Archivio di marzo 2013

Rock & Pop, le recensioni di LFTS/23

di Paolo Baiotti

20 marzo 2013

aerosmith

AEROSMITH

Music From Another Dimension

Columbia        2012 

 

Riepiloghiamo il nuovo millennio degli Aerosmith: un mediocre disco in studio (Just Push Play ’01), un discreto disco di covers (Honkin’ On Bobo ’04), un live appena decente (Rockin’ The Joint ’05), tante raccolte più o meno inutili, un po’ di concerti e soprattutto tante parole e tanto gossip. Protagonista assoluto il cantante Steven Tyler: tra ricadute in vecchi vizi e periodi di riabilitazione, cadute dal palco, partecipazione da giudice a talent shows e dichiarazioni avventate non si è privato di nulla. In questi anni si è più volte parlato di scioglimento, il chitarrista Joe Perry ha pubblicato due dischi solisti non indimenticabili mentre Tyler si è limitato ad un singolo, ma alla fine la band è tornata in studio con l’esperto Jack Douglas alla produzione. Nella scrittura si nota la presenza di molti coautori esterni, più vicini al rock radiofonico che all’hard rock, circostanza che mi ha fatto dubitare: in fondo dopo più di dieci anni qualche buon brano pronto Tyler e Perry avrebbero dovuto averlo. Dubbi confermati dall’ascolto del disco, troppo lungo e con alcuni brani che potevano essere tralasciati. Ma il problema di fondo è la sensazione che si tratti di un album forzato, quasi di una caricatura degli Aerosmith che cercano di riprodurre il loro suono senza avere particolari stimoli e creatività. Alla fine sono pochi i brani hard rock convincenti: la stonesiana Oh Yeah, classico rock di Joe Perry, Out Go The Lights tra rock e funky con un bel riffone e la trascinante Lover Alot. Meno brillanti l’opener Luv XXX, la rappata Beautiful, la dura e veloce Street Jesus confusa nel suo sviluppo, la stradaiola Freedom Fighter scritta e cantata da Perry senza fantasia, il singolo Legendary Child e Something, un pasticcio tra blues e Beatles. E poi ovviamente ci sono le ballate che non guastano, anche perché Tyler le interpreta molto bene, ma hanno un sapore di già sentito, come Another Last Goodbye con voce e piano in primo piano, Tell Me che profuma di anni novanta e We All Fall Down composta dall’esperta Diane Warren, mentre Can’t Stop Lovin’ You, duetto con la cantante country-pop Carrie Underwood, è troppo zuccherosa. L’edizione deluxe aggiunge un secondo cd con tre brani non certo indispensabili (erano già troppi gli altri quindici) e un dvd molto carino con quattro tracce registrate dal vivo e interviste ai musicisti della band. Spero che non sia l’ultimo disco in studio degli Aerosmith, non sarebbe una conclusione degna di una carriera formidabile.       

 

 

daniele tenca

DANIELE TENCA

Wake Up Nation

Route 61 Music   2013

 

Se la crescita del roots rock italiano è sotto gli occhi di tutti, Daniele Tenca è sicuramente uno degli artefici di questa ondata di artisti e bands che comprende Lowlands, W.I.N.D., Mojo Filter, Cheap Wine, Francesco Piu, Nerves & Muscles  e tanti altri. Autore e chitarrista milanese inizialmente ispirato da Bruce Springsteen e dal blues, ha gradualmente ampliato il suo raggio d’azione con  Blues From The Working Class seguito dall’eccellente Live From The Working Class ed ora da questo Wake Up Nation, un disco che cerca davvero di svegliare un paese (il nostro) cloroformizzato da vent’anni di false promesse, di politica ridotta a scambio di favori, di veline promosse ad altri ruoli, mentre una crisi sempre più forte massacra la maggior parte della popolazione. Per Tenca i testi sono importanti quanto la musica, influenzano il suono e l’atmosfera delle canzoni, sono veramente imprescindibili. In Wake Up Nation testi crudi e taglienti parlano di immigrazione, paparini che creano a loro piacimento nuove regole, persone che non si riconoscono più in una nazione alla quale sono stati rubati il cuore e l’anima e che devono risvegliarsi facendo qualcosa invece di lamentarsi sul social network. E le musiche rispecchiamo questa durezza con un rock blues aspro nel suono della slide, dei boogie incalzanti e un tosto roots rock venato di folk che richiama Mellencamp e lo Springsteen acustico. Accompagnato da una band solida ed affiatata formata da Leo Ghiringhelli alla chitarra, Pablo Leoni alla batteria, Luca Tonani al basso e Heggy Vezzano alla batteria, Tenca canta in modo caldo e appassionato suonando slide ed elettrica con bravura indiscussa ed appare sempre più consapevole della forza della sua musica. Tra i brani di un disco uniforme nella sua compattezza citerei l’opener acustica Dead And Gone che ci riporta al blues prebellico, il fluido roots rock di Big Daddy, il blues di What Ain’t Got con l’armonica di Andy J. Forest e la morbida Silver Dress. In questo contesto si inseriscono alla perfezione le tre covers: il blues Last Po’ Man di Seasick Steve, la ritmata It’s All Good del maestro Dylan e l’acustica Society già interpretata da Eddie Vedder nella colonna sonora di Into The Wild. Un disco di denuncia forte e rigoroso che cresce con gli ascolti.   

 

 

better world

LOWLANDS

Better World Coming

Gypsy Child Records  2012

Beyond

Gypsy Child Records  2012

 

Nati a Pavia e guidati da Ed Abbiati (italo-inglese con varie esperienze all’estero), in pochi anni i Lowlands sono diventati una delle band italiane di roots rock più apprezzate. Ispirati da gruppi come Wilco, Whiskeytown, Green On Red e Waterboys, hanno esordito con The Last Call, seguito da Gypsy Child. L’anno scorso hanno pubblicato ben due dischi: il primo è un interessante omaggio a Woody Guthrie, registrato quasi per divertimento con l’aiuto di altri musicisti della scena locale, il secondo è il duro e trascinante Beyond. Partiamo da Better World Coming, un album fresco e godibile che ha il merito di riproporre non solo i brani più famosi, ma anche tracce meno conosciute del grande cantautore folk americano, registrato prevalentemente con strumenti acustici dal nucleo della band formato dal leader Ed Abbiati (voce e chitarra), Francesco Bonfiglio (piano, organo, accordion) e Roberto Diana (chitarra, dobro) con partecipazioni sempre funzionali al progetto. Tra le undici tracce spiccano un’intensa e drammatica This Train Is Bound For Glory, una dolente I Ain’t Got No Home, la meno conosciuta More Pretty Girls resa come un’outtake di Tom Waits, la delicata ballata Better World Coming, Two Good Men venata di sapori irlandesi e la corale Deportee. Gli arrangiamenti sono semplici ed efficaci, con un utilizzo sobrio di dobro, fisarmonica e chitarra acustica, mentre la voce roca di Abbiati dimostra sufficiente duttilità e sensibilità nell’interpretare il repertorio di un’icona della musica americana.

beyond

Beyond è il vero terzo album in studio prodotto da Joey Huffman, amico della band ed ex tastierista di Soul Asylum, Matchbox Twenty e Drivin ‘n’ Cryin,  session man ed esperto ingegnere del suono che contribuisce a dare un suono degno di una produzione internazionale. Accompagnati da una sezione ritmica esperta e affiatata formata da Robby Pellati alla batteria e Rigo Righetti al basso (entrambi ex Rocking Chairs e Ligabue) i Lowlands dimostrano ulteriori progressi, pubblicando un disco compatto, energico, pieno di grinta e rabbia. Un roots rock di matrice americana con venature folk e irish, pieno di melodie corali che restano in testa, ma con la rabbia del punk (l’opener Angel Visions è puro punk). Abbiati è un songwriter in grado di colpire sia con brani ritmati come le intense e trascinanti Keep On Flowing e Lovers And Thieves profumate di irlanda e con la springsteeniana Hail Hail, sia con ballate folk come Ashes e l’acustica Homeward Bound. Ma anche il complesso e drammatico mid-tempo Waltz In Time e il crescendo irresistibile di Down On New Street sono interpretati con bravura e sensibilità. Da citare anche la title track Beyond, riflessiva e notturna anche nel testo e la sofferta Fragile Man, quasi sussurrata da Ed, arrangiata con un impasto di fisarmonica e violino di rara efficacia.

 

nerves and muscles

NERVES & MUSCLES

New Mind Revolution

Holdout‘n’Bad  2012

 

Sono convinto che ascoltando questo album senza conoscere i musicisti nessuno immaginerebbe che dietro alla sigla Nerves & Muscles non si nascondono dei bluesmen del Mississippi o dell’Alabama, ma un gruppo di esperti musicisti italiani. Questa è la realtà! Max Prandi (batteria e voce), Angelo “Leadbelly” Rossi (chitarra e voce), Tiziano Galli (chitarra), Milena Piazzoli (voce), Marcus Tondo (armonica) e Joy Allucinante (basso) con l’aiuto di Paolo Cagnoni (ideatore, produttore e coautore di numerosi brani) hanno inciso un disco di blues sudista formidabile, come se ne ascoltano pochi di questi tempi. Blues acustico ed elettrico che sembra uscito dagli Zebra Ranch Studios dei fratelli Dickinson, con forti richiami al gospel e alle contaminazioni africane, con testi significativi da leggere con attenzione, un suono che non ha niente da invidiare a produzioni milionarie e una confezione in digipack molto curata. Il livello dei brani è elevato, non ci sono momenti di stanca o riempitivi. Ma una citazione la meritano Nerves & Muscles, un blues memore della lezione di R.L. Burnside, l’aspro boogie hookeriano Ask The Dusk, la deliziosa filastrocca Frankie And Isabel che si trasforma in un gospel percorso dalla voce di Milena Piazzoli, Black Line con una chitarra cooderiana, la title track aspra nel suono e nel testo che racconta la situazione drammatica della nostra società, l’esemplare blues White Flowers On Your Dress, la sofferta Over My Poor Bones interpretata ottimamente dalla voce di Prandi e dalle chitarre di Galli e Rossi e il gospel Searching My Salvation. Un disco sorprendente anche per chi conosce la qualità dei musicisti coinvolti, a dimostrazione che un lavoro di squadra può raggiungere risultati superiori alla somma delle individualità.     

 

 

skynyrd last 

 

LYNYRD SKYNYRD

Last Of A Dyin’ Breed

Roadrunner 2012

 

Giunti al settimo album in studio dopo la reunion dell’87, da aggiungere ai cinque della formazione originale degli anni ’70 prima dell’incidente aereo dell’ottobre ’77, non contando le innumerevoli compilations, ristampe più o meno deluxe e i dischi dal vivo, tutte testimonianze di un popolarità leggendaria, gli Skynyrd proseguono imperterriti nella loro carriera, funestata da tragedie pari o superiori al grande successo ottenuto. Ma oggi bisogna porsi una domanda che, a dire il vero, già da qualche anno aleggia sul gruppo: ha senso continuare, soprattutto con dischi inediti, mantenendo il nome quando della formazione originale è rimasto il solo chitarrista Gary Rossington (anche lui con problemi di cuore)? Dopo Gods & Guns del ‘09, disco ancora accettabile con alcuni spunti notevoli, ci hanno lasciato il tastierista originale Billy Powell (un tassello indispensabile della formazione) e il giovane bassista Ean Evans che a sua volta aveva sostituito il deceduto bassista originale Leon Wilkeson. Oggi lo zoccolo duro oltre a Rossington comprende il cantante Johnny Van Zant, fratello di Ronnie, presente dalla reunion e il chitarrista Rickey Medloke, ex leader dei Blackfoot che ha fatto parte per un breve periodo della formazione originale ed è tornato nel ’97. Gli altri sono il batterista Michael Cartellone, il chitarrista Mark Matejka, il tastierista Peter Keys e il bassista Johnny Colt (ex Black Crowes). Il problema è che questi musicisti, a parte Colt, sono più adatti ad un hard rock radiofonico che al southern rock venato di blues e di country degli Skynyrd. Se aggiungiamo l’aiuto di musicisti esterni che di southern hanno poco (dai produttori Bob Marlette e Tom Hombridge ai chitarristi John 5 e Marlon Young) il risultato è un inevitabile appesantimento del suono e un avvicinamento ad un rock spersonalizzato che non rende onore alla storia della band.  Intendiamoci, se fosse un gruppo qualunque a pubblicare questo disco, si potrebbe essere soddisfatti, ma dai Lynyrd Skynyrd mi attendo qualcosa di diverso da brani scontati come Good Teacher, la title track Last Of A Dyin’ Breed, la cadenzata Nothing Comes Easy o la dura Homegrown. Qualcosa di meglio c’è come Mississippi Blood, la potente Honey Hole, le ballate Something To Live For e Ready To Fly (composta con Audley Freed) nelle quali spicca l’ottima voce di Van Zant e la conclusiva Start Livin’ Life Again. Sono disponibili anche una deluxe edition con quattro brani aggiunti e un’edizione speciale inglese unita alla rivista Classic Rock con un paio di tracce live inedite. Ma la sostanza non cambia; purtroppo Last Of A Dyin’ Breed è un disco fondamentalmente inutile.    

 

 

johnny neel

 

  

 

JOHNNY NEEL

Every Kinda’ Blues

Silverwolf   2012

 

Nato a Wilmington in Delaware, cieco dalla nascita, Neel ha esordito con un singolo a dodici anni; qualche anno dopo ha formato la Johnny Neel Band, spostandosi a Nashville nell’84. Session man molto conosciuto, entra nella Dickey Betts Band e poi negli Allman Brothers, partecipando come secondo tastierista, armonicista e compositore a Seven Turns, l’album della reunion ed al successivo tour. Tornato alla carriera solista scrive per John Mayall, Montgomery Gentry e Delbert McClinton, registra alcuni dischi, partecipa alla formazione dei Blue Floyd con Marc Ford, Allen Woody e Matt Abts ed agli X2 con Abts (batterista dei Gov’Mule). Negli ultimi anni ha collaborato in studio e dal vivo con l’eccellente band friulana dei W.I.N.D.  Every Kinda’ Blues è l’ottavo disco in studio del tastierista ed è anche uno dei migliori. Registrato a Nashville con l’aiuto, tra gli altri, di Jack Pearson alla chitarra, Daryl Burgess alla batteria e Shawn Murphy (Little Feat) ai backing vocals, è un album impregnato di blues, soul e gospel, con ballate convincenti e qualche up-tempo di buona qualità, che evidenziano la voce piena di anima di Neel e il suono caldo del suo hammond. Non mancano un paio di tracce meno ispirate come la title track, il soul-rock alla Delaney & Bonnie di Right Out The Window e la molle I Wanna Know The Way, riscattate dalla jazzata I’m Gonna Love You, dalla superba ballata sudista Sunday Morning Rain (ottima voce, organo perfetto e slide suadente di Jack Pearson), dallo slow How To Play The Blues e dal rabbioso swamp-blues Mighty Mississippi, con un testo sulle tragedie che hanno colpito le regioni del sud. Ma il vertice del dischetto sono i due brani registrati dal vivo ad Udine con i W.I.N.D., il superbo blues spruzzato di gospel Won’t Lay Me Down interpretato con adeguata sofferenza da Neel specialmente nella lenta introduzione, nel quale Anthony Basso construisce un assolo in crescendo da urlo e il lungo soul-blues Murdered By Love, introdotto da piano ed armonica, altro esempio mirabile di brano non solo suonato ma sentito profondamente. La dolente ballata pianistica My Kinda’ People chiude brillantemente un disco superiore alle attese.        

 

 

nelson marsalis

 

WILLIE NELSON & WYNTON MARSALIS (featuring Norah Jones)

Here We Go Again

Blue Note        2011

 

Se il nostro piatto principale prevede un’icona del country come Willie Nelson e uno dei migliori trombettisti jazz come Wynton Marsalis con l’aggiunta di Norah Jones alla voce in sei brani il risultato difficilmente sarà da ristorantino di basso livello. Se poi l’occasione è la celebrazione del repertorio di Ray Charles, in due serate registrate dal vivo nel febbraio del ’09 al Lincoln Center di Manhattan, allora si può andare sul sicuro. La classe dei musicisti e del repertorio garantisce un’ora di ottima musica, sicuramente più vicina al jazz che al country (il gruppo di accompagnamento è quello di Marsalis, responsabile anche degli arrangiamenti). Peraltro si tratta di artisti eclettici che hanno sempre amato accostare altri generi e che quindi si divertono anche in ambito blues, rhythm and blues e gospel (generi toccati dalla musica di Charles) e che già avevano collaborato due anni prima nell’eccellente Two Men With The Blues. Il disco scorre che è un piacere pur non offrendo nulla di eclatante, con qualche limite in un paio di occasioni per la voce di Nelson, un po’ flebile ed affaticata. Note di merito per Unchain My Heart con spazi solisti di tromba e chitarra acustica, Come Rain Or Come Shine cantata con voce languida dalla Jones, il raffinato country Cryin’ Time cantato a due voci, il blues Losing Hand interpretato con sagacia da Nelson, accompagnato dalla tromba di Marsalis, dal sax di Walter Blanding e dal piano di Dan Nimmer e la lunga Hit The Road Jack, specialmente per la parte strumentale nella quale si inserisce alla perfezione l’armonica di Mickey Raphael, collaboratore di lunga data di Nelson. La Jones spicca nel duetto country Here We Go Again e nella jazzata Makin’ Whoopee, mentre sembra meno adatta alle inflessioni soul blues del conclusivo classico What’D I Say che si giova di una lunga introduzione strumentale. Ecco, in questo brano manca inevitabilmente la voce di Ray Charles che avrebbe comunque apprezzato questo concerto a lui dedicato.    

 

 

damn good time

 

 

 

 

 

THE NIGHTHAWKS

Damn Good Time

Severn 2012

 

La Severn è un’ambiziosa etichetta indipendente di Annapolis che recentemente ha pubblicato i dischi di due leggende del roots/blues Americano, Fabulous Thunderbirds e Nighthawks. Ma se per i primi la delusione è stata grande, in quanto On The Verge è un disco impersonale e di scarso interesse, Damn Good Time conferma i Nighthawks come una delle migliori “hard working bar band” americane. Della formazione originale che incise Rock‘n’Roll nel ’74 rimane il solo Mark Wenner (voce e armonica), accompagnato dai veterani Paul Bell (chitarra) e Johnny Castle (basso), con lui da una decina d’anni e dall’ultimo arrivato Mark Stutso, esperto batterista e vocalist per anni compagno di Jimmy Thackery (che era il chitarrista dei Nighthawks originali) e poi di Tab Benoit. Il gruppo ha superato i venti dischi in studio, con i live e le raccolte supera la trentina, ma ha ancora una freschezza e una voglia di suonare incredibile. Nella loro carriera hanno suonato tra gli altri con John Hammond, Muddy Waters e Hubert Sumlin, accompagnando Elvin Bishop, John Lee Hooker e Pinetop Perkins con modestia umiltà e passione. La miscela è sempre la stessa: roots music americana composta da una base di blues con aggiunte di soul, rock, un pizzico di rockabilly e di country, ma non stancano mai, alternando brani originali a covers più o meno conosciute. Se il precedente Last Train To Bluesville era un live acustico, Damn Good Time è un disco elettrico registrato negli studi della Severn con il coproduttore David Earl. Tra le dodici tracce  spiccano la brillante title track, un country soul delizioso con l’armonica di Wenner in primo piano, l’incalzante Bring Your Sister scritta e cantata da Castle con in mente il pop rock di Nick Lowe, la cover swingata di Send For Me, la divertente Georgia Slop di Jimmy McCracklin e l’ennesima Let’s Work Together (Canned Heat) che non sfigura pur non aggiungendo nulla a mille altre versioni. E poi ci sono tre brani scritti da Stutso con l’amico di lunga data Norman Nardini, rock and roller di Pittsburgh che confermano il rapido inserimento del batterista. Uno dei dischi più solidi, compatti, vari e divertenti della loro copiosa produzione.

 

 

 

Darwin, Mick Jagger e un branco di svitati.

di Marco Tagliabue

12 marzo 2013

Con una bizzarra teoria da propagare nel mondo, quella della cosiddetta de-evoluzione, che ipotizzava per un genere umano sempre più schiavo di un modus vivendi troppo alienante una sorta di graduale regresso verso i gradini via via più bassi della propria scala evolutiva, ed un look altrettanto pazzesco a supportarla, a mezza strada fra il clownesco ed il robotico, che ebbe un effetto immediato sulle esibizioni dal vivo e sui primi, timidi, video-clip, i quattro Devo, da Akron, Ohio, rappresentarono, insieme ai Talking Heads, la frontiera più avanzata di quel nuovo rock americano che si stava trasformando in new wave. E, non a caso, per entrambe le band in sala di regia sedeva, in quell’anno, il genio profetico di un Brian Eno ancora fresco della New York negativa. L’impatto che i Devo ebbero in quegli anni, e nel corso futuro della musica rock, sta già tutto nella feroce vena dissacratoria con la quale martoriarono il Sacro Graal dei Rolling Stones di Satisfaction, sconnessa a base di spasmi, sincopi, ossessioni e pulsioni meccaniche nella riuscitissima, allucinata cover con la quale si presentarono al mondo. Ma i quattro di Akron non volevano distruggere nulla: le proprie dinamiche elettroniche e sperimentali tracciavano linee sghembe ma rispettose delle regole del rock, i synth e le drum machine si affiancavano alle chitarre elettriche senza stravolgere le leggi della perfetta pop song. E di canzoni perfette, da Satisfaction a Mongoloid, da Jocko Homo a Uncontrollable Urge, questo storico debutto è pieno. Splendida replica con il successivo Duty Now For The Future (1980) poi, anche per i suoi mentori, l’inevitabile de-evolution.

da LFTS n.100

Rock & Pop, le recensioni di LFTS/22

di Paolo Crazy Carnevale

8 marzo 2013

Neil-Young-Psychedelic Pill

 

NEIL YOUNG & CRAZY HORSE – Psychedelic Pill (Reprise 2012)

 

Neil Young è fatto così, grandi silenzi, grandi ritorni, delusioni, entusiasmo. A ben vedere, dopo aver letto il suo libro Sogno di un hippy, quanto è accaduto discograficamente nel 2012 per il rocker canadese (alla luce del disco che abbiamo in mano il termine cantautore è fuori luogo) era nell’aria. Il libro è infatti un insieme di riflessioni e ricordi scritti quasi di getto sull’onda di quanto Neil aveva più a cuore nel momento in cui scriveva. Ed è evidente – dalle cronache e dai dischi usciti – che il libro è stato scritto quando le sue priorità erano l’invenzione, se così si può dire, di un sistema qualitativamente efficace per la riproduzione dei file audio e il ritorno del Cavallo (inteso come Crazy Horse), se il libro fosse stato scritto un anno prima forse la priorità sarebbe stata la reunion dei Buffalo Springfield, chi può dirlo. Quel che conta è che con questo doppio CD abbiamo tra le mani finalmente, dopo anni,  un gran disco del canadese. Un gran doppio disco di sole otto canzoni (più una alternate take della title track). Trattandosi di un disco con i Crazy Horse, va quasi da sé che si tratta di un disco in cui l’elettricità è sovrana, ma quel che piace maggiormente è il fatto che il suono si riallaccia, soprattutto in alcuni brani, ai Crazy Horse di Zuma e della primissima collaborazione tra il gruppo e il solista più che ai Crazy Horse delle incursioni degli anni novanta, non sempre del tutto riuscite (Broken Arrow e il live seguente erano decisamente bruttarelli).

C’è il recupero di un suono di matrice country-folk elettrica e ci sono diversi testi che rimandano alla rimembranza del passato (Born In Ontario, Twisted Road in cui si parla della prima volta in cui Neil ascoltò Like A Rolling Stone alla radio, e qui viene inevitabile il parallelo con uno dei brani migliori dello Young recente, quella Bandit in cui il brano di Dylan è citato testualmente) e ci sono le grandi cavalcate elettriche, nel caso di Driftin’ Back posta in apertura si rasenta la mezz’ora di durata, ma anche Walk Like A Giant e Ramada Inn – la mia preferita – non scherzano.

La cosa più incredibile è che nonostante la lunghezza dei brani il disco non annoia, scorre, la musica di Young e del Cavallo è davvero come un fiume che scorre senza interruzioni, coinvolgendo l’ascoltatore e trascinandolo via come la corrente impetuosa. C’è anche il tempo per un brano rilassato e intimista come For The Love Of Man, che riconduce a certi momenti del passato migliore del nostro. Sottotono – rispetto al resto del disco – la title track, che è riuscita meglio nella versione bonus posta in chiusura del disco, e She’s Always Dancing, potrebbero sembrare dettagli di poco conto in un disco che supera gli ottanta minuti, ma senza questi due brani il disco sarebbe stato davvero perfetto.

 Paolo Crazy Carnevale

 

 

lupita' project

LUPITA’S PROJECT – I.Never.Shot.An.Indie (Cromo Music 2013)

 

Vi sembrerò di parte, lo so, ma sono convinto di quanto sto scrivendo: questo nuovo disco di Alessandro Ducoli è mitico! Sì, perché Lupita’s Project è il nome del gruppo con cui il Ducoli sta girando da un paio d’anni, un gruppo incendiario – speriamo che restino insieme a lungo – con un’anima rock’n’roll incendiaria, espressa divinamente sul palco e riportata con fedeltà nelle tracce proposte in questo nuovo disco. I Never Shot An Indie è un disco compatto, tosto, c’è tutto, ci sono i suoni giusti, come nei dischi di una volta, ma non datati, una sezione ritmica impeccabile (Mirko Blanco De La Fuente alla batteria e Cosswho al basso), una chitarra infuocata nelle mani di Marlon Richards, giustamente un epigono dei Rolling Stones, le tastiere di Valeruz Velasco (co-produttore del disco) che legano il tutto, sia che si vestano da piano elettrico, sia che indossino i panni di un hammond, e per finire le canzoni e la voce di Cletus Cobb – il nome de plume del Ducoli quando invece di fare il cantautore diventa un consumato e grande rocker.

Non credo ce ne siano in tanti come Cletus Cobb, anzi, lui è unico, in lui convivono le anime di Elvis, di Hank Williams e Bob Dylan, filtrate attraverso i suoni dei Rolling Stones e dei Green On Red di Gas Food Lodging.

Questo nuovo disco è dritto e intenso, breve, ma forte, nove brani in tutto, confezionati in modo superbo, sia per quanto riguarda il booklet che lo acocmpagna, sia per la produzione. Quale sia il segreto di questo artista è chiaro, lui canta ciò che è, canta dei suoi amori (che siano donne o stili musicali), canta della sua cagnolina Lupita (Idolo del mio cane, Lupita’s Project), della sua squadra del cuore (Giacinto, omaggio allo storico capitano dell’Inter F.C., in cui le tastiere di Valeruz sembrano fare il verso a Ray Manzarek), e canta tutto col cuore in mano, senza risparmiarsi.

Non c’è un brano da dimenticare in questo disco, allora ne citerò almeno tre da portarsi dietro ovunque, per non essere mai soli: Sex Me, semplicemente grandiosa, l’introspettiva Today, e la finale e finalmente della giusta lunghezza (gli altri brani sono un po’ più brevi) I Got To Kill, autentico capolavoro.

Ma non finisce qui: siccome Cobb/Ducoli è un irrimediabile generoso – l’ho visto spesso regalare i suoi dischi a fine concerto -, questo CD contiene altre cose. Per cominciare tre brani bonus: una versione “zamorano” di Giacinto, la cortissima The Cure e la drammatica Moana, masterpiece d’interpretazione. Per finire in coda al disco troverete invece per intero il disco precedente di Cletus Cobb, I Leave My Place To The Bitches, ironica considerazione su come i posti in cui un tempo andava a suonare siano trasformati in club dove si pratica la lap dance. Ed è un altro signor disco.

 Paolo Crazy Carnevale

 

 

mahogany frog

MAHOGANY FROG – Senna By Mahogany Frog (Moonjune 2012)

 

Non sono mai stato un amante del prog-rock, anzi. In gioventù ho ascoltato poche cose dei Genesis e degli Yes, il resto, italiani inclusi, mi ha sempre fatto venire il mal di pancia. Chiaro che accostarmi a questa band strumentale canadese che i comunicati della casa discografica indicano chiaramente come progressive/psychedelic/post rock è stato un po’ azzardato, d’altronde ero curioso di ascoltare il disco visto che da questa label solitamente mi giungono dei prodotti che, pur non in linea con ciò che ascolto abitualmente, in qualche modo si rivelano intriganti e degni di nota.

E anche stavolta non sono rimasto deluso, anzi, vi dirò di più, il disco di questi Mahogany Frog mi piace proprio, chi lo avrebbe mai detto.

Il quartetto di Winnipeg, con i suoi temi incalzanti e le diavolerie elettroniche “suonate” dal batterista e dal bassista in aggiunta alle tastiere impazzite usate dai due chitarristi, ha messo insieme un bel prodotto che pensò ascolterò ancora. Non essendo un fruitore abituale di prog-rock non saprei dirvi a chi si rifacciano, ma probabilmente ci mettono molto del loro questi canadesi, e il risultato sono otto brani che in qualche modo vanno a costituire una suite con vari temi.

Si sente che non sono di primo pelo, infatti questo è il loro sesto CD: il brano d’apertura ha tutto il sapore dell’ouverture, Houndstooth part 1 evolvendosi poi in un secondo brano dal medesimo titolo che esplode in un’orgia di suoni che secondo il gruppo dovrebbe ricalcare le caratteristiche delle proprie live performance.

Il disco prosegue alla grande con Expo ’67 e ancor meglio con la solida Flossing With Buddah. Per contro Message From Uncle Stan: Grey Shirt, la composizione più lunga del lotto è tutta giocata su suoni sperimentali su cui si vanno ad inserire intrecci di chitarre prima e di tastiere poi. A seguire Message Form Uncle Stan: Green House più breve ma non meno azzeccata, in chiusura Saffron Myst e la lunga Acua Love Ice Cream Delivery Service arricchita dalle “voci” dei beluga del Manitoba e da unharpsichord.

 Paolo Crazy Carnevale

 

 

nolunta's

NOLUNTA’S – Rising Circle (Seña International 2012)

 

Colpo di fulmine autentico il disco di debutto di questa band della Val Gardena. In nemmeno un anno di attività i sei ragazzi che hanno dato vita a questo combo di originale folk-rock hanno davvero bruciato le tappe.

Questo loro disco d’esordio è un concentrato di ispirazione ed energia davvero notevoli e non c’è da stupirsi che la loro musica abbia convinto tanta gente al punto da farli affermare ed apprezzare in numerosi concorsi in Italia e all’estero, con autentica pioggia di premi e conseguente attività live a livello internazionale molto intensa.

Il disco, per quanto autoprodotto si presenta gran bene, a partire da una veste grafica invidiabile, niente scatolette di plastica che qualcuno ha avuto il pessimo gusto di chiamare jewel-case, il disco dei Nolunta’s arriva in una bella confezione cartonata contraddistinta da una cura per l’immagine difficile da riscontrare solitamente, e non solo nei dischi di gruppi esordienti.

Il contenuto musicale va di pari passo, undici belle canzoni che sposano l’energia di gruppi come i Pearl Jam ad una strumentazione di base decisamente folk (fisarmonica, chitarre acustiche, ukulele, mandolino, percussioni – ma nella bella e conclusiva Human c’è anche un solo di chitarra elettrica). Il cantato di Andreas Kondrak è sufficientemente originale e dotato di sfumature interessanti su cui il resto del gruppo costruisce il tessuto sonoro, talvolta incentrato sulla ritmica (è il caso di By The Times I Hope e Jeremy), talaltra sulle coordinate dettate dagli strumenti a corda. Perla del disco è senza dubbio The Art, ma non da meno sono Human, Mother, Valley Of The Sun.

Speriamo che i ragazzi continuino così, perché c’è di gruppi come questo c’è davvero bisogno!

 Paolo Crazy Carnevale

Un piccolo, grande miracolo.

di Paolo Crazy Carnevale

3 marzo 2013

SugarmanLarge

“And the winner is…Searching For Sugar Man”. Quando l’ho saputo non volevo crederci, alla notte degli Oscar di quest’anno il premio per il miglior documentario è andato ad un piccolo grande film dedicato ad un artista davvero dimenticato. Sixto Diaz Rodriguez è un cantautore ispano-americano di Detroit che ha inciso solo due dischi caduti nel dimenticatoio quasi subito, tanto che lui ha finito col mettersi a fare un lavoro normale in tutt’altra direzione rispetto alle proprie aspirazioni artistiche. Al punto tale che Rodriguez (il nostro registrava per l’etichetta Sussex usando solo il cognome e firmando i brani come Jesus Rodriguez) è stato creduto morto per anni.

All’origine di questo bel documentario – disponibile in DVD – c’è l’incredibile successo di questo autore in Sudafrica. Già perché l’unico paese al mondo in cui i suoi dischi hanno venduto, all’insaputa dell’autore, è stato proprio il Sudafrica dove la sua musica giunse per interposta persona quando una ragazza americana vi portò un nastro con le sue canzoni e ne fece dono ad un amico che le trasmise per radio, di lì l’inizio di questo straordinario miracolo che ha fatto diventare di platino i dischi del musicista di Detroit, peraltro sempre ignaro della cosa!

Mentre lui faceva l’operaio a Detroit i giovani sudafricani lo eleggevano a personaggio di culto credendolo defunto per il fatto che non riuscivano a trovare nessuna informazione su di lui.
Il documentario racconta con amore e semplicità di come un appassionato sia riuscito a rintracciarlo e a convincerlo ad esibirsi per alcuni concerti davanti ad un pubblico entusiasta.

Una storia che ha dell’incredibile, resa ancora più bella dal fatto che la musica di Rodriguez è ancor oggi notevole e i suoi testi densi di significato: nel film, diretto dallo svedese Malik Bendjelloul, naturalmente oltre ai produttori che hanno lavorato con lui, al proprietario della Sussex e ai fan sudafricani, sono presenti anche Rodriguez e i suoi familiari, la colonna sonora è composta da molte canzoni tratte dai due dischi (usciti rispettivamente nel 1970 e nel 1971) oltre che da un paio di inediti d’epoca.

Inutile dire che nel frattempo i dischi sono stati anche ristampati in CD e che la colonna sonora è stata pubblicata dalla Light In The Attic/Legacy lo scorso anno.
Il film presentato nel 2012 al Sundance Festival, dove ha vinto premio della giuria e quello del pubblico per la sezione documentari, si è aggiudicato in seguito altri premi fino al trionfo nella notte degli Academy Awards lo scorso 24 febbraio.