Archivio di maggio 2012

Rock & Pop, le recensioni di LFTS/16

di admin

24 maggio 2012

Copernicus-LiveInPrague-L COPERNICUS – Live in Prague DVD (Nevermore 2011)

Nel 1989, qualche mese prima del crollo  del muro di Berlino, il poeta/performer  Copernicus intraprese un tour europeo  che lo portò a toccare alcune città di quei  paesi che all’epoca erano comunemente  definiti d’oltrecortina. Un tour di  successo con cui promuoveva il suo  recente disco Deeper, che grazie ad  un’adeguata radiodiffusione era stato  accolto molto positivamente in quei  paesi, che per quanto riguarda la data  nella capitale dell’allora Cecoslovacchia è  stato anche videofilmato e trasmesso in televisione. Il contenuto del Dvd Live In Prague, pubblicato lo scorso autunno dalla Nevermore con distribuzione Moonjune, ci riconsegna, del tutto intatta l’atmosfera di quella serata. Chi ha avuto modo di visitare i paesi dell’est nei primi tempi dopo la caduta del muro, ritroverà certe atmosfere in queste riprese. Copernicus è accompagnato qui da un quartetto di musicisti comprendente il fido Larry Lirwan, che oltre a suonare tastiere e chitarra, si occupa di alcune parti vocali più cantate, rispetto a quelle recitate da Copernicus. L’atmosfera è la stessa cupa e pessimista che domina anche nelle produzioni discografiche del performer, che nel corso dell’esibizione non disdegna di cambiare d’abito per calarsi meglio nei testi delle sue composizioni, tanto che in Son Of A Bitch From The North lo ritroviamo con un sombrero calato in testa, quasi fosse un campesino guatemalteco come quello di cui il testo parla. In Chichen-Itza Elvis, invece, è Kirwan che sfodera un riff che ricorda alla lontana Not Fade Away, usando la musica al posto del travestimento. I brani conclusivi, Nagasaki e Blood, provenienti dal disco d’esordio di Copernicus, si confermano come composizioni di grande effetto, rafforzato in questo caso dalle immagini provenienti da diverse riprese della serata montate – come tutto il Dvd – in una duplice inquadratura, quella ripresa e trasmessa dalla tivù praghese e quella di Corbett Santana.

Paolo Crazy Carnevale

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DANIELE RONDA  & FOLKLUBDa parte in folk (2011)

Anche se il nome di Daniele Ronda, cantautore piacentino, classe 1983, può suonarvi del tutto sconosciuto, le sue canzoni sono finite nei dischi di alcuni noti personaggi del panorama musicale leggero italiano, da Mietta a Nek, a Massimo Di Cataldo, e prima di questo debutto in chiave folk rock, Ronda aveva al proprio attivo un altro disco solista. Il cambiamento di rotta, la virata verso una sorta di combat folk energico ed ispirato, più in senso musicale che per quanto riguarda i testi, sembra aver fatto bene a Ronda che pur pagando dazio a molta musica italiana riesce ad inanellare una serie di canzoni ben eseguite e sorrette da una strumentazione scarna ed efficace in cui la fisarmonica fa la sua bella parte, senza mai sovrabbondare eccessivamente. Il disco si apre con una canzone in dialetto, La nev e ‘l sul, che non può non farci pensare a i primi Modena City Ramblers o a Van De Sfroos, che guarda caso è ospite in Tre Corsari, una delle canzoni portanti del disco, cantata però in italiano. Altro ospite d’eccezione è Danilo Sacco dei Nomadi, che canta in un intenso brano ispirato alla tragedia di Cernobyl. E la musica dei Nomadi ha sicuramente la sua buona dose di responsabilità nell’ispirazione di Ronda, così come certe cose dei Gang, ma anche –complici la voce e il modo di cantare di Ronda – Ruggeri (ascoltate Polvere e sabbia o la bella Ogni passo per rendervene conto) o il Battiato anni ottanta (l’inizio di Cenerentola, altro brano chiave del disco). Il disco nel complesso è piacevole e tra le note positive vi è anche una produzione abbastanza felice che contribuisce a caratterizzarne il suono.

Paolo Crazy Carnevale

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ED LAURIE – Cathedral (V2  2011)

Una delle belle sorprese di  inizio anno. Devo ammettere che l’occhio, o  meglio l’orecchio, su questo  disco mi è caduto in virtù  del fatto che ho notato i  nomi di alcuni miei  concittadini tra i musicisti  che accompagnano questo  songwriter scozzese, giunto  ormai alla terza prova e  spinto ora da una casa discografica di un certo rilievo come la V2. Cathedral è un bel disco di una quarantina di minuti, come si usava una volta, con dieci tracce mediamente caratterizzate da una buona ispirazione. Si tratta di un disco che entra in circolo mano a mano che lo si ascolta, ben costruito, ben suonato, composto con mano felice ed arrangiato altrettanto felicemente. Nelle recensioni apparse qua e là sono stati fatti paragoni con i Buckley, con Fred Neil e Nick Drake, ma la verità è che Ed Laurie brilla sufficientemente di luce propria senza dover scomodare grossi paragoni, piuttosto, da indiscrezioni ottenute parlando con i musicisti coinvolti si scopre che se mai l’intenzione era di partire da un’idea alla Astral Weeks. Tutta un’altra cosa insomma. E le intenzioni  trovano conferma in brani come Side Of A Candle e la conclusiva title track, una lunga composizione in cui fanno capolino anche le campane del duomo di Bolzano – perché il disco è stato inciso proprio nella mia città – entrate proditoriamente nei microfoni. Il suono gira attorno ad una base di basso, batteria e chitarra su cui si inseriscono sax e violino, un vibrafono, con l’aggiunta in seconda battuta di una scarna sezione d’archi e di  una slide. Ma la colla di tutto è la voce di Laurie caratterizzata da una certa originalità e da un lirismo tutto suo.  Tra i brani migliori, oltre ai due già citati è bene ricordare le iniziali High Above Heartache, East Wind – particolarmente ispirata – e Spirit Of The Stairway. Meno riuscita Across the Border, caratterizzata da suoni troppo stridenti che mal si mescolano col resto di questo interessante disco.

Paolo Crazy Carnevale

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JONATHAN WILSON – Gentle Spirit (Bella Union 2011)

Uno dei dischi migliori tra quelli usciti lo scorso anno. Lo sto ascoltando da mesi a più riprese e di volta in volta mi sento sempre più coinvolto dall’ascolto. Ci sono brani che mi hanno impressionato da subito, ma col passare del tempo mi sembrano più familiari anche gli altri… Jonathan Wilson, a dispetto del cognome, non è uno dei Beach Boys, non è californiano, ma da anni si è trasferito sulla West Coast e per la precisone a Los Angeles, in quel Laurel Canyon che alla fine degli anni sessanta è stato un ricettacolo di artisti di levatura bestiale. Sarà l’aria, saranno i tramonti che si vedono guardando verso il mare, non lo so, ma questo lungo disco di Jonathan Wilson, offre una serie di mappe sonore degne degli illustri colleghi che hanno abitato il canyon molto prima di lui.  Tredici tracce in tutto, alcune molto lunghe ed elaborate, suoni ricercatissimi che vanno a rispolverare un periodo della musica californiana che è difficile dimenticare. Forse la voce di Wilson non è memorabile come quella di David Crosby, non ha le inflessioni nasali di Neil Young o quelle gutturali di Garcia, ma è proprio da quelle parti che il cerchio va a quadrare, perché queste sembrano le influenze principali di questo disco, ci sono le atmosfere rarefatte, le ballate zuccherose, ci sono chitarre acide (Desert Raven e la title track) abilmente mescolate con acustiche delicate (Magic Everywhere e The Way I Feel), ci sono gli assoli distorti trionfali (Valley Of The Silver Moon, autentico inno conclusivo del disco) e ci sono echi di musica cosmica alla Aoxomoxoa.  Il tutto senza che il disco perda un grammo in originalità e credibilità, perché per tessere questo capolavoro Jonathan Wilson si è fatto accompagnare da fior di amici, più o meno noti, il più conosciuto è Chris Robinson, ottenendo i giusti suoni e il le giuste atmosfere, registrando praticamente in casa.  Difetti? Certo, uno davvero grande: l’edizione europea in cd in mio possesso ha note di copertina a stento leggibili, anche con la lente d’ingrandimento. Per fortuna esiste anche in vinile, doppio, naturalmente, vista la durata, ma non so dirvi se ci siano note più esaurienti su chi suoni, cosa suoni e dove suoni. Ma è tutto secondario, la musica è quel che conta: qui ce n’è molta ed è molto buona.

Paolo Crazy Carnevale

moraine

MORAINE – Metamorphic  Rock (Moonjune 2011)

Tra gli artisti in forza  alla  casa indipendente  Moonjune, con sede a New  York, il chitarrista Dennis  Rea è senza dubbio uno dei  più prolifici ed eclettici.    Negli ultimi tre anni è stato  protagonista di altrettanti dischi con altrettante formazioni, esplorando territori jazz rock (in particolare con il quintetto Iron Kim Style), etnici, art rock con la formazione dei Moraine. Questo quarto disco, inciso proprio con i Moraine, è un po’ il sunto di tanto lavoro e la coronazione di tanti progetti con  un bel live registrato a Bethlehem, Pennsylvania, nel corso del North East Art Rock Festival del 2010. La dimensione live si addice molto bene alla musica prodotta da Dennis Rea, che assecondato da un gruppo di musicisti preparati, su tutti la violinista Alicia De Joie (già Alicia Allen, ora sposa del sassofonista del gruppo James DeJoie) offre una performance di altissimo livello.  Il repertorio del live del gruppo di Seattle va a pescare soprattutto in Manifest Density, il disco di studio del 2009, riproponendo una lunga versione di Middlebräu, un medley tra Disillusioned Avatar e Ephebus Amoebus, e ancora Kuru e Uncle Tang’s Cabinet of Dr. Caligari, ma ci s sono anche brani nuovi come Okanogan Lobe e Blues For A Bruised Planet. A impreziosire il disco, il cui missaggio è opera di Steve Fisk (Nirvana, Soundgarden), c’è poi la bella ripresa di un medley che va rispolverare le incursioni di Rea nella musica orientale del suo disco solo: Views Fron Chicheng Precipice, uscito nel 2010.

Paolo Crazy Carnevale

pura fè

PURA FÈ – Tuscarora Nation Blues (Dixie Frog 2006)

Mi sono imbattuto in questo prezioso cd sull’onda della mappa di Late For The Sky cartaceo dedicata agli indiani d’America. Purtroppo l’ho scoperto solo dopo la pubblicazione di quello speciale uscito la scorsa primavera, altrimenti sarebbe entrato di diritto tra i dischi consigliati in quella sede. Cerco di rimediare ora.  Ai più attenti consumatori di note di copertina, il nome di Pura Fè non dovrebbe risultare del tutto ignoto, trattandosi di un’artista che oltre ad aver partecipato a dischi delle Indigo Girls, è anche una delle componenti del trio vocale Ulali, presente tra l’altro nel Red Road Ensemble di Robbie Robertson.  Pura Fè ha origini irochesi della nazione Tuscarora, portoricane e corse ed è titolare di una carriera discografica di tutto rispetto. In questo disco, ribadisco prezioso, fonde con capacità e gran gusto le proprie radici native col blues più tradizionale, realizzando un connubio riuscitissimo che ha dell’incredibile. Tuscarora Nation Blues si compone di tredici tracce per lo più acustiche quasi tutte a firma della protagonista che oltre a sfoderare una voce piena di pathos e molto duttile, suona la slide con sapienza e in qualche frangente anche il piano. Prima di questa edizione europea il disco era uscito negli States col titolo di Follow Your Heart’s Desire, con un paio di brani in meno.  Pochi musicisti la accompagnano in questo blues nativo, un basso, percussioni qua e là, qualche chitarra aggiunta e canti pellerossa ad opera dei Deer Clan Singers che si innestano miracolosamente su trame blues che profumano di altri tempi.  Importante nella riuscita del lavoro è senza dubbio la produzione sobria e calibrata di Tim Duffy e Sol.  Delle tredici tracce non ce n’è una brutta, cosa da non sottovalutare, ma citarle tutte sarebbe dispersivo. Personalmente mi piacciono parecchio You Still Take in cui il coro nativo si infila nel finale di un brano tutto slide, Sweet Willie, forse dedicata a Willie Lowery che accompagna Pura Fè alla chitarra e al canto in tutto il disco. Going Home sembra in qualche modo imparentata col Ry Cooder degli anni settanta, mentre Follow Your Heart’s Desire, forse la perla del disco, è una ballata in cui il piano s’intreccia con una chitarra elettrica acida che ci riconduce ad atmosfere westcoastiane come nella west coast non se ne producono da troppi anni, con armonie vocali che sembrano figlie di David Crosby e Joni Mitchell. Forse non è un caso che la traccia successiva, una delle due cover (ma l’altra è un brano di Willie Lowery) del disco, sia una rilettura di Find The Cost Of Freedom introdotta da un testo originale e terminata in francese.  Credetemi non esagero nel dire che questo disco è una delle produzioni più belle che mi sia capitato di ascoltare negli ultimi anni, se pur con cinque anni di ritardo sulla sua pubblicazione.

Paolo Crazy Carnevale

Robyn

ROBYN LUDWIK – Out Of  These Blues (Late Show  Records 2011)

Un disco così non poteva  sfuggire all’attenzione di  “Late For The Sky”, non  fosse altro per la bella  copertina  che ricalca a  partire dalle tonalità della  foto per finire con la grafica del titolo, quelle del capolavoro di Jackson Browne da cui la nostra rivista ed il nostro sito prendono il nome.  Premesso che il contenuto del disco poco ha a che fare col cantautore californiano (ma nativo di Heidelberg in Germania!) e che la citazione si limita all’artwork del disco, ascoltando questo prodotto la prima cosa che balza all’orecchio è che si tratta davvero di un buon disco. Buono come se ne producono molti, ma titolare di un suono originale o quanto meno ben prodotto. Robyn Ludwick appartiene chiaramente alla schiera dei songwriters texani, lo si evince subito dal modo di comporre e di cantare, e penso ai texani delle ultime generazioni, non a Willie Nelson e soci.  Nelle sue canzoni ci sono sicuramente le influenze di Lucinda Williams e Steve Earle, ma qua e là emergono anche radici più nere, messe in particolare luce dall’ottimo accompagnamento a base di organo Hammond del sempre grande Ian MacLagan, che si alterna alle tastiere con Gurf Morlix (responsabile come sempre anche di altri strumenti).  Chitarre sobrie, voce decisa, sezione ritmica scarna e precisa, queste le caratteristiche del disco che ha dalla sua anche la presenza di un violino suonato da Gene Elders che  in alcune situazioni fa tornare in mente (e non poco) quello di David Lindley per i dischi di Jackson Browne. Forse perché questa dotata cantautrice texana pare aver imparato bene la lezione dei songwriter della west coast mescolandola perfettamente con quella dei suoi conterranei. Ecco perché i certi momenti l’ascolto della title track e di Hillbilly ci fanno venire in mente certe produzioni di casa Asylum e For You Baby e Woman Now hanno un richiamo, la prima in particolare all’inizio, con lo stile del Neil Young dei primi settanta.  Le dodici tracce del disco scorrono con una piacevolezza unica, forse con l’eccezione della campagnola Can’t Go Back che si discosta stilisticamente dal resto, e piace un po’ meno.  Tra i brani forti si segnalano Fight Song, lenta e cadenzata, l’iniziale Hollywood che fa subito capire di che pasta siano fatti autrice e disco, Steady col B-3 che entra subito sotto la pelle fin dall’attacco.  Questo è solo il terzo disco della Ludwick, ma tutto fa supporre che ce ne dovremo aspettare altri, e di buon livello.

Paolo Crazy Carnevale

The Sound Of Silence

di Marco Tagliabue

24 maggio 2012

E’ un disco completamente fuori del tempo The Blue Moods Of Spain. Lo dice l’artwork di copertina, che nei colori, nel soggetto, nella grafica omaggia in maniera fin troppo esplicita certe pubblicazioni cool jazz degli anni cinquanta. Lo dice il titolo che, con disarmante semplicità, presenta al mondo l’universo interiore degli Spain senza far mistero degli umori che racchiude. Che cataloga quel suono come il suono degli Spain e di nessun altro, come se non fossero già passati trent’anni durante i quali il rock ha espresso tutto, o quasi, il suo non infinito potenziale. Eppure, dobbiamo dargliene atto, in un’epoca durante la quale il rock prendeva derive più o meno strane, ma in prevalenza piuttosto rumorose, nulla suonava come questo disco. A parte il silenzio, naturalmente.

Rock & Pop, le recensioni di LFTS/15

di admin

11 maggio 2012

Maddock Live

JAMES MADDOCK

Live At Rockwood Music Hall (Casa Del Fuego 2010)

Wake Up And Dream (Casa Del Fuego 2011)

 

 Il nome di James Maddock ha iniziato a circolare alla fine degli anni novanta. Nato a Leicester e ancora domiciliato in Gran Bretagna, incise un album con i Wood, Songs From The Stamford Hill, pubblicato dalla Columbia. Le recensioni furono molto positive, ma durante la preparazione del secondo disco la band si sciolse. Nel 2003 James si è trasferito a New York dove risiede tuttora ed ha ripreso a comporre, attendendo una nuova occasione che gli è stata offerta sette anni dopo dalla Ascend. Così è stato pubblicato il suo primo album da solista, Sunrise On Avenue C, seguito a pochi mesi di distanza da un disco dal vivo e da Wake Up And Dream, entrambi oggetto di questa recensione. La possibilità di scegliere tra le numerosi canzoni composte negli ultimi anni ha reso Sunrise ed il successivo Live (comprendente ben 9 brani del disco in studio) due album di ottima qualità con materiale di prima scelta, che hanno consentito a Maddock di ottenere buoni riscontri critici e di girare soprattutto in Europa, compresa l’avventura dello springsteeniano Light Of Day Tour. James ha una voce caratteristica, un po’ roca e ben modulata, con tracce di un giovane Tom Waits, di Rod Stewart e Frankie Miller (con qualche dose di whiskey in meno), di Springsteen e Ian Hunter, mentre gli arrangiamenti sono indiscutibilmente debitori di Van Morrison e del Boss (come riconosce lo stesso artista). Dal vivo il suono è più liquido e rilassato, con fluide code strumentali, mentre in studio è privilegiato un formato più compatto e radiofonico con venature pop (se le radio fossero più coraggiose e non trasmettessero solo i soliti noti o i pompati dalle majors Maddock potrebbe vendere parecchio, come anni fa succedeva a Seger, Petty o Mellencamp…ma questa è un’altra storia). Vanno riconosciuti i giusti meriti all’eccellente band comprendente il funambolico pianista Oli Rockberger, il chitarrista John Shannon, il batterista Aaron Comess ed il bassista Drew Mortali, ai quali spesso si aggiunge l’ottimo mandolinista David Immergluck dei Counting Crows. Live At Rockwood Music Hall, registrato nel locale newyorkese, è un live brillante, alternando brani trascinanti a ballate sofferte e coinvolgenti. Tra le prime spiccano l’opener When The Sun’s Out e Chance ai confini tra rock e pop (non sfigurerebbero in un disco di Rod Stewart),  e le divertenti Prettier Girls e Dumbed Down (che chiude il disco), mentre l’inedita Straight Lines ha una melodia azzeccata, ma è un po’ leggerina. Le seconde meritano tutte una citazione, a partire da  Never Ending, unica ripresa dal disco dei Wood, una ballata nostalgica sull’adolescenza a Leicester che ricorda lo Ian Hunter più ispirato, per proseguire con la sofferta Stars Align debitrice di Van Morrison nella parte strumentale guidata da chitarra acustica e piano, Sunrise On Avenue C (ennesimo brano su New York), concludendo con la splendida Fragile, nella quale piano e chitarra (acustica ed elettrica) forniscono un tappeto perfetto per la voce melanconica di Maddock. Ma anche il mid-tempo Hollow Love, introdotto dalla chitarra acustica ed arrangiato con sapienza, fa la sua figura. Riguardo a Wake Up And Dream è evidente la ricerca di un suono più vicino al pop, sempre di classe e ben arrangiato, ma un po’ leggero, privato delle aperture strumentali che contribuiscono in modo significativo alla qualità del live. E anche il materiale risente forse di un un periodo più breve ed intenso di scrittura, risultando meno ispirato. Un buon disco, ma inferiore al precedente, pur comprendendo alcune tracce significative come l’opener Beautiful Now, composta con Mike Scott dei Waterboys, la melodica Step Into The Water e la pianistica Stella’s Driving. Ma proseguendo nell’ascolto la prevalenza di mid-tempo piacevoli e poco più mi sembra prevalente: prese singolarmente le varie Living A Lie, Wake Up And Dream, Stoned On You o Love Is The Flower sono carine, una dopo l’altra un po’ ripetitive. L’ottima ballata elettroacustica Keep Your Dream guidata da piano e mandolino chiude un disco complessivamente inferiore alle attese da parte di  un musicista che può sicuramente fare meglio.wake up

 Paolo Baiotti

 

 

 

 

 

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CESARE CARUGI

HERE’S TO THE ROAD

Roots Music 2011 

 

Da qualche anno non si può più dire che in Italia manchino validi musicisti ispirati dal suono roots americano dei grandi cantautori rock (Dylan, Young, Springsteen, Petty, Seger, Prine, Van Zandt, Earle…). Mi riferisco a gruppi come Cheap Wine, Mandolin Brothers e Lowlands e solisti come Andrea Parodi, Massimilano Larocca, Lorenzo Bertocchini, Evasio Muraro, Fabrizio Poggi e Daniele Tenca (pur essendo questi ultimi più vicini al blues). A questo gruppo sempre più numeroso si aggiunge Cesare Carugi, musicista di Cecina che, dopo il mini album Open 24 Hours (comprendente anche una cover di Open All Night di Springsteen) pubblica il suo primo disco solista. Se non conoscessi le sue origini avrei potuto considerare Here’s To The Road l’esordio di un cantautore dell’Illinois o del Minnesota. Aiutato principalmente da Lele Bianchi (batteria) e Leonardo Ceccanti (chitarra), Cesare canta, suona chitarra, basso, armonica e dobro e produce il disco, oltre ad avere scritto le undici tracce, senza neppure una cover. Una prova di coraggio e di bravura notevole, visto il livello qualitativo dei brani. In particolare la prima parte del dischetto non ha punti deboli: l’opener Too Late To Leave Montgomery è un mid-tempo degno dei migliori cantautori americani con una melodia riconoscibile ed un arrangiamento nel quale spicca la pedal steel di Gianni Gori che avvolge la sicura interpretazione vocale di Carugi, London Rain ha un’immediatezza da singolo pop rock, Blue Dress è una ballata dall’incedere egualmente drammatico nella musica e nel testo, Goodbye Graceland un brano trascinante che mi ha ricordato i Clash di London Calling. Ancora meglio la parte centrale con una ballata romantica di livello notevole come Caroline con il violino prezioso di Fulvio A.T. Renzi e la seconda voce della cantautrice Giulia Millanta, seguita dalla pianistica Dakota Lights & The Man Who Shot John Lennon, nella quale Cesare è aiutato dalla caratteristica voce di Michael McDermott. Forse il prosieguo dell’album non ha la stessa fluidità, ma almeno la springsteeniana 32 Springs (con l’amico Riccardo Maffoni, altro nome emergente del panorama italico), l’incalzante Every Rain Comes To Wash It All Clean con la lap steel di Daniele Tenca e la conclusiva ballata acustica Cumberland sono degne di nota. Una buona qualità sonora ed un libretto degno di produzioni più ricche completano un esordio significativo e promettente. Il cd è reperibile sul sito www.cesarecarugi.com.

Paolo Baiotti

 

 

 

kenny brown

KENNY BROWN

CAN’T STAY LONG

Devil Down Records 2011

 

Cresciuto nel North Mississippi, Kenny ha imparato a suonare a dieci anni a Nesbit dal suo vicino Joe Callicott. Influenzato dai bluesman più conosciuti nella regione (Jr. Kimbrough, Fred McDowell, Muddy Waters) ha suonato per oltre vent’anni come secondo chitarrista con R.L. Burnside (specializzandosi alla slide), uno dei pochi chitarristi bianchi che poteva presentarsi senza problemi in un juke joint (come qualche anno dopo è successo a Luther Dickinson, suo grande amico e sostenitore), da esperto conoscitore ed esecutore dello stile downhome tipico di questi musicisti. Un blues essenziale, secco, rozzo, diretto, ipnotico, senza grandi variazioni strumentali, influenzato dal rock n’ roll e da una spruzzata di funky. Nel ‘96 ha pubblicato l’esordio solista Back To Mississippi, seguito sette anni dopo da Stingray per la Fat Possum e poi da Goin’ Back To Mississippi e da Meet Ya In The Bottom. Ed ora questo doppio diviso in un album elettrico (Money Maker) reigistrato dal vivo all’Hill Country Picnic e in uno acustico (Porch Song). Nel primo è accompagnato da una band tosta che comprende Terence Bishop al basso, John Bonds alla batteria e Mark Yakavone alle tastiere, oltre agli amici Luther Dickinson e Dywayne Burnside (figlio di R.L.Burnside) entrambi alla chitarra ritmica, nel secondo è da solo alla voce, chitarra acustica e lap steel. Brown convince in entrambe le situazioni: il disco elettrico comprende versioni trascinanti, piene di grinta e di calore di brani tipici del downhome blues di Burnside come Skinny Woman e Jumper On the Line, Alice Mae di Samuel Jackson e dei classici Shake Your Money Maker e Let’s Work Together (famosa la versione dei Canned Heat). La voce di Brown a tratti assomiglia a Johnny Winter (un po’ meno rauca) e si adatta perfettamente al materiale aspro ed ipnotico, mentre la sezione ritmica non perde un colpo e le chitarre imperversano senza particolare fantasia ma con grande solidità e concretezza. La sorpresa è il disco acustico nel quale Kenny dimostra di essere meno grezzo di quello che sembra, riuscendo a non annoiare pur nell’essenzialità degli arrangiamenti, a partire da una bella versione di Backdoor Man.di Willie Dixon (classico del repertorio di Howlin’ Wolf). La chitarra acustica e la slide (o la lap steel) si sovrappongono con efficace semplicità, basta ascoltare i deliziosi  tradizionali Jesus On the Mainline e Jesse James, la cover di World War I del suo mentore Joe Callicott, il folk blues di When You Got A Good Friend, il gospel Prodigal Son del Rev. Robert Wilkins o l’intimista versione di Baby Please Don’t Go con una lunga introduzione acustica. Skinny Woman è presente anche in versione acustica e precede l’ipnotica Shake’Em che chiude il dischetto. Un bluesman da seguire con attenzione che si conferma molto più di un semplice sideman.       

Paolo Baiotti   

 

 

 

benefit concert

AUTORI VARI

 

Warren Haynes Presents: The Benefit Concert Vol. 4

 

Evil Teen        2011

 

Nell’89 Warren Haynes, all’epoca chitarrista emergente appena entrato negli Allman Brothers, decide di organizzare un concerto nella città natale di Asheville in Carolina del Nord con scopi benefici. Il momento più facile per radunare musicisti locali è il periodo natalizio; la prima edizione si svolge alla Civic Center Arena con grande successo…da allora sono passati 22 anni ed altrettante edizioni della Christmas Jam, diventato un evento attesissimo con ospiti sempre più prestigiosi ed una coda di musicisti interessati a partecipare. Risolti i soliti problemi burocratici, Warren ha iniziato a pubblicare anche dei dischi, uno per anno a partire dal 1999, il volume 4 è del 2002 e c’è stato anche un dvd per il 2006 (il volume 8). I guadagni dei concerti, dei dischi e del merchandising vengono consegnati puntualmente ad Habitat For Humanity, organizzazione che si occupa dei senzatetto della regione. Questo doppio inciso il 21 dicembre del 2002 è uno dei migliori per varietà degli ospiti e qualità delle interpretazioni. Warren apre la serata con una rara versione acustica di Carolina In My Mind di James Taylor, seguito dal gruppo bluegrass locale Sons Of Ralph che si esibisce in 111, uno strumentale western nel quale spicca il mandolino del leader Don Lewis e nella cover di Nine Pound Hammer di Merle Travis con l’aggiunta della slide di Haynes. Jerry Joseph, ex leader dei Jackmormons, esegue The Kind Of Place ed un’intensa Climb To Safety dei Widespread Panic con Robert Randolph, Haynes, Dave Schools al basso e Matt Abts alla batteria. Proprio il formarsi di band estemporanee e lo scambio di partecipazioni è una delle caratteristiche di queste serate piene di sorprese. Robert Randolph, virtuoso della pedal steel, ha imparato a suonare in chiesa con il gospel, mischiando in seguito il suono sacro con funky e soul. Ha una gran voce ed alla chitarra è vulcanico, forse alla lunga un po’ ripetitivo, ma i due brani frenetici che esegue si ascoltano con piacere. Seguono i Moe., una delle migliori jamband americane, che aprono con un segmento di Dark Star dei Grateful Dead in medley con la loro Mexico, dimostrando qualità non comuni, riaffermate da Opium, un mid tempo rilassato jammato in scioltezza (con Haynes alla slide). Il secondo dischetto è veramente da antologia: inzia John Hiatt che all’epoca aveva riformato i Goners con Sonny Landreth alla chitarra ed era reduce dall’ottimo The Tiki Bar Is Open. La title track viene riproposta con il sax di Jon Smith, preceduta dalla bluesata Ride Along (tratta da Slow Turning) e seguita da una trascinante Memphis In The Meantime con Landreth e Haynes protagonisti alla chitarra. Bob Weir rappresenta la famiglia dei Grateful Dead, accompagnato da Warren alla solista, Dave Schools al basso (Widespread Panic), Rob Barraco alle tastiere e John Molo alla batteria. Shakedown Street non mi entusiasma, ma la parte strumentale è interessante, meglio Truckin’ e un’intensa The Other One. A questo punto salgono sul palco i Gov’t Mule, che in quel periodo non avevano ancora sostituito Allen Woody con un bassista fisso. Haynes e Abts sono affiancati da Danny Louis alle tastiere (ancora oggi nella band) e Greg Rzab al basso. Partono con una strepitosa Worried Down With The Blues, uno slow di un’intensità pazzesca, davvero un blues da antologia, seguito dall’improvvisata Sco-Mule, strumentale nel quale vengono affiancati da Dan Matrazzo alle tastiere, Jon Smith al sax, Mike Barnes alla chitarra e DJ Logic. La serata è chiusa da un classico del rock sudista, la ballata Simple Man dei Lynyrd Skynyrd con il batterista Artymus Pyle e l’ex Black Crowes Audley Freed insieme ai Gov’t Mule, una versione coinvolgente con Haynes ottimo alla voce e quel suono di chitarre sudiste che non guasta mai. Una degna conclusione di una grande serata. Un’edizione limitata aggiunge un terzo dischetto con cinque brani acustici incisi il giorno prima per la stazione radio WNCW, tra i quali due tracce di Alvin Youngblood Hart ed un pregevole medley di In My Time Of Dying>It Takes More Than A Hammer di Hart con Warren e Schools.        

Paolo Baiotti

 

 

 

MATT SCHOFIELD                                          schofield

Anything But Time

 

Nugene 2011

 

 

Nato a Manchester nel ‘77, Matt ha intrapreso seriamente la professione di musicista a 18 anni. Ha accompagnato la cantante blues Dana Gillespie per quattro anni prima di formare un trio con il quale ha pubblicato quattro album in studio e un paio di live. Considerato con Ian Siegal il miglior chitarrista di blues della nuova generazione britannica, ha dimostrato progressi costanti, aggiudicandosi un paio di British Blues Awards due anni fa con il disco Head Tails & Aces. Accompagnato dal fedelissimo Jonny Henderson (tastiere e bass keys con le quali supplisce alll’assenza di un bassista) e da Kevin Hayes (batteria, già con Robert Cray) e con la produzione dell’esperto John Porter (B.Guy, BB King, Otis Rush…), ha inciso a New Orleans e pubblicato a fine anno Anything But Time, un disco di blues moderno, dal suono pulito influenzato dall’atmosfera della Louisiana in alcune ritmiche ondeggianti tra soul e funky. Forse manca un pizzico di grinta e certe sonorità appaiono un po’ freddine e troppo laccate (rispetto ad altri bluesmen), ma le qualità ed il gusto del chitarrista, più che valido anche alla voce, sono indiscutibili.

La jazzata Anything But Time richiama il suono di Robben Ford e di certo blues swingato forse un po’ soffice, ma See Me Through mette subito le cose a posto, uno slow incisivo nel quale Matt si dimostra capace di fraseggi convincenti, accompagnato brillantemente dall’organo di Henderson e dal piano dell’ospite Jon Cleary, esperto musicista locale. At Times We Do Forget è un recente brano di Steve Winwood da Nine Lives eseguito con eccessiva pulizia e leggerezza (d’altronde non è che l’originale sia migliore…), mentre Slipwrecked risente delle influenze di New Orleans, come la ritmata One Look. Preferisco la ballata Dreaming Of You di matrice hendrixiana con un eccellente assolo ed il mid tempo Wrapped Up In Love, cover di Albert King (uno dei riferimenti di Schofield). Where Do I Have To Stand è un blues lento jazzato (e un po’ freddino), Don’t Know What I’d Do un mid tempo raffinato con una voce che può ricordare Johnny Winter (dal vivo Matt si avvicina maggiormente nei toni vocali al grande albino texano). Si chiude con Share Our Smile Again, un blues veloce valido nella scrittura, ma sempre un po’ troppo pulito ed asettico. Un buon disco nella consapevolezza che finora Schofield ha dato il meglio dal vivo, sia in concerto che su disco (Live From The Archive è eccellente).     

 

Paolo Baiotti

 

 

 

 

 

van halen

VAN HALEN

 

A Different Kind Of Truth

 

Interscope 2012

 

 

Tra il ‘78 e l’84 i Van Halen sono stati una delle band americane più popolari. Il quartetto formato dai fratelli Alex e Eddie Van Halen, da Michael Anthony e dal cantante David Lee Roth è diventato un’icona del nuovo hard rock, basato sul suono metallico, tecnico ed iperveloce della chitarra di Eddie (che ha influenzato una miriade di chitarristi che ne hanno amplificato i difetti, non riuscendo a ripeterne i pregi), contrapposto alla voce roca e bluesata di David. Dopo l’esplosivo successo di 1984 (ricordate i singoli Jump e Panama?) il cantante ha lasciato la band intraprendendo una carriera solista gradatamente evaporata, mentre il gruppo ha proseguito con Sammy Hagar alla voce, mantenendo una vasta popolarità, ma cedendo progressivamente terreno anche sul piano qualitativo. Nel ‘96 Hagar è stato liquidato e sostituito nuovamente da Roth per l’incisione di due brani per una raccolta, ma i pessimi rapporti tra Eddie e David hanno portato ad una nuova rottura ed al penoso disco con il cantante Gary Cherone, subito licenziato. I problemi di salute di Eddie e l’abbandono del bassista Anthony hanno bloccato per alcuni anni l’attività della band, ma le voci su una reunion con Roth non si sono mai interrotte. In effetti nel 2007, dopo l’insediamento nella Rock And Roll Hall Of Fame, è stato organizzato un tour con il figlio di Eddie al basso. Dopo un’altra pausa ed una lunga preparazione ecco il nuovo disco in studio, a ventotto anni da 1984, seguito da un tour che si sta svolgendo in arene quasi sempre esaurite. Cosa si può dire di A Different Kind Of Truth? Indubbiamente il suono ci riporta ai primi due dischi della band, l’omonimo esordio e Van Halen II …d’altronde alcuni brani sono dei demo precedenti all’esordio completati recentemente e quindi non possono che richiamare il passato. E anche le altre tracce sono state scritte nello stesso stile secco e diretto: hard rock essenziale con le riconoscibili schitarrate di Eddie nelle quali si inserisce la voce di Roth, che ha forse perso un po’ di potenza, ma ha acquistato profondità. Un disco un po’ di maniera (ma poteva essere altrimenti?) che suona sorprendente fresco e potente; Eddie torna ai fasti del passato risultando a tratti esplosivo, aiutato dalla ritmica pulsante di Alex e del giovane nipote Wolfgang mentre Roth è meno gigione, più maturo e concentrato. Tra i brani segnalerei l’opener Tattoo (rifacimento del demo di Down In Flames), la melodica You And Your Blues (con i tipici cori della band), la trascinante The Trouble With Never con un assolo lancinante, il delizioso blues elettroacustico Stay Frosty (con richiami evidenti ad Ice Cream Man dal primo album) e Big River che sembra un’outtake del primo album (non a caso è un altro demo dei seventies). La versione deluxe aggiunge un dvd con le downtown sessions, nelle quali vengono eseguite versioni acustiche di due brani vecchi (Panama e Beautiful Girls) e della nuova You And Your Blues.

 

Paolo Baiotti

 

 

 

 

AUTORI VARI 

best hall of fame

 

The Best Of Rock And Roll Hall Of Fame + Museum Live

 

Time Life  2011

 

 

 

Inaugurata nell’86, la Rock And Roll Hall Of Fame ha ammesso nel corso degli anni molti artisti che hanno fatto la storia del rock (con alcune dimenticanze…) nel corso di una cerimonia che da sempre è organizzata a New York in una grande sala dell’Hotel Waldorf Astoria. In genere uno o più artisti introducono i premiati con un discorso; ogni premiazione è seguita dall’esecuzione di uno o più brani con gli ospiti che si mischiano fra loro creando formazioni inedite interessanti o quantomeno curiose. La Time Life ha pubblicato nel ‘09 un triplo dvd con gli highlights di queste serate (e di altri concerti organizzati dal Museo della Hall Of Fame), seguito da un nonuplo ovviamente più esaustivo (ma sempre incompleto) ed ora da un triplo cd che in poco meno di quattro ore ripercorre la storia della manifestazione. Purtroppo non lo fa cronologicamente e le stringate note del libretto non indicano né gli anni né le formazioni complete delle singole esecuzioni. Come sempre in queste raccolte si alternano brani di diversa qualità ed interesse, ma bisogna dire che i tre dischi si mantengono su un livello medio più che accettabile, a volte un po’ inferiore alle attese visti i protagonisti. Scegliere tra i cinquantuno brani non è facile, ma non potendo elencarli tutti bisogna farlo. Dal primo dischetto mi hanno colpito Train Kept A Rollin’ con Jeff Beck, Jimmy Page, Joe Perry, Ron Wood, nonostante la voce non adatta al brano di Lars Ulrich dei Metallica, A Change Is Gonna Come di Al Green, una deliziosa For What It’s Worth di Crosby Stills e Nash con Tom Petty, Break On Through dei Doors con Eddie Vedder perfetto alla voce ed il soul di In The Midnight Hour con Wilson Pickett e Bruce Springsteen. Il secondo cd parte con Sunshine Of Your Love, prima reunion dei Cream che in seguito torneranno anche a suonare in tour e prosegue ancora meglio con una splendida While My Guitar Gently Weeps con Tom Petty, Jeff Lynne, Steve Winwood, il figlio di Harrison e Prince superbo alla chitarra. John Fogerty spicca con Green River e Born On The Bayou (con Bruce), mentre i Traffic si riformano per Mr Fantasy, gli Allman Brothers eseguono un’intensa Midnight Rider con Sheryl Crow e i Doors convincono in Roadhouse Blues sempre con Vedder alla voce. Nell’ultimo disco Bruce Springsteen è protagonista con la E Street Band di un’energica 10th Avenue Freeze Out e dell’ennesima The Promised Land, prima di duettare con gli U2 in una splendida I Still Haven’t Found What I’m Looking For, forse il brano migliore del triplo. American Girl di Tom Petty non è da meno, come Pink Houses di Mellencamp e la conclusiva Man Of The Moon, nella quale i R.E.M sono affiancati da Eddie Vedder. Un box divertente, sicuramente non indispensabile.             

 

 Paolo Baiotti