MARIO ROJAS
LOST ANGELINO
Mariorojasmusic.com 2017
Cantautore nativo di Los Angeles di famiglia messicana, ha trascorso parte dell’adolescenza a Dallas dove ha iniziato l’attività musicale appassionandosi ad artisti locali come Freddie King e Ray Wiley Hubbard. Tornato a Los Angeles alla fine degli anni settanta ha fatto parte degli Shake Shakes componendo, cantando e suonando la chitarra per la band, tra pop, punk e new wave. Dopo questa esperienza ha lasciato la musica per un lungo periodo, tornando come artista solista, sempre in equilibrio tra pop, rock e soul. Influenzato dai grandi songwriters americani e inglesi, da Bruce Springsteen a Graham Parker, da Leon Russell a James Taylor, dal rock dei Cream e dei Jam, dagli Stones e dagli artisti Stax, Mario ha una voce che ricorda a volte in modo quasi imbarazzante Elvis Costello, non solo nella tonalità, ma anche nel modo di cantare.
Lost Angelino è il suo terzo disco solista, prodotto con Ed Tree e inciso in parte da solo, in parte con la sua band, A Saturday Night Pink, formata da Mike Fernandez (batteria), Rick Snyder (basso) e Jeremy Long (tastiere e pedal steel). Un album gradevole, profumato di pop, con qualche sfumatura country e rock, come si evince dall’opener Temporary Clown, traccia radiofonica di spessore, dall’elettroacustica Face Down che può ricordare i Byrds, da Beatle Boots che potrebbe essere scambiata per una outtake di Elvis Costello, dalla scorrevole Blue Light Follow, punteggiata dalla lap-steel e dal mid-tempo melodico della title track. Le undici tracce del disco mantengono una qualità di scrittura dignitosa, pur senza entusiasmare, allo stesso modo degli arrangiamenti e delle esecuzioni.
ROLLING STONES – Blue & Lonesome (Promotone/Rolling Stones Records 2016)
Vecchio grande amore… I Rolling Stones… devo ammettere che li avevo lasciati per strada da un pezzo. Mi correggo, non ho mai smesso di ascoltarli, ma i dischi recenti – e voglio dire dagli anni ottanta in poi, dopo Tatto You – mi erano sembrati via via sempre più fiacchi, talvolta anche suonati senza voglia, con canzoni qualunque. Non mi erano piaciuti né Voodoo Lounge né A Bigger Bang, tantomeno il resto, esclusi naturalmente i live. Quella è un’altra storia. Su tutti Stripped e il DVD quadruplo 40 Licks.
Il fatto che stessero facendo un disco nuovo dopo undici anni dal precedente non mi aveva quindi coinvolto più di tanto, nonostante si trattasse di un disco blues. E poi, preoccupante quanto mai, c’era il fatto che a produrre avessero chiamato l’invadente e ridondante Don Was.
Poi, più per caso che per altro, mi è capitato tra le mani Blue & Lonesome, con qualche giorno d’anticipo rispetto all’uscita prevista per giunta, ed è stato un colpo di fulmine: giuro che ormai ero convinto che il vecchio Keith e soci avessero esaurito la benzina, almeno per quanto riguarda l’approccio allo studio di registrazione. Certo, questo è un disco di cover, di vecchi blues malati e vibranti, grondanti torride atmosfere; ma i Rolling Stones non erano nati proprio come cover band? E allora che male c’è?
Blue & Lonesome è bello da morire e anche se è uscito da quasi due anni – ho voluto lasciarlo decantare e riascoltarlo periodicamente per essere sicuro di confermare la prima impressione – è giusto, giustissimo dirne.
Dischi blues ne vengono prodotti a decine ogni mese, alcuni notevoli, e su queste colonne se ne parla abbondantemente. Ne vengono prodotti anche di più dozzinali, o quantomeno di meno ispirati. I Rolling Stones danno ancora la birra a parecchia gente quando tornano a questo loro vecchio amore.
Sempre di vecchi amori si tratta: loro per me, il blues per loro.
E i vecchi amori, se sono veri vanno rispettati e trattati con i guanti: Jagger, Richards, Wood e Watts (più i soci non titolari) si accostano al blues con la stessa freschezza (e inevitabilmente un po’ di mestiere in più) di un tempo, infilando una dozzina di brani che potremmo definire classici minori, suonando come se si trovassero di nuovo negli studi Chess, o in quelli della Vee Jay, dove i loro idoli degli esordi hanno scritto la storia del genere.
Sarebbe stato troppo facile andare a rifare quei brani che tutti ricordano, facile e scontato, l’intelligenza degli Stones invece sta proprio nell’aver scelto oculatamente altre canzoni.
Così ecco scorrere una dietro l’altra le composizioni di Chester Burnett, Walter Jacobs, Magic Sam e Willie Dixon (per dire solo quelli più noti).
Grande, subito, l’inizio, affidato a Just Your Fool, poi tocca a Commit A Crime, immensa, e alla title track, che è tra le cose migliori della raccolta. Wood e Richards macinano blues con le chitarre, Jagger oltre a cantare rispolvera l’armonica, ricordandoci quanto bravo fosse con questo strumento, Watts sui tamburi è essenziale come sempre. Poi ovviamente c’è il bassista Daryl Jones e al piano l’inestimabile Chuck Leavell. Anche All Your Love è torrida, mentre I Gotta Go vira verso il boogie, prima di cedere il passo a Everybody Knows About My Good Thing che ospita Eric Clapton alla slide, inconfondibile: bel brano, bella scelta e bella esecuzione, col piano di Leavell in evidenza.
Ride ‘Em Down è ripescata dal repertorio di Bukka White, Have To See You Go contiene un altro bell’intervento dell’armonica e Hoodoo Blues di Lightnin’ Slim è interpretata con gran gusto e con le percussioni aggiunte di Jim Keltner. Little Rain è di Jimmy Reed ed ha tutta la tensione delle dodici battute, lenta, con l’armonica vibrante ed un suono delle chitarre che ci ricorda quanto Ron Wood sia molto di più che un gigione sparring partner per Keith “the human reef”.
In chiusura due brani di Willie Dixon, la movimentata Just Like I Treat You e la più nota – forse l’unico brano leggermente più celebre della raccolta – I Can’t Quit You Baby, in una bella esecuzione, di nuovo con Clapton ospite a dialogare con le sei corde di Wood e Richards, e con Jagger che canta più nero che mai.
NEIL YOUNG + PROMISE OF THE REAL – Paradox (Reprise 2018)
Pur non trattandosi di un disco a sé stante, questo Paradox è il quarto registrato da Neil Young con l’aiuto della band di Lukas Nelson: una colonna sonora realizzata per accompagnare l’omonimo film scritto e diretto da Daryl Hanna, l’ex Sirena a Manhattan di cinematografica memoria ed ora compagna del rocker canadese.
Film e disco inattesi, soprattutto alla luce del fatto che nei mesi immediatamente precedenti Young ha messo sul mercato ben due dischi d’archivio (uno meglio dell’altro, Hitchhiker e Roxy-Tonight’s The Night Live) ed uno nuovo di studio con gli stessi Promise Of The Real (non così ottimo ma migliore dei due lavori con questo gruppo che lo avevano preceduto).
Questa colonna sonora rischia comunque di essere il miglior disco nuovo di Young dai tempi dell’eccelso Psychedelic Pill, nel senso che lo si riesce ad ascoltare quasi interamente senza essere sopraffatti dal desiderio di toglierlo dal lettore (cosa che in particolare non riusciva col doppio dal vivo Earth o col brano spagnoleggiante del più recente The Visitor). Rispetto ai precedenti dischi Lukas Nelson ha anche diverse possibilità di esprimersi come cantante oltre che come chitarrista e a cavallo tra brani totalmente acustici e cavalcate elettriche la serie di composizioni fila via abbastanza bene.
Il film, che non ha riscosso particolari entusiasmi, è una specie di western crepuscolare e visionario, come visionari erano i film diretti e scritti da Young in persona, la sua dolce metà evidentemente è sulla stessa lunghezza d’onda. È avvantaggiata però dalle tecnologie d’oggidì, e quindi la pellicola, per quanto sconclusionata, ha una definizione altissima, e la qualità delle riprese è davvero incredibile.
Il disco dal canto suo mette insieme alcune composizioni strumentali, qualche brano d’epoca eseguito in maniera scarna, e alcune canzoni fatte e finite – Diggin’ In The Dirt pare essere l’unica nuova – ripescate dal repertorio recente e meno recente di Young e risuonate per l’occasione.
E a questo punto è doverosa una parentesi riguardo al fatto che il canadese ultimamente pare essere stato eccessivamente indulgente nel mettere in commercio brani incisi alla bene e meglio, che avrebbero beneficiato di un po’ di attesa e di un’esecuzione più adeguata, o addirittura di un mix più adeguato, proprio come nel caso dell’iniziale (dopo un’introduzione parlata di Willie Nelson) Show Me, che appariva già su Peace Trail, ma che qui suona decisamente meglio, anche se la versione sembra la stessa. Le fa seguito un brano strumentale intitolato Hey, costruito citando il tema di Love And Only Love, In realtà nel disco, tra un brano e l’altro ci sono degli intermezzi acustici suonati da Young ma nel CD non sono indicati (i titoli sono Paradox Passage I, II, II e via dicendo, fino al sesto). Diggin’ In The Dirt il brano nuovo, è cantato due volte nel disco, con Young e Nelson che si alternano. Nulla di memorabile ci pare, ma inserito nel contesto ci può stare. La nuova versione di Peace Trail è il capolavoro del disco, non solo, è anche la cosa migliore incisa da Young in studio con questa formazione, per altro spettacolare in concerto. Dimenticate la versione in trio acustico presente sul disco omonimo, qui c’è davvero del gran buono, a conferma che forse sarebbe stato meglio aspettare a pubblicare quell’altra.
Pocahontas, un classico senza tempo, è qui eseguita con il famoso organo a canne. Un brano che in qualunque versione non può far altro che piacere. Poi arriva Cowgirl Jam, una lunga scorribanda messa insieme prendendo le varie jam di Young e del gruppo su un altro classicone, Cowgirl In The Sand, filmato durante il tour europeo del 2016: il brano fa da commento ad una scena in cui Young e Nelson padre rapinano una banca.
Poi c’è un brano di Willie, cantato da Lukas, Angel Flying Too Close To The Ground, in versione fuoco di bivacco, così come Baby What You Want Me To Do di Jimmy Reed (già affrontata da Young con i Crazy Horse su Broken Arrow), il blues How Long? e la Happy Together dei Turtles.
Nel mezzo si infilano la seconda versione di Diggin’ In The Dirt e un paio di altre invenzioni strumentali, tra cui l’interessante e ossessiva Running To The Silver Eagle. Poi per il finale Young ripesca e rilegge un altro suo brano recente, tratto da Storytone (il disco con l’orchestra). Rispetto alla pesantissima versione orchestrale, qui la canzone è quasi unicamente rivestita di voce e ukulele, in maniera splendida: manco a dirlo anche in questo caso non c’è paragone con quella già ascoltata.
Una cosa è certa, a giudicare dal film, Young e soci devono essersi divertiti parecchio ad andare in giro per boschi e montagne acconciati e vestiti come mountain men e pistoleri straccioni!
Erano alcuni anni che Roger Len Smith non ci faceva sentire la sua musica. Per la precisione dal 2009, anno di pubblicazione del piacevole Clear Blue Sky, nel frattempo, da Austin, Texas, si è trasferito con la famiglia in Colorado, altro stato dove la musica indipendente riesce a ritagliarsi dei begli spazi. Questo Anything Goes è il suo sesto disco, e ci conferma quanto l’artista sia maturato dai tempi del suo esordio solista risalente ormai a vent’anni fa.
Naturalmente tra un disco e l’atro Roger non ha dormito, ha suonato molto dal vivo, come solista e come turnista (in Italia lo abbiamo visto nel 2014 al seguito di Phil Cody, amico storico, che raggiunge sul palco non appena possibile, oltre che sui dischi).
Dopo il trasferimento in Colorado, Roger ha assemblato le dieci nuove composizioni, però per registrarle ha deciso di tornare in Texas, nella pacifica e romantica Wimberley, lungo le rive non sempre tranquille del Blanco River: lì, l’amico A.J. Downing – produttore e cantautore in proprio, in questo disco anche banjoista – ha costruito letteralmente con le proprie mani un piccolo studio confortevole che ha visto nascere Anything Goes.
Diciamolo subito, questo è un bel disco, fatto in casa ma ben suonato, con suoni equilibrati ben tesi a mettere in luce i lavori delle molte chitarre impiegate: Roger dal canto suo è davvero maturato e cresciuto bene come autore, e la sua voce viene impiegata al meglio, grazie anche alle armonie di Nöelle Hampton del duo The Belle Sounds, di cui fa parte anche il marito Andre Moran, che nel lavoro di Roger suona la chitarra elettrica.
Il disco si apre subito con un brano che presenta lo spessore del prodotto, Can’t Wait For Another Day, una composizione dal tiro rock’n’roll caratterizzata da una lap steel che ricorda i suoni del miglior David Lindley quando suonava nei dischi di Jackson Brown; il brano successivo conferma la bontà della prima impressione: s’intitola Rain On A Sunny Day una canzone ben riuscita (con la lap steel sostituita dalla più morbida pedal steel) che ospita Rami Jaffee (qui al vibrafono, ma già all’organo con i Wallflowers, Phil Cody e ora con i Foo Fighters). La title track non fatica a rivelarsi come una delle canzoni memorabili del disco, piuttosto lunga, con bei lavori delle chitarre: oltre a Moran c’è il prodigioso Kim Deschamps (Cowboy Junkies soprattutto e molto altro, tra cui anche Bruce Cockburn) che nel disco si alterna a pedal steel, lap steel e dobro con estrema ispirazione e bravura.
Il songwriting di Roger Len Smith è scorrevole, passa con tranquillità da temi di carattere universale ad argomenti più politici, senza dimenticare la sua vita personale; e il tutto contribuisce alla piacevolezza del disco. La scuola cantautorale di marca californiana anni settanta si sposa alla perfezione coi più moderni suoni “americana”.
Warren Zevon è l’autore che viene in mente ascoltando l’attacco di Leaving It All Behind, forse non un caso visto che Roger, negli anni novanta, al seguito di Cody ha suonato spesso come opening act per Zevon, ma c’è anche un po’ di Dylan nell’aria, per via del modo di suonare nell’armonica del titolare. La pedal steel e un ritmo cullante vagamente folk sono alla base di House Of Cards mentre Empty ha un giro vagamente fifties e di nuovo si può ben sentire il contributo di Rami Jaffee. Atmosfere acustiche, con tanto di dobro, stanno alla base della canzone che Roger dedica ai figli Zander e Zoey, quasi una filastrocca che proprio dai loro nomi prende il titolo; Got To Thinkin’ è invece di nuovo robusto rock, con le chitarre in tiro e un riff rollingstoniano, a dimostrazione della versatilità e della profonda conoscenza che Smith ha dell’intero panorama musicale di matrice rock. Suggestione di stampo The Band arrivano invece da Aim, soprattutto nell’uso delle chitarre, mentre la conclusiva Down At Juniors è di nuovo una riuscita canzone veloce con suono in bilico tra chitarre acustiche ed elettriche.
JIM PATTON & SHERRY BROKUS
THE HARD PART OF FLYING
Berkalin Records 2016
Pubblicato in Europa a maggio di quest’ anno, il nuovo album del duo di folk acustico e di Americana formato da Jim Patton & Sherry Brokus, compagni nella vita oltre che nell’attività musicale, riunisce per la quarta volta la coppia con Ron Flynt (multistrumentista, già con i 20/20 e The Bluehearts) che ha registrato e mixato a Austin, producendo le incisioni alle quali hanno partecipato tra gli altri Rich Brotherton (session man che ha suonato in decine di dischi texani, da tempo con Robert Earl Keen) e Martin Dykhuis (Tish Hinojosa, Jimmy LaFave, Peter Rowan…) alla chitarra, dobro e mandolino, Warren Hood al violino nonché Mary Cutrufello ospite alla chitarra acustica solista in due tracce, tutti collaboratori di lunga data della coppia. I personaggi di Patton sono perdenti o eroi minori della classe lavoratrice, le sue canzoni, molte scritte con il cantautore Jeff Talmadge, parlano della vita comune, con semplicità e verità. A tre anni di distanza da The Great Unknown, il nuovo album riafferma la capacità della coppia di scrivere ed eseguire brani di tradizione folk con venature country e qualche vicinanza con il rock, pur mantenendo ferma la scelta acustica. Cresciuti nel Maryland, Patton e la Brokus hanno formato gli Edge City a metà degli anni ottanta, suonando un rock ispirato da Byrds, Stones, Creedence e Van Morrison per parecchi anni sulla costa est, spostandosi a Austin alla fine dello scorso secolo, dove hanno realizzato due cd con la band aiutati da musicisti di primo piano come Lloyd Maines, David Grissom e Gleen Fukunaga. Contemporaneamente stavano approfondendo l’aspetto acustico della loro musica, esordendo con Great Expectations nel 1991, seguito da Million Miles Away due anni dopo. Entrati a far parte del circuito texano dei cantautori, nel 2008 hanno deciso di dedicarsi completamente all’attività acustica. Nel nuovo disco spiccano la delicata How Did We Come To This?,fusione perfetta di melodie vocali e arrangiamento minimale, la mossa When I Was The King in cui Jim assume il ruolo di voce solista, la deliziosa ballata country Drunk In Baltimore e la ritmata Down At The Anchor Inn, un rock acustico con la Cutrufello alla chitarra solista, dove la voce di Patton ricorda Lou Reed. The Hard Part Of Flying è un disco di folk acustico di agevole fruizione, pur non vantando una scrittura trascendentale.
ROGER McGUINN – Sweet Memories (April First Productions 2018)
Roger McGuinn. Chi se lo aspettava un disco nuovo dopo anni di Folk Den e dischi dal vivo piuttosto inutili? Era lecito attendersi molto, o almeno qualcosa di più visto che l’ex Byrd in persona aveva annunciato questa pubblicazione da diverso tempo e ne aveva parlato come di un disco rock.
L’attesa e l’entusiasmo a riguardo sono stati puntualmente disattesi dall’uscita (il 13 luglio scorso, compleanno del nostro) di questo Sweet Memories.
A dispetto dei bei e applauditi concerti che Roger sta tenendo in compagnia di Chirs Hillman e dei Fabulous Superlatives di Marty Stuart per festeggiare i cinquant’anni di Sweetheart Of The Rodeo, questo nuovo disco è davvero poca cosa. Per certi versi imbarazzante. È vero che l’artista nelle interviste, recenti o meno che siano, continua a puntare il dito sul fatto che gli interessi solo essere un artista solista, senza gruppi, ma è anche vero che in anni lontani si è sempre dichiarato pignolo e perfezionista: Sweet Memories non è certo il disco di un pignolo, tantomeno di un perfezionista. È un disco arruffato, messo insieme alla viva il parroco – citando Sandro Ciotti – e senza rispetto alcuno dei fan che ancora lo seguono. Un disco che suona come una raccolta di demo con un adattamento riuscito di u n vecchio brano, canzoni inedite (otto) e qualche minestra scaldata (male), per di più dura trentaquattro minuti, uno sforzo davvero minimo, quasi McGuinn volesse sfruttare il fatto che dopo tanti anni si è tornati a parlare di lui.
In tutta sincerità lo definirei un disco per collezionisti incalliti, ma davvero incalliti, perché non mi sentirei di consigliarlo a nessun altro.
Pensiamo ai lavori di altri ex Byrds usciti di recente: Hillman ha fatto un capolavoro (certo con Tom Petty come produttore), Gene Parsons, pur lavorando in economia e semplicità ha inciso un disco con David Hayes e uno con il Mendocino Quartet che sono infinitamente superiori a questo disco di McGuinn; Crosby, pur senza dispendio di forze ha pubblicato nel 2016 Lighthouse, il suo secondo disco più bello di sempre.
Sweet Memories non è innanzitutto un disco rock come promesso, è un disco di pallido folk rock dove si riascoltano (basta!) Turn! Turn! Turn!, Mr. Tambourine Man e So You Want To Be A Rock’n’Roll Star in arrangiamenti pressoché identici a quelli delle versioni byrdsiane. Roger suona tutto, che significa chitarre e basso (nella seconda lo stesso identico giro dello storico singolo) e usa (nella terza) una drum machine dal suono fastidioso e vetusto che non usa più nessuno.
La cosa migliore del disco è Chestnut Mare Christmas, indicata come il seguito di Chestnut Mare, in cui si può riconoscere il tema del vecchio brano: qui c’è ospite Marty Stuart, e si sente, la cui chitarra regala al brano e al disco qualcosa di superiore. Ma non basta.
E non basta la spiritosa intuizione di inserire in scaletta Friday, un brano oscuro che in un video fake di youtube viene presentato come inedito dylaniano eseguito dai Byrds in un programma televisivo del 1965. Un falso dichiarato e riconosciuto. Simpatica l’idea di reinterpretarlo. Il resto sono una manciata di buone canzoni, folk elettrico eseguito con la Rickenbacker. Ci sono tre brani che risalgono ai primi anni ottanta (ascoltati anche in Italia quando Roger vi venne con i Peace Seekers): The Tears, Light Up The Darkness (la migliore della terna), la title track. L’impressione è che i suoni siano un po’ lasciati al caso, non c’è un lavoro di produzione, non c’è un missaggio adeguato, i volumi sono casuali e di tanto in tanto c’è anche fruscio sulle voci (McGuinn si sovraincide).
I brani più interessanti sono 5:18, At The Edge Of The Water e Catching Rainbows, tutte originali ma indubbiamente succubi dello stile del british folk marinaro che sta all’origine di molte canzoni che Roger negli ultimi venticinque anni ha approcciato per i numerosi progetti denominati del Folk Den.
ANNIE KEATING – All The Best: From Brooklyn With Love (Appaloosa/IRD 2018)
Credo che se qualcuno tentasse di fare un giorno un censimento dei singer/songwriter operativi sul territorio americano, verrebbe dissuaso dall’intento fin da subito, vista e considerata la mole di personaggi poco noti che si aggirano per il settore.
Personaggi che spesso e volentieri, a dispetto dell’essere dei perfetti sconosciuti o quasi, hanno una bella e ricca discografia alle spalle e, soprattutto di qualità.
Prendiamo questa recente scoperta di casa Appaloosa, chi è Annie Keating? Anche se il suo nome non mi dice nulla, l’ascolto del suo disco in questione mi dice di dolci motivi, di scorrevoli ballate all’insegna di suoni misurati, gioiellini acustici ed incursioni strumentali più corpose.
Il disco è un’antologia realizzata appositamente per il mercato italiano, con una serie di canzoni tratte dai suoi dischi precedenti (ben sette): si tratta di un best, come fa intendere il titolo, che però si riferisce anche all’unica cover inclusa nella raccolta, All The Best di John Prine, uno che sta andando per la maggiore alla faccia della vetusta età e dei malanni di salute.
La Keating è una cantautrice di razza, i brani suonano tutti bene, la voce ricorda un sacco di altre colleghe, ma che ci si può fare, sono talmente tante che essere originali anche nella voce è un po’ un’impresa. Magari i suoni non sono quelli che ci aspettiamo da un disco che porta Brooklyn nel sottotitolo, ma la Grande Mela c’è poi in realtà nei testi.
Quindici le tracce incluse nel disco, piacciono Belmont, In The Valley con un bel mandolino e la pedal steel (ma non sappiamo i nomi dei musicisti purtroppo), la dolce Sweet Leanne, la più ritmata Water Town View.
New York è protagonista in particolare della riuscita Coney Island, tra le tracce più belle, Kindness Of Strangers ha un violino dominante, presente anche in Forget My Name che però sfoggia anche un bel break di mandolino e la pedal steel.
E che dire della bella introduzione di You Bring The Sun una bella canzone d’amore, solare, con chitarra baritonale e mandolino che creano un crescendo su cui si innesta poi anche la pedal steel.
Gli arpeggi di chitarre acustiche sorrette da un bel suono di basso sono invece la caratteristica di For The Taking, poi il disco va chiudersi con reverenza con la cover di John Prine, in una versione essenziale e rispettosa.
BUDDY GUY
THE BLUES IS ALIVE AND WELL
Silvertone/Rca 2018
Sulla copertina del suo nuovo album, Buddy Guy si fa fotografare sorridente in tuta da agricoltore, ma con la chitarra al posto della vanga, al fianco del cartello stradale di Lettsworth, Louisiana, il paesino nel quale è nato 82 anni fa. Sebbene si sia spostato da adolescente a Baton Rouge e poco più che ventenne a Chicago, l’artista sembra volere riaffermare le sue origini nel momento in cui si avvicina alla fine della sua carriera. E lo fa con una classe immensa, con un disco di qualità che ribadisce la sua statura iconica di ultimo grande chitarrista del blues di Chicago, lui che arrivò in città mettendosi in competizione con i contemporanei Magic Sam e Otis Rush, che lo aiutò a ottenere il primo contratto con la Cobra Records. In seguito, pur avendo difficoltà con la Chess Records per il suo stile influenzato dal rock, ha inciso dischi importanti con Junior Wells (Hoodoo Man Blues è un classico), emergendo come solista negli anni ottanta, aiutato dall’appoggio di amici importanti come Eric Clapton e i Rolling Stones, che ne hanno sempre riconosciuto l’influenza. In studio Buddy ha mantenuto una continuità sorprendente, mentre dal vivo negli ultimi anni tende un po’ troppo a gigioneggiare, alternando momenti esaltanti ad altri dimenticabili. Da Skin Deep (Silvertone 2008) ha iniziato a collaborare con il produttore e batterista Tom Hambridge, autore di gran parte del materiale degli cinque dischi più recenti. Il doppio Rhythm And Blues (Rca 2013) ha debuttato al n.27 nella classifica americana, confermando la sua notevole popolarità, non solo nella ristretta cerchia di appassionati di blues, mentre Born To Play Guitar (Rca 2015) ha vinto un Grammy come miglior album di blues. Con The Blues Is Alive And Well il chitarrista realizza un altro disco significativo, il diciottesimo da solista in studio, destinato probabilmente ad aggiungere un nuovo Grammy alla collezione, vista la qualità dei brani e delle interpretazioni. Qualcuno si soffermerà sulla presenza di ospiti famosi ma, per quanto l’armonica di Mick Jagger sia funzionale allo splendido slow You Did The Crime e le chitarre di Jeff Beck e Keith Richards abbelliscano un altro lento da antologia come Cognac, non sono presenze indispensabili, perché il mid-tempo della title track, la vitale Old Fashioned irrorata dai Muscle Shoals Horns, la riflessiva When My Day Comes con le tastiere calde di Kevin McKendree e la magistrale cover dello slow Nine Below Zero (puro Chicago Blues) non sono meno efficaci. La voce di Buddy sembra avere l’energia e la vitalità di un trentenne, quanto alla chitarra c’è poco da dire, è un maestro e lo conferma per l’ennesima volta. Un disco da quattro stelle, che sarebbe stato perfetto con un paio di brani in meno.