Tim Buckley: Phantasmagoria In Four
di Marco Tagliabue
17 settembre 2013
E’ fra le pieghe di Goodbye And Hello (1967) che Tim Buckley ha gettato i semi della sua produzione adulta, quella che di lì a poco avrebbe infilato, uno dopo l’altro, quattro incredibili capolavori. Sono le lisergie delicate e avvolgenti di Hallucinations la rampa di lancio per i futuri vagabondaggi cosmici ma, soprattutto, è la chiusura affidata a Morning Glory, piccola perla d’indicibile splendore, a saggiare quel magico senso d’equilibrio sul filo sottile della disperazione che sosterrà l’Artista nei suoi passi decisivi. Tim viene, soltanto diciannovenne, da un esordio acerbo in chiave cantautorale (Tim Buckley, 1966) e da un matrimonio riparatore che ha appena prodotto il suo ingombrante fardello, quel figlio, Jeff, con il quale il Nostro si sarebbe sfiorato solo una volta nella vita. Goodbye And Hello contiene grandi canzoni che soccombono, nella maggior parte dei casi, sotto il peso di un apparato strumentale fin troppo ingombrante, di arrangiamenti eccessivamente leziosi, di una volontà superiore, maldestramente celata, di farne prodotto perfetto da sala d’incisione… Ma l’aquila non è animale da costringere in gabbia, è abituata a volare alta. La puoi uccidere se vuoi, ma non riuscirai mai a tarpare le sue ali. E per Buckley è giunto il momento di strappare le catene e spiccare il volo…
…quell’allegro senso di tristezza…
Una camera d’albergo, vuota e disadorna, su una scogliera quasi a picco sull’Oceano. Il tempo è scandito dal mormorio delle onde, che sembrano aumentare d’intensità e frequenza. Fuori piove e fa freddo, ma nemmeno la pioggia che insiste sui vetri riesce a spegnere quella fiammella, così piccola, che riscalda un cuore così grande. E’ il ricordo di un amore perduto, di un amore lontano: quella malinconia orgogliosa e compiaciuta, finanche cercata, che rischiara la vita nei momenti più bui. La dolcezza del ricordo vince sempre sull’amarezza del presente. Dalla copertina di Happy Sad (1968) scompare il sorriso fatuo di Goodbye And Hello: l’espressione di Tim è triste e corrucciata, assorta e dubbiosa, ma infinitamente più vera. Love From Room 109 At The Islander (On Pacific Cost Highway), titolo lunghissimo come gli oltre dieci minuti del brano, è una malinconica meditazione sulla vita e sulle cose della vita all’ombra della nostalgia per un amore perduto. Gli strumenti procedono sottovoce, in punta di piedi, per non rubare la scena alla voce di Tim, che scava inutilmente nel dolore della propria anima in cerca di una risposta che non c’è. Ma se Love From Room 109 mette il cuore a nudo, il brano seguente, Dream Letter, lo calpesta, lo percuote, lo oltraggia, cerca di estrarne anche l’ultima stilla di sangue. Chiunque non abbia un semplice muscolo meccanico al centro del petto non può ascoltare questo brano senza commuoversi alle lacrime, senza urlare a bocca chiusa, senza rabbrividire di sudori freddi, senza immaginare come sarebbe strapparsi il proprio, di cuore, dal petto. La voce di Buckley tocca vertici di espressività inauditi, tutto il resto sembra non contare, a partire dalla strumentazione, mai sopra le righe, mai oltre lo status di semplice accompagnamento. Che qualcosa fosse cambiato lo avevano del resto preannunciato Strange Feelin e Buzzin Fly in apertura: la voce strumento principale dalle infinite modulazioni con il resto ridotto all’osso, quasi superfluo; la forma canzone dilatata a dismisura e resa irriconoscibile, le atmosfere jazzate esaltate da una sezione ritmica formata da contrabbasso e vibrafono. Gypsy Woman, altro vertice del disco, è un lunghissimo canto tribale, una danza zingara e pagana come i tratti somatici della sua protagonista. Le congas in primo piano, contrabbasso e vibrafono a scandire il ritmo, la chitarra elettrica a pungere anche con scatti rabbiosi, quella acustica in sottofondo. La voce di Tim a briglia sciolta, senza più limiti, si accinge a spiccare il salto: canta, geme, sussurra, grida, supplica e si contorce in un delirio erotico devastato dalle allucinazioni della droga. Sing A Song For You è la quiete dopo la tempesta, una chiusura intimista dopo l’uragano emotivo del brano precedente. Una sorta di preghiera, di invocazione a non essere lasciato solo nel mezzo di un cammino così tormentato. Nella prima opera “adulta” la canzone, in bilico fra spiritualismo folk e improvvisazione jazz, perde la sua forma tradizionale e comincia ad espandersi senza dimenticarsi, tuttavia, del suo ruolo principe: alla base di Happy Sad ci sono, innanzitutto, dei grandissimi brani. L’arte visionaria di Tim Buckley comincia ad alzarsi in volo senza perdere mai di vista la Terra, senza perdersi cioè in improvvisazioni sterili o fini a se stesse o, comunque, non supportate da grandi canzoni. Buckley sembra chiamare a sé tutti i dolori del mondo, quasi volesse farsene carico, quasi volesse addossarsi anche colpe non sue, quasi volesse cercare solo dentro di sé una risposta impossibile da trovare, una risposta troppo grande per un uomo. La veste musicale è scarna, un semplice corollario allo strumento principale ed insuperabile: la voce. La 12 corde acustica di Tim, la chitarra elettrica del suo alter ego musicale, quel Lee Underwood che ne seguirà ogni passo artistico; una base ritmica composta da contrabbasso, congas e dal prezioso vibrafono. Happy Sad è l’urlo di dolore di un’anima spossata, ma non svuotata; è la sofferenza che si fa poesia non senza un sottile autocompiacimento. E’ la forza della diversità, il cuore messo a nudo. E’ il mondo fuori, la prigione dorata di una sensibilità “diversa”. E’ la vita spiata, quasi rubata, dietro ai vetri sporchi di una camera d’albergo, il cartello “non disturbare” alla porta che qualcun altro ha incollato sulla maniglia. E’ un viaggio senza meta, senza arrivo né partenza, intorno al nodo irrisolto di un orgoglioso distacco dal mondo, da una vita che si vorrebbe anche propria alla quale si bussa inutilmente. O, forse, è soltanto un sogno, un trip sbagliato. Senza dubbio, comunque, un capolavoro.
…un pomeriggio triste…
Metti la noia di un pomeriggio triste nella prigione di lusso delle quattro pareti domestiche, l’angoscia per un campanello che non suona, un telefono che non squilla. La sensazione tremenda di sentirsi ineluttabilmente soli anche in mezzo a migliaia di persone. Un pomeriggio amaro, una parentesi che si vorrebbe chiudere in fretta, nella speranza che si tratti soltanto di una parentesi. Dopo le aperture mentali e strumentali che avevano caratterizzato le dilatazioni di Happy Sad e la sua sublime arte visionaria (che troveranno compimento nel suo successore naturale, Lorca, la cui uscita verrà posticipata a quella di Blue Afternoon causa l’ostracismo della compagnia discografica: “Pare che Buckley abbia intenzione di fare musica soltanto per sé stesso” dichiarerà, sprezzante, il manager dell’Elektra Jac Holzman), Blue Afternoon (1969) segna il ritorno ad una dimensione più intima, crepuscolare, romantica; ad una forma più compressa, quasi cantautorale, lontana dalla forma canzone comunemente intesa ma anche dai profondi sperimentalismi del lavoro precedente. Ma quello di Blue Afternoon è un romanticismo malato, oscuro, impuro, che sconfina sovente nella claustrofobia; è il colpo di coda di un uomo solo, abbandonato e ferito anche nell’orgoglio. Se Happy Sad aveva segnato l’incontro fra l’anima folk e quella jazz, in Blue Afternoon è il blues ad ammantare l’intero lavoro. La strumentazione, che include anche piano e batteria, è più ricca rispetto all’album precedente, ma lo strumento principale, quasi unico, rimane la voce di Tim, che continua ad ampliare i propri orizzonti espressivi. Tutto il resto, per quanto prezioso, continua ad essere semplicemente un contorno. Ad eccezione dell’iniziale Happy Time, che incanta e illude di una certa rilassatezza, i brani sono scheletrici e sofferti, l’apparato strumentale scarno e minimale: i preziosi ricami della chitarra elettrica di Lee Underwood, il vibrafono e la chitarra acustica di Tim Buckley, tracciano la spina dorsale di ogni brano, il piatto sul quale servire la pietanza principale, la voce. Chase The Blues Away, più vicina alle atmosfere di Happy Sad, è un blues punteggiato da chitarra acustica e contrabbasso, con la chitarra elettrica di Lee Underwood a tessere delicate trame di sofferenza. I Must Have Been Blind, The River e So Lonely recuperano il vibrafono ed il rullio sordo e ovattato di un’inedita batteria. Cafe è una ballata delicata su un soffice arpeggio con i timidi contrappunti della chitarra elettrica: un dolce corollario per una voce che continua a superare se stessa. Blue Melody si segnala per l’utilizzo del piano sul solito, struggente apparato, ma è la conclusiva The Train a provare a superare gli schemi del disco, con le sue dilatazioni, la sua connotazione ritmica ben definita, lo spazio per le divagazioni degli strumenti, a partire dalla chitarra elettrica, le cui aperture soliste esaltano l’anima blues del brano. Un blues come grido di dolore, come espressione di sofferenza, come voce dell’anima.
…viaggio di un poeta…
E’ forse lo stesso fuoco ad accomunare Tim Buckley e Federico Garcia Lorca, un fuoco che brucia dentro, un demone che succhia energia e linfa vitale, che distrugge per rigenerarsi. Il fuoco di passioni e sentimenti troppo grandi per trovare sfogo, troppo profondi per trovare consolazione. Con Lorca (1970), il naturale successore di Happy Sad, Buckley molla completamente gli ormeggi. La sua folle arte visionaria che in quel disco, di cui Lorca ricalca in parte gli schemi, era rimasta ancorata, se non alla forma canzone, almeno ad un’idea di canzone e, soprattutto, di melodia, qui non conosce più barriere, non si ferma davanti a niente, non accetta alcun tipo di compromesso. I cinque lunghi brani che compongono l’album difficilmente si faranno ricordare per un passaggio, un fraseggio, una melodia, nondimeno il loro ascolto è un’esperienza catartica, svuotante e rigenerante. Sono cinque improvvisazioni intorno allo strumento principe, la voce di Tim, mai così libera e devastante. Lorca è un punto di non ritorno e, al tempo stesso, un blocco di partenza: ora il navigatore è pronto per il suo viaggio più importante. Il lavoro perde ogni connotato stilistico: non è folk, non è jazz, non è blues. E’ musica cosmica, visionaria, totale; modulazione della voce. Il vibrafono, efficacissimo nei lavori precedenti, sparisce completamente, la batteria pure: nella totale assenza di ritmo, sono congas, bassi e piano elettrico a scandire il tempo, con le chitarre a muoversi senza briglie e senza spartito e l’organo a tracciare occasionali, inquietanti scenari. Sono proprio le tastiere la novità principale dell’album, a partire dall’apertura affidata alla title track. Piano elettrico e organo sembrano cambiare completamente le coordinate della musica di Buckley, tracciando nuovi tappeti sonori ed inedite geometrie. Il piano elettrico sembra avere preso il posto del vibrafono per definire la base ritmica del brano, in assenza di batteria e percussioni. L’organo traccia un fondale monotono e inquietante sul quale si muovono gli attori della scena: il piano elettrico di Lee Underwood e la voce di Tim Buckley. L’omaggio al poeta spagnolo è disperato, cupo e drammatico, un lungo blues spettrale, profondo, angosciante, lisergico, che mette completamente a nudo l’autore e dal quale, lo stesso, sembra uscirne completamente spossato, quasi distrutto. E’ musica che scandaglia abissi irraggiungibili, profondità inviolate, baratri senza fondo in un lungo pianto inascoltato, in un coma senza ritorno. Una cattedrale oscura e maestosa. Anonymous Proposition è un altro elogio alla sofferenza interiore, e un’altra eccezionale palestra per la voce di Tim, che incanta e commuove come non mai. Un brano scarnissimo e dilatato in cui anche gli strumenti abbandonano lo spartito per votarsi completamente all’improvvisazione, accompagnando le evoluzioni della voce di Tim come un disperato flusso di coscienza. I Had A Talk With My Woman tenta, alla lontana, un approccio più compiuto alla forma canzone, ma già la successiva Driftin, lenta e struggente ai limiti dell’indicibile, la base strumentale ridotta all’osso, riporta a vortici di malinconia senza fine. Nobody Walkin, più ritmata, le congas in evidenza, cerca un contatto indiretto con i deliri di Gypsy Woman prima di affondare in mare di disperazione: la voce di Tim è stretta in una morsa che non lascia scampo. Il brano chiude l’album in maniera agghiacciante, lacerante, tanto da riuscire difficilmente ad uscirne indenni. Lorca è un salto verso il nulla, è un’esperienza che ti cambia e della quale, alla fine, non puoi più fare a meno. E’ un viaggio che non sai dove ti porterà, ma che senti che devi assolutamente intraprendere. E’ un salto nel vuoto senza paracadute…
…interstellar overdrive…
Ma può accadere, a volte, che proprio nel momento in cui sembra che sia tutto perduto, nel momento in cui anima e corpo paiono in caduta libera e che nulla, ma proprio nulla, possa offrire loro un appiglio, spuntino improvvisamente e misteriosamente un paio di ali e cominci un viaggio meraviglioso ed inaspettato, un vagabondaggio senza regole, senza limiti né barriere per le profondità di quello spazio senza confini che è la mente umana. Starsailor (1970) è l’apice della parabola creativa di Tim Buckley: un delirio cosmico, un pellegrinaggio stellare affascinante e temerario che libera completamente l’estro e la fantasia del suo autore, che lo sospinge perfino oltre se stesso, oltre i propri limiti, verso universi lontanissimi e inesplorati, lungo una linea d’orizzonte sconosciuta ai più ma perfettamente delineata nella sua mente, attraverso una strada che ancora non esiste ma che egli sembra conoscere benissimo. Un lungo volo che gli spalancherà le porte del cosmo, una ricerca dell’assoluto che fornirà risposte ai suoi quesiti e dubbi alle proprie certezze trascinandolo, novello Icaro, fino a pochi metri dal sole, ad un passo dalla Verità. Quando le ali cominceranno a sciogliersi, il crollo sarà veloce ed irreversibile, l’impatto inevitabile, disastroso e, forse, in parte atteso. Le prove successive (Greetings From L.A. 1972, Sefronia 1973) sempre più sbiadite, fino al tonfo finale dello scialbo Look At The Fool del 1975 ed alla morte per overdose il 28 giugno dello stesso anno all’età di 28 anni. Forse una liberazione, più probabilmente la perdita di contatto con un corpo celeste che, da allora, vaga nell’eterno silenzio delle profondità astrali cullato dal canto delle sirene. Starsailor, intanto, è ciò che ci rimane, la summa della sua arte ed il monumento alla sua gloria: il punto di convergenza di tutti i suoi voli precedenti ed il punto di partenza di tante trasmigrazioni future. Un lavoro che abbatte completamente e supera tutti i generi frequentati dall’Artista: non è più soltanto rock, né folk, jazz, psichedelia, avanguardia, sperimentazione. E’ un ibrido strano che non si era mai udito prima e che, nella sua dimensione completa, mai più si ascolterà dopo. I brani, meno dilatati rispetto al recente passato di Happy Sad e Lorca, trascendono qualsiasi tentativo di classificazione in una varietà stilistica senza precedenti; la strumentazione si arricchisce di una sezione di fiati oltre a basso, chitarra e batteria. L’atmosfera sospesa, in assenza di gravità, alla quale eravamo abituati sparisce in una gioiosa riscoperta del ritmo; la voce continua a superare i suoi stessi limiti arrivando, in più di un caso, a perdere qualsiasi tipo di controllo. Uno strumento impazzito, ma mai abbandonato a sé stesso. Psichedelia destrutturata e free-jazz sono le due sponde entro le quali si agita questo mare in tempesta, i punti cardinali di uno dei lavori più oscuri, complessi e sconvolgenti della musica del nostro tempo, inconsapevole precursore, in alcune delle sue infinite sfaccettature, tanto della no wave più oltranzista quanto della new wave più delicata ed eterea. Che nessuno se ne accorse all’epoca e in troppo pochi se ne siano accorti anche ora, a più di trentacinque anni di distanza, è cosa che può sorprendere soltanto i ragazzini, i quali, grazie al Cielo, hanno certo di meglio a cui pensare… E’ un tappeto dissonante quello che apre l’album, sulle note/non note di Come Here Woman, ostinate improvvisazioni chitarristiche a cullare una voce in fase di decollo, prima che basso e batteria portino ordine in un vortice jazzistico punteggiato da chitarra e piano elettrico, mentre l’organo traccia maestosi fondali. La voce di Buckley si muove in libertà in un’atmosfera cupa e drammatica, fra mille virtuosismi che vanificano ogni tentativo di normalizzazione, ogni abbozzo di melodia. I Woke Up galleggia in un’atmosfera più raccolta, ancora dissonante e jazzata, con le evoluzioni degli strumenti in cascata libera e disordinata, quasi fossero una semplice eco alla voce di Tim, ed una tromba struggente ad impreziosire i momenti di maggior pathos. Monterey è un blues chitarristico con la voce, senza briglie, a muoversi a piacimento fra continue, inquiete visioni. Moulin Rouge, già pronta a raffreddare gli animi bollenti, è un intermezzo ludico, spiritoso, un’allegra marcetta circense puntellata da una trombetta sorniona e qualche strofa in francese. E’ l’ideale per gustarsi una delle portate principali con la mente sgombra: la melodia epica e struggente di Song To The Siren è uno dei punti più alti toccati dall’espressività di Tim Buckley. Una ballata lenta e spettrale costruita intorno alla voce baritonale dell’Artista che canta quasi “a cappella”, punteggiata dai delicati tocchi della chitarra elettrica e da occasionali voci femminili, come canti delle sirene perduti nelle profondità dello spazio celeste. Jungle Fire attacca con gli strumenti in caduta libera a sottolineare le evoluzioni vocali di Tim, poi da un riff di chitarra nasce un blues sconnesso, molto ritmato, in cui voce e raddoppi vocali si inseguono e si sovrappongono. E’ il preludio ad un altro capolavoro, la title track, un esercizio acrobatico per sole voci. Voci che sembrano perdute nell’immensità del cosmo, e che dall’immensità del cosmo si rivelano in un oceano di echi, sussurri, gemiti, grida mentre accompagnano un corpo celeste alla deriva: è la voce di Tim che sembra lottare disperatamente per resistere al canto straziante di queste sirene spaziali, cercando di alzarsi una nota sopra di esse. La voce, finalmente, come strumento unico, e solo altre voci ad accompagnarne le evoluzioni: una serie di echi, di modulazioni e lunghezze d’onda diverse nell’immensità dello spazio siderale. Con The Healing Festival si rimette piede a terra in un delirio free jazz di trombe e sassofoni, mentre ancora, in lontananza, di tanto in tanto sembra di udire il canto delle sirene. Down By The Borderline, con un fantastico incipit di tromba, chiude l’album con altre strepitose acrobazie vocali, in un’atmosfera perennemente in bilico fra respiro jazz e spirito blues. Il volo si è concluso e la Terra si avvicina pericolosamente…
Scriverà anni più tardi Lee Underwood, fedele alter ego artistico di Tim, che “Buckley è stato per la voce ciò che Hendrix è stato per la chitarra, Cecil Taylor per il pianoforte e John Coltrane per il sassofono”. Come a dire Dio, o forse il Diavolo, visto il destino triste che ha segnato la sua vita e quella dei suoi più grandi eredi: quello indiretto, Demetrio Stratos, e quello diretto, il figlio Jeff. Ma, angelo o demone, per noi, in fondo, è esattamente la stessa cosa.
da LFTS n.86