Archivio di gennaio 2021

Mark Wingfield with Jane Chapman and Adriano Adewale – Zoji

di Paolo Crazy Carnevale

28 gennaio 2021

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Mark Wingfield with Jane Chapman and Adriano Adewale – Zoji (Moonjune Records 2020)

Ecco qui, nuovo di zecca un nuovo capitolo della discografia del poliedrico chitarrista britannico accasato presso la Moonjune, tra dischi da titolare e collaborazioni con altri artisti legati all’etichetta, Wingfield ha trovato il tempo di portare recentemente a termine questo nuovo lavoro non del tutto a proprio nome, anche se ne è sicuramente il principale artefice.
A fargli da sparring partner ci sono la tastierista Jane Chapman, collaboratrice di lunga data di Wingfield (già nel 2008 avevano condiviso un disco), e il percussionista Adriano Adewale.
Non è un caso che “Guitar Player”, la rivista di riferimento per i cultori dello strumento chitarra abbia definito lo stile di Wingfield misterioso e maestoso: questo nuovo disco esplicita sonoramente la definizione, mettendo sul piatto una serie di composizioni elaborate e importanti, caratterizzati dall’ottima miscela stilistica realizzata dagli interventi soprattutto della chitarra e dell’harpsichord.
Si tratta in tutti i sensi di un’escursione spazio-temporale in cui i filtri e gli effetti applicati all’elettrica di Wingfield si intersecano senza problemi con il suono “antico” dell’harpsichord, virando talvolta verso rimembranze di musica barocca, talaltra verso mondi lontani, su tutti vale l’esempio della corposa ed elaborata Persian Snow Leopard, composizione in cui il concept è particolarmente riuscito.
D’altronde va detto, a mo’ di aneddoto, che quando Wingfield e Chapman hanno cominciato a sperimentare insieme, è stato nel 2006 in occasione di alcune esibizioni tenutesi nell’abitazione che fu residenza del compositore barocco Friedrich Handel per diversi decenni: nella casa di fianco, due secoli più tardi abitò per un periodo Jimi Hendrix!
Ascoltate Pasquali Dream, il brano più breve e più barocco del disco, oppure Zoji Pass da cui il titolo del disco, o ancora Prelude Sinueux, per avere esempi ulteriori dell’ariosità del progetto e delle sue direzioni musicali e del suo stare in bilico tra stili e atmosfere.

Kevin Kastning, Sàndor Szàbo & Balàsz Major – Ethereal IV

di Paolo Crazy Carnevale

27 gennaio 2021

Ethereal IV cover

Kevin Kastning, Sàndor Szàbo & Balàsz Major – Ethereal IV (Greydisc 2021)

La collaborazione tra il chitarrista ungherese Sàndor Szàbo e quello americano Kevion Kastning è cominciata pochi anni fa, quando entrambi già parecchio affermati nel loro ambito musicale, quello della ricerca e dell’esplorazione di nuove sonorità hanno deciso di unire le forze per un disco in duo. Per quanto solitamente iimpegnato come chitarrista acustico, l’ungherese per queste collaborazioni, così come per un’altra serie di produzioni (composta a sua volta di ben nove dischi) si occupa di svariate chitarre elettriche, mentre l’americano si detreggia con una chitarra speciale a trenta corde che sembra un’arpa. Con loro c’è poi il percussionista Balàsz Major, fedele collaboratore si Szàbo.

Il connubio è nato nel 2018 all’indomani di un tour acustico di Szàbo, un tour con artisti di caratura internazionale tra i quali figurava anche Kastning, un tour che però lo aveva lasciato insoddisfatto, il fatto di lanciarsi in questa nuova avventura con Kastning si rivelò invece subito una sfida stimolante proprio per la sua diversità dalla routine del tour.

Il disco è stato registrato il 15 maggio di quell’anno in una serie di sedute che nel giro di una giornata hanno fruttato una più dischi, in duo o trio (il primo uscito nel 2019 col titolo di Kisnaros, dal nome della città nella cui concert hall, a porte chiuse, si sono tenute le sedute) tutti basati su una forte improvvisazione di non certo facile assimilazione o digeribilità.

Una cosa, se ci è concesso dirlo, molto per addetti ai lavori e poco per il pubblico.

Una cosa che però ha però evidentemente soddisfatto parecchio i musicisti, per via della possibilità di agire e suonare in totale libertà, nonostante l’americano avesse a disposizione solo la chitarra con le trenta corde, unico strumento portato in Europa Ungheria per il tour antecedente le sedute di registrazione.

Il disco, si compone di sei tracce, di lunghezza oscillante tra i cinque e i nove minuti, tutte all’insegna di una musica spaziale e sperimentale rigorosamente strumentale e senza schemi. A nostro giudizio eccessivamente ardita.

DWIKI DHARMAWAN – Hari Ketiga

di Paolo Crazy Carnevale

17 gennaio 2021

SleepCase

DWIKI DHARMAWAN – Hari Ketiga (Moonjune Records 2020)

Ha visto la luce proprio allo scadere dell’anno la nuova e mastodontica operazione discografica ordita dal producer Leo Pavkovic: infatti, se per la verità il disco è attribuito al tastierista/pianista indonesiano Dwiki Dharmawan, a conti fatti lo possiamo considerare un parto collettivo della scuderia Moonjune, con Pavkovic in veste di grande mente dietro il progetto, orchestratore di un’opera ambiziosa, non sempre di facile assimilazione, ma di grande fascino.

Con le dovute proporzioni si potrebbe fare un parallelo con il George Martin di Sgt Pepper, visto che il lavoro del produttore va qui molto oltre l’essere stato in cabina di regia durante le registrazioni. Pavkovic ha trovato nella Casa Murada situata in Catalogna, uno studio con una location suggestiva che ben si presta a stimolare le molte ispirazioni degli artisti della sua scuderia, e nel 2017 all’indomani di due giorni di session per un altro disco di casa Moonjune, Dharmawan, il chitarrista prezzemolino Markus Reuter, il batterista Asaf Sirkis e il cantante camuno Boris Savoldelli (una delle punte di diamante dell’etichetta) hanno lavorato insieme per una terza giornata di session, e proprio “terzo giorno” è il significato del titolo in lingua indonesiana Hari Ketiga.

Un viaggio musicale attraverso sonorità bene distinte e varie che Pavkovic ha subito ripreso in mano ed elaborato, lavorato e assemblato in studio dando forma ad un doppio CD dalle atmosfere suggestive. Un concept dei nostri tempi, all’insegna di sonorità differenti che spaziano dal prog-rock al noise, alla fusion (termine brutto e abusato, ma abbastanza esplicativo).
Se la voce di Savoldelli spesso è uno strumento alla stregua di tutti gli altri, in questo disco va semplicemente oltre, grazie anche ad una collaborazione a posteriori ordita dallo stesso Boris dopo che Pavkovic gli ha consegnato le registrazioni appositamente editate su cui lavorare per il cantato: il vocalist ha infatti coinvolto nell’operazione l’amico, rocker, cantautore e compaesano Alessandro Ducoli, solitamente impegnato su altri fronti musicali, nonché eccellente paroliere, e dopo avergli spiegato l’idea di base del progetto, gli ha proposto di comporre dei testi appositamente per i nove atti che compongono il disco. Così – se in taluni momenti tra le distorsioni chitarritiche di Reuter, le escurisoni del titolare alla tastiera del pianoforte o di altri strumenti e la percussività di Sirkis – Boris si ritaglia momenti in cui il suono della sua voce diventa il quarto strumento, in altre parti (molte) del disco, grazie ai testi di Ducoli che ha cucito una serie di liriche ispirate dalo David Bowie di Space Oddity e dal poeta latino Lucrezio (parliamo di contenuti testuali non di musica), liriche che permettono alla voce del connazionale di cantare i senso più propriamente detto.

In un paio di occasioni, sul secondo disco, con i brani The Truth e The Perpetual Motion il montaggio finale fa sposare la voce di Savoldelli con quelle di alcuni strumentisti vocalisti indonesiani di matrice tradizionale, ripescati dagli archivi di Darmawan, che li ha registrati nel proprio paese all’inizio del decennio scorso, in altre occasioni invece invece le parti cantate si imbevono di grande lirismo, nella conclusiva The Memory Of Things, con le liriche in inglese e il piano ubriaco di Dharmawan, non è difficle pensare a certe cose del primo Tom Waits. Laddove i testi di Ducoli sono invece in italiano viene più facile il paragone con certo progressive rock molto in voga anche nella nostra penisola, pensiamo alla parte finale di The Loneliness Of The Universe, ma soprattutto alle due prime tracce del primo disco, le lunghissime composizioni che lo aprono: The Earth (quasi ventinove minuti) e The Man (ben trentaquattro). Due autentici tour the force in cui la musica si sprigiona e la voce di Boris Savoldelli fa suoi i testi composti da Alessandro Ducoli.

Per quanto le note di copertina e il booklet siano bastevolmente esaurienti sui contenuti dei testi e su come i nostri due connazionali abbiano lavorato al disco, l’unico appunto chge ci viene da fare è che probailmente attribuirlo al solo Dwiki Dharmawan sia stata una scelta riduttiva, visto che si tratta di un vero e proprio lavoro d’equipe.

Complimenti e applausi al regista e a tutti i suoi collaboratori!

JAIME WYATT – Neon Cross

di Paolo Crazy Carnevale

7 gennaio 2021

Jaimie Wyatt - Neon Cross (1)

Jaime Wyatt – Neon Cross (New West Records 2020)

Una vita non facile quella di Jaime Wyatt, country girl non più di primo pelo ma comunque appena al suo secondo disco. Californiana di nascita, la Wyatt deve aver trascorso la gioventù in maniera molto pericolosa, non sappiamo a quale/i dipendenza/e fosse dedita ma sicuramente la sua strada è stata in salita, e lo si evince abbastanza dalle liriche delle undici canzoni incise in questo Neon Cross. Songwriting abbastanza felice, qua e là aggiustato con l’aiuto di qualche amico, illustre o meno, voce interessante, in bilico tra personaggi diversissimi quali Maria McKee e Lucinda Williams, la Wyatt con questo disco tenta di aprirsi la via dell’Americana una volta per tutte, con l’appoggio di una band formata da musicisti di vaglia e sotto la produzione di Shooter Jennings, e non a caso da un po’ di tempo ha trasferito la propria residenza a Nashville, anche se il disco è sicuramente più intriso di atmosfere west coast che altro: a partire dai suoni ai contenuti dei testi che rimandano spesso ad atmosfere tipiche della Los Angeles/Sin City cantata da Gram Parsons, a cui la Wyatt sembra rifarsi con gli abiti da cowgirl del Sunset Boulevard e con le croci del titolo (che Parsons aveva ricamata sulla giacca.

Il disco ha delle buone basi, alcuni brani ci sono, altri un po’ meno, la produzione di Jennings invece pecca un po’ di manierismo che depriva di anima il suono finale.

La Wyatt mette sul piatto delle buone canzoni – ma ci dicono che altre, notevoli, sono rimaste nel cassetto! –, talvolta tipicamente d’atmosfera country-rock, quelle che le riescono meglio, con la giusta spolverata di honky-tonk, tal altra più rilassate, canzoni che sono storie di donne differenti, non si capisce bene se autobiografiche o meno, certo è che quando canta di ragazze perdute sembra di vederla, persa nel limbo del suo passato, con quel lungo mento ed il cappello da cowgirl, un po’ meno la si riconosce nelle liriche di Just A Woman, che sembra figlia della celebre Stand By Your Man, uno dei testi più maschilisti del country… non deve essere un caso che Jennings vi abbia coinvolto mamma Jessi Colter per le seconde voci.
Da qui a identificare la Wyatt con una sorta di “outlaw” al femminile magari ce ne passa, ma l’intenzione parrebbe andare in quella direzione.

Il disco si apre con l’introspettiva e pianistica Sweet Mess, un po’ diversa da tutto il resto del disco, ci pensa la title track però a portarci nella giusta direzione, con la storia di una ragazza perduta con un profumo da quattro soldi, occhiali scuri e scarpe in pelle di alligatore. Jennings si occupa delle tastiere, buona parte del sound è sorretto dalla pedal steel di John Schreffler Jr., ma c’è anche la chitarra solista di Neal Casal (qui probabilmente nelle ultime sue registrazioni), per altro abbastanza sepolta nel mix finale.

L I V I N è una buona composizione, ma piacciono di più Makes Something Outta Me e By Your Side dal consistente tessuto musicale, con la voce di Jaime Wyatt che ricorda la McKee e con Casal un po’ più udibile che altrove.

La seconda facciata si apre con il duetto insieme alla Colter, una honky tonk ballad in cui si sente bene l’acustica della titolare e il tappeto è tutto affidato alla pedal steel e – ahimè – alla brutta orchestra sintetizzata ordita dalle tastiere del produttore.
Bello l’attacco di chitarra di Goodbye Queen, un gran brano che ha un andazzo che ricorda molto Warren Zevon, quello dei tempi migliori (cosa che rende inevitabile non pensare a Linda Ronstadt), con un’altra bella intuizione di Casal alla sei corde.
Mercy è una canzone lenta e Rattlesnake Girl non impressiona molto, al di là del titolo, più accattivante Hurt So Bad con begli intrecci delle chitarre, sia l’acustica di Jaime, che l’lettrica e la pedal steel, Jennings duetta con lei ma la voce resta talmente sotto che si fatica a sentirla.

Suggestivo il finale, Demon Tied To A Chair In My Brain, l’unico brano non originale (Dax Riggs e Matt Sweeney gli autori), in cui la Wyatt gioca a cantare con intonazione dolente, novella Lucinda Williams, accompagnata dal violino di Aubrey Richmond.

MOLLY TUTTLE – …But I’d Rather Be With You

di Paolo Crazy Carnevale

1 gennaio 2021

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Molly Tuttle – …But I’d Rather Be With You (Compass 2020)

Terzo disco per la chitarrista e cantante Molly Tuttle, disco registrato ed uscito nel corso delle restrizioni dovute alla pandemia che ha messo in ginocchio un po’ ovunque le attività musicali, soprattutto quelle di chi non ha grosse rendite (vedi royalties e dischi d’oro) e deve fare i conti con una quotidianità in cui, senza i concerti e i dischi che ai concerti si vendono, andare aventi è assai difficile.

La Tuttle, californiana ma di stanza da tempo a Nashville, si è messa quindi al lavoro in casa, assemblando un disco in solitudine, facendosi guidare a distanza dal produttore Tony Berg (che sta a Los Angeles), e con l’aiuto di proTools e di pochi ospiti ha registrato una manciata di canzoni pescate tra le sue favorite di sempre.

Il disco in verità è gradevolissimo, molto curato nella creazione di equilibri tra la bella voce folk-pop di Molly e il suono della sua chitarra. Alcuni brani rendono molto bene, altri lasciano un po’ il tempo che trovano, come spesso accade nei dischi di questo genere, che ad un genere vero e proprio non appartengono visto che il fil rouge è costituito dall’interprete che non sempre riesce a tracciarlo.

Ad esempio, la cover di Fake Empire dei National che apre il disco non ha mordente e soccombe al cospetto della successiva Ruby Tuesday di rollingstoniana memoria, brano di tutt’altra pasta in cui Molly piazza una notevole chitarra acustica: è chiaro che i National stessi soccombono al cospetto di Jagger e soci, ma qui è proprio il brano ad essere in tono minore. Buona invece A Littel Lost di Arthur Russell, molto intime Something On Your Mind di Karen Dalton, con un violino malinconico suonato da Ketch Secor degli Old Corw Medicine Show, e la minimale Mirrored Heart.

Più coinvolgenti senza dubbio la rilettura di Olympia, WA dal repertorio dei Rancid con la voce di Secor a fare il controcanto, e Standing On The Moon, rubata al repertorio tardivo dei Grateful Dead e resa in una bella versione molto suggestiva, sempre con Secor ospite e proprio da un verso di questo brano è preso il titolo del disco, che metaforicamente fa riferimento alla situazione pandemica: come dire, sono qui, ma preferirei essere con te.

Tra gli altri ospiti ci sono – rigorosamente ognuno da casa propria – il chitarrista dei Dawes Taylor Goldsmith, il tastierista Patrick Warren e alla batteria Matt Chamberlain.

Il disco procede con l’energica ma non memorabile Zero degli Yeah Yeah Yeahs, con la più rilassata Sunflower di Harry Styles, quasi tutta giocata su voce e chitarra acustica, e si chiude con la riuscita How Can I Tell You di Cat Stevens, sorretta da voce, chitarra e violino (sempre Secor), cantata dalla Tuttle con grande sentimento, nel solco delle grandi cantanti californiane degli anni settanta.

SAVOY BROWN – Ain’t Done Yet

di Paolo Baiotti

1 gennaio 2021

savoy

SAVOY BROWN
AIN’T DONE YET
Quarto Valley Records 2020

Da quando li ha formati a Battersea nel 1965, Kim Simmonds è stato il leader carismatico e l’anima dei Savoy Brown. Dapprima tra i protagonisti dell’epoca d’oro del British Blues con dischi come Getting To The Point e Blue Matter, sempre caratterizzati da repentini cambi di formazione che hanno avuto Kim come unico punto fermo, i Savoy Brown hanno chiuso il primo periodo nel ’70 con Looking In, seguito dal distacco degli altri tre membri Dave Peverett, Roger Earl e Tone Stevens, che insieme al chitarrista Rod Price hanno formato i Foghat, ottenendo notevole successo negli Stati Uniti. Anche Simmonds si è dedicato principalmente al mercato americano aumentando la dose di rock e riducendo quella di blues, mantenendo un buon livello di popolarità nella prima metà degli anni settanta con Hellbound Train, Jack The Toad e Street Corner Talking. In seguito Kim ha continuato a incidere con regolarità, sfiorando l’hard rock alla fine degli anni settanta e nei primi anni ottanta e poi riavvicinandosi progressivamente al blues.
L’attuale formazione è un trio con il leader alla voce e chitarra solista, Pat De Salvo al basso e Garnet Grimm alla batteria, sezione ritmica in carica dal 2009, quindi oliata dalla registrazione di parecchi album in studio e da centinaia di concerti, che il trio esegue con regolarità (pandemia permettendo).
Ain’t Done Yet è il 41° disco in studio e non è sicuramente uno dei peggiori. Nulla di nuovo sotto il sole, ma una gradevole miscela di rock e blues, con break strumentali di gusto, interpretazioni vocali più che discrete di Kim, da anni anche voce solista del gruppo e una ritmica che spinge quando è il momento giusto, ma è in grado di rallentare e fornire un tappeto sonoro morbido e poco appariscente come nella deliziosa ballata Feel Like A Gypsy, venata di influenze latine.
Tra i brani più ritmati e roccati spiccano l’opener All Gone Wrong, la cadenzata e robusta Borrowed Time, la bluesata title track e il boogie hookeriano Jaguar Car con Kim all’armonica. Tra le altre tracce si distinguono Rocking In Louisiana con un andamento che ricorda JJ Cale e una slide pigra, il mid-tempo Devil’s Highway con una scorrevole coda chitarristica e il conclusivo strumentale Crying Guitar, uno slow alla Roy Buchanan in cui Simmonds dimostra di non avere perso la capacità di toccare con raffinatezza.