Archivio di maggio 2023

DAMON FOWLER & FRIENDS – Live At The Palladium

di Paolo Baiotti

25 maggio 2023

Damon-Fowler

DAMON FOWLER & FRIENDS
LIVE AT THE PALLADIUM
Landslide 2022

Chitarrista e cantante di Brandon, Florida, Damon ha avviato la sua carriera nel 1999 con Riverview Drive, prodotto da Rick Derringer e pubblicato come i due successivi in poche copie da tempo introvabili. Nonostante la scarsa distribuzione questi dischi e i concerti hanno attirato l’interesse della Blind Pig che lo ha ingaggiato pubblicando Sugar Shack nel 2009, seguito da Devil Got His Way e da Sounds Of Home, prodotto da Tab Benoit. Nel frattempo ha formato i Southern Hospitality con i quali ha inciso Easy Livin’ nel 2013, sempre con l’assistenza di Benoit. Due anni dopo ha partecipato alla Freight Train Band con Butch Trucks, batterista della Allman Brothers Band, tornando poi alla carriera solista e collaborando per un certo periodo con Dickey Betts come chitarrista slide della sua band. Alafia Moon del 2021 è l’album solista più recente per il quale è stato nominato per un Blues Award come migliore disco di rock-blues; dal relativo tour è stato tratto questo nuovo cd registrato dal vivo al Palladium Theatre di St. Petersburg in Florida, che si può considerare un riassunto della sua carriera ultraventennale.
Accompagnato da una band adeguata che comprende il tastierista Dan Signor, il batterista Justin Headley e il bassista Chuck Riley ai quali si aggiungono gli ospiti Jason Ricci all’armonica in cinque tracce e il chitarrista Eddie Wright negli ultimi tre brani, Damon si destreggia con perizia sia alla slide che all’elettrica e alla lap-steel, denotando notevoli miglioramenti anche dal punto di vista vocale. Nella sua musica vengono miscelati blues (che è la base di tutto), soul, rock, Americana e un pizzico di funky e reggae. Dopo l’apertura di It Came Out Of Nowhere da The Whiskey Bayou Sessions del 2018, un funky-swamp movimentato dalle tastiere di Signor e da un’elettrica accattivante, ascoltiamo tre brani da Alafia Moon: l’interessante talking-blues The Guitar, cover di Guy Clark con un assolo fluido e maestoso, il trascinante swamp-rock I’ve Been Low con un break di piano e un intenso e vorticoso assolo di slide e il boogie Somethings Change in cui entra in scena Jason Ricci interagendo con abilità e incisività con la chitarra che si scatena nel finale. Dopo la reggata Don’t Feel Like Going There Today, tratta dall’album dei Southern Hospitality e percorsa piacevolmente dall’armonica, Damon piazza l’inevitabile slow blues, il recente Tax Man in cui lascia ampio spazio all’armonica di Ricci particolarmente esuberante, evidenziando sia la voce morbidamente sporcata che l’elettrica nella coda strumentale, seguito dalla mossa Up The Line, cover di Little Walter, altro momento in cui Ricci e Fowler dialogano in scioltezza. Dopo la ballata in crescendo Old Fools Barstools And Me da Sounds Of Home del 2014, nel finale viene ripescata Sugar Shack, ritmata title track del primo disco per la Blind Pig in cui piano, armonica e chitarra si alternano nelle parti soliste con cambi di ritmo calibrati e un finale lancinante alla slide che entusiasma il pubblico di St. Petersburg. Disco dal vivo di rock-blues carico e bruciante come se ne sentono pochi.

Paolo Baiotti

TIM GRIMM – The Little In-Between

di Paolo Crazy Carnevale

20 maggio 2023

tim grimm

TIM GRIMM – The Little In-Between (Appaloosa/IRD 2023)

Tim Grimm, dalla sua fattoria in Oklahoma torna a consegnarci una manciata di nuove composizioni: anche stavolta per il pubblico nostrano arriva tramite l’Appaloosa, nella consueta confezione con i testi in inglese e tradotti ad uso e consumo del nostro pubblico. È vero che l’inglese, a spanne, dovrebbe essere ormai di dominio pubblico, ma i testi delle canzoni spesso necessitano di una traduzione più puntualizzata e accorta, proprio come quelle dei dischi Appaloosa.

Rispetto agli ultimi ottimi lavori, Grimm rinuncia qui all’apparato strumentale ad opera dei componenti della sua famiglia, la genesi del disco è molto semplice: in una giornata il nostro ha messo giù le tracce base in Oklahoma, nel febbraio dello scorso anno, poi ha spedito il malloppo alla cellista Alice Allen che nel suo eremo scozzese ha aggiunto il suo strumento nel mese di luglio.

Infine, nello studio del grande Jono Manson in New Mexico, lo scorso ottobre sono state inserite le chitarre elettriche, il basso e la batteria, neppure in tutti i brani.

Il risultato è un breve disco (sotto i quaranta minuti) da consumare dalla prima all’ultima nota, sorretto dalla voce di Grimm che mette sul piatto nove brani di diversa ispirazione, spesso legati ai ricordi familiari e alle proprie sensazioni.

Non aggiunge certamente nulla di nuovo a quanto già sappiamo di questo artista, ma è una conferma del suo talento e della sua ispirazione: canzoni d’autore umili, sorrette dalla chitarra acustica pizzicata o arpeggiata, con essenziali inserti del violoncello (Alice Allen), dell’elettrica o della pedal steel (Sergio Webb).

Echi di un altro campagnolo, Greg Brown, immancabili rimandi a Bruce e a McDermott, rispetto ai quali però Grimm pecca nella mancanza di epicità, puntando più sul quotidiano.

L’iniziale The Leaving è eseguita in quasi solitudine, The Lonseome All The Time vede invece entrare la band al completa con Webb efficace alla pedal steel. I Don’t Know This World è uno dei brani in cui l’influenza dello Springsteen più interiore si fa sentire maggiormente, echi del Tom Russell di Man from God Knows Where emergono in Stirrin’ Up Trouble. Il cello della Allen in The Breath Of Burnin’ suona un po’ come il violino di David Lindley nei vecchi dischi di Jackson Browne.

Una delle cose migliori, anche per il bel testo in ricordo della figura paterna, è New Boots, che forma una gran doppietta con la seguente Twenty Years Of Shadows, altra bella composizione in cui Grimm gioca all’autocitazione costruendo il riuscito ritornello usando i titoli di sue vecchie canzoni guardando bene di farle diventare una frase compiuta. Forse il punto forte del disco, con l’interplay tra cello e chitarra elettrica che dà la sensazione che i musicisti fossero in studio insieme e nello stesso posto.

Il disco si chiude in punta di piedi con Bigger Than The Sky.

Paolo Crazy Carnevale

T. SUMITOMO BAND – Just Like The Good Ol’ Music

di Paolo Baiotti

16 maggio 2023

SUMITOMO

T. SUMITOMO BAND
JUST LIKE THE GOOD OL’ MUSIC
Big Stone 2022

I Savoy Truffle (nome che riprende il titolo di un brano dei Beatles dal White Album) sono stati una delle band non americane più valide e popolari in ambito southern rock e rock blues. Giapponesi di Osaka, hanno esordito negli anni novanta ispirati da Led Zeppelin e Free poi, dopo un cambio di organico, hanno virato verso un southern rock influenzato da Allman Brothers e Gov’t Mule, come si evince da Higher Ground pubblicato nel ‘98, seguito dall’omonimo album l’anno successivo e dal disco dal vivo Live On Our Way stampato anche in Svezia e da un altro paio di dischi in studio. In seguito, dopo l’abbandono del cantante Monji Kadowaki, hanno nuovamente modificato il nome diventando The Bluestone Company e pubblicando un paio di album più vicini al blues. Hanno anche collaborato con il chitarrista americano Chris Duarte, sia dal vivo che in studio, coadiuvandolo nel suo disco 396 del 2009, ma l’anno dopo si sono sciolti, incidendo ancora nel 2011 due live autoprodotti come Savoy Truffle e venduti ai concerti.
La loro attività si è svolta soprattutto in Giappone, ma hanno avuto un discreto seguito anche in Germania a nei paesi nordici, avendo suonato tra l’altro allo Sweden Rock Festival nel 2002. Indubbiamente derivativi, hanno messo in mostra le doti del chitarrista Toshihiro Sumitomo, solista di qualità sia all’elettrica che alla slide che, lasciata la band, ha formato la T.Sumitomo Band con il bassista Shinji Ide e il batterista Taro Takagi (ex Savoy Truffle), pubblicando A Million Miles From Home nel 2017 e un paio di dvd di istruzioni per chitarristi.
Recentemente è uscito questo mini-abum con cinque nuove tracce, che purtroppo non avrà seguito poiché Toshihiro è deceduto dopo una lunga malattia il 23 maggio del 2022, per cui si può considerare come un testamente sonoro del chitarrista che in 25’ mette in mostra le sue doti non comuni. La title track posta in apertura è un rock-blues scorrevole che ricorda un po’ la Steve Miller Band con un testo nostalgico e una chitarra scintillante, seguita da Still Wanna Live che fa riferimento indiretto alla malattia e al desiderio di vivere su una base southern guidata da una slide incisiva che si lascia andare nel finale e dalla robusta Mean Woman, meno ispirata delle precedenti.
Una versione elettrica, ruvida ed efficace di Jesus On the Mainline di Ry Cooder è l’unica cover, mentre la chiusura è affidata a Riding Into The Sunset, uno strumentale lento e maestoso con la slide sempre in primo piano.

Paolo Baiotti

ZZ TOP – Raw

di Paolo Crazy Carnevale

16 maggio 2023

ZZ Top - Raw (1)

ZZ Top – Raw (Shelter/BMG 2022)

Erano dieci anni che non usciva un nuovo disco a nome ZZ Top, negli ultimi anni Billy Gibbons aveva privilegiato la sua carriera solista e si era concesso il lusso di qualche cameo televisivo nella serie TV Bones (al pari di come Lyle Lovett appare di tanto in tanto in Blue Bloods e Jimmy Buffett compariva in Hawaii Five-0 prima che la serie venisse sospesa).

Purtroppo l’uscita di questa nuova raccolta di brani del trio texano è stata preceduta di poco dalla morte del bassista Dusty Hill, il che vuol dire che con ogni probabilità non ci saranno più dischi sotto questa pregiata denominazione.

Raw è un disco molto solido, forse uno dei migliori dischi mai incisi dal trio: d’altra parte si tratta di una rilettura dei brani migliori, nemmeno dei più grandi successi, registrati ex novo per la colonna sonora del documentario That Little Ol’ Band From Texas a loro dedicato e uscito poco prima del disco. Dopo quasi quarant’anni di dischi leggermente fotocopiati uno dall’altro, con fastidiose tastiere inserite qua e là con l’intento di modernizzare un sound che in realtà non ne aveva bisogno, gli ZZ Top sono tornati ad essere sé stessi, quelli degli esordi, un trio elettrico in bilico tra boogie e blues, con un background ritmico che più solido non si può ed una chitarra elettrica dagli echi hendrixiani.

Per registrare il disco i tre hanno scelto una location mitologica della scena texana, deep in the heart of Texas, come avrebbero detto Chuck Berry e Commander Cody (citando Berry), nel cuore della Hill County, tra Austin e San Antonio: lì, a New Braunfels (una delle diverse città fondate dagli immigrati tedeschi negli anni quaranta del diciannovesimo secolo) c’è la più antica sala da ballo del Texas, la Gruene Hall, mantenuta nel suo aspetto originario, con gli orinali a vasca, le pareti di legno, normative sulla sicurezza sotto il limite dello zero, eppure tutt’oggi gettonatissima, con una programmazione musicale da sogno, meta di appassionati della musica texana (vi hanno registrato dischi dal vivo Jerry Jeff Walker, Jack Ingram, i Two Tons Of Steel e svariati altri).

A porte chiuse gli ZZ Top vi hanno trovato l’atmosfera giusta per dare nuova linfa a classici intramontabili, privilegiando, guarda un po’, i loro anni settanta! Ben quattro composizioni tratte da Fandango!: la sempre struggente e bellissima Blue Jeans Blues, Thunderbird, Tush e la rocciosa Heard It On The X. Basterebbero a far drizzare i peli sulla schiena, ma c’è anche una versione da paura di La Grange, il brano da Tres Hombres che è stato a lungo la signature song del trio. Dal primo disco vengono ripescate Certified Blues e Brown Sugar, mentre da Degüello arriva una rinnovata I’m Bad I’m Nationwide che trasuda elettricità e conferma l’ispirazione hendrixiana di Gibbons, mentre Dusty Hill e il batterista Frank Beard mantengono un ritmo incalzante. Due soli brani dal pluridecorato Eliminator, il disco più venduto di sempre da parte degli ZZ Top: Legs e Gimme All Your Lovin’, molto convincenti. Il resto della scaletta sono un brano da Rio Grande Mud ed uno da El Loco del 1981. Una scelta che la dice lunga su quale sia stato il periodo d’oro della piccola vecchia band texana. Consigliatissimo.

Paolo Crazy Carnevale

THE VAD VUC – Album Postumo

di Paolo Crazy Carnevale

15 maggio 2023

vad vuc

The Vad Vuc – Album postumo (VadVuc/IRD 2022)

A dispetto del titolo, i Vad Vuc non si sono sciolti, la band di combat folk elvetica ha dato alle stampe alla fine dello scorso anno un nuovo disco di inediti, a seguito della precedente produzione che era di fatto un’antologia.

Sulla breccia praticamente da una vita il combo ticinese ha messo insieme un disco tutto nuovo dalla produzione accuratissima (in parte registrato nelle celebri Officine Meccaniche di Mauro Pagani) e dai contenuti mai scontati, incentrati su una sorta di concept che rivolge la sua attenzione al mondo della violenza nelle sue più svariate manifestazioni: razzismo, bullismo, pregiudizi, omicidi, indifferenza, violenza domestica, guerra, abusi.

Con il suo armamentario a base di strumenti d’ogni genere, dalle chitarre ai synth passando per violini, bouzouki, flauti, fisarmoniche, batteria, mandolini e fiati l’immaginario sonoro allestito dalla decina di musicisti titolari acquista uno spessore che ricorda i migliori Modena City Ramblers (per inciso quelli del primo disco), complice anche il crossover tra italiano e dialetto ticinese che ben si adatta (proprio come lo faceva il modenese) ai ritmi combat folk d’ispirazione irish.

Non solo zumpa zumpa però, ci sono anche i brani più intimi e riflessivi come ci insegna l’introspettiva e triste storia dell’impiegato di banca frustrato e malato terminale che decide di divenire un pirata (Pirata è il titolo del brano), composizione supportata da un quartetto d’archi, così come il brano iniziale Non sappiamo chi siamo è arricchito dalla banda Osiris.

E di ospiti ce ne sono diversi e titolati nel disco postumo dei Vad Vuc, sicuramente di gran vaglia è la collaborazione con Enrico Ruggeri che presta la voce a Mago di Cantone.

Nell’evocativa Checkpoint Charlie (nulla a che vedere con Little Steven) c’è addirittura, presa in prestito, la voce di Giorgio Gaber, tratta da L’elogio della schiavitù.

Tra le cose più simpatiche meno “pesanti” c’è la speditissima Maltràinsema che sembra una sorta di manifesto del gruppo con i vari soggetti che si presentano, e come dimenticare l’ironica Il paese dove va tutto bene?

Neri o bianchi che siano è invece più diretta e disillusa, col dito puntato contro i social e il loro deleterio effetto sulla gente: il brano è tratto da una poesia di Ernesto Brega ed è stato scelto come canzone dell’anno nel 2021 dalla Stampa Svizzera.

Un can è un inno contro la guerra, Il nostro eroe è di nuovo all’insegna dell’atmosfera irlandese, quindi in dirittura d’arrivo c’è l’ultimo ospite del disco, l’irrinunciabile dirimpettaio del gruppo Davide Van De Sfroos, che canta nell’esilarante Lo scozzese ubriaco. Il finale però riporta al tema principale del disco, in punta di fisarmonica e pianoforte con un brano sulla violenza domestica, molto toccante.

Paolo Crazy Carnevale

Nella Martesana la prima edizione della Fiera del Disco e del CD

di admin

11 maggio 2023

VOLANTINO FIERA DISCO POZZUOLO MART_ MAGGIO 2023-1

Domenica 16 maggio a Trecella – Pozzuolo Martesana, presso l’Oratorio San Giovanni Bosco in Via Raffaello Sanzio, 9 si svolgerà la prima edizione della Fiera del Disco e del CD.

Orario: dalle 10.00 alle 18.00

Ingresso Libero

MOLINA, TALBOT, LOFGREN, YOUNG – All Roads Lead Home

di Paolo Crazy Carnevale

9 maggio 2023

All Roads Lead Home

Molina, Talbot, Lofgren, Young – All Roads Lead Home (NYA Records 2023)

Questo strano disco era stato annunciato erroneamente come il nuovo disco dei Crazy Horse, forse cercando di fare leva sull’interesse che il gruppo ha sempre destato in virtù della sua collaborazione cinquantennale con Neil Young. Del resto il disco è pubblicato dalla NYA (Neil Young Archives), etichetta creata alla bisogna dal canadese per supportare gli amici e collaboratori di una vita.

In realtà, contrariamente a quanto si potrebbe pensare, non ha nulla a che vedere con le recenti session del gruppo per gli ultimi dischi di Young, il fatto poi di uscire accreditato a quattro cognomi messi uno di seguito all’altro, semplicemente, chiarifica un po’ il tutto.

All Roads Lead Home è innanzitutto un buon disco, onesto, ben fatto; non un must ma sicuramente un disco che si lascia riascoltare più e più volte, il che non è poco.

Talbot, Molina e Lofgren hanno sempre scritto canzoni in proprio, hanno avuto carriere artistiche sia sotto la denominazione Crazy Horse che (almeno Talbot e Lofgren) a proprio nomi.

Nessuno dei tre è un cantante indimenticabile, ma il risultato complessivo si fa apprezzare, indipendentemente dalla presenza di un brano scritto, cantato e suonato da Neil, una lunga versione acustica della recente Song Of The Seasons, di cui preferiamo senza se e senza ma la versione full band che apriva Barn.

Il disco è figlio della pandemia, uno dei moltissimi: confinati a casa, i tre musicisti hanno avuto modo di mettere mano sulle canzoni che avevano scritto e mai portato compimento, tre ciascuno, che col brano ricevuto in omaggio da Neil vanno a comporre un album di dieci brani.

Il fatto che ciascuno suoni i propri brani senza che siano presenti gli altri, lascia qualche perplessità, fugata però dall’ascolto che brilla incredibilmente per unitarietà. Lofgren fa tutto da solo, giovandosi solo dell’aiuto del fratello Tom (da sempre al suo fianco) per i cori, e dal prodigioso Kevin McCormick al basso (CSN, Jackson Browne). Billy Talbot coinvolge la sua band al completo, con tanto di ospite di riguardo in Rain, che apre il disco: si tratta di quel Matt Piucci che dopo essere stato la chitarra dei Rain Parade negli anni ottanta ha poi fatto parte dei Crazy Horse per un disco non disprezzabile. Il batterista Ralph Molina per i suoi tre brani si avvale invece di uno stuolo di musicisti.

La già menzionata Rain ha subito l’approccio giusto, Talbot è forse quello più vicino a Neil a livello di scrittura e lavora bene anche con la voce rispetto a certi suoi dischi di qualche anno fa. I suoni delle chitarre (oltre a Piucci ci sono Tommy Carns, Michael Hamilton, Mark Hanley e Ryan James Holzer) sono ben costruiti. Non è male nemmeno You Will Never Know, il primo contributo di Lofgren, paga un po’ dazio al fatto di essere suonata e sovraincisa in solitudine e un po’ alla lunga militanza del nostro nella E Street Band e ai suoni di Springsteen, lontani dall’approccio younghiano e da quello dei Crazy Horse. Non è ben chiaro – le note di copertina devono essere sbagliate – chi suoni in It’s Magical, cantata in punta di voce dal batterista, fatto salvo che le chitarre dovrebbero essere opera di Jan King e Joshua Sklair e il piano di Marco Cecilia. A questo punto s’inserisce la canzone di Young, di cui ho già detto; Cherish è di nuovo opera del bassista, un brano più introspettivo rispetto al suo contributo precedente, Lofgren è invece l’autore della sostenuta Fill My Cup, più younghiana del suo brano precedente ma un po’ ammazzata da una brutta tastiera.

Molina è quindi autore di Look Through The Eyes Of Your Heart, brano consistente e ben strutturato in cui è accompagnato al completo dai romani Raw (Francesco Lucarelli e Marco Cecilia alle chitarre, Marco Molino alla batteria e Fabrizio Settimi al basso) e da Anthony Crawford (veterano younghiano a sua volta) alla chitarra acustica. Meno accattivante Talbot con The Hunter, arricchita da un breve assolo di elettrica.

Go With Me sembra la migliore delle tre composizioni di Lofgren, anche se come le precedenti soffre a sua volta dell’incisione solitaria con Lofgren che si duplica a tutti gli strumenti (il problema sembra essere il mix più che altro). Just For You è una ballata pianistica (di nuovo Marco Cecilia), suggestivo suggello al disco firmato da Ralph Molina e con un solo di sax di Dave Becker.

Paolo Crazy Carnevale

IAN HUNTER – Defiance part.1

di Paolo Baiotti

6 maggio 2023

defiance

IAN HUNTER
DEFIANCE PART 1
SUN/BLUE CAT 2023

Ian Hunter è nato il 3 giugno del 1939 in un paese dello Shropshire ai confini con il Galles. Quindi sta per compiere 84 anni, ma sembra impossibile ascoltando la freschezza e l’energia che si percepiscono dal suo nuovo album Defiance Part 1 (il che lascia presumere una seconda parte tra qualche tempo), nonchè la sua voce arrochita al punto giusto. Il cantante inglese, già leader dei Mott The Hoople negli anni settanta e poi titolare di una carriera solista di assoluto valore, aveva pubblicato nel 2016 Finger Crossed, seguito da un tour nel 2019 interrotto per problemi di udito. Ora torna con un disco pieno di ospiti che testimoniano il rispetto (pienamente guadagnato) di cui gode nell’ambiente musicale. Non siamo ai livelli di Man Overboard del 2009, del precedente Shrunked Heads o del successivo When I’m President, ma non ne siamo neppure così lontani e, pensando anche all’età dell’artista, non si può che essere soddisfatti di questa manciata di canzoni che scorrono veloci e senza intoppi. E non è solo merito degli ospiti che sicuramente contribuiscono, ma non sono decisivi quanto la voce e la scrittura di Ian, coadiuvato alla produzione da Andy York con il quale ha ricreato dal 2001 un rapporto di collaborazione paragonabile a quello con il grande chitarrista e amico Mick Ronson e dalla sua Rant Band.
In questa occasione Ian predilige tracce ritmate, divertenti e trascinanti, più disimpegnate che in passato come Defiance in cui si inserisce la solista di Slash, il nostalgico singolo Bed Of Roses che ricorda i tempi dello Star Club di Amburgo, nel quale è affiancato da Ringo Starr alla batteria, Tony Shananan al basso e Mike Campbell alla chitarra, il vibrante rock and roll Pavlov’s Dog e la pianistica I Hate Hate che ricorda gli Hoople (presente anche in una seconda versione nascosta). Non male anche il mid-tempo No Hard Feelings con Jeff Beck in una delle sue ultime partecipazioni e la slide di Johnny Depp, mentre sul versante delle ballate, da sempre un punto di forza della scrittura di Hunter, è d’obbligo citare Guernica, traccia politica nel testo di grande intensità in cui rispunta l’ex Heartbreaker Mike Campbell insieme a Joe Elliott, cantante dei Def Leppard, grande fan e sostenitore di Ian, mentre convince meno la scontata Angel nonostante le partecipazioni di Taylor Hawkins, Duff McKagan, Waddy Wachtel e Brad Whitford. In chiusura la zampata dell’energica This Is What I’m Here For con un testo che vuole riaffermare il suo ruolo (When I was thirty I was over the hill/Fifty years later I still kill) con Hawkins, Wachtel e Elliott dimostra che il ragazzo di Oswestry non è ancora pronto ad appendere la chitarra al chiodo. Non ci resta che attendere con fiducia la seconda parte di questo progetto.

Paolo Baiotti