Archivio di dicembre 2024

CHRIS ZEK BAND – Agarthi

di Marco Tagliabue

30 dicembre 2024

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CHRIS ZEK BAND
AGARTHI
Autoprodotto 2024

La Chris Zek Band (o C. Zek Band) è attiva dall’ultimo trimestre del 2015 quando, sulle ceneri del trio blues Almost Blue il cantante, compositore e chitarrista veronese Christian Zecchin ha deciso di formare una band rock-blues con venature soul, funky e hard. Set You Free è l’esordio del 2017 con la voce femminile di Roberta Della Valle, Samsara il secondo album del 2020 con l’entrata alla batteria di Enea, fratello di Christian, che completa la sezione ritmica insieme al bassista Nicola Rossin, mentre le tastiere (principalmente organo Hammond e Wurlitzer) sono affidate alle capaci mani di Matteo Bertaiola. Samsara amplia i riferimenti del quartetto aggiungendo venature jazz, un gusto per la jam e dando maggiore spazio della voce solista maschile. Dopo quattro anni è il momento di Agarthi, definito “un viaggio nel passato, come una sorta di macchina del tempo che ti riporta in quelle terre di oltre Oceano dove le lunghe cavalcate chitarristiche, infarcite di sognanti jam, erano la costante per viaggi sonori rimasti vivi nel tempo, contaminati dal blues e dall’hard rock britannico degli albori, in lunghe e ammalianti atmosfere”. Insieme a Christian e a Matteo che disegnano le coordinate sonore del gruppo, è rimasto Enea mentre il basso è stato affidato a Elia Pasqualin. Il disco è composto da sette brani di Christian, unica voce solista, tra i quali lo strumentale Agarthi è il più significativo, una traccia scorrevole e onirica destinata ad espandersi in concerto, influenzata dal latin-rock di Santana dei primi anni Settanta, dagli Allman Brothers e dal jazz-rock, soprattutto nel suono delle tastiere che fanno da contrappunto alla liquida chitarra solista. Una slide insinuante e il synth caratterizzano il groove accattivante dell’apertura bluesata di Feel Like In Mississippi, indurita nel break chitarristico, mentre nella scanzonata Way Back Home si notano influenze southern tra Little Feat e Allman Brothers e nel sognante soul-blues Baby Blue accenti psichedelici e tastiere doorsiane. Anche laddove dal punto di vista composivo si possono evidenziare delle lacune, sono compensate dalle parti strumentali di ottimo livello. In chiusura il raffinato e notturno slow Whispering Blues impreziosito da una morbida slide, riafferma le doti del quartetto veronese.

Paolo Baiotti

QUARTET DIMINISHED – Deerand

di Paolo Crazy Carnevale

26 dicembre 2024

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QUARTET DIMINISHED – Deerand (Moonjune Records 2024)

Questa nuova proposta della Moonjune Records viene da lontano, come spesso è accaduto anche in passato per le produzioni di questa etichetta, la cui caratteristica, è di pescare non solo tra i talenti europei ed americani di quello che un tempo si definiva come jazz-rock, bensì di esplorare sonorità provenienti da paesi meno avvezzi a questi territori musicali. Dal Sudamerica all’estremo oriente, alla più vicina Turchia. Stavolta, con il cosiddetto quartetto diminuito del chitarrista Ehsan Sadigh, la Moonjune approda in Iran, o meglio, nell’antica Persia, visto che il titolo dell’album (doppio LP o singolo CD), Deerand, proviene da un termine persiano riferito alla durata dei toni di uno strumento musicale.
Il disco si compone di quattro brani, il cui fulcro è la lunga suite in quattro parti da cui il disco prende il titolo e che si snoda per ben venticinque minuti: Shadig è accompagnato dal pianista Mazyar Younesi, Soheil Peghambari si occupa dei fiati e alla batteria c’è Rouzbeh Fadavi.
Quattro sono i movimenti della suite in questione e si snodano tra parti introspettive, come l’inizio pianistico, e altri momenti più corali e ritmati in cui la fusione tra sonorità moderne ed elementi vagamente tradizionali diventa un autentico punto di forza, con la chitarra del leader che guida con sicurezza il quartetto verso un finale che suona come una sorta di bolero. Indubbiamente, con la composizione finale il brano più importante del disco.
Segue il brano Tehran II, seguito di una composizione apparsa altrove nella discografia del gruppo, qui la struttura è più dadaista, con la presenza dei paesaggi sonori orditi da Markus Reuter, artista fin troppo presente nelle pubblicazioni della Moonjune e forse sopravvalutato.
In Mirror Side, il brano più breve – comunque oltre i sei minuti – c’è il contrabbasso di Tony Levin, ospite che ritroviamo poi nella composizione finale, Allegro per il re: l’introduzione è anche qui giocata sul pianoforte, poi gli strumenti si alternano, Levin usa qui lo stick, e la struttura si evolve con un crescendo in cui fanno più volte capolino i richiami alla musica mediorientale e persiana.

Paolo Crazy Carnevale

MARK WINGFIELD – The Gathering

di Paolo Crazy Carnevale

26 dicembre 2024

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MARK WINGFIELD – The Gathering (Moonjune Records 2024)

Tra le pubblicazioni recenti di casa Moonjune, spicca questo nuovo disco del chitarrista inglese Mark Wingfield, da lungo tempo affiliato dell’etichetta ispanica (ma già newyorchese). Wingfield ha sempre mantenuto una qualità costante nei suoi lavori, sia in quelli solisti che in quelli come co-titolare di progetti, inclusi i moltissimi in coppia con Kevin Kastning su label Grey Disc.
Anche in questa nuova produzione, firmata da Leonardo Pavkovic, viene ripetuta la ricetta collaudata di una prog-fusion efficace, scorrevole, fluida.
Ad accompagnare il chitarrista dal ricco pedigree, troviamo alcuni dei nomi più in voga nelle produzioni Moonjune: tutto il disco è eseguito in trio con Asaf Sirkis alla batteria e Gary Husband alle tastiere e ad un rinforzo di percussioni in tre brani. Per completare la formazione due autentici assi del basso si dividono a metà il lavoro: Tony Levin e Percy Jones che insieme possono sfoggiare un who is who di amicizie musicali di rara ricchezza nel panorama jazz-rock internazionale.
Dieci sono le composizioni messe in fila per quest’album che traspira di atmosfere collaudatissime dovute al fatto che questi artisti si sono già incontrati (spesso talvolta) in altri progetti (pensiamo a Husband e Levin che condividono l’esperienza degli Stickmen, il cui Owari è uno dei fiori all’occhiello delle produzioni di Pavkovic).
Dall’inizio quasi pastorale di The Corkscrew Tower alla similare Cinnamon Bird che chiude il disco, le composizioni scorrono convincenti senza mai durare eccessivamente, passando dal prog jazzato di Stormlight alle dissonanze di A Fleeting Glance costruite sul dialogo tra Wingfield e Jones, fino ai suoni struggenti della sei corde che dominano Pursued In The Snow e ai ritmi vagamente latin jazz di The Listening Trees.

Paolo Crazy Carnevale

LUCA CALABRESE – I Shin Den Shin

di Paolo Crazy Carnevale

26 dicembre 2024

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LUCA CALABRESE – I Shin Den Shin (Moonjune Records 2024)

Nonostante la lunga gavetta e le numerose esperienze del titolare nell’ambito della musica che conta, questo suo lavoro per la Moonjune Records non riesce davvero a convincere.
Calabrese, il cui approccio alla musica risale addirittura agli anni Settanta, dapprima in formazioni bandistiche della zona del Piemonte di cui è originario, poi frequentando il conservatorio, ha maturato esperienza suonando con big band mainstream che lavoravano in ambito televisivo.
Di pari passo ha però coltivato una passione per il jazz e l’improvvisazione, venendo a mano a mano in contatto con musicisti importanti con cui ha calcato plachi e frequentato sale d’incisione, parliamo di Keith Tippett, Peter Hammill, Pat Mastellotto, Cecil Taylor, Richard Barbieri.
Proprio con Barbieri (Japan, Porcupine Tree) e con l’ensemble svedese Isildurs Bane ha avuto modo di lavorare molto negli ultimi anni: col gruppo svedese ha messo in cantiere dischi che hanno coinvolto anche Steve Hogarth (Marillion) e Peter Hammill (Van Der Graaf Generator).
Per questo suo lavoro solista, Calabrese si è affidato alla produzione e alla direzione artistica del sopravvalutato Markus Reuter, coniugatore di sound elettronici e paesaggi sonori, sempre molto noiosi e ripetitivi, molto ambient e sterili. D’altronde uno che in venticinque anni se ne esce con quasi novanta dischi – tra quelli condivisi e quelli a proprio nome – è un genio o è uno che si ripete. E Reuter non è un genio.
L’ascolto del disco, come quello di altre produzioni su cui Reuter mette mano, è un po’ come la visione di un film in cui non accade mai nulla: peccato, perché l’elettronica ammazza il suono della piccola tromba suonata da Calabrese (a tratti sulle orme di Mark Isham) e soprattutto sopraffà le chitarre elettriche di Mark Wingfield e del vietnamita Nguyen Le.
Dalla noia quasi assoluta si salvano alcuni momenti dei brani A New Reality e Heart To Heart, il cui titolo è un po’ la traduzione del titolo giapponese dato all’intero album (uscito sia in CD che in vinile), le cui radici stanno nel confucianesimo e nel buddhismo, e nei concetti di empatia e sentimenti condivisi. Peccato, perché in questo disco di empatico sembra non esserci nulla.

Paolo Crazy Carnevale

BELEDO – Flotando En El Vacio

di Paolo Crazy Carnevale

22 dicembre 2024

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BELEDO – Flotando en el vacio (Moonjune 2024)

Il chitarrista uruguayano Beledo è indubbiamente una delle teste di serie della label guidata da Leonardo Pavcocich, Flotando en el vacio è il suo terzo disco su Moonjune Records e anche stavolta l’artista non delude.
Contando sulla magica e familiare atmosfera della Casa Murada, l’edificio a ovest di Barcellona, costruito nel XIX secolo e trasformato da Pavcovich in un moderno e attrezzato studio di registrazione in cui nascono molte delle produzioni di casa Moonjune.
Beledo, ugualmente abile sia quando imbraccia la chitarra, sia quando siede al piano, si fa qui accompagnare da un trio di esperti musicisti composto da Asaf Sirkis (a sua volta titolare di dischi a proprio nome per la medesima etichetta, nonché batterista dell’attuale versione dei Soft Machine), dal bassista Charles Benavent e dal flautista Jorge Pardo. Questi ultimi due già impegnati in passato al seguito di Paco De Lucia e di Chick Corea.
Il risultato è un disco di quel che una volta si definiva jazz-rock, ma che da parecchi anni è appellato fusion: un disco ispirato e fluido in cui le composizioni si liberano e scorrono senza intoppi, all’insegna dell’affiatamento che evidentemente lega i quattro artisti.
La stoffa di Beledo e del disco si percepiscono fin dall’inizio, quando il brano Djelem Djelem, dopo una lenta introduzione decolla districandosi in un tema che mescola influenze balcaniche e ispaniche, comunque all’insegna di un’influenza moresca dettata dalla musica mediorientale che ha influenzato entrambe le culture. Si prosegue con Rauleando, poi arriva l’esplosione di De tardecita, lunga ed elaborata composizione in cui Beledo si scatena alla chitarra lasciando il piano elettrico all’ospite di riguardo Gary Husband, il cui pedigree che va da Allan Holdsworth a Billy Cobham parla da sé.
Non sono da meno i dieci minuti della title track, qui il piano è suonato dal titolare che sfoggia uno stile differente, mentre Pardo è protagonista di molti interventi al flauto. Es Prohibeix Blasfemar gioca sui dialoghi tra Beledo e il bassista e vede di nuovo ospite Husband. Candombesque sfoggia antenati prog, Pardo passa dal flauto al sax e ci sono le percussioni di Ramon Echegaray, From Within’ a dispetto dell’essere l’unico brano dal titolo in inglese naviga sulle note di un latin jazz piacevole prima che il disco si concluda con la lunga cavalcata improvvisata di Rodeados, il brano più complesso della raccolta.

Paolo Crazy Carnevale

BLUES FACTORY – III

di Paolo Baiotti

22 dicembre 2024

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BLUES FACTORY (feat. Fabio Drusin)
III
Artesuono 2024

Registrato in presa diretta a Udine nello studio Artesuono di Stefano Amerio, il terzo album del power trio Blues Factory guidato dal cantante e chitarrista Cristian Oitzinger accompagnato dalla batteria di Daniele Clauderotti si avvale della preziosa collaborazione al basso, voce e armonica nonché agli arrangiamenti di Fabio Drusin, uno dei migliori musicisti italiani di rock-blues, già anima del trio friulano dei W.I.N.D., dal 2008 bassista di Alvin Youngblood Hart e più recentemente anche di Gwyn Ashton. Fabio è salito più volte sul palco con i Gov’t Mule, Billy Gibbons, i Supersonic Blues Machine e ha collaborato con il compianto Johnny Neel (Allman Brothers Band). In questa occasione partecipa con la sua esperienza a un disco potente, ruvido e grintoso di rock-blues che indubbiamente si posiziona sulla scia di gruppi storici come Free e Cream e più recenti come i Gov’t Mule o gli stessi W.I.N.D., avvalendosi della voce solida e sporca di Cristian e delle sue notevoli doti di chitarrista che gli hanno consentito in passato di aprire concerti di musicisti del calibro di Ian Paice, Billy Gibbons ed Eric Sardinas.
Gli otto brani del disco sono tutti scritti da Oitzinger che dimostra di saperci fare a partire dalla ruvida Mountain Man, il brano più personale dedicato al padre Giovanni, definito come un uomo di montagna che sembrava difficile da capire e burbero per alcuni, ma che nascondeva nel profondo una sensibilità e un amore per la sua terra e la famiglia, come spesso succede ai montanari. Tra le altre tracce segnalerei la gagliarda e cadenzata apertura di Unhappy Girl, introdotta da un basso pulsante che richiama i Gov’t Mule, il rock ritmato di Rolling Man influenzato dai Free, la ballata Time To Make Mistake profumata di oriente e la pulsante What You Wanna Do cantata da Fabio con interventi puntuali dell’armonica e della slide di Cristian nella jammata coda strumentale. Il disco è chiuso dalla briosa Music Satisfy My Soul con intro gospel e uno sviluppo bluesato in cui si inseriscono le voci del Nuvoices Project arrangiate e dirette da Rudy Fantin che suona Hammond e Wurlitzer, mentre la chitarra solista richiama gli ZZ Top e i Mule.
III non è un disco innovativo, questo è evidente, ma merita di essere ascoltato e sicuramente non deluderà gli appassionati di un genere che continua ad avere un seguito non irrilevante, soprattutto in Germania e Scandinavia.

Paolo Baiotti

THOM CHACON – Lonely Songs For Wounded Souls

di Paolo Baiotti

8 dicembre 2024

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THOM CHACON
LONELY SONGS FOR WOUNDED SOULS
New Shot Records 2024

Cantautore di Durango, Colorado, nella grande tradizione americana di Bob Dylan, Townes Van Zandt e Bruce Springsteen, Thom è un artista di frontiera. Non è il primo e non sarà l’ultimo a cantarla; di sicuro è influenzato dai drammi di confine tra Stati Uniti e Messico e dal problema dell’immigrazione che lo riguarda da vicino, avendo un padre messicano cugino di un famoso pugile e una madre libanese. Qualche anno fa, quando era sconosciuto al di fuori di una ristretta cerchia di appassionati locali, Paolo Carù e il Buscadero lo hanno promosso in Italia come ricorda con affetto Thom nelle note che accompagnano questo disco, inciso dal vivo a Castel Roncolo (BZ) nel 2021 con Tony Garnier (Bob Dylan) al contrabbasso e Paolo Ercoli al dobro e pedal steel e pubblicato dalla nostrana New Shot Records. Chacon ha esordito nel 2003, ma il suo nome ha iniziato a circolare nel 2012 con l’album omonimo per la Pie Records, ottenendo maggiori attenzioni con Blood In The Usa pubblicato anche in Italia dalla Appaloosa nel 2018 e con Marigolds And Ghosts del 2021. Da questi tra album sono tratte le “canzoni solitarie per anime ferite” del disco: tracce semplici, essenziali, arrangiate in modo minimale senza grandi aggiunte strumentali, come da scelta stilistica dell’autore che vuole focalizzare l’attenzione sulla scrittura e sui testi. Come ha dichiarato Mary Gauthier “la musica di Thom è semplice, ma non scambiate questo per una mancanza di profondità. Scrivere in modo semplice è la cosa più difficile. E sempre la migliore”. La voce rauca ma allo stesso tempo melodica in certi momenti assomiglia a quella di Ryan Bingham, cresciuto tra New Mexico e Texas, accomunato a Chacon dalla barba e dalla partecipazione a film e serie tv.
Tra i brani suonati a Castel Roncolo emergono nella prima parte l’apertura drammatica di Borderland, la mossa Church Of The Great Outdoors che racconta la sensazione di pace che la natura (fiume e boschi) danno all’autore, la riflessiva ballata Sorrow che descrive il suo rapporto con la religione, Grant Country Side in cui viene ricordata la figura del nonno, sceriffo a Culver City in New Mexico nell’800 ai tempi di Billy The Kid e la poetica Something My Heart Can Only Knows. Nella seconda parte spiccano la dylaniana Marigolds And Ghosts, la dolente Empty Pockets sulle sofferenze di un contadino ostaggio di una terra ostile in cui è coinvolto anche il violino di Michele Gazich, la ballata Juarez, Mexico e I Am An Immigrant sulle speranze di un immigrato clandestino messicano che ha lasciato la famiglia nel suo paese, che precede la chiusura della springsteeniana Union Town. Con Chacon alla chitarra acustica e armonica, Paolo Ercoli e Tony Garnier svolgono egregiamente il loro compito fornendo un apporto tanto discreto quanto essenziale alla riuscita del disco. Complimenti alla New Shot Records anche per la qualità del suono e per l’accurata grafica.

Paolo Baiotti