Archivio di ottobre 2020

MARKUS REUTER

di Paolo Crazy Carnevale

25 ottobre 2020

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markus reuter oculus[419]

markus reuter music of our times[418]

Gary Husband & Markus Reuter – Music Of Our Times (Moonjune/Iapetus 2020)
Reuter, Notzer & Grohowski – Shapeshifters (Moonjune 2020)
Markus Reuter – Sun Trance (Moonjune/Iapetus 2020)
Markus Reuter Oculus – Nothing Is Sacred (Moonjune/Iapetus 2020)

Parlare di valanga di musica è quanto mai appropriato nel caso delle ultime uscite discografiche che coinvolgono il chitarrista germanico Markus Reuter, i quattro dischi in questione, usciti quasi in contemporanea sono solo la punta dell’iceberg visto che poi c’è tutta una parte sommersa che consiste nelle collaborazioni del musicista con altri compagni di scuderia, su tutti l’atteso disco di Dwiki Dharmawan che coinvolge anche altri bei nomi di casa Moonjune, tra cui il nostro connazionale Boris Savoldelli.

Va da sé che lo standard qualitativo varia da disco a disco, da progetto a progetto, anche perché Reuter è un eclettico e quindi gli stili variano anche se alla base dei suoi lavori c’è sempre la sua Touch Guitar, lo strumento con cui preferisce esprimersi.

Il primo disco del lotto consolida la collaudata partnership con il pianista Gary Husband e stavolta è stato inciso in Giappone. Husband è sicuramente più in vista rispetto a Reuter e le composizioni sono molto introspettive, se vogliamo anche abbastanza influenzate dalla musicalità del paese in cui il disco è stato realizzato.

Di tutt’altra pasta il disco in trio con il bassista/chitarrista Tim Motzer ed il batterista Kenny Grohowski, tratto da una session tenutasi il 18 agosto dello scorso anno a New York: il terzetto si lascia andare all’ispirazione del momento, il fronte sonoro si sposta su un asse più sperimentale, spesso rumoristico, sicuramente ispirato dal cosiddetto rock industriale, non a caso i brani sono indicati come composizioni istantanee. Di difficile digestione.

Sun Trance, in verità l’unico dei quattro CD accreditato al solo Reuter, è di certo il migliore: anche qui il tutto ruota attorno ad un progetto specifico, quello di un’unica composizione realizzata con la Mannheimer Schlagwerk nel maggio di tre anni fa: Reuter e l’ensemble di suoi connazionali si cimentano con un unico, intrigante e affascinante brano che si sviluppa e snoda attorno ad un tema di base d’ispirazione vagamente prog, ma anche un po’ ambient. Il risultato è sicuramente più fruibile rispetto al lavoro del trio newyorchese di cui sopra e Reuter s’inserisce molto bene nella formazione di Mannheim composta da ben dieci elementi e guidata dal vibrafonista Dennis Kuhn. L’impressione è che Reuter sia più coinvolto e motivato e di conseguenza convincente in lavori come questo, rispetto a alle divagazioni improvvisate del disco precedente.

Il quarto disco della cornucopia reuteriana in questione è un lavoro legato decisamente all’etichetta newyorchese per cui escono i lavori del tedesco: innanzitutto è stato registrato in Spagna, nella Casa Murada, uno studio da cui sono usciti altri lavori legati alla Moonjune Records, uno studio che è soprattutto una location dell’anima sonora della label guidata da Leonardo Pavkovich. In secondo luogo per quanto Reuter sia accreditato come titolare in copertina, almeno in qualità di leader del progetto Oculus, tra i nomi troviamo vecchie conoscenze come il batterista Asaf Sirkis e il chitarrista Mark Wingfield, già coinvolti in altri progetti in trio proprio con Reuter. Ci sono però anche il bassista Fabio Trentini (produttore del disco insieme al chitarrista tedesco), il violinista e pianista David Cross, legato ai King Crimson, e il tastierista californiano Robert Rich. Anche in questo caso il disco è notevolmente superiore ai primi due, il gruppo dimostra coesione, la Casa Murada si rivela ancora una volta un luogo magico per fare musica, e la struttura del disco sembrerebbe (a giudicare dai titoli) una sorta di concept che si sviluppa in più temi. Avantgarde, Free Jazz elettrico, prog rock: il disco riesce a sfuggire un po’ a tutte le definizioni, che però in qualche modo affiorano qua e là nelle cinque tracce che lo compongono.

MOTHER ISLAND – Motel Rooms

di Paolo Crazy Carnevale

15 ottobre 2020

Mother Island - Motel Rooms (1)[408]

Mother Island – Motel Rooms (Go Down Records 2020)

Terzo album per la formazione vicentina dei Mother Island e ottima conferma della classe e delle potenzialità del gruppo. A dispetto di una copertina che lascia perplessi (non sarebbe stata male su un disco di Lucio Battisti con Panella), con tanto di vinilico gatefold sprecato senza dare informazioni sui musicisti e senza uno straccio di immagine relativa al quintetto, Motel Rooms è un signor disco, ben suonato e splendidamente cantato, che evidenzia ancor più del suo ottimo predecessore la passione per le sonorità vintage, stavolta spostate maggiormente verso il sound psichedelico californiano, con ampi riferimenti, ma mai copiature, ai Jefferson Airplane in particolare, per non dire ai Great Society (la voce di Anita Formilan, è uno dei punti di forza in questo senso) o altre realtà più oscure.

Le tastiere sono meno presenti rispetto al precedente Wet Moon in cui contribuivano a far virare il sound verso orientamenti più garagisti, e il fatto che nei loro concerti i Mother Island non abbiano tastierista è abbastanza esplicativo, qui comunque gli interventi sono molto misurati e affidati aEdoardo Piccolo che si destreggia tra Fender Rhodes e Philicorda (un organo prodotto in casa Philips negli anni sessanata), per il resto la potenza sonora è tutta nelle mani delle due chitarre rigorosamente vintage di Nicola Tamiozzo e Nicolò De Franceschi, che sviscerano languidi assoli sorretti dal basso di Giacomo Totti e dalla batteria di Nicola Bottene.

Su tutto la voce ipnotica e suadente della Formilan.

Il disco, uscito rigorosamente in vinile, in due versioni, una verde ed una canonica, si apre con l’ottima Till The Morning Comes che evidenzia fin da subito le caratteristiche stilistiche succitate e a conferma, se necessario, arriva poi Eyes Of A Shadow, altra composizione degna di nota.

And We Are Shining è il brano che il gruppo ha scelto come singolo di lancio per il disco, e il sound si sposta verso un surf rock d’ispirazione garage, un buon brano, forse meno in linea col sound generale di Motel Rooms, Summer Glow è imperdibile, con il suono di tastiere d’altri tempi che fanno da tappeto al brano, ma la summa summarum di questa prima facciata è il quasi valzer che chiude il primo lato, We All Steam To Fall To Pieces Alone, lenta composizione che la Formilan canta ispirata, con i fiati di Glauco Benedetti e Sergio Gonzo che danno una bella mano a definire il sound, mentre le chitarre di De Franceschi e Tamiozzo sfoderano un suono morriconiano di grande effetto. Sicuramente una delle perle del disco.
Voltando il disco non c’è tempo per tirare il fiato, Demons è incalzante, tirata e con un assolo di chitarra breve quanto giusto, con Song For A Healer tornano le atmosfere surf, la voce ricorda ancor più quella della Slick, gli intrecci delle chitarre ci riportano ad anni lontani senza far sembrare il disco datato. Questo è il miracolo dei Mother Island, suonare e scrivere musica vintage facendola risultare molto moderna alle orecchie dell’ascoltatore.

Seguono due composizioni incalzanti e robuste, Sant Cruz e Dead Rat, preludio alla conclusiva Lustful Lovers lento e lungo commiato dall’ascoltatore; a metà tra surf sound e Bond song (nel senso di James Bond), tanto che non sbaglierebbero gli eredi di Albert Broccoli (il producer storico dei Bond movie) a commissionare alla band di Schio i titoli di testa della loro prossima produzione.

JOE BOUCHARD – Strange Legends

di Paolo Baiotti

4 ottobre 2020

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JOE BOUCHARD
STRANGE LEGENDS
Rockheart Records 2020

Joe Bouchard ha esordito da adolescente con The Regal Tones; insieme al fratello batterista Albert ha condiviso questa prima esperienza e poi quella fondamentale dei Blue Oyster Cult, di cui entrambi sono stati membri fondatori. Joe ne è stato il bassista dal 1971 al 1986, ma non solo: ha scritto e cantato tracce fondamentali come la psichedelica Screams, Hot Rails To Hell, Morning Final, Celestial The Queen, l’immensa Astronomy e l’inquietante Nosferatu. In seguito ha studiato e insegnato musica e, dopo un intervallo di qualche anno, ha ripreso a suonare formando gli X Brothers che hanno inciso tre dischi tra il ’97 e il 2012, esordendo come solista nel 2008 con Jukebox In my Head seguito da altri quattro album, prodotti e pubblicati in modo indipendente, senza nessun appoggio esterno e quindi poco conosciuti se non dai fans più fedeli. Nel contempo ha formato il trio Blue Coupe nel 2010 con il fratello Albert e Dennis Dunaway, bassista fondatore dell’Alice Cooper Group, con il quale aveva già collaborato in un altro trio, BBD (Bouchard, Dunaway & Smith): hanno inciso tre dischi e sono tuttora attivi, alternando nei concerti brani della band e provenienti dalle rispettive carriere con i BOC e Alice Cooper.
In queste numerose esperienze Joe ha ripreso a suonare la chitarra, il suo primo strumento, lasciando in secondo piano il basso. Strange Legends è stato inciso quasi tutto da solo: chitarra, voce, basso, tastiere, tromba e mandolino sono nelle mani di Bouchard, con la batteria affidata a Mickey Curry, che suona da una vita nella band di Bryan Adams e come session man ha collaborato, tra gli altri, con Hall & Oates, The Cult, Debbie Harry, Tom Cochrane, Elvis Costello, Alice Cooper. Dopo avere firmato un contratto con la Rock Heart Records, che pubblicherà anche il nuovo atteso album del fratello Albert, Joe ha forse la possibilità di allargare il suo pubblico. L’accurata produzione e la diffusione di parecchi video su You Tube delle nuove canzoni sono il primo passo; il blocco dei concerti a causa della pandemia purtroppo è un ostacolo alla conoscenza del disco, perché si sa che oggi poche radio trasmettono nuovi brani di artisti rock considerati del passato, ma Strange Legends ha alcune tracce che potrebbero ottenere una buona programmazione. Intanto in Olanda il disco sta avendo un ottimo riscontro e le recensioni europee sono positive.
In effetti si tratta di un album di rock energico, come testimoniato dall’opener The African Queen, ispirata dall’omonimo film (La Regina d’Africa del 1951), che ricorda le atmosfere misteriose dei Blue Oyster Cult. Bouchard ha scritto sei brani, un paio con l’aiuto dello scrittore e sceneggiatore John Shirley, mentre quattro sono dell’amico John Elwood Cook che ha già collaborato con lui in passato. Il garage rock di Forget About Love e l’affascinante Walk Of Fame attraversata da un riff incisivo completano il riuscito tris d’apertura. Sembra più scontato l’up-tempo Hit And Run, ma lo strumentale Racing Thru The Desert, in cui Joe suona anche la tromba e l’inquietante She’s A Legend ci riportano ad atmosfere più coinvolgenti. L’unica cover è una discreta ripresa di All Day And All Of The Night dei Kinks che precede l’oscura ballata Once Upon A Time At The Border, che non avrebbe sfigurato in Spectres o Agents Of Fortune.
Nel finale la ritmata Bottom For The Bottomless in cui spiccano le linee di basso di Joe, l’eterea ballata Strangely In Love e l’insistente melodia di Winter confermano il giudizio positivo sul disco.
Una prova solista di buon livello da parte di un artista che a 71 anni dimostra di avere ancora qualcosa da dire.

SUGAR LIME BLUE – Narcoluptuous

di Paolo Baiotti

4 ottobre 2020

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SUGAR LIME BLUE
NARCOLUPTOUS
Autoprodotto 2019

Ashley e Dave Bett si sono conosciuti a Austin nel 1999. Si sono frequentati, innamorati, sposati e dal 2004 hanno iniziato a suonare insieme, trasferendosi in Tennessee. Hanno formato i Sugar Lime Blue nel 2007 con parecchi cambi di formazione nei primi anni, tanto da pensare nel 2010 di proseguire come duo. Invece in quel momento hanno incontrato il bassista Russ Dean con il quale hanno formato un trio acustico, unendo al basso di Russ la voce di Ashley e la chitarra di Dave. Questa formula è stata completata dall’inserimento di un batterista e di un tastierista per ritornare al suono elettrico, completando l’esordio Far From The Tree, uscito nel 2011. L’anno dopo hanno inciso alcuni brani, ma ulteriori cambiamenti dell’organico hanno allontanato il progetto di un secondo disco fino al 2015, quando è uscito Move That Earth in equilibrio tra rock, blues e country.
Con una formazione che ha aggiunto ai tre musicisti sopra citati il batterista Jeff Gaylor è stato inciso Narcoluptuous nei Bluebird Studios di Lebanon in Tennessee, prodotto da Dave con l’aiuto della band e sostenuto da una campagna su Kickstarter. Dodici tracce che spaziano tra blues e rock con qualche venatura country-jazz e frequenti abbandoni a momenti strumentali che possono richiamare le jamband. Un disco di Americana vario, rilassato e scorrevole nel quale spicca la voce rotonda e melodica dell’avvenente Ashley, accompagnata dalla chitarra liquida di Dave e da una sezione ritmica appropriata.
Il divertente rock bluesato di Dance In The Sunshine apre il disco con l’inserimento dell’armonica di Cleveland McPhee e di una brillante coda strumentale, seguito dalla ballata Willow e dalla ritmata Laying Off The Breaks che richiama i Grateful Dead degli anni ottanta (una passione dei conugi Bett). L’avvolgente ballata Keep On Keeping On è cantata con tonalità più profonde, mentre Gypsy River ha un notevole crescendo finale. Il disco prosegue senza esaltare, ma anche senza momenti di vera debolezza, passando attraverso la latineggiante title track, il pop-rock Rainbow, la jazzata Fool’s Lament (emozionante il break chitarristico) e la bluesata Brickbats per concludersi con la riflessiva Sassafras Tree e la jammata Lives In Space.