatti notare (soprattutto i primi due Acoustic e Electric) per la loro bontà. Harris in quegli anni ha girato anche in Italia, col chitarrista piemontese Ricky Mantoan e con il gruppo di cui facevano parte anche Skip Battin e Gene Parsons, ma la sua carriera discografica è andata poi via via inaridendosi e al momento della pubblicazione di questo nuovo disco, prodotto e distribuito in modo assolutamente indipendente, erano almeno dieci anni che non si sentiva parlare di lui. Si tratta di un ritorno graditissimo, soprattutto alla luce del fatto che il disco ci riconsegna Harris al top della forma, alle prese con un repertorio ispirato e con una serie di sonorità che ci confermano la grandezza di questo artista quando impugna una chitarra, elettrica o acustica che sia. Unico altro chitarrista del disco infatti è suo figlio Jesse Jay, quello dei Rancho Deluxe, che ricambia qui il favore al padre che aveva preso parte all’ottimo, secondo CD del gruppo, recensito in questo stesso sito. Quello che entusiasma maggiormente in questa produzione sono i bei suoni di chitarra che gli Harris sanno mettere insieme, al servizio di un gusto musicale che sta in bilico tra il country rock di matrice californiana e certe atmosfere più vicine allo swing. Personalmente preferisco i brani country-rock, con la voce di Harris sempre bene in mostra, quella voce che mi aveva conquistato fin da primo ascolto quando avevo comprato il live giapponese dei Flying Burrito Brothers, in cui cantava alcuni brani in maniera vibrante. Tra i brani si fanno subito apprezzare The Gilded Palace Of Sin, brano che fin dal titolo fa capire dove Greg stia andando a parare, e l’intro di chitarra è una citazione che conferma le promesse dal titolo, siamo in piena atmosfera FBB. Un altro gran brano è The Long Road To Nowhere, in cui Greg duetta alla chitarra col figlio. Tra le cose più d’atmosfera, con batteria spazzolata, c’è The Sunday News, country jazz in cui Harris snocciola una serie di assoli con l’acustica che ne confermano la statura come chitarrista. C’è anche una lenta ballata, Mexico, scritta in tandem con Rick Danko, ai tempi del Byrds Tribute Tour a cui i due presero parte nel 1985, con Gene Clark. Murriettas Gold è un altro bel brano acustico, su cui Harris interviene col mandolino, altro strumento di cui è maestro. All’amico Skip Battin, scomparso ormai da alcuni anni, è dedicata Evergreen Blueshoes, notevole composizione ispirata al gruppo in cui Skip suonava prima di entrare nei Byrds. Il disco, quaranta minuti di durata, si conclude con lo strumentale Dale’s Tune. E a confermare il buono stato di salute del nostro, le ultime notizie riguardano l’intenzione di Harris di venire a suonare in Italia l’anno venturo, probabilmente nientemeno che insieme a Gene Parsons!

Paolo Crazy Carnevale

 

 MORAINE
Density
2009 Moonjune Records CDmoraine

Interessante questo disco, che si discosta notevolmente dai miei ascolti abituali: si tratta di una nuova produzione della casa discografica newyorkese diretta da Leonardo Pavkovic, sempre attenta, oltre alle ristampe di interessante materiale d’archivio riguardante la famiglia Soft Machine, alle nuove tendenze musicali. È il caso di questo disco strumentale del quintetto Moraine, capeggiato dal chitarrista Dennis Rea, che si propone con una bella miscela di suoni che qualcuno ha definito, a ragione, “heavy chamber music”. Il disco offre una manciata di composizioni eseguite da un’anomala formazione in cui chitarra elettrica, basso e batteria si fondono con violoncello e violino, dando origine ha un sound originale, a volte sperimentale (Uncle Tang’s Cabinet Of Dr. Caligari e Staggerin’), a tratti orientato verso il jazz-rock di stampo zappiano (Nacho Sunset), con improvvise virate verso la psichedelica di stampo western (Disillusioned Avatar), e assunzione di toni talvolta epici infusi dal cello di Ruth Davison e dal violino di Alicia Allen (Kuru) che provvedono anche alle influenze cameristiche (Reveng Grandmother), il tutto sempre senza perdere di vista il sound caratterizzante le mosse del gruppo. Ogni brano potrebbe essere parte di una ideale colonna sonora che ha l’apprezzabile qualità di lasciarsi ascoltare senza costringere l’ascoltatore a torturanti sforzi mentali spesso associati a questo genere musicale.

Paolo Crazy Carnevale

 

NILS LOFGREN
Sings Neil YoungLOFGREN
2009 Hypertension CD

Avevamo precedentemente recensito il tributo dei Rusties a Neil Young, ci accingiamo adesso a presentarvi quello operato dal fido Nils Lofgren, una vita col canadese e un’altra vita con Bruce Springsteen. Quindici canzoni in fase delicatamente acustica che abbracciano, e su questo non nutrivamo dubbi alcuni, il primo periodo o repertorio del musicista canadese ormai naturalizzato per usucapione yankee. Il disco è semplicemente suonato o al piano o alla chitarra acustica da Lofgren in modo pacato, sereno e decisamente suggestivo, e registrato in perfetta calma e solitudine in quel di casa sua. Fanno capolino tra i solchi, e la sua voce si trova notevolmente a suo agio con detto repertorio, splendidi tasselli della nostra esistenza che amammo e mai perdemmo come Birds, Long May You Run, The Loner, Winterlong e Like A Hurricane che in veste spoglia e acustica ci delizia oltre l’immaginabile. In effetti, un brano leggermente più recente l’abbiamo e si tratta di Harvest Moon. Fa piacere che in questo splendido celebrativo lavoro di passione e amore sia verso Young che verso una musica, anzi delle canzoni senza tempo, Lofgren abbia recuperato un reale capolavoro come Don’t Be Denied, brano facente parte dell’unico album che Neil Young per le sue solite paturnie non ha mai fatto pubblicare su CD, ovvero quel Time Fades Away che è uno dei capisaldi della sua discografia. Molto bella la riproposizione di World On A String ove ancora una volta si evidenzia la bravura di Lofgren allo strumento mentre un plauso sincero alla sua voce che a volte un po’ fuori luogo nei brani elettrici qua si trova meravigliosamente a suo agio. Teneramente bluesy la versione di Mr. Soul che appiana ricordi di lontana misura e proseguendo nell’ascolto del dischetto ci rendiamo conto che questo omaggio è opera non solo di mero e puro tributo a un amico, ma anche un album decisamente bello, ben suonato e ben cantato. Sicuramente uno dei suoi migliori lavori da un po’ di tempo a questa parte. Bella e suggestiva la copertina cartonata. Solare e afrodisiaca come sempre Winterlong, uno dei brani più soavemente profumati che ci sia stato dato di sentire nella nostra lunga carriera di musicofili un po esterofili. Produzione a cura di David Briggs e dello stesso Lofgren il tutto su Hypertension, etichetta minore degna di ovvia lode.

Ronald Stancanelli

 

URIAH HEEP

Celebration

2009 Edel CD+DVD

 

Per celebrare il quarantesimo  anniversario della pubblicazione del primo Huriah Heepstupendo album  “Very Heavy … Very Umble”, famoso non solo per il suono innovativo della band, ma anche per una delle copertine piu’  macabre ed inquietanti nella storia della musica rock , gli Huriah Heep, guidati da sempre dal chitarrista e mente del gruppo Mick Box, pubblicano questo “Celebration”, una vera sorpresa anche  per uno come il sottoscritto che li ha sempre  amati alla follia.

Completano la formazione attuale Bernie Shaw, vocals, Phil Lanzon, keys, Trevor Bolder, bass e Russell Gilbrok, drums che ha sostituito il batterista storico Lee Kerslake, che aveva lasciato per motivi di salute un paio di anni or sono; il nucleo è lo stesso da anni, ottimi strumentisti che hanno pubblicato “I Wake The Sleeper”, il buon album di studio inciso nel 2008 dopo oltre dieci anni dal precedente. Il  cantante David Byron, grande  front man, è purtroppo scomparso da anni; dopo una breve carriera solista, Ken Hensley, lo stupendo  tastierista, arrangiatore e coautore delle piu’ belle e famose canzoni della band, continua una prestigiosa carriera ricca di soddisfazioni .

Ma se il suono è cambiato rivolgendosi a sonorità più corpose ed avvolgenti, lo spirito degli Huriah Heep non è mai venuto meno, basta ascoltare questo lavoro che ci offre ben quattordici brani. Un paio di inediti,  “Only Human” e “Corridors Of Madness”;  mentre gli altri brani ci ripropongono canzoni immortali come  “Sunrise”, “Stealin”, “The Wizard”, “Easy Livin”, “Lady In Black”, “Gypsy”   e “Free And Easy”, tutte riproposte in una nuova versione .

Stupenda la confezione  in digypack del dischetto con un booklet ricco di foto , notizie   e con i testi delle canzoni; il DVD ci offre uno splendido concerto registrato al The Sweden Rock Festival dello scorso anno , con la band in forma smagliante  che ci offre quarantacinque minuti di musica che continua e continuerà a farci sognare .

 Daniele Ghisoni