Archivio di settembre 2014

Bass Culture

di Marco Tagliabue

19 settembre 2014

LINTON KWESI JOHNSON
Bass Culture
Island 1980

Chi lo sa? Forse l’omino stilizzato che scende le scale in copertina, destinato a diventare un’icona del reggae militante in tutto il mondo, è proprio lui. Il poeta, l’intellettuale, il sociologo che punta verso il basso, che non teme di gettarsi nell’arena dei suburb londinesi, i ghetti moderni dove poveri e immigrati sono le prime vittime del neo conservatorismo thatcheriano; che non rinnega la stessa strada, la stessa polvere che tiene ben salde le proprie radici in un altro continente. Nato in Giamaica nel 1952 e trasferitosi a Londra alla tenera età di 11 anni, Linton Kwesi Jonhson plasma la propria coscienza sociale nella giungla urbana lungo le rive del Tamigi: laureato, militante nell’organizzazione “Race Today”, opinionista per la BBC che non esita ad affidargli documentari su scottanti temi sociali, rende popolare in tutto il mondo la cosiddetta dub-poetry, ovvero l’arte di declamare versi su basi dub e ritmi in levare. La cultura del basso viene dal basso e punta verso il basso: verso le tasche –sempre più vuote- di immigrati e sottoproletari, verso i loro alloggi umidi e disadorni, verso quei quartieri fatiscenti che sono le caserme dell’esercito dei diseredati. E’ la voce della Giamaica, quel battito nero in levare che ha già attraversato la white music portando un contributo fondamentale anche alla cultura ed al suono punk. Le otto perle che inanellano questa meraviglia, filastrocche giocose che s’innestano su basi reggae/dub sovente ridotte all’osso, declamate da una voce calda e avvolgente come il sole dei tropici, saranno una droga di cui non potrete più fare a meno. Il reggae si contamina con il dub, amplifica i bassi, scopre echi e riverberi, nasconde qualche piccola manipolazione elettronica in un lungo, libero fluire che culla, ammalia e ipnotizza. La presa di coscienza di Bass Culture, l’amore impossibile di Lorraine, la bandiera strappata di Inglan Is A Bitch: i manifesti di un manifesto che fatica a staccarsi dalla pelle.

da LFTS n.82

The Blue Moods Of Spain

di Marco Tagliabue

12 settembre 2014

SPAIN
The Blue Moods Of Spain
Restless 1995

E’ un disco completamente fuori del tempo The Blue Moods Of Spain. Lo dice l’artwork di copertina, che nei colori, nel soggetto, nella grafica omaggia in maniera fin troppo esplicita certe pubblicazioni cool jazz degli anni cinquanta. Lo dice il titolo che, con disarmante semplicità, presenta al mondo l’universo interiore degli Spain senza far mistero degli umori che racchiude. Che cataloga quel suono come il suono degli Spain e di nessun altro, come se non fossero già passati trent’anni durante i quali il rock ha espresso tutto, o quasi, il suo non infinito potenziale. Eppure, dobbiamo dargliene atto, in un’epoca durante la quale il rock prendeva derive più o meno strane, ma in prevalenza piuttosto rumorose, nulla suonava come questo disco. A parte il silenzio, naturalmente.

E’ un album maledettamente notturno The Blue Moods Of Spain, un’ottima camera di decompressione dopo una serata, o una giornata, sopra le righe: dopo un concerto sparato senza pietà da vecchi Marshall impazziti, dopo una corsa in macchina oltre i limiti del buon senso, dopo qualche eccesso alcolico o amoroso. E’ un disco lento, tremendamente lento The Blue Moods Of Spain, ma non sonnacchioso; un disco malinconico e riflessivo, ma non depresso; un disco umorale, e non dell’umore migliore, ma mai stucchevole; atmosferico ma non umbratile.

Figlio d’arte, il padre è il celebre jazzista Charlie Haden, Josh, titolare del progetto Spain, sposa la causa di un rock più o meno alternativo che dal jazz mutua la precisione di una sezione ritmica placida e solerte, la cassa di risonanza di arrangiamenti ampi e ariosi. Peccato per una voce, la sua, sottile e vagamente rauca, forse non completamente in grado esaltare il grande potenziale espressivo di queste canzoni, ma, credeteci, in fondo è solo un dettaglio. E non il più importante.

Per qualcuno, potrebbe anche essere un disco nobilmente tedioso The Blue Moods Of Spain, per quel lungo viaggio interiore di sessanta minuti senza scossoni o particolari cambi di atmosfera, senza esplosioni ritmiche, assoli fragorosi o impennate vocali. E’ vero, è una musica che non va mai sopra le righe quella di The Blue Moods Of Spain, una catalessi che va affrontata con un preciso stato mentale: se non siete capaci di stare al cospetto di un panorama mozzafiato senza venire assaliti da una tempesta emotiva, se avete paura di affrontare il silenzio temendo di non riuscire a coglierne le infinite sfumature, forse questo disco non fa per voi. Forse. Ma non è mai nemmeno lontanamente monotono The Blue Moods Of Spain, anche se le sue canzoni, pur rimescolando con cura i medesimi ingredienti variandone le proporzioni, pur aggiungendo di tanto in tanto qualche tocco di spezie a conferire quel pizzico di gusto in più che non altera il sapore, procedono invariabilmente nella stessa direzione.

Le corde del basso pizzicate in un giro semplice e ripetitivo, le chitarre a tessere qualche fragile ragnatela, le percussioni timide e mai invadenti, la voce che scava una melodia fragile e magnetica. Molto poco in apparenza, ma non c’è bisogno d’altro per stabilire un equilibrio magico con chi sta dall’altra parte degli altoparlanti, improvvisamente trasportato in una dimensione parallela dalla quale la realtà fuggente di tutti i giorni appare lontana, dietro un vetro, come un brutto spettacolo in televisione, e le ansie, le frenesie, si placano come lo scorrere del tempo. Il tempo, che tutto d’un tratto comincia a rivelarsi prezioso nel susseguirsi di ogni secondo, a rivelare che ogni secondo si può tradurre in emozioni, sensazioni, gioie e paure che valgono la pena di essere vissute, soppesate, bilanciate. Il tempo riacquista la sua dimensione reale, si riappropria del suo valore assoluto in un contesto in cui anche le pause, i silenzi assumono una connotazione diversa e diventano tessere dello stesso gioco.

La voce di Haden, lo abbiamo detto, non possiede doti particolari, ma si abbina in fondo alla perfezione al mood dell’album, intimista, malinconico, dimesso, ma non scevro di una vitalità latente. E’ una voce che accarezza, che avvolge, che riscalda senza cercare di andare oltre i propri limiti, che si fa forte della sua fragilità fondendosi perfettamente con gli strumenti, in uno scambio continuo di energia e passione. Se spiritualità è un termine che non vi fa paura, e che non ritenete fuori moda, fra questi solchi ne troverete a vagonate e magari della specie più genuina, con buona pace degli uomini vestiti in nero e di quello vestito in bianco.

da LFTS n.92