Archivio di settembre 2015

SIMAK DIALOG – Live At Orion

di Paolo Crazy Carnevale

30 settembre 2015

simak dialog live at orion

SIMAK DIALOG
Live At Orion
(Moonjune 2015 2CD)

Sesto disco per questa formazione prodotta dalla Moonjune Records, un doppio dal vivo come c’è di solito da aspettarsi da un gruppo che è sulla breccia da oltre dieci anni, un doppio dal vivo che è la consacrazione del lavoro svolto nell’ambito della fusione tra musica tradizionale e un certo modo di fare jazz abbastanza in linea con i titoli del catalogo della label newyorchese. A condurre le danze sono soprattutto il chitarrista Tohpati, titolare di una parallela carriera come solista o leader di altre band, ed il pianista/tastierista Riza Arshad , ispirato musicista che col suo Fender Rhodes tesse le intelaiature della musica del gruppo: i due, entrambi indonesiani, hanno unito le forze a quelle di Endan Ramdan e Cucu Kornia, specialisti di percussioni tipiche della zona di Java, realizzando un prodotto dalle mille sfaccettature, come il live testimonia.

Alcune composizioni nella dimensione live subiscono dilatazioni molto evidenti, come dimostra 5,6 che sul precedente disco di studio durava meno di cinque minuti mentre qui supera ampiamente gli undici, altre erano già lunghe suite nella versione di studio, ma dal vivo acquistano una dinamica più coesa. Throwing Words ha qua e là persino spunti zappiani, Lain Parantina forse un po’ troppo rumoristica, ma Once Has To Be (in origine sul CD Patahan del 2007) è un’autentica forza. Sul secondo disco This Spirit rasenta i venti minuti e spazia con la chitarra di Tohpati che scorre fluida su un tappeto di percussioni rafforzato da Erlan Suwardana passando da atmosfere molto jazz-rock di stampo classico a momenti più free meno digeribili.

Il disco è stato registrato a Baltimora nel settembre 2013, all’Orion, durante il tour promozionale di The 6th Story.

PHIL CODY – Featherbed

di Paolo Crazy Carnevale

29 settembre 2015

cody

PHIL CODY
Featherbed
(Back & Belly Recordings 2015/IRD)

Lo avevo auspicato nel reportage uscito sulla versione cartacea di “Late for the Sky” dedicato al tour italiano che la Phil Cody Band ha affrontato la scorsa estate ed ora è una bellissima realtà, anche se dimezzata: Phil ha infatti optato, anziché per un intero CD nuovo di zecca, per un EP di sette tracce, cosa che pare vada di moda recentemente negli States. Amen, evidentemente il songwriter dell’Ohio, ma da anni losangeleno a tutti gli effetti, preferisce centellinare le sue canzoni.

Cody dopo essere stato senza produrre nulla per quasi quindici anni era tornato a far parlare di sé lo scorso anno quando, per l’italica Appaloosa, aveva dato alle stampe un personale omaggio a Warren Zevon, Cody Plays Zevon, non un tributo qualunque, ma un atto d’amore nei confronti di un artista che era anche suo amico, uno per cui aveva aperto numerosi concerti negli anni novanta e che quindi conosceva profondamente, per non dire a menadito.

Al disco ha fatto seguito il suddetto tour con tutta la band, poi nella primavera di quest’anno Phil è tornato per un altro breve tour in solitudine per presentare questo nuovo lavoro. Ed è il caso di dirlo: evviva! Il tributo a Zevon era bello e intimo, ma diciamocelo, avevamo bisogno di una raccolta di canzoni nuove e ora che le abbiamo possiamo dire con sicurezza che Phil Cody c’è davvero ancora.

Featherbed, per quanto composto di appena sette brani (uno dei quali ripreso due volte) ci conferma la statura di Cody come autore e artista a tutto tondo: checché ne dicano i detrattori, quelli che non riescono a staccarsi dal ricordo del suo primo disco (The Sons Of Intemperance Offering, Interscope 1996), quelli che sostengono che Cody poi non ha saputo più essere all’altezza di quel debutto. Pretendere da Phil un altro disco come quello sarebbe come pretendere che Neil Young continuasse a rifare Harvest. Per quanto mi riguarda sono convinto che anche Big Slow Mover (del 1999) fosse un buon disco, tutt’al più penalizzato dal fatto che ci fossero due tipi di produzione ben distinti, ma era buono il disco ed erano buone le canzoni.

Le carte vincenti di Featherbed sono diverse, a partire dalle canzoni e dall’ispirazione per arrivare alla produzione unitaria e, non ultima, la scelta di usare, finalmente, i musicisti della band con cui Phil suona dal vivo quando lo fa. La Featherbed Band è infatti composta da Steve McCormick, Roger Len Smith, Bryan “Smitty” Smith (i tre compagni di tour), Andy Kamman, Rami Jaffe (proprio l’ex Wallflowers ed ora Foo Fighters a tempo quasi pieno) e Eric Heywood (uno dei più talentuosi artigiani della pedal steel della generazione di Cody e soci). Il suono è corposo, la registrazione di base è stata fatta nello studio di Jaffe dalle parti di Hollywood, ma la lavorazione vera e propria, le aggiunte, le rifiniture sono opera di McCormick che ha lavorato sodo con Phil nel piccolo studio di Mar Vista, praticamente Venice Beach. E giustamente McCormick è accreditato come produttore, perché il lavoro suona davvero alla grande proprio al lavoro che Steve ha fatto sulle canzoni.

Si parte con una vibrante cover di St. James Infirmary: il traditional riletto con sapienza da Phil e dal gruppo (reso particolarmente bene nei concerti dello scorso anno), con chitarre decisamente azzeccate, dall’elettrica di McCormick, che si occupa anche delle acustiche e del mandolino, alla pedal steel di Heywood. Di seguito arriva la title-track, un brano dalla classica andatura alla Cody, con Jaffe che spennella di hammond tutto il sottofondo, un’armonica sgangherata (potrebbe essere lo stesso Cody, ma tra gli ospiti figura il nome del “barone” Stan Behrens, armonicista e sassofonista dei Canned Heat negli anni novanta) e poi ancora le grandi chitarre il vero marchio di fabbrica di questa produzione: un’elettrica baritonale, la steel e il mandolino che emerge qua e là. Julianna per contro è un brano intimo, struggente, aperto dall’elettrica su cui entra la voce di Phil e poi ecco innestarsi le tastiere e la steel. Sinceramente non riesco a capire come queste nuove canzoni e questi suoni possano non piacere a qualcuno, eppure in rete mi è capitato di leggere commenti molto freddi a riguardo.

Moorestown è ancora più lenta e struggente, era un brano dei Red House Painters, l’arrangiamento ordito da McCormick ricorda molto certe cose di Daniel Lanois ed il pezzo è decisamente riuscito. Wild Bunch (Rides Again) è invece un divertissement del gruppo che sforna uno strumentale dall’andazzo spaghetti-western con i fiati di Behrens. Prima della fine (la ripresa di Featherbed in una breve proposta a cappella) c’è un altro brano molto alla Cody, No Long Goodbyes cantato con convinzione e con Eric Heywood che fa garrire le molte corde del suo strumento a pedali, sulla sezione ritmica incalzante e ancora quell’armonica soffiata come solo i grandi sanno soffiarla quando si tratta di abbinarla ad una musica che non sia il classico blues.

Non fidatevi dei detrattori, concedete questa chance a Phil Cody, è un consiglio da amico.

UNTHANKS – Mount The Air

di Paolo Crazy Carnevale

27 settembre 2015

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UNTHANKS
Mount The Air
(Rabble Rouser Music 2015/ IRD)

Mi sono accostato a questo disco senza avere la benché minima idea di chi fosse e di che genere di musica facesse il trio Unthanks, forse il modo migliore per accostarsi ad un prodotto discografico. Non ho neppure cercato di capire qualcosa dalle note di copertina, l’ho messo nel lettore e basta, con l’idea di lasciarmi sorprendere. E la sorpresa c’è stata, davvero: non so come siano gli altri dischi incisi dalla formazione, ma questo mi è piaciuto. Un concentrato di lirismo e bellezza davvero fantastico. Non ho dubbi riguardo al fatto che ci siano tanti altri artisti che producono musiche su questa falsariga, mi vengono in mente il primo disco degli Yagull (ma si trattava di musica strumentale) o i Sours (che degli Yagull sono poi un’emanazione diramata), ma qui l’elemento folk è preponderante, un folk che definirei cameristico, per via della strumentazione sfoderata, ma anche un folk attuale, pieno di invenzioni e contaminazioni.

Le sorelle Rachel e Becky Unthank sfoggiano una mélange canoro molto valido e Adrian McNally, produttore del disco, marito di Rachel e polistrumentista che passa dal piano alla celeste, all’organo, all’harmonium fino alle percussioni e insieme sembrano avere le idee ben chiare riguardo a quello che fanno: la loro musica si arricchisce via via di quartetti d’archi, basso elettrico, tromba, flicorno, batteria, flauti…

Sono sulla breccia da dieci anni e hanno una discografia abbastanza consistente, che include anche omaggi a Robert Wyatt e a Anthony & The Johnsons, ma per quanto mi riguarda il primo pensiero che ho fatto ascoltandoli è andato a Sandy Denny. Non so, evidentemente il mondo ha ancora bisogno di questa immensa cantante e di musica a lei correlata, basti pensare all’industriale quantità di box a lei dedicati e alle numerose ristampe dei dischi suoi e dei suoi gruppi (Fairport Convention e Fotheringay).

Il contenuto di questo Mount The Air va forse letto anche in quest’ottica, oltre che per il puro piacere di ascoltare una serie di canzoni (originali a firma McNally/Unthank, che sia l’una o l’altra delle due sorelle a co firmare i titoli, o di estrazione folk) prodotte con gusto estremamente raffinato e suonate talvolta in punta di piedi, tal altra con una profusione di strumentazione mai invadente.

Se la lunghissima Founding (quasi undici minuti) e Madam richiamano più direttamente il modello Denny, in altre composizioni, come il traditional Magpie e l’immensa title track Mount The Air (anche qui si va oltre i dieci minuti e mezzo di durata) sono perle totali: in quest’ultima, che è il brano d’apertura del disco e prende le mosse da un brano tradizionale per quanto riguarda il testo, l’ensemble si concede al massimo giustificando in pieno la definizione che ho dato in apertura, quella di folk da camera, in cui trovano spazio anche interventi dei fiati che richiamano addirittura lontane atmosfere latine. Last Lullaby ha invece una lunga intro pianistica e si sviluppa attorno al tradizionale Golden Slumbers (nulla a che vedere con i Beatles) mescolando passato e presente, gli archi sono talvolta d’accompagnamento, in altre occasioni il violino di Niopha Keegan prende il sopravvento diventando protagonista, come nell’autografa (di Keegan) For Dad.
La parola d’ordine degli Unthanks è dichiarata apertamente nelle note di copertina – che naturalmente alla fine mi sono andato a leggere – ed è tratta da un libro di canzoni popolari che staalla base di questo lavoro: “…the modern singer must use the same imagination and flexibility in adapting the other verses as did the original singers”.

E ascolto dopo ascolto Mount The Air pare confermare quanto questa sia una grande verità oltre che una dichiarazione d’intenti rispettata e concretizzata pienamente.

THE WORD – Soul Food

di Paolo Crazy Carnevale

25 settembre 2015

The-Word-Soul-Food-album-cover-2015

Quando è uscito il primo disco a nome di questo supergruppo del terzo millennio (formato dall’allora sconosciuto Robert Randolph, da John Medeski e dai North Mississippi Allstars al completo) ero rimasto totalmente affascinato dalla proposta musicale oltre che naturalmente dalle capacità dei musicisti. L’originalità di questo progetto “senza parole” era davvero spiazzante.

Quando, a quasi quindici anni da quel disco eponimo, ho letto che The Word erano di nuovo all’opera sono rimasto di nuovo spiazzato: pensavo si fosse trattato di una cosa unica, per quanto tutti gli artisti coinvolti fossero spesso stati ospiti l’uno sul palco degli altri. Ero perplesso dal fatto che dopo di allora, pur avendo seguito buona parte delle attività discografiche di Randolph e dei North Mississippi Allstars, non avevo trovato nella loro musica qualcosa di ugualmente potente. I dischi di Randolph sono buoni, in particolare il più recente live, quelli dei Dickinson sono sempre di livello accettabile, ma senza quel guizzo che avevo colto nel loro disco d’esordio e nel primo The Word.

Un po’ di scetticismo quindi ci poteva stare, anche, soprattutto, dopo aver letto che stavolta ci sarebbero stati dei brani cantati che pensavo avrebbero snaturato un po’ l’idea del disco senza parole inciso dal gruppo che si fa chiamare “la parola”.

Ora che finalmente sto ascoltando insistentemente Soul Food, questo il titolo del disco, ogni perplessità è fugata. L’unico problema del disco è che non c’è più l’effetto sorpresa innescato dal suo predecessore, ma per il resto la musica è davvero grande, i musicisti sono grandi e anche dove si canta il disco va benone (soprattutto quando a cantare sono le due ospiti Ruthie Foster e Amy Helm.

Tredici brani infilati uno dietro l’altro con una sezione ritmica che pompa energia piena di funk e groove che consente gli altri tre soci di dare sfogo alle loro capacità come solisti: non c’è che dire Chris Chew e Cody Dickinson sono davvero una sezione ritmica da sogno!

Medeski, Randolph e Luther Dickinson ne approfittano per sciorinare assoli da urlo, senza mai invadere l’uno il territorio dell’altro, con un’inventività fantastica, passando da atmosfere soul a sortite tropicali senza scordare il rock e certe influenze jazz portate da Medeski.

Si inizia con New Word Order, un buon brano d’apertura, ben suonato (come tutto il resto del disco) e ben composto, Come By Here che arriva di seguito ha invece un riff vagamente monotono, soprattutto per via del fatto che è cantato all’unisono dal gruppo, un ripetitivo refrain che poteva essere evitato visto che nessuno dei portentosi strumentisti è un vocalist particolarmente dotato, per contro quando non ci sono le voci i soggetti in questione colgono l’occasione per sfogarsi facendo decollare il brano. Ma è l’unico mezzo passo falso del disco: la successiva When I See The Blood, un tradizionale affidato alle corde vocali della ben più capace Ruthie Foster rimette tutto a posto: il gruppo lo rilegge come fosse un brano del grande Don Nix ed il risultato è davvero prodigioso. Play All Day è un tour de force in cui Medeski e Randolph tirano delle bordate di hammond e pedal steel che sono una gioia per il cuore, le orecchie e l’anima. Soul Food 1 è invece un brano dalle atmosfere rilassate, morbidissimo, molto tropicale, a metà strada tra Hawaii e Caraibi, il brano che non ci si aspetta da The Word forse, è, forse proprio per questo, sorprendente. Soul Food 2 è invece di nuovo energia pura mentre You Brought The Sunshine è un blues veloce firmato da Twinkie Clark in cui Medeski si dedica al piano (ma poi anche all’hammond) e le chitarre impazzano. Early Moanin’ Time ancora col piano in evidenza è invece più notturna ma non meno efficace, il piano danza sui ruggiti della pedal steel e poi entra di nuovo l’hammond – come si fa a non amare queste sonorità? Con Swamp Road (a firma del solo Medeski mentre buona parte del resto è composto in socievole armonia da tutti) le atmosfere sono più jazz oriented, c’è spazio per gli interventi solisti di tutti che ben si adeguano allo stile della composizione. Si prosegue con due brani di Randolph (Chocolate Cowboy e The Highest) un po’ più routinari ma comunque apprezzabili, in particolare il secondo, lento è profumato di atmosfere da colonna sonora dei primi anni settanta. La conclusione è col botto: Speaking In Tongues che parte soffusa e guidata dall’hammond si evolve snodando un tema ipnotico su cui Dickinson e Randolph si inseriscono sapientemente, Glory Glory invece è il terzo brano cantato del disco, la voce è quella di Amy Helm e l’arrangiamento è azzeccatissimo con Luther Dickinson che ha l’occasione di cimentarsi al dobro in questo tradizionale che vede Medeski seduto al Wurlitzer.

BANDITOS – Banditos

di Paolo Crazy Carnevale

24 settembre 2015

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BANDITOS
Banditos
(Bloodshot 2015)

Sono sudisti purosangue, originari dell’Alabama ma di stanza a Nashville: eppure questi Banditos, accasati presso la label chicagoana Bloodshot, in copertina, novelli Outlaws – come il nome lascia ampiamente supporre – , si fanno ritrarre con sullo sfondo la bandiera a stelle e strisce dell’unione. Forse un’apprezzabile dichiarazione d’intenti in un momento in cui a Charleston si ammaina una volta per tutte la bandiera confederata.

Questo loro disco di debutto è subito una bella sorpresa, confezionato per bene e con tante frecce all’arco da confondere quasi le idee, potremmo richiamare in causa il concetto di country punk, o cowpunk che dir si voglia, ma nel frattempo di acqua sotto i ponti ne è scorsa davvero parecchia, gli anni in cui i Lone Justice facevano capolino col loro brillante esordio sono lontani e poi rispetto al gruppo di Maria McKee, questi Banditos sembrano avere molti meno santi in paradiso. La formula è un po’ quella, ma ci sono riferimenti anche al sound più desertico dei primi Green On Red, con cui i Banditos sembrano condividere le passioni etiliche (il lato B del vinile si apre con Still Sober After All These Beers, brano dal titolo decisamente geniale).

I Banditos sono un sestetto grintoso con tre cantanti solisti – su tutti Mary Beth Richardson, con una voce tagliente ed al tempo stesso così venata di nero da richiamare il feeling di Janis Joplin, cosa che ha spinto la Bloodshot a spingerli come una sorta di epigoni degli Alabama Shakes – e una strumentazione che punta sulla miscela di suoni tosti creati da sezione ritmica e chitarre e richiami alla tradizione con un bell’uso del banjo e del kazoo. Potrebbe essere southern rock del terzo millennio, ma preferisco lasciar perdere le definizioni e consigliarvi l’ascolto del disco.

Uno dei brani trainanti del disco è l’iniziale The Breeze, che come altri brani qui inclusi ha su youtube una bella versione video; buona anche la successiva Waitin’, ma il disco entra nel vivo con Golden Grease, oltre cinque minuti di bella musica con apprezzabili spunti della solista di Jeffrey David Salter e le voci di Timothy Steven Corey Parsons e Stephen Alan Pierce II a sostenere tutto. Ad arricchire il tutto ci sono poi le tastiere di Mitch Jones (ospite in studio) che è presente anche nella successiva No Good, slow blues dominato dalla voce della Richardson, e in Ain’t It Hard che chiude il lato A del disco con sferzate di Farfisa su un brano d’ispirazione meno punk.

Il lato B si pare con la già citata Still Sober After All These Beers, non memorabile ma dotata di una bella introduzione struemntale quasi d’atmosfera surf. Molto meglio Long Gone Anyway (altro brano disponibile su youtube), con un implicazioni di carattere jug band impresse dal kazoo della Richardson che fa anche da voce d’appoggio a Parsons mentre Pierce si occupa del banjo.

E ancor meglio è Old Ways, nulla a che vedere con Neil Young, bensì una soul ballad di grande effetto, con la Richardson che tocca davvero le corde più recondite dell’anima e begli intrecci delle chitarre col banjo che si fa sentire in sottofondo, mentre le tastiere non sono accreditate a nessuno, pur essendoci.

Can’t Get Away è un bel rock tenuto su molto bene dalla combinazione delle voci e dai giri di chitarra creati da Salter, con Cry baby Cry ci troviamo di fronte ad un’altra composizione energica quasi un boogie, con tanto di pianoforte (Micah Hulscher) mentre per il finale i Banditos sfoggiano la lunga Preachin To The Choir, una composizione che gronda sudore e deserto, con la voce di Parsons in primo piano e la Richardson che gli fa eco: a riempire il sound generale c’è poi la pedal steel di Dan Fernandez che dialoga con l’elettrica ed il banjo creando un tappeto ricco di spunti che sfocia in un finale dilatato.

All’interno della confezione vinilica c’è una download card che permette di scaricare il disco in formato digitale, con l’aggiunta di una bonus track (presente però sul CD) molto country e per nulla punk, Blue Mosey#2, che ci permette di conoscere un ulteriore aspetto della musica dei Banditos: piacevolissima!

From Sweden With Love…/3

di Dario Blek Medves

16 settembre 2015

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RYAN BOLDT
Broadside Ballads

Oscuro e misterioso, triste e ardito questo sconosciuto ssw riesce a forare con la sua lama fatta di corde, i nostri anfratti più deboli di ascoltanti miracolati da musica così perfetta. Per forza, RB vive in Manitoba e noi di Manitoba conosciamo solo la farina. Ora abbiamo un opzione in più nella vita. Copertina di difficile lettura mentre il bello viene ascoltando. Un cd fatto di poche cose, ma tutte nella maniera giusta, ossia quella adatta a farci emozionare ancora con il folk e altri minuscoli derivati. In sostanza un racconto di miracoli e tragedie passate attraverso la voce granulare del nostro. Ne vale la pena approfondire terreni oramai lasciati alle spalle, da chi vorrei tanto saperlo però. Comunque questo cd è un piccolo gioiello della sera che avvolge il nostro spirito del ritorno a casa dal lavoro. In tangenziale negli uggiosi e bui pomeriggi in coda, deve essere terribile assimilarlo. I nostri aliti che sanno di alluminio, le luci rosse dei freni, il tergicristallo che non scivola e lascia una riga proprio al altezza degli occhi e gli odori della macchina difendono o imprigionano il noi libero e sognante, lasciandoci sul tappeto quello che resta delle nostre vitalità spese in passato, quello che non passa mai. Così vediamo scorrere le nostre gesta mentre suona Rambleaway o Poor Murdered Woman. Noi siamo lì al angolo della settima con la ventinovesima, sudati marci o umidi fradici, nascosti dalla nostra paura di urlare che siamo ancora vivi e rabbiosi e pronti alle sfide della paranoia istituita. A volte credo che siano i cd e in generale la musica adatta alle nostre tempie, la vera ragione di essere noi così e per sempre. Conto su Ryan Boldt, come pure su Townes Van Zant e pochi altri. Voi?

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BARRY OLLMANN
What’ll It Be

La prima song, Imogen Lament, con Graham Nash, mi ha castigato molto. Trattasi di un tema a me caro, ossia la fine del epoca argentea della fotografia. Il racconto di un vecchio sulla veranda che ricorda rullini, libri e bianco e neri oramai spariti. Al posto suo oggi solo immagini col telefono e carriere basate sul nulla e lontane dalla sensibilità manuale del materiale. Camere oscure… e mi vedo giovin in quelle, quando apprendevo a capire la pellicola ed il suo odore. Puzza chimica e afrori bui in quegli anni di grandi esplosioni artistiche che sono state demolite dal avidità creativa di altri fantasmi del bla bla. Restano i ricordi e gli obiettivi, alcune fotocamere scolorite e la nausea da pixel maltrattati. In questa song vedo il mio o nostro declino che il BO racconta in maniera esatta. Cita Stieglitz e Adams ed è come tornare a scuola. Poi infiamma la lacrimuccia disegnando i colori del America in Kodakchrome. Ci lascia in eredità un futuro di ricerche vane a chi capirà il secolo scorso come l’inizio di tantissime attuali ricchezze. Chi ha attraversato la fotografia in quei tempi dalla parte del retro bottega o dalla parte oscura del sensibile saprà ritrovare con questa canzone, qualcosa che lo sappia ancora far ruggire. E se penso a come sia oggi il mondo del analogico è logico che tutto si frantumi, al cospetto della praticità. Ma è veramente questa la ragione? Ho ripreso in mano una SRT101 e mi sono sentito patetico, inconsciamente non tornerei indietro per dover cercare ancora dei Minilab inquinati ed inadatti alle speranza di vendetta. Dimenticavo, a parte questo brano, questo cd cantautorale brilla opaco come ce non sono centinaia e centinaia nel mondo. Senza infamia e senza lode e senza nemmeno poter sperare in un ritorno della Kodak. Alla faccia degli uno e degli zero.

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TOD HUGHES PROJECT
Changing Gears

Quale sia la utilità di un ep lo sappiamo tutti. Quello che al contrario non si racconta è se il suddetto manufatto nel tempo, ridivenga solida produzione oppure realtà prestabilita e di conseguenza fondo di magazzino nei tempi futuri. Questo soggetto ne ha tutte le caratteristiche, quelle ambigue della sorpresa declamata e quella inesorabile di diventare materia da dimenticare, senza che nessun ne pianga lodi e celebri casalinghe adunate in nero. THP è la realtà dei fenomeni inutili, delle sortite anonime e del tutto lontane dai nostri fabbisogni quotidiani di rock and roll. Lui ci prova, forse ci riesce ma di sicuro non scava in noi il solco della impura scelta. Quella del acquisto. Cd di maniera quindi, insipida prova di un goloso di country rock che allieta il petto ed il crine degli asciutti Californiani sbronzi, il venerdì sera. Ecco il suo paradiso, il saloon o il bar room dove scatenarsi coi suoi articoli nascosti e messi sul tavolino dove tre carte leggermente inclinate decidono la serata. Sei brani di cui solo l’ultimo ricorda la meccanica del roll ma senza quel rock, di cui si abbisogna in guisa oraria e diretta. Sarebbe un tentativo che non si trasforma in tentazione, sebbene sia un ep, basta ed avanza. Musica cosi è leggera per noi incatramati e ventruti insoddisfatti della notte, della sera ma anche del pomeriggio in quel ora del sole negli occhi e delle nostalgie southern, che questi THP inesorabilmente, cercano di dimostrare realizzando solo un qualcosa di strasentito, insipido e aggiungo noioso. So and so.

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VV. AA.
Singer Songwriters From Home

La Hemifran, gloriosa label di casa a Sparson in Svezia, ha realizzato un cd di classe elevata che verrà pubblicato dopodomani, 4 settembre. Ha invitato Greg Copeland, Keith Miles, Bob Cheevers e Barry Ollman per celebrare il cinquantesimo anniversario di quel famoso album su Elektra in cui partecipavano i mai dimenticati Patrick Sky, Bruce Murdock, Dave Cohen > David Blue e Dick Farina. Era intitolato Singer Songwriters Project. Al tempo era stata una idea di Jack Holzman, patron della label, quella di radunare quattro ssw diversi tra loro per fissare in eterno, il senso del folk nel universo musicale. D’accordo si era a New York nei primi sessanta e noi eravamo in piena pubertà. Ma dopo mezzo secolo le rose sono fiorite. Alè. La copertina del cd è simile a quella storica, ho tra le mani un pre copia in cartoncino, e il senso del iniziativa, secondo me si riassume oltre al fattore della memoria, anche in quella di regalare ai quatto validi ssw, l’onore del impresa. In fondo sono sempre in giro e sono vivi e vegeti, mi riferisco agli attuali, ovviamente. Un cd che non va giudicato, e nemmeno letto attraverso il senso smillo della neve. Bisogna solo lasciarsi andare alle ruvide screpolature del tempo e alla storia del folk, la stessa che ha disegnato nelle nostre trippe il senso della vita che supportiamo. È un cd da mettere in macchina restandoci per tanto tempo. Racconti, storie ed anfratti slide con angolo cottura ben areata, sono la costante del impresa scandinava. I nostri paladini sono forti freschi e sempre decisi a non cadere nelle fessure della mediocrità. Trovandolo lo comprerete sicuramente, ascoltandolo sarete di nuovo voi come sempre, e giammai come tanti altri. Evviva i singer songwrites di ieri e di oggi.

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LYNN JACKSON & CHRIS BOYNE
The Acoustic Sessions

Questi cd mi fanno venire l’orticaria. Non perché siano inutili o altro, ma per la semplice ragione che noi qui, in questo paese, non possiamo capirli e immaginarli nel loro vero senso di esistenza. Dobbiamo adeguarci alle possibili varianti che mai saranno esatte e che mai saranno nostre. Se ci siamo fortificati con il folk e con il country rock, ora ci spappoliamo con i residui di quella fioritura. A ricordarcelo invisibili mestieranti di terre lontane e oramai dimenticate, se non del tutto sepolte. Ma cosa ci fa Norman Blake in questo cd suonando lo shaker? Il declino è presente e fetente, e il resto della menata bucolico casereccia è tutta qui, nella loro bravura perfettina, nella loro limpida pulizia dei bagni e aggiungo le lenzuola fresche di bucato. Coppietta da tenere distante questi LY e CB. Figli della plastica fiorita. Tutto scivola via in maniera libera da grigiori e pus, si splende di luce adamantina nei solchi algidi di brani sempre uguali e sempre oliati a dovere, con le sapide corde del suo lui. Non sono soli comunque, si ascoltano anche gli altri strumenti del imprinting legnoso, i classici che fanno tanto vintage cello, pedal steel e resonator etc. Ma de chè? Una melassa effervescente che si ascolta, ma anche si butta. D’altra parte ognuno ha le orecchie a modo suo e su questo non si discute. Definire pezzi decenti ed altri opachi non ha senso tutto il cd è lineare e superficiale, certo a capire benissimo i sensi delle parole sarebbe un altro discorso, ma noi che siamo nervosi e gastrici nelle ore del ascolto pattuito, un cd così non resiste molto nel lettore. È non è brutto, è solo troppo prefetto tanto da risultare privo di difetti. Quindi non rimane in memoria e la palla rimbalza sulla eterna domanda, perché?

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JACK TEMPCHIN
Learning To Dance

Eccolo qui, il mai dimenticato JT, artista che con una canzone si è piazzato nel paradiso fiscale del folk edulcorato e al sicuro dai malanni del blues rivisitato. Ho riascoltato i suoi precedenti lavori, il suo debutto coi Funky Kings su Arista AL 4078, del 1976, poi il suo omonimo sempre sulla stessa label AB 4193. Aggiungo anche il cd del 1993 su Taxim numero TX2009, After the Rain assieme ai Seclusion, band composta da certi Glenn Frey, JD Souther, Mike Finnigan, David Crosby e Timothy Schmit. Della serie, voci nuove. Quindi un grande nome ed un grande paroliere. Questo suo ultimo immagino album resta un discreto esempio di ssw che nelle nostre periferie mentali si colloca come un rettile senza fissa dimora. Ad un ascolto frettoloso non esala la sua qualità di contenitore denso ma dopo una ripetuta analisi sonora, la seconda, si percepisce che anche con questo album JT, sa cosa dice. Peccato che non capisco io, umile fanzinaro che spera sempre di trovare la lux della fiat, senza dover aspettare la fine dei suoni. Per cui devo sforzarmi ad essere più californiano. Ma dove! Questo cd è adatto a chi si riposa in ambiti dove velluto e hi-fi spadroneggiano alla grande, musica salottiera senza colpo ferire. Lui oggi è un canuto hobo di lusso e noi siamo solo canuti. I brani sono belli soprattutto la bonus track, che bello sembra un regalino alla folla, alla plebe in coda davanti ai record shop. Sorta di multipli che aspettano il contentino della sera da parte di un grande che, se lo è stato, lo fu solo per una botta di culo. Certo la pacifica facile sensazione di quei giorni si è fossilizzata e noi col martellino da geologo, siamo ancora qui a sgretolare cd di cui nessuno ne sentirà più la necessità. So di sbagliare ed il martelletto lo lascio a quel tipo della tv di cui non ricordo il nome, Tozzi credo. Ecco questi cd sono per persone di questo genere. Ora sapete cosa fare coi martelli. Oltre a quello che sorge spontaneo.

CCCP FEDELI ALLA LINEA – Carpi e Berlino: Fra la via Emilia e l’Est

di Marco Tagliabue

12 settembre 2015

“Ma Berlino è una città che ti mette, spietatamente, e nello stesso istante, di fronte a te stesso e di fronte alla follia degli uomini, della guerra, delle divisioni e degli schieramenti politici. Una città in cui puoi ritrovarti, se ti sei perso, o perderti completamente, se lo vuoi, nell’abbandono languido, venato di tristezza e malinconia che essa ti offre; è una città fatta di cose concrete, di rapporti umani ‘pesanti’ e non frivoli, poiché anche la sua frivolezza nasconde quella particolare pensosità che noi chiamiamo ‘nordica’. E’ una città culturalmente vivace, aperta, spericolata. E’ una città in cui puoi andare anche a fondo, soprattutto quando già alle due del pomeriggio il cielo è buio come la notte, la pioggia acida non ti lascia scampo, gli amici non rispondono più alle insistenze dei tuoi sentimenti. E, allora, in questo caso, il tuo cuore batterà con lo stesso impulso infelice di una città che è stata la capitale del mondo e che la storia sembra condannare allo svanimento; vedrai la gloria e la rovina, il successo e la disperazione, fino ad abbandonarti nelle acque untuose della Sprea e allora conoscerai, pienamente, tutto il languore e tutta la saggezza di questa città; accarezzerai i rami frondosi dei salici che l’acqua trascina e ti ritroverai magicamente un uomo nuovo.”(Pier Vittorio Tondelli, 1985, da “Berlino” in “Un weekend post moderno” ediz. Bompiani, 1990)

-Siete stati i primi a lanciare in Italia la linea del filosovietismo.
-Noi abbiamo fatto solo l’inizio. Il resto l’ha fatto l’URSS.
-Vorrei conoscere questo inizio.
-Eravamo stanchi di tutto questo vivere all’americana, di mode americane e cose del genere. Credi di vivere in America, ma è ovvio che non è vero. Noi ci sentiamo europei dall’intelligenza più piena all’ignoranza più bestiale.
-Europei d’accordo, ma perché lo schieramento dell’Est? Non basterebbe europei e basta?
-Scegliamo l’Est non tanto per ragioni politiche, quanto etiche ed estetiche. All’effimero occidentale, preferiamo il duraturo; alla plastica, l’acciaio. Alle discoteche preferiamo i mausolei, alla break dance il cambio della guardia. Che futuro per un’Europa che non può ammettere che Pankow, Varsavia, Praga, sono città europee a tutti gli effetti? E allora ‘Live in Pankow’, ‘Live in Mosca’…
-‘Live in Ost Berlin’…
-A Berlino, la dolcezza del vivere esce a un livello puro: la violenza più grande, la dolcezza più estrema. I punk e i turchi. Kreuzberg, quartiere abitato prevalentemente da turchi, è il cuore della nuova Europa.
-Vuoi dire che questa vostra idea dell’Europa passa attraverso l’Islam?
-Dovresti essere a Berlino per capire. A Berlino, sei un turco a tutti gli effetti: mangi turco, puzzi turco, sei circondato da turchi, abiti in mezzo a loro. Le culture arabe e asiatiche sono quelle a noi più vicine, e la cultura europea si scontra, e si incontra, con queste due civiltà, da sempre. Questo è il nostro retroterra culturale e fisico. Noi facciamo quindi del punk filosovietico.
(Pier Vittorio Tondelli, 1984, Intervista ai CCCP, da “Punk falce e martello” in “Un weekend post moderno” ediz. Bompiani, 1990)

Si fossero incontrati nella loro Reggio Emilia, magari, Massimo Zamboni e Giovanni Lindo Ferretti non si sarebbero guardati neanche in faccia. Sarebbero scivolati via, in silenzio, nella reciproca indifferenza, prigionieri del turbine dei propri pensieri, gli stessi, e del giogo ancora incerto delle loro esistenze silenziose, destinate a correre su binari paralleli per non dire su un’unica rotaia: quella del Trans Orient Express, naturalmente. Ma Berlino era il luogo dove tutto poteva e doveva accadere. Il luogo dove le occasioni di incontro si moltiplicavano ed i destini, inesorabilmente, si incrociavano. E allora poteva anche accadere che, stranieri a casa propria, ci si scoprisse figli della stessa utopia nel grembo di un Paese straniero. Berlino erano le Università che attiravano giovani da tutto il mondo: una fauna variegata e multicolore nella quale chi cercava una solida ipoteca per il proprio futuro si mescolava, amabilmente, a chi cercava una scusa per prolungare più a lungo possibile il proprio passato. Erano centinaia di birrerie a buon mercato che chiudevano alle cinque del mattino, proprio quando partiva la prima corsa della metropolitana, e sulle banchine i fumi dell’alcool di chi non aveva ancora finito la propria notte si mischiavano agli aromi di caffè di coloro che avevano già iniziato la propria giornata. Erano decine di mercatini dove qualsiasi cosa, lecita o illecita, veniva via per poco, da quel paio d’anfibi che sembrava avessero fatto davvero la seconda guerra mondiale, allo sguardo sornione della tipa che, per un attimo, ti aveva illuso che guardasse solo te. Berlino erano anche centinaia di case occupate, gli squat che nascondevano i reietti e gli ultimi punk insieme a chi, non per scelta ma per necessità, era costretto ad abdicare da una vita normale. E, si manifestasse più o meno fisicamente la sua presenza, Berlino era soprattutto il fantasma incombente di quel muro assurdo, “tragica barriera fra un mondo che si finge libero e un altro che si finge felice, fra un mondo che offre la ricchezza e un altro che offre la mancanza di povertà”, per dirla ancora con Tondelli. Una città che custodiva gelosamente i vizi e le contraddizioni di due civiltà che si spiavano ma non si parlavano, che si temevano pur pensando ciascuna di essere la più forte, e che rappresentavano sullo stesso palcoscenico la tragedia che divideva in due l’Europa, che spezzava il mondo a metà.

La gestazione dei CCCP Fedeli alla Linea, il gruppo italiano più importante degli anni ottanta ed uno dei maggiori di sempre, avviene nel quartiere turco di Kreuzberg, Berlino Ovest, nel 1982, grazie all’incontro, che la Storia vorrebbe casuale, fra Massimo Zamboni e Giovanni Lindo Ferretti, entrambi da Reggio Emilia e provincia. Questo è il big ben nelle loro stesse parole: “Agli inizi degli anni ottanta la voglia di vivere di un gruppo di persone si trasforma in un progetto di carattere culturale. Centro di produzione e residenza Reggio Emilia, orizzonte geografico e culturale quel pezzo di mondo che comprende l’Europa, l’URSS, il Nord Africa, l’Oriente vicino e quello lontano. Con problemi morali ed economici, con differenze ed affinità, soli, perché nostro referente non è mai stato il mondo musicale con i suoi miti e riti, ma il mondo reale con le sue crisi e speranze”. E se Carpi, anche in virtù di quell’autostrada meravigliosa che se “hai soldi e tempo in una giornata intera e anche meno esci sul Mare del Nord, diciamo Amsterdam, tutto senza fare una sola curva”, è la periferia estrema di Berlino, l’enigmatica metropoli tedesca non è solo l’avamposto occidentale dell’Impero del Male che si cela oltre cortina: è l’incarnazione perfetta dell’ideale socio politico culturale di Zamboni, Ferretti e soci, l’embrione del mondo che verrà. Il comunismo e la presenza palpabile dell’Unione Sovietica da una parte, la cultura islamica dei turchi di Kreuzberg e delle moltitudini di immigrati asiatici dall’altra. In mezzo, loro, i giovani punk, frangia estrema di un movimento altrove già morto e sepolto. Due idee diverse di Oriente (ma sarebbe meglio dire di non-Occidente) che, per i Fedeli alla Linea, sono le facce della stessa medaglia, le coordinate geografiche di una personalissima isola del tesoro. Punk filosovietico e musica melodica emiliana, allora, Live In Pankow e Islam Punk. “Berlino è fra le città occidentali la più islamica, sono più di duecentomila gli immigrati turchi che vi lavorano e vi abitano. Turchi e punk sono l’estetica e l’etica che ci interessa di West-Berlin, Istanbul è anche un pezzo di Kreuzberg e Kreuzberg è il cuore della nuova Europa”. Una simbiosi talmente perfetta da preludere allo stesso, inevitabile destino. Le macerie del muro di Berlino avrebbero travolto, e sotterrato, anche i CCCP, insieme a quell’ideale, certo un po’ ingenuo e romantico, ma indubbiamente sincero, che, molti anni dopo, sarebbe stato in buona parte rinnegato anche dal suo principale artefice nella tana del lupo, la tribuna televisiva di un compiaciuto panzer governativo. Un Ferretti ormai fin troppo Lindo, quella volta, da Ferrara, avrebbe fatto cadere il muro un’altra volta, e con esiti ben peggiori.

E allora, meglio un altro passo indietro: “Che futuro per un’Europa sempre più in disparte, tenuta come avamposto dall’ingratitudine di un impero da lei stessa generato e favorito? Quando si è in prima linea diventa necessità vitale fare di tutte le frontiere un muro. Di qua il bene, discutibile, però bene. Di là il male, non discutibile, perché male. Un paraocchi troppo ristretto limita la vista anche nelle vicinanze, così i muri invisibili che separano tra loro i tedeschi dell’Ovest sono più alti di quello, visibile, che separa Berlino da Pankow. Ed è una presunzione da miseri a farci supporre che Berlino Est sia al di là di un muro, quando, al contrario, è Berlino Ovest ad esserne contenuta”.
Fedeli alla linea e la linea non c’è.

da LFTS n.103

MILLPOND MOON – Time To Turn The Tide

di Paolo Crazy Carnevale

10 settembre 2015

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MILLPOND MOON
Time To Turn The Tide
(Tikopia Records 2015)

Nella mia lunga frequentazione del repertorio dylaniano credo di aver ascoltato centinaia di versioni delle canzoni del menestrello rivisitate da vari colleghi, a volte illustri, altri misconosciuti: alcune erano pedisseque riletture, altre buone reinterpretazioni, altre ancora geniali colpi da maestro. Sinceramente non pensavo di trovare una Forever Young di questo calibro, per me le due versioni incise dallo stesso Dylan su Planet Waves erano già il top, e invece eccomi qui ad incensare la cover con cui questo duo svedese di nome Millpond Moon apre il proprio nuovo disco. Kjersti Misje è dotata di una buona voce, Rune Hauge (suppongo la mente del duo) ha una voce che ben si mescola con quella della sua partner e suona la chitarra con gran gusto e savoir fair. Per realizzare questo gioiellino acustico si fanno aiutare da qualche connazionale e da alcuni americani che rispondono ai nomi di Ricky e Ronnie Simpkins e Kenny Malone e il risultato è esemplare, tre quarti d’ora circa disseminati nell’arco di dieci canzoni (o viceversa se preferite), rette magnificamente dai suoni acustici della chitarra di Hauge e da vari mandolini, violini mandole, dobro, celli, bassi acustici: se non fosse per le leggere percussioni di Malone e per il piano presente in un brano si potrebbe dire che ci troviamo di fronte alla quintessenza degli strumenti a corde. Oltre al brano di Dylan ci sono composizioni originali di buona caratura come Wind Of Plenty, la title track un po’ in odore di old time, Wind Of Plenty, l’ottima Lena Baker con una bella alternanza vocale dei due protagonisti: gran folk contemporaneo, ma anche bluegrass, se non altro per l’approccio strumentale, non certo per quanto riguarda il cantato che si distacca parecchio dall’erba blu del Kentucky.

Ci sono anche un paio di altre cover di rilievo, All La Glory della Band e il tradizionale Wayfaring Stranger che vanta decine di riproposte, ma alla fine quello che conta, che emerge, è la capacità della formazione di creare un suono proprio, uniforme, sia che si suonino canzoni originali, sia che si rileggano quelle altrui. Ed è già un grandissimo pregio!

MARK BILLINGHAM & MY DARLING CLEMENTINE – The Other Half

di Paolo Crazy Carnevale

8 settembre 2015

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MARK BILLINGHAM & MY DARLING CLEMENTINE
The Other Half
(Hachette Audio 2015)

Difficile confrontarsi con questo disco. Difficile perché non si sa come considerarlo. Noi di solito ci occupiamo di musica, ma questo è un disco che per più di metà della sua durata è parlato. Ma non è un audio libro perché ci sono le canzoni. È un ibrido dunque e come tale da prendere con le pinze. Si tratta del progetto che coinvolge il narratore Mark Billingham (la cui produzione poliziesca è ben nota anche nel nostro paese) e il duo musicale My Darling Clementine, formato da Michael Weston King e Lou Dalgleish (il cui sodalizio ha già partorito qualche disco). Non novellini dunque, ma la soluzione di pubblicare un disco con canzoni tratte dal racconto di Billingham, con tutta la narrazione parlata mi pare eccessiva. Le canzoni sono buone, ma non aggiungono nulla a quanto si è ascoltato in tanti anni di musica da cantautori country oriented: le canzoni sono solo sette, per un totale di venticinque minuti circa, un po’ poco non vi pare? Il tutto, naturalmente solo in inglese. Qualcosa è interessante, come No Matter What Tommy Said o la title track, grazie alla voce della Dalgleish (detto per inciso, Weston King ci ha solo guadagnato unendo le sue sorti musicali a quelle della bionda Lou). La storia in sé non sembrerebbe nemmeno male (viene anche portata in giro in forma teatral-musicale dai My Darling Clementine), ma anche qui niente di nuovo, per quanto apparentemente (per quel che mi permette di capire il mio inglese) scritta bene. Storie da provincia americana profonda. A farmi storcere il naso c’è il fatto poi che abbiano messo in copertina il nome di Graham Parker, salvo che poi si scopre che la sua è solo una voci narranti e non canta nulla! Da segnalare infine la presenza del Brodski Quartet. Insomma questa è una recensione per mettervi all’erta, se avessi dovuto comprare questo disco per recensirlo, starebbero ancora volando le bestemmie…

THE COFFIS BROTHERS & THE MOUNTAIN MEN – Wrong Side Of The Road

di Paolo Crazy Carnevale

6 settembre 2015

coffis brothers

THE COFFIS BORTHERS & THE MOUNTAIN MEN
Wrong Side Of The Road
(autoproduzione 2014)

Neil Young e Tom Petty: le biografie telematiche della giovane band di Santa Cruz non esitano ad indicare questi due signori tra le influenze più evidenti della produzione musicale dei fratelli Coffis e dei loro accoliti montanari. Una definizione che ci sta del tutto. Senza strafare però, nel senso che le lezioni dei due grandi rocker si possono intuire in buona parte del disco (e non sempre nei brani migliori), complici delle chitarre con tendenza alla jam che ricordano talvolta Mike Campbell, talvolta il rocker canadese più amato dal pubblico, senza dimenticare una voce (o delle voci) che sono abbastanza nell’onda degli Heartbreakers e del loro leader ma talvolta anche in odor di Steve Earle (nel brano Love Of Mine ad esempio).

Il dischetto che mi sta girando nel lettore lo ho ascoltato parecchie volte in questi giorni e ci ho messo un po’ a capire se fosse buono o meno. O meglio, a capire quanto fosse buono. Perché buono lo è indubbiamente, il mio dubbio era se ne potesse fare a meno considerato il fatto che in tutta sincerità si tratta di una band dal suono derivativo e citazionista. Alla fine sono giunto alla conclusione che è un disco che si può avere in casa e rispolverare di tanto in tanto per farsi sedurre dalle belle sonorità calde emanate da chitarre d’ogni tipo, acustiche, elettriche, pure, distorte, ma sempre sottolineate dai passaggi di tastiere come organo, Fender Rhodes e Wurlitzer che garantiscono sempre una ventata vintage che piace ad oltranza. I Mountain Men dal canto loro accompagnano con precisione le canzoni scritte da Kellen e Jamie Coffis.

Il disco si compone di tredici tracce che spaziano dal rock più mainstream alle ballate passando per quel tipo di songwriting alla Lucinda Williams (l’iniziale I’m Gonna Find You e la conclusiva title track, giusto per dirne due, sono degli esempi più che lampanti, con un sound elettrico in cui le chitarre, ce ne sono molte in questo disco, si rincorrono jammando) che insieme a Neil Young e Petty è il filo conduttore del disco. Rollin’ è invece un rock più canonico e I’ve Do Anything si muove sui territori della ballata elettrica, quasi alla Fogerty (come vedete le influenze sono tutte più che buone e ben mescolate), con una ritmica acustica alla Who’ll Stop The Rain (ma la canzone non è una copiatura). E trai brani migliori si segnalano anche la lenta Before And After – canzone in che ricorda i Jayhawks, sorretta dal piano elettrico e dal Wurlitzer – e The Hardest Thing abbellita da cori che ricordano molto il repertorio del country rock westcoastiano dei primi anni settanta, pur non trattandosi di un brano country rock in senso stretto, discorso che vale anche per il blues Give It To Me.

Qualcuno potrebbe obiettare che è preferibile andare ad ascoltarsi gli originali, ed è il motivo per cui ci ho messo tanto a decidere cosa dirvi di questo disco: alla fine credo che si tratti solo di mood – come sempre –, dell’umore con cui ci si approccia ad un disco, ed è il motivo per cui è sempre bene non fidarsi della prima impressione. E comunque, se vi piacciono gli artisti nominati fin qui, troverete piacevoli anche questi fratelli Coffis ed i loro amici.

EIGHT O’FIVE JIVE – Too Many Men

di Paolo Crazy Carnevale

4 settembre 2015

eight o five jive

EIGHT O’FIVE JIVE
Too Many Men
(Red Rudy Too Tunes 2014)

Probabilmente se venissero recensiti su una rivista con le recensioni suddivise per genere, questi Eight O’Five Jive finirebbero nella categoria blues, un po’ per tagliare la testa al toro, un po’ perché in effetti tra le tante cose che ci sono nel loro sound, il blues è abbastanza evidente. Non è un caso infatti che questo CD sia stato nominato come miglior debutto ai Blues Blast Award di quest’anno e in varie categorie legate al blues ai Nashville Industry Music Awards, ma è bene dire che non si tratta di blues canonico, qui c’è una spruzzata di swing elettrico e soprattutto ci sono sonorità jive molto evidenti, fin dal nome del quintetto guidato dalla cantante Lee Shropshire.

Il punto di forza del gruppo è senza dubbio l’energia con cui viene rivestito un genere non propriamente alla moda: la Shropshire (unica del gruppo a firmare qualche brano) canta con gusto e riesce a passare da atmosfere vellutate (You Was Right Baby) a graffianti approcci jungle (I’ve Got A Feelin’) con i soci che le fanno i coretti e sostengono il sound tutto costruito su basso, chitarra, batteria e un sax di matrice jazz che a tratti suona più morbido e scontato, lanciandosi in altre occasioni in riff nervosi. Il disco è piacevole, naturalmente nulla di nuovo, di certo un buon sottofondo per ogni occasione, con alcune punte di eccellenza come i brani citati poc’anzi o Feed Them Monkeys, Misery Loves Company (una delle composizioni della cantante), Kissing In The Dark, la spiritosa Young Enough To be My Son.

A confermare l’ispirazione demodé del gruppo, il disco è confezionato con una goffa grafica che vorrebbe richiamare alla mente quella di dischi d’un tempo e l’abbigliamento della band non lascia dubbi: sembra davvero che provengano dagli anni cinquanta quando il jive era al top della popolarità.

BUFORD POPE – Sticks In The Troath

di Paolo Crazy Carnevale

2 settembre 2015

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BUFORD POPE
Sticks In The Troath
(Unchained 2014)

A dispetto dello strano nome che sembrerebbe presagire il disco di un gruppo, Buford Pope è lo pseudonimo del rocker svedese Mikael Liljeborg, classe 1971, che con questi “bastoni in gola” dovrebbe essere giunto al suo quarto disco in poco più di dieci anni. Ascoltandolo, la prima cosa che viene in mente è che per quanto il suo rock sia dichiaratamente derivativo, nel senso che i modelli a cui si rifà sono molti, fino a che ci saranno personaggi come lui, che nel rock ci credono e continuano a suonarlo con grinta, nessuno potrà sottoscrivere dichiarazioni come quella di Sting che ormai un quarto di secolo fa andava dichiarando che il rock è morto. La musica di Buford Pope che esce da questo buon dischetto è un bel miscuglio di roots rock (anche se il termine roots non è indicatissimo per un non-americano che fa una musica americanissima), punk abrasivo e un po’ di mainstream, impreziosito dall’uso di strumenti come lap steel e banjo. Niente di nuovo forse, ma di sicuro un disco godibile, con spunti più apprezzabili ed altri forse un po’ più scontati. La title track ad esempio, con un pur accattivante attacco, o She’s Gotta Country Mouth che sembra una versione alla carta vetrata di un classico dylaniano, non dico quale, ma con la batteria mixata troppo alta rispetto al resto, al punto di dare quasi fastidio. Per contro Love Affair funziona molto bene e anche Go Your Own Way suona davvero alla grande, con le chitarre in bella evidenza. Non male anche Highway dove invece vengono fuori bene il banjo e un assolo di chitarra ispiratissimo. L’attacco di Give It Up fa molto Tom Petty (quello con gli Heartbreakers naturalmente) con chitarra e hammond a tirare il carro, mentre You Are The Drug I Use, quasi un folk alla Knopfler, ha un’intro che sa di già sentito e si discosta un po’ dal resto come atmosfere, ma con l’attacco di I’ll Geto Over That il titolare sembra citare senza vergogna l’attacco di Taneytown di Steve Earle, anche se poi il brano per fortuna si dipana altrimenti. Particolarmente riuscita invece la finale What Will Your Mama Say trascinata da una slide cattiva.

Il giudizio finale è positivo, il disco si ascolta e, soprattutto si fa riascoltare, e se vogliamo tirare in ballo qualche altro riferimento io ci trovo un po’ di Willie Nile, una spolverata di Del Fuegos e perché no anche di Steve Forbert: e credo non sia una chiave di lettura errata cercare di considerare Buford Pope come un epigono di questi artisti piuttosto che di quelli citati fino a poc’anzi, troppo ingombranti e anche troppo imitati.