Archivio di novembre 2022

JAY BYRD – At Home Again

di Paolo Baiotti

29 novembre 2022

JAY BYRD
AT HOME AGAIN
Triad Records 2022

Jason (Jay) Byrd è un musicista originario della North Carolina in attività dalla tarda adolescenza. Poco più che ventenne ha formato il trio rock-blues The Groov con Kerry Brooks con il quale collabora tuttora e poi nel ’96 si è unito ai Wavy Train, cover band dei Grateful Dead che, anche per merito delle sue canzoni, si sono evoluti creando un suono personale. Nel 2001 si è spostato nell’area della capitale virando verso l’americana, scrivendo e suonando brani originali con la band South Rail (3 ep e due album) e da solista (l’esordio Busy Day è del 2003). In questo periodo ha aperto date di Little Feat, Cary Morin, Kevin Gordon e diviso il palco con String Cheese Incident, Tom Constanten e Steve Winwood tra gli altri.
In realtà più che all’americana At Home Again fa riferimento alla musica californiana degli anni settanta, ad un country rock morbido, melodico ed elettroacustico, a ballate un po’ troppo dolciastre profumate di folk, a nomi come Jackson Browne e James Taylor e a band come Eagles e America. Jay ha una voce aggraziata e non priva di fascino, anche se a tratti un po’ monocorde, suona chitarra, mandolino, tastiere e basso, ad eccezione di quattro tracce in cui è aiutato da Brooks, con Tim Haney alla batteria e Chad Berger alle tastiere, un gruppo ristretto di collaboratori sufficiente a creare arrangiamenti di gusto.
L’apertura di Daydream Daze è un country-rock fluido e melodico, seguito dalla riuscita title track in cui si intrecciano piano e chitarra con una voce memore della lezione di Jackson Browne. Se l’intimista I Should Know è rinvigorita da una chitarra incisiva, la delicata e raffinata Anna Lynn appare poco mossa, come la fragile Losers Like Me. Sempre in ambito soft-rock si ascoltano piacevolmente la rilassata Nobody Knows (Who You Are) ispirata da John Lennon e Days Roll By con intro di mandolino e chitarra acustica, nonché l’intima ballata folk I’ve Been It All in cui spicca una slide saporita, mentre su un versante più ritmato si apprezza Have Mercy. In chiusura Dreaming My Life Away, ballata poco consistente, viene rianimata da un assolo di elettrica e da un robusto crescendo finale.

Paolo Baiotti

JOHANNA LILLVIK – The Love Hate Syndrome

di Paolo Baiotti

29 novembre 2022

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JOHANNA LILLVIK
THE LOVE HATE SYNDROME
Paraply Records 2022

Si è parlato di Johanna in occasione della pubblicazione dell’album dei Blues Escape, una collaborazione tra la giovane cantante svedese e la blues band Hill Blue Unit che è sfociata in un disco dopo numerosi concerti in jazz e blues clubs dei paesi nordici in cui si sono fusi New Orleans jazz, blues, gospel, soul, musica latina, voodoo e boogie.
Ora Johanna, cantante molto particolare dotata di notevole personalità nata a Boras, compositrice che ha studiato la musica folk nordica, ha lavorato con il Circle du Soleil ed esordito nel 2017 come solista con un EP cantautorale, torna come solista con il primo album di lunga durata, The Love Hate Syndrome da lei prodotto, in cui suona il piano e ha scritto musica e testi. La Lillvik ha una voce armoniosa e sicura, con una buona estensione che si presta alla natura molto varia del materiale, che spazia dall’intenso al sensuale, dal melodico al ritmato, dal rock al pop con una strumentazione che ingloba fiati e fisarmonica. Si può avvertire qualche somiglianza con Kate Bush, Nina Hagen o Diamanda Galas, tre esempi che testimoniano la versatilità del materiale. L’aiuto più rilevante è quello di di Kim Gunneriusson (proveniente dai Citizen K) che ha registrato e ha suonato chitarra e batteria.
Tra i brani spiccano la ballata Feels Like Streaming, l’intensa Gospel Of Nut dai contorni orientaleggianti e sensuali in cui Johanna mette in luce una notevole duttilità vocale e una teatralità non comune, Modern Woman in cui viene rivendicata in modo beffardo e ironico l’indipendenza femminile, Mothers Blues in cui torna alle atmosfere dei Blues Escape e l’eterea Make Haste posta in chiusura. Stupiscono le sventagliate rock di Busted, aspra e funkeggiante, il cabaret mitteleuropeo di Je Suis Charlie un po’ confuso ed eccessivamente ricco di elementi diversi e Wolves, vocalmente complessa, in cui si inserisce la fisarmonica di Jonathan Larsson.
The Love Hate Syndrome è un disco decisamente interessante, che merita un ascolto approfondito.

Paolo Baiotti

STEVE McNAUGHTON – Journeyman

di Paolo Baiotti

27 novembre 2022

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STEVE McNAUGHTON
JOURNEYMAN
Autoprodotto 2022

Australiano di Sidney, McNaughton è considerato uno dei migliori autori contemporanei di rock e pop del paese, almeno nell’ambito di una produzione radiofonica e disimpegnata, pur non essendo privo di spunti personali e appassionati nei testi. Scrive canzoni da 30 anni e ha suonato in diverse formazioni, pubblicando tre album e un Ep da solista; il suo esordio risale al 1999 con Hardly Soft Rock, seguito nel 2000 dall’uscita di un Ep dedicato ai giochi olimpici di Sydney. Il suo disco più conosciuto è Eagles Aloft (2013) che lo ha avvicinato alla scena country, registrato con musicisti di Nashville e della west coast americana. Ed ora, dopo otto anni, Steve pubblica il quarto album Journeyman che contiene 14 brani eclettici con elementi country, rock e pop accompagnati da testi su viaggi ed esperienze di vita con la ripresa di un brano tradizionale scozzese, Skye Boat Song.
Registrato in due studi neozelandesi con una dozzina di strumentisti locali e prodotto da Rod Motbey che ha suonato chitarra, basso, tastiere e banjo risultando il principale collaboratore di Steve, Journeyman è un disco orecchiabile, forse un po’ troppo leggero e superficiale nel suono.
E’ stato anticipato nel settembre del 2021 dal raffinato singolo Start Again, un brano elettroacustico con venature country e bluegrass cantato insieme a James Stewart Keene e inserito anche nella colonna sonora dello “short film” ‘Sherbrooke Down: The Road to Cataract’.
La scorrevole title track apre l’album con una slide morbida e cori molto curati, seguita dall’energica Take The Ticket che richiama lo stile dei Dire Straits con l’intervento dell’armonica di Lawrie Minson e di prominenti contributi vocali femminili e da Sliding Doors profumata di anni ottanta. Nello sviluppo del disco vengono privilegiate tracce ballabili e ritmate di impronta pop come Looking For Light, Don’t Treat Yourself That Way e Most Evil Drug, adatte alla voce accattivane di Steve, che piazza nel finale il fluido errebi A Good Song e il già citato singolo Start Again.

Paolo Baiotti

STEVE HACKETT: Torino, Teatro Colosseo, 15.11.2022

di Paolo Baiotti

20 novembre 2022

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Steve ha sempre avuto un ottimo rapporto con il nostro paese. In particolare, da quando ha ripreso a portare in giro il repertorio dei Genesis degli anni settanta (ne è stato il chitarrista dal ’71 al ’77), è sempre passato per l’Italia con numerose date. uesto Il recente tour “Genesis Revisited: Foxtrot Fifty + Hackett Highlights” iniziato a settembre a Swansea in Galles, dopo più di 20 date inglesi ha attraversato l’Italia con sei appuntamenti e proseguirà in Canada e negli Stati Uniti per tornare in Europa in primavera.

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Accompagnato da una band solida e collaudata che comprende dal 2013 il cantante Ned Sylvan, dal 2001 il tastierista Roger King e il polistrumentista Rob Townsend al sax, flauto, tastiere e percussioni, nonchè la sezione ritmica formata dal bassista Jonas Reingold (dal 2018) e dal batterista Craig Blundell (dal 2019), Steve ha diviso lo spettacolo in due set: il primo incentrato sulla carriera solista, il secondo sulla ripresa integrale di Foxtrot. La prima parte ha confermato l’incostanza della produzione solista, che dopo un inizio promettente con album come l’esordio Voyage Of The Acolyte del ‘75 e il terzo disco Spectral Mornings del ’79 si è un po’ persa con tentativi in direzioni diverse non sempre riusciti. Non è un caso che siano stati ripresi tre brani dall’esordio: lo strumentale Ace Of Wounds che ha aperto la serata, l’inquietante A Tower Struck Down riarrangiata con Rob al sax e clarinetto e la maestosa e melodica Shadow Of The Hierophant, che era stata proposta ai Genesis per Foxtrot e rifiutata, con una chitarra espressiva in primo piano. Da Spectral Mornings sono state scelte la title track strumentale caratterizzata da una splendida linea melodica e Any Day, brano ritmato con un testo contro la droga e una notevole coda chitarristica. Due sole le tracce da altri album: la pomposa The Devil’s Cathedral da Surrender Of Silence del 2021 e Camino Royale da Highly Strung dell’83 in bilico tra rock e jazz, cantata dallo stesso Hackett che non è un vocalist particolarmente dotato.

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Dopo una breve pausa la band è tornata sul palco per eseguire Foxtrot, il quarto album dei Genesis, il primo ad entrare in classifica in Gran Bretagna (n.12) mentre il Italia raggiunse il n. 15 come in Francia. L’introduzione dell’epica Watcher Of The Skies da parte delle tastiere di King ha emozionato il foltissimo pubblico che attendeva soprattutto questo momento. L’esecuzione è stata degna di quelle dei Genesis con un’interpretazione all’altezza da parte di Sylvan, che non ha grande personalità, ma come voce ricorda Peter Gabriel e lo sostituisce egregiamente. La pianistica ballata Time Table, che i Genesis credo non abbiamo mai eseguito dal vivo, ha preceduto Get’Em Out By Friday con il suo testo di satira sociale, la prima parte ritmata e la seconda più lenta in cui Sylvan ha confermato le sue doti in un ruolo non agevole e Can-Utility And The Coastliners, una ballata composta quasi interamente da Steve che cresce strumentalmente nel segmento centrale con alcuni cambi di ritmo.

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Dopo il breve intermezzo strumentale acustico di Horizons, ispirata da un preludio di Bach, è il momento della suite di Supper’s Ready che occupa l’intera seconda facciata del disco divisa in sette parti, una delle più famose dell’epoca prog al pari di Echoes dei Pink Floyd. Già eseguita in passato da Hackett, è stato un tuffo negli anni settanta, poco meno di mezz’ora da brividi, interpretata in modo impeccabile fino all’ultima parte (As Sure As Eggs Is Eggs), con un assolo finale prolungato di Steve che ha provocato una lunga ovazione. Dopo una breve pausa il piano di King ha introdotto la magnifica Firth Of Fifth da Selling England By The Pound con il sublime assolo centrale di Hackett. Uno spazio solista della batteria sfocia nel tema di Los Endos che chiude il concerto, con l’inserimento tra le due parti del brano dello strumentale Slogans (un po’ caotico) da Defector dell’80. Al termine di una serata inappuntabile anche per la qualità del suono, applausi interminabili per Steve sempre in ottima forma e per la band.

Paolo Baiotti

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PAUL GURNEY – Blue Horizon

di Paolo Baiotti

19 novembre 2022

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PAUL GURNEY
BLUE HORIZON
Tailgator Music 2022

Artist neozelandese che ha iniziato a suonare negli anni settanta da adolescente, Paul si è impegnato in diverse avventure, tra le quali la partecipazione alla band country-rock dei Wells Fargo e dal 2004 la formazione dei DeSotos che opera in ambito Americana/Country-Blues con il suo amico bassista Stuart McIntyre. Il gruppo ha pubblicato nel 2008 il primo album Cross Your Heart con molto successo in patria e nel 2011 Your Highway For Tonight. I loro brani sono stati utilizzati anche per delle serie Tv e sono tuttora attivi con un tour in questo mese. Nel 2017 è uscito il primo album solista Shadow Of Love ed ora ecco Blue Horizon in cui è affiancato dal fedele McIntyre al basso e da Ron Stevens all’organo (entrambi membri dei DeSotos), nonché dal produttore del disco Bob Shepheard alle tastiere, chitarra e basso e da Michael Burrows alla batteria. Gurney lavora anche come “music tutor” al Toi Ora Live Arts Trust che si occupa di persone con problemi mentali.
Il suono è sempre tendente ad un country-rock morbido; la voce di Paul non è molto caratteristica, diciamo che è adeguata ma poco personale specialmente per alcuni brani come la nostalgica Belong che ricorda lo stile di Chris Isaak e Moonlight Waltz, mentre nella title track il cantato richiama Jim Kerr dei Simple Minds. Emergono l’opener Someplace Else eterea e raffinata con il violino di Richard Adams, la rilassata ballata Misunderstood con la dolce pedal steel di Neil Watson, la scorrevole ed emozionale Fragile, l’inquieta Meaning venata di psichedelici sapori orientali, la riflessiva Ricochet sulle divisioni create nella società dal Covid, il boogie Trouble e la mossa Perfect Space, un rock blues arrangiato con perizia.

Paolo Baiotti

THE MYSTIX – Truvine

di Paolo Baiotti

17 novembre 2022

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THE MYSTIX
TRUVINE
Mystix Eyes Records 2022

Considerati una piccola leggenda nell’area di Boston, i Mystix interpretano dal 2002 l’Americana con forti inserimenti di blues e gospel, alternando brani autografi e covers. La formazione ruota intorno a numerosi artisti con nuovi arrivi e qualche ritorno da un disco a un altro, una sorta di collettivo variabile che ha da sempre come cantante e principale animatore Jo Lily (già con Duke & The Drivers attivi fin dagli anni settanta) insieme al chitarrista Bobby Keyes, sessionman in ambito jazz e rock. Nel nuovo disco sono affiancati da Marty Ballou al basso (Duke Robillard, Roomful of Blues), Neal Pawley e Stu Kimball (Bob Dylan) alla chitarra e Marco Giovino (Band Of Joy, Emmylou Harris, John Cale) alla batteria e alla produzione. Non mancano ospiti di prestigio tra i quali Luther Dickinson, Jerry Portnoy, Spooner Oldham e Doug Lancio ed ex membri fissi come Tom West all’organo. Una formazione esperta che si diverte a proporre una miscela di soul, country e blues da bar-band (infatti vengono paragonati a The Nighthawks) caratterizzata dalla voce roca, aspra e fumosa di Lily tra Dylan, Dr. John, Captain Beefheart e Roger Chapman.
Truvine è il loro ottavo album, a due anni di distanza da Can’t Change It e contiene alcuni brani già incisi in passato sull’esordio Blue Morning, su Satisfy you e su Midnight in Mississippi in nuove versioni. Tra questi la bluesata e notturna Lifetime Worth Of Blues, morbida e sudata senza il violino dell’originale, Which Side Of Heartache, un valzer country con l’aggiunta della fisarmonica, Midnight In Mississippi con Luther Dickinson alla slide che ricorda il suono di J.J. Cale, autore della ballata I Guess I Lose eseguita in modalità pigra e paludosa con una voce fragile alla Dylan.
L’inquietante e aggressiva Satisfy You apre il disco ed è una delle tracce migliori con Up Jumped The Devil, rifacimento di un brano di Robert Johnson e l’up-tempo da juke-joint Change My Mind con l’armonica di Jerry Portnoy. Non ci sono tracce trascurabili neppure nella parte finale del disco in cui si susseguono il gospel tradizionale Devil Try To Steal My Joy in versione swamp-rock e la jazzata e notturna My Epitaph, cover di Ola Bell Reed, arricchita da una sezione fiati degna di New Orleans.
Truvine è la conferma di una band che sarebbe un piacere potere ascoltare dal vivo dalle nostre parti.

Paolo Baiotti

Torna la Fiera di Varese con la 41ma edizione

di admin

17 novembre 2022

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Per tutti gli appassionati di vinile e CD è in arrivo la 41° edizione della Fiera del Disco di Varese.

l’appuntamento è per i prossimi 19 e 20 novembre, presso l’UNA Hotel di Via Francesco Albani, 73.

Orario: dalle 10.00 alle 18.00

Come sempre ingresso libero e parcheggio gratuito.

INTERVENITE NUMEROSI!

STEVE YANEK – Long Overdue

di Paolo Baiotti

13 novembre 2022

Steve-Yanek

STEVE YANEK
LONG OVERDUE
Primitive Records 2022

A volte ci vogliono tempo e pazienza per raggiungere i proprio obiettivi. Steve Yanek, nato a Youngstown e da tempo residente nelle campagne della Pennsylvania, sembrava avere un futuro promettente in campo musicale quando nel 2005 pubblicò il suo esordio Across The Landscape. Ma, pur avendo ricevuto delle buone recensioni, il disco è passato nel dimenticatoio, nonostante la presenza di nomi conosciuti come Jeff Pevar (CPR con David Crosby), Rod Morgenstein e T.Lavitz (Dixie Dregs e Jazz Is Dead), finchè è stato infine pubblicato in Europa nel 2020 ed accolto con positivi riscontri. Nel frattempo Steve non si è perso d’animo: ha fondato la Primitive Records, ha lavorato come manager anche in campo musicale, formato una band e messo a punto uno studio di registrazione. Alla fine, atteso da tempo (come suggerisce il titolo Long Overdue) è tornato con il secondo album riunendo con l’aiuto determinante di Jeff Pevar, che ha prodotto il disco e suonato basso, tastiere e chitarre di ogni tipo, tracce proveniente da incisioni di parecchi anni fa con i musicisti sopra citati e tracce nuove registrate con collaboratori di lusso come il batterista Kenny Aronoff (John Mellencamp, John Fogerty) e il pianista Billy Payne (Little Feat).
Musicalmente si incrociano rock e country con echi di Gram Parsons, Tom Petty, Jackson Browne, Eagles e Merle Haggard, con arrangiamenti curati attentamente da Pevar che ha lavorato separatamente da Yanek a causa della pandemia.
Long Overdue è un’apertura mossa e accattivante in cui si fa strada la lap steel di Pevar che richiama il lavoro di David Lindley con Jackson Browne. La qualità dei brani è alterna: Like Now è un mid-tempo pop-rock un po’ scontato, come la cadenzata All The Sorrow che ha la batteria in primo piano ma non riesce a convincere fino in fondo, a differenza dell’up-tempo Tired Of This Attitude con Payne e Aronoff o della deliziosa ballata Everyone’s Crazy These Days in cui il piano e la chitarra acustica hanno un ruolo essenziale. Nella seconda parte del disco emergono la ballata pianistica About This Time e l’energico rock On Your Side, a differenza della melensa You Move Me e di Throw Me Down A Line. In sostanza Long Overdue è un album discreto chiuso dalla malinconica traccia acustica Goodbye suonata in solitaria da Yanek.

Paolo Baiotti

THE MINERS – Megunticook

di Paolo Baiotti

13 novembre 2022

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THE MINERS
MEGUNTICOOK
Match-Up Zone 2021

Attivi dal primo decennio del nuovo millennio nell’area di Philadelphia, i Miners si sono evoluti da quando ne ha preso le redini Keith Marlowe, diventando voce solista, chitarrista, produttore e principale se non unico compositore. Nel 2012 hanno pubblicato il mini album Rebellion; da allora la formazione è cambiata con l’inserimento di Brian Herder (pedal steel, dobro, slide), Gregg Kiestand (basso) e Vaughn Shinkus (batteria), insieme da cinque anni, aiutati in studio da Bob Lowery ai cori e all’armonica e da Joe Kille al violino. Sono passati nove anni prima della pubblicazione dell’esordio su lunga durata, con una modifica del suono verso un alternative country che in alcuni momenti ricorda band come Son Volt, Whiskeytown e Jayhawks, mentre in altri è più fedele alle radici country, mantenendo sempre una notevole scorrevolezza e un apprezzabile gusto per la melodia. Il disco raccoglie tracce scritte nell’ultimo decennio con dei testi personali ed emozionali, mentre nel suono spicca la pedal steel eccellente di Herder. Il titolo si riferisce ad un lago nel Maine caro alla famiglia di Marlowe e l’album è stato pubblicato anche in vinile da 180 grammi dalla label personale del leader.
Si passa dall’elettroacustica ballata roots-country Without You al rock di Call Me Up, dall’up-tempo country di Walnut Lane all’alternative country fluido di Leaving For Ohio con un riff alla Son Volt, dalla melodica Natalie (scritta nel ricordo della nonna di Keith morta per demenza senile) con una pedal steel da applausi a Black Bart che ricorda il suono californiano dei seventies, dalla byrdsiana Apologize al mid-tempo melodico The Day The Drummer Died (in cui viene ricordato un amico batterista morto a sedici anni in un incidente d’auto) con un mix di armonica, chitarra e banjo senza una attimo di noia, per chiudere con la tradizionale Cardboard Sign, un country/folk in cui si intrecciano violino, contrabbasso, banjo e mandolino,

Paolo Baiotti

MOLLY TUTTLE & THE GOLDEN HIGHWAY – Crooked Tree

di Paolo Crazy Carnevale

1 novembre 2022

Molly Tuttle - Crooked Tree (1)

Molly Tuttle & The Golden Highway – Crooked Tree (Nonesuch 2022)

Che bel disco! E dire che quando era uscito il suo predecessore, un album di cover realizzato in solitaria in piena era covid, avevo storto la bocca, non riuscendo a capire che utilità avesse al di là del mantenere alto l’interesse nei confronti di un’artista che aveva appena debuttato e che aveva già riscosso consensi abbondanti.

Non esito a definire Crooked Tree una delle cose migliori ascoltate negli ultimi anni, e non solo in ambito di musica acustica, perché si tratta di un signor disco a tutto tondo, al di là degli ospiti che vi appaiono, tutti per altro in modo mai invadente, lasciando alla titolare buona parte della gloria: non per nulla è stata la prima donna a vincere il premio come miglior chitarrista assegnato dall’international Bluegrass Music Association.

Per comporre le canzoni di questo album, la Tuttle – cantante e chitarrista eccezionale – si è fatta aiutare da Ketch Secor degli Old Crow Medicine Show e da Melody Walker, mentre per la parte artistica ha prodotto lei stessa il disco in tandem con il grande Jerry Douglass, presente in buona parte delle tracce col suo dobro.

Il risultato è un LP pieno di suoni acustici bellissimi, con ben tredici canzoni nuove di zecca che traboccano freschezza: non è propriamente bluegrass, e non è country in senso stretto, anche se la base è quella.

La Tuttle è californiana, fin da piccola ha respirato l’aria degli ambienti freak del Golden State e la cosa si sente, in particolar modo in alcuni testi, si è fatta poi le ossa a Boston ed ora ha naturalmente stabilito il quartier generale a Nashville, dove ci sono i musicisti giusti per la sua musica.

Voci brillanti, break strumentali mai sbavati o esagerati, tutti i bravi strumentisti a disposizione non esagerano negli interventi lasciando alla chitarra acustica di Molly la giusta visibilità che spetta di diritto a una stella di prima grandezza.
È già festa col primo brano del disco, She’ll Change, e con la seguente Flatland Girl (con la seconda voce della prezzemolina Margo Price) emerge già tutta la capacità della Tuttle nel saper raccontare delle storie, la struttura musicale è impeccabile e il brano è già tra le cose migliori del disco.

In Dooley’s Farm c’è Billy String con la sua acustica, la struttura è differente, quasi la Tuttle avesse voluto mettere insieme una struttura musicale adatta all’ospite e al suo stile jam, e la cosa riesce appieno, Strings è un protagonista assoluto del panorama bluegrass jam attuale, i suoi concerti in rete sono da urlo, peccato non abbia ancora trovato il giusto equilibrio nelle sue pochissime produzioni in studio. Big Backyard è un bel brano in cui la Tuttle dimostra tutta la sua apertura mentale, il suo essere cosmopolita, ad accompagnarla qui ci sono gli Old Crow Medicine Show al completo con i violini in evidenza ovviamente. La title track è un altro brano di grande effetto, con un bell’attacco strumentale, la seguente Castilleja è una bellissima composizione d’ispirazione western, un’altra storia cantata con intensità e suonata al top.

Chiude la prima parte del disco The River Knows, lunga composizione dalla struttura strumentale più essenziale, vagamente folkie, ricorda la classica Little Sadie.

Attacco decisamente bluegrass per Over The Line, c’è sempre il violino in evidenza, ma l’ospite d’onore è il mandolino di Sierra Hull che si divide i break più belli con l’acustica di Molly, un autentico tripudio che eleva ulteriormente il livello qualitativo di un disco che tra un ascolto e l’altro cresce spropositatamente. L’atmosfera festosa si mantiene alta con Nashville Mess Around, con tanto di yodel e un passaggio di chitarra da strapparsi i capelli.

San Francisco Blues è un lento valzer più che un blues, un omaggio alla città d’elezione di Molly, non il suo luogo di nascita ma il centro culturale di riferimento a lei più vicino: c’è Dan Tyminski a cantare con lei in sottofondo, Dominick Leslie suona un delicato mandolino mentre Molly ricorda nel testo la summer of love, i forty-niners e tutto quanto faccia pensare alla città della Bay Area.

Il brio torna con Goodbye Girl sembra fare riferimento al passato della titolare, al suo trasferimento dalla West Coast a Boston, belle armonie vocali e break brevi ma efficaci per mandolino, banjo, dobro e, ovviamente, per l’acustica.

Side Saddle è la storia di una cowgirl che vuole una sella come quelle dei maschi, non la classica sella da signore di una volta, una cowgirl che vuole cavalcare a gambe arcuate, per così dire, guidando lei il cavallo e non facendosi semplicemente trasportare: la gran parte di dobro per il coproduttore e la voce di Gillian Welch nei ritornelli definiscono splendidamente un brano il cui testo va letto tra le righe.

Il disco si chiude con i delicati ricordi di Grass Valley, altra canzone in cui i ricordi dell’infanzia californiana di Molly emergono prepotentemente, una California freakettona, dalle tonalità tie-dye, deadhead – anche se anagraficamente Molly non può aver ricordi personali diretti dei Grateful Dead, il riferimento del brano è abbastanza evidente – un viaggio col padre per andare ad un raduno musicale pieno di hippies.

Inutile dire che quando il disco finisce prevale la tentazione di ricominciare ad ascoltarlo da capo.

Paolo Crazy Carnevale

BUDDY GUY – The Blues Don’t Lie

di Paolo Baiotti

1 novembre 2022

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BUDDY GUY
THE BLUES DON’T LIE
Silvertone 2022

A 86 anni compiuti Buddy Guy, forse l’ultimo esponente del periodo d’oro del blues elettrico di Chicago, continua a pubblicare con una certa regolarità e, soprattutto, con una notevole qualità. Lo superano per età John Mayall (88 anni) e Willie Nelson (89 anni), gli altri due grandi vecchi del blues e del country che non ne vogliono sapere di passare gli ultimi anni della loro vita lontani dagli studi di registrazione.
Tornando a Buddy questo dovrebbe essere il suo 19° disco in studio di una carriera solista avviata negli anni sessanta, ma che ha preso vigore da quando ha firmato per la Silvertone nei primi anni novanta. Se è vero che in concerto da un po’ di tempo tende a gigioneggiare alternando momenti esaltanti ad altri di routine, in studio non ha mai deluso, soprattutto da quando nel 2008 in Skin Deep si è unito al produttore e batterista Tom Hambridge (Susan Tedeschi, George Thorogood, James Cotton, Devon Allman, Kingfish Ingram) che lo ha affiancato anche nella scrittura riuscendo a tirare fuori dalla sua voce, ancora potente ed espressiva e dalla sua chitarra quanto di meglio il blues contemporaneo possa offrire.
Come nei precedenti album in studio Buddy si circonda di amici di prestigio che affiancano l’impeccabile band che lo accompagna formata da Michael Rhodes e Glenn Worf al basso, Rob McNelley alla seconda chitarra, Reese Wynans alle tastiere, Kevin McKendree al piano e Hambridge alla batteria, ma per la riuscita del disco nessuno è indispensabile quanto la voce e la chitarra del grande bluesman della Louisiana.
La ritmata I Let The Guitar Do The Talking e il mid-tempo The Blues Don’t Lie aprono le danze con l’apporto corroborante di una sezione fiati, ma il disco sale veramente di tono con l’esemplare slow The World Needs Love in cui l’aspra e distorta chitarra è affiancata dal piano. E cosa si può dire del gospel-blues We Go Back in cui Buddy duetta con Mavis Staples ricordando nel testo il blues degli anni sessanta? Una vera goduria per le orecchie! Non convince la robusta e pompata Symptons Of Love con Elvis Costello ai cori, ma l’elettroacustica Follow The Money riprende il cammino con sicurezza, con l’inserimento della seconda voce di James Taylor. Nulla da dire anche sull’energico funky-blues Well Enough Alone e sulla saltellante What’s Wrong With That con l’armonica e la voce di Bobby Rush, altro vispo bluesman coetaneo di Guy e neppure sulla ballata dalle tonalità gospel Gunsmoke Blues in cui si distinguono la voce calda di Jason Isbell e la chitarra sofferta di Buddy. Il livello non scende neppure con la vigorosa House Party, duetto con la cantante country/jazz Wendy Moten e con lo slow Sweet Thing di B.B. King che avrebbe meritato un assolo più sviluppato. Il rock-blues Backdoor Scratching è ravvivato (e salvato) da un’elettrica potente, mentre la cover bluesata della beatlesiana I’ve Got A Feeling fa la sua figura, anche se queste due tracce mi sembrano le meno significative del disco che si chiude con tre brani di notevole qualità: il lento Rabbit Blood con il rilevante piano di McKendree che affianca la voce di Buddy prima del vibrante assolo, la swingata Last Call e una preziosa versione acustica di King Bee eseguita in solitaria.

Paolo Baiotti