Archivio di maggio 2019

STEVE EARLE & THE DUKES – Guy

di Paolo Crazy Carnevale

26 maggio 2019

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STEVE EARLE & THE DUKES – Guy (New West 2019)

Lunga vita a Steve Earle. Sempre e comunque.
Anche se la sua musa ispiratrice sembra essersi messa comoda negli ultimi tempi, i suoi dischi sono sempre godibili, ben fatti, ma meno ispirati rispetto agli esordi, rispetto alla splendida (e piena di svolte stilistiche) rinascita negli anni novanta e anche rispetto al suo periodo più “barricadero” e politicamente impegnato dei primi anni duemila. Pretendere da certi artisti uno standard sempre elevato è lecito, come è lecito da parte di questi artisti disattenderle (valgano per tutte le immonde ultime schifezze di Springsteen). Steve Earle dal canto suo nel frattempo ha pubblicato un signor libro(“Non uscirò vivo da questo mondo”, Mondadori) e musicalmente si è limitato a stare su un livello onesto e, quando è a corto di canzoni, piuttosto che concedersi all’immondizia come Bruce si rifugia – come in questo caso – nel songbook dei suoi padri spirituali, nonché amici di vecchia data.

Earle non è più quello di dischi epocali come Train A-Comin’, El Corazon, Jerusalem: con Washington Square Serenade la sua carriera ha cominciato a declinare, lentamente, senza picchi negativi, ma il momento di stanca – che tutt’ora perdura – è evidente. Dischi come il recente live al Contiental Club di Austin, dal suono un po’ piatto, o come il tributo a Townes Van Zandt del 2007 e questo omaggio a Guy Clark sono l’occasione per testimoniare il suo grande affetto per due dei massimi protagonisti della canzone d’autore made in Texas, ma soprattutto un atto dovuto nei confronti di cari amici scomparsi. Con Clark la collaborazione/amicizia è davvero di lunga data: già negli anni settanta Earle figurava come bassista (!) nel live act del burbero Guy, lo troviamo in un vecchio doppio live uscito nel 1979 contenente contributi di artisti veri con estratti da varie edizioni del Kerrville Folk Festival. Non solo, nello splendido documentario Heartworn Highway realizzato negli anni settanta ma distribuito solo un paio d’anni fa, l’intera sequenza finale documenta una cena di natale in casa Clark con tutti i “fuorilegge” nashvilliani (quanto a residenza) a cantare insieme, tra gli altri ci sono Steve Young ed un giovanissimo Steve Earle.

Il tributo a Clark è un doppio LP o singolo CD inciso da Earle con l’attuale formazione dei Dukes ed un pugno di amici a prestare strumenti e soprattutto voci nel finale. Sedici tracce ripescate nel repertorio del maestro, con le cartucce migliori tutte sparate nella prima facciata. Dublin Blues, L.A. Freeway, Desperados Waiting For A Train sono brani talmente sentiti, risentiti, belli, che è difficile darne un giudizio. Farne delle brutte cover è cosa davvero da mettercisi d’impegno, e Steve Earle non è certo il tipo da rovinare simili gemme, così le rifà senza intaccarle, con arrangiamenti molto classici, con la sua voce unica. Sulla stessa facciata figura infine anche un altro classico del primo Clark, Texas 1947.
La side B si apre con la movimentata Rita Ballou, poi si va di grandi ballate, ben sorrette dai Dukes, con la pedal steel di Ricky Jay Jackson ed il violino di Eleanor Whitmore, che è spesso la voce di rincalzo che fa eco a quella del protagonista. The Ballad Of Laverne And Captain Flint, The Randall Knife e l’intensissima Anyhow I Love You i titoli.
Passando al secondo disco della doppia confezione, ci troviamo al cospetto della dolente e minimale (ma con una grande pedal steel) That Old Time Feeling seguita dalla più corposa Heartbroke con tutti i Dukes coinvolti nell’esecuzione. Poi è la volta di The Last Gunfighter Ballad, unico brano non inciso appositamente per il disco (e infatti è eseguito in solitudine) ma ripescato da un tributo a Clark a cui Steve aveva partecipato appunto con questa esecuzione. La facciata tre si conclude con una robusta versione di Out In The Parking Lot in cui il gruppo e il leader sembrano rispolverare certe sonorità ascoltate nei momenti migliori della loro storia.

La facciata finale comincia con una buona She Ain’t Going Nowhere, poi i Dukes virano verso il bluegrass a loro familiare con l’arrangiamento riservato a SiS Draper, Earle imbraccia il mandolino, la Whitmore il violino e la pedal steel s’infila dappertutto.
Robusta e bluegrass oriented (qui il break strumentale finale è fantastico) anche la versione di New Cut Road, che prelude al gran finale, riservato alla più intima Old Friends, cantata con un sacco di ospiti, tutti amici di vecchia data, quasi a conferma del titolo: c’è Emmylou Harris, e c’è l’armonica di Mickey Raphael, e poi le voci di Terry Allen, Jerry Jeff Walker, Rodney Crowell e Joe Harvey Allen. Insomma una sorta di definitiva elegia per il compianto Guy.
Dell’edizione in vinile esistono diverse versioni, quella normale in blue, quella in rosso, quella autografata esclusivamente per i clienti della catena di librerie Barnes & Nobles, quella in vinile trasparenti tirata solo in 200 copie e venduta in Tennessee e Texas, le due case musicali di Steve.

BILL PRICE – Digging Deeper Toward The Sky

di Paolo Baiotti

26 maggio 2019

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BILL PRICE
DIGGING DEEPER TOWARD THE SKY
Grass Magoops 2017

Questo mini album di 5 canzoni per complessivi 26 minuti è il settimo pubblicato da Price, concepito come disco autonomo, ma anche come una specie di coda al doppio I Can’t Stop Looking At The Sky, un progetto ambizioso che comprende anche un libro che ha lo stesso titolo dell’Ep, pubblicato nel 2015. Price sostiene che si tratta di canzoni che, pur avendo un tema comune, come stile e testi non si prestavano ad essere incise con quelle del doppio, trattandosi di brani semplici, diretti e prevalentemente acustici. Libro e album sono ispirati da un viaggio nell’ovest degli Stati Uniti; il progetto completo, frutto di quattro anni di lavoro, comprende un diario di 120 pagine, un libro di 160 pagine con racconti, riflessioni e poesie legate al tema del viaggio e ad altri aspetti della vita, posters, adesivi e memorabilia, venduti insieme sul sito www.billprice.info.
Originario dell’Indiana, Price ha fatto parte negli anni ottanta del gruppo Off The Tracks; nel decennio successivo ha formato il duo acustico The Mighty Quintessentials con Mario Noche e poi il trio The Brains Behind Pa ispirato dalla musica di Bob Dylan che ha pubblicato un ep di musica tradizionale nel 2002 e l’album Better For The Deal nel 2006. E’ approdato all’esordio da solista con Bones & Apples nel 2003, seguito quattro anni dopo dall’Ep The Circus & The Gallows. Alternando attività solista e collaborazioni ha ottenuto una discreta attenzione in Europa e in Australia, nonché in alcune zone degli Stati Uniti.
La scorrevole Ordinary Time apre il dischetto con un riuscito intreccio di mandolino e violino che accompagnano con tonalità country-folk, specialmente nella coda strumentale, la voce melodica di Price, che suona chitarra, organo e armonica, aiutato dalla sezione ritmica di Jamey Reid (batteria) e Jeff Stone (basso). As They Come è una delicata ballata cantautorale con sfumature folk, con un raffinato assolo di chitarra elettrica. Don’t Put The Child Away Too Long ha un’atmosfera più rilassata, mentre Saint Ampersand è un rock brioso venato di influenze rockabilly, che si giova di un impasto insinuante di hammond e chitarra. The Last Refugee chiude sommessamente il disco senza brillare particolarmente ma, complessivamente, in Digging Deeper Toward The Sky Price denota discrete doti di scrittura e di interpretazione.

CITIZEN K – III

di Paolo Baiotti

26 maggio 2019

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CITIZEN K
III
Paraply Records 2018

Citizen K, in arte Klas Qvist, cantautore e chitarrista nonché polistrumentista di Borås, Svezia, è un artista pop-rock che si ispira chiaramente alla scena pop degli anni ‘60 e ‘70, a nomi classici come Beatles, Beach Boys, Electric Light Orchestra, 10CC e Moody Blues, con un pizzico di Steely Dan e Fleetwood Mac, con classe e bravura, aggiornando neanche troppo gli insegnamenti di questi giganti della musica moderna. Le melodie sono la forza principale della musica di Qvist, che sa comporre, arrangiare e suonare con gusto. In questo terzo album, che segue l’ambizioso doppio Second Thoughs, suona quasi tutto lui (basso, percussioni e tastiere oltre alla chitarra), facendosi aiutare principalmente dalla batteria di Kim Gunneriusson e degli effetti sonori di Andreas Holmstedt, con il quale si divide gli oneri della produzione.

In un disco dominato dal tema del viaggio, pur non essendo un concept, non mancano accenni prog e persino un pizzico di southern rock nello strumentale Beasts Of England, ma le melodie pop dominano la scena, specialmente nei cori solari di Let This Be Love e di How Are You Gonna Handle It, nella ritmata Ocean’s Call, nella ballata Cancelled Flight, in And You Danced All Night che sembra un incrocio tra Jimmy Webb e i Beach Boys e nella conclusiva After The Fact.
La voce di Klas sembra a volte un po’ troppo sottile per reggere la scena, tuttavia gli arrangiamenti e le melodie riescono a mascherare questo difetto, contribuendo a un risultato finale più che discreto, consigliato soprattutto a chi apprezza il pop classico.

JOANNE SHAW TAYLOR – Reckless Heart

di Paolo Baiotti

16 maggio 2019

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JOANNE SHAW TAYLOR
RECKLESS HEART
Silvertone/Sony 2019

Scoperta nel 2002 a 16 anni da Dave Stewart degli Eurythmics, ispirata da Jimi Hendrix, Albert Collins e Stevie Ray Vaughan, Joanne ha esordito nel 2009 con White Sugar, seguito l’anno dopo da Diamonds in The Dirt, entrambi su Ruf. Lo stesso anno è stata dichiarata migliore cantante ai British Blues Awards, premio vinto anche nel 2011. Nel 2012 ha accompagnato Annie Lennox al concerto celebrativo del Giubileo britannico, affrontando la prova senza timori o esitazioni. The Dirty Truth e Wild, quarto e quinto disco in studio, sono stati incisi negli Stati Uniti a Memphis e Nashville, dopo il trasferimento dalla madre patria a Detroit. Nel 2018 ha firmato per la Sony, facendosi produrre e mixare in Michigan a poche miglia da casa dall’amico Al Sutton (Greta Van Fleet, Kid Rock) il nuovo album Reckless Heart, nel quale suonano alcuni dei migliori session men locali. Il blues-rock di matrice britannica dei primi tempi si è modernizzato, senza perdere le radici, valorizzando maggiormente le tonalità vocali sporche e arrocchite della Taylor, aggiungendo un pizzico di aggressività e delle venature soul, con dei testi personali influenzati dai momenti positivi e negativi della relazione sentimentale vissuta durante le registrazioni.
L’impetuoso opener In The Mood, con una voce e una chitarra abrasiva e un piano incisivo è seguito dal rock-blues venato di cori gospel di All My Love e dal mid-tempo soul The Best Thing in cui Joanne conferma la duttilità della sua voce, supportata dall’organo di Chris Cadish. L’up-tempo Bad Love è ornato da un rabbioso assolo di elettrica, mentre Creepin’ ricorda il rock potente dei Bad Company, come la successiva ballata I’ve Been Loving You Too Long, che non è quella di Otis Redding, ma non sfigura affatto, a partire dall’intro chitarristica, proseguendo con la sentita interpretazione vocale e con un assolo veemente e drammatico. L’intima e sofferta title track guidata dal basso pulsante di James Simonson, in cui si inseriscono con moderazioni gli archi e dei cori avvolgenti e l’elettroacustica Break My Heart Away ribadiscono la scelta di variare maggiormente il suono, puntando sulla scrittura e sulle doti vocali della Taylor, che si lascia andare nell’energica New 89, passando all’acustica in Jake’s Boogie e chiudendo con la sobria e malinconica ballata It’s Only Lonely.
Un disco che si muove agilmente tra rock, soul e blues, inserendo la Taylor tra le artiste di punta di un genere nel quale la componente femminile è sempre più essenziale.

BOUND FOR GLORY – One Night With Bound For Glory

di Paolo Baiotti

16 maggio 2019

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BOUND FOR GLORY
ONE NIGHT WITH BOUND FOR GLORY
Autoprodotto 2019

Bound For Glory è un progetto e una band che nasce dall’unione di musicisti prevalentemente emiliano-romagnoli, guidato dalle voci dei riminesi Lorenzo Semprini (Miami & The Groovers) e Marcello Dolci (Nashville & Backbones) e del milanese Daniele Tenca (titolare di cinque pregevoli dischi solisti). Si definiscono giustamente “una band di 11 elementi che ripropone il sound delle Seeger Sessions di Bruce Springsteen con altre incursioni in chiave folk”. Da sempre appassionati del Boss, in effetti basano il loro repertorio sul disco e sui concerti delle Seeger Sessions, aggiungendo altri elementi della tradizione folk/roots americana. Si potrebbe dire che in questo non c’è nulla di originale, che sono una specie di cover band…ma sarebbe riduttivo, perché la bravura, l’entusiasmo e la capacità che dimostrano negli arrangiamenti li pone ben al di sopra di qualsivoglia cover band. Il cd appena uscito, reperibile tramite la pagina facebook https://www.facebook.com/seegerband o la mail bigliettissb@gmail.com è stato registrato dal vivo al Teatro Comunale di Cesenatico il 2 febbraio di quest’anno ed è la prova di quanto ho appena affermato. Per valutare il livello del progetto basta il primo brano, il tradizionale Hard Times Come Again No More, aperto a cappella dalla voce di Tenca con i backing vocals, in cui si inseriscono gradatamente chitarra acustica, sezione ritmica, il piano di Michele Tani, la fisarmonica di Fabrizio Flisi, il violino di Elisa Semprini e il sax di Massimo Semprini. La vivace e trascinante Old Dan Tucker e lo scatenato western-folk di Jesse James (con Lorenzo voce solista) alzano il ritmo con un finale strumentale degno del carnevale di New Orleans, mentre Eyes On The Prize con le voci soliste che si alternano ha un pregevole arrangiamento cadenzato tra gospel, soul e rhythm and blues. Citare tutti i brani sembra quasi superfluo…non ci sono punti deboli. Mi limito alle versioni di tre tracce di Springsteen: un’intensa The Ghost Of Tom Joad con le voci di Tenca e Dolci che si alternano, la pedal steel di Eugenio Poppi e il violino protagonisti nelle parti soliste e i fiati nel finale, Long Time Comin’ con Lorenzo in primo piano e la sofferta My City Of Ruins ammantata dai fiati e dai cori. E poi ancora Erie Canal con ospite Riccardo Maffoni, il trascinante irish folk di American Land e le due ultime tracce, una scanzonata This Train Is Bound For Glory con spazio per i tre cantanti e per ogni strumentista e I’ll Fly Away, gospel tradizionale che chiude il disco con sobrietà. Spettacolo da vedere assolutamente se passa dalle vostre parti; diversamente il cd, inciso con la giusta attenzione, può essere un ottimo rimpiazzo.

JAIMEE HARRIS – Red Rescue

di Paolo Crazy Carnevale

7 maggio 2019

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JAIMEE HARRIS – Red Rescue (Self production, 2018)

La bionda in rosso che guarda imbambolata dalla copertina di questo primo disco è proprio lei, Jaimee Harris, ma non sembra la stessa Jaimee vista sui palchi italiani lo scorso autunno. Per fortuna si tratta solo di una questione di look da copertina e non degli abiti musicali.

Dentro il disco invece c’è la stessa, interessante cantautrice vista in concerto. Una donna dalla bella voce, dalle sonorità a cavallo tra certo country-rock del giorno d’oggi e quelle folkie che sembrano riuscirle meglio: d’altra parte è texana, di Waco, e il suo quartier generale è ad Austin, la città che contende a Nashville (o viceversa) il primato di città più musicale d’America.

Red Rescue è un bel disco, senza troppi fronzoli, prodotto con attenzione e con lo scopo di mettere in risalto il talento della titolare: operazione riuscitissima grazie al buon lavoro di Craig Ross (Lenny Kravitz, Patty Griffin, Califone, Nathalie Merchant tra i suoi clienti), che oltre che sedere alla consolle si occupa di chitarre, tastiere, basso e tutto ciò che capita a tiro quando serve. Poi a dare un rinforzo ci sono Mike Hardwick (chitarrista e producer per Robyn Luttwick, John Dee Graham, Eliza Gylkinson e altri), il compianto Jimmy Lafave che canta nella title track, il chitarrista Mike Patterson.
E il tutto contribuisce a rendere il disco un bel debutto, a cavallo tra suono moderno (chitarre un po’ in odor di anni ottanta) e vecchia scuola a base di chitarre acustiche, un po’ come nei dischi del vecchio Townes Van Zandt.

Se la prima traccia, Damn Right, è un buon riscaldamento che non si fa notare più di tanto, il disco decolla con Creatures e prende la via con Depressive State, brano autobiografico ben riuscito, con la chitarra che imita un mandolino. Catch It Now è la prima grande canzone del disco, chitarra acustica suonata alla vecchia maniera e la voce di Jaimee che vien fuori nel migliore dei modi.

La quinta traccia è quella che intitola il disco e che rimanda direttamente all’abito (meglio dire alla vestaglia) che Jaimee indossa in copertina, è un altro brano solido, ben sviluppato e arrangiato, impreziosito, come si diceva, dalla voce di Lafave.
Fake è una ballata pianistica ed intimista, con la voce in crescendo che s’impadronisce in toto della canzone; country rock invece per Hurts As Good As It Feels, con un attacco di chitarra quasi rollingstoniano, bella mescola di suoni e pedal steel (Hardwick?) che si intrufola su un supporto dai richiami hammond che risulta vincente sotto goni profilo. Non da meno è Forever in cui Jaimee usa la voce con enfasi particolare, poi Snow White Knuckles conclude l’infilata di brani memorabili, chitarre lancinanti, distorsori, organo, chitarre baritonali, incedere accattivante, la solita bella voce.

Un po’ sottotono il brano che conclude il disco, invece: Where Are You Now, molto raccolta ed intima, non brutta, ma meno incisiva.

JOHN MAYALL – Nobody Told Me

di Paolo Baiotti

7 maggio 2019

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JOHN MAYALL
NOBODY TOLD ME
Forty Below 2019

Nel 2008 John Mayall, classe 1933, annunciò lo scioglimento dei Bluesbreakers per rallentare l’attività ed essere libero di suonare con altri musicisti. Tre mesi dopo iniziò un tour solista con Rocky Athas alla chitarra, Greg Rzab al basso e Jay Davenport alla batteria, con ospite Tom Canning al basso. Questa formazione, escluso Canning, ha proseguito l’attività fino al settembre 2016, poi John si è separato da Athas ed ha suonato per un anno in trio senza chitarrista. Infine ha assunto la prima chitarrista donna della sua storia, Carolyn Wonderland nell’aprile 2018. In questo periodo ha inciso cinque dischi in studio e tre dal vivo e suonato decine di date ogni anno…e meno male che pensava di ridurre l’attività! Nel 2014 ha firmato per la Forty Below del musicista e produttore di Los Angeles Eric Corne (già collaboratore di Walter Trout, Joe Walsh, Edgar Winter, Kim Deal, Lucinda Williams, Joe Bonamassa…) che ha prodotto gli ultimi dischi del bluesman. Nobody Told Me, inciso nello Studio 606 di Dave Grohl all’inizio del 2018 e pubblicato nel febbraio 2019 è l’ultima fatica di John, un disco che lo conferma su livelli di eccellenza difficili da immaginare per un artista ultraottantenne. Ancora in trio, Mayall ha invitato alcuni chitarristi, non necessariamente di blues, che contribuiscono alla varietà e incisività dell’album.

L’opener What Have I Done Wrong è un up-tempo brillante ed energico, cantato con una voce che sembra la stessa degli anni sessanta, scandito da una calda sezioni fiati e completato da un calibrato assolo di Joe Bonamassa. Il ritmo si mantiene alto con The Moon Is Full, percorso dalla chitarra nervosa di Larry McCray che si lascia andare nello spazio solista finale, mentre le tastiere di John riempiono gli spazi restanti. Evil And Here To Stay è un mid-tempo di Jeff Healey con il leader al piano elettrico e all’armonica, in cui si inserisce la chitarra di Alex Lifeson dei Rush, una presenza sorprendente che si adatta agevolmente al mood del brano. Non mi sarei immaginato neppure la presenza di Todd Rundgren, invece il suo apporto all’errebi That’s What Love Will Make You Do, classico di Little Milton, è vigoroso e lodevole, in compagnia di un hammond incantevole. Distant Lonesome Train è un brano recente di Bonamassa, trasformato in un roots-rock inquietante illuminato dalla slide di Carolyn Wonderland (entrata nella band proprio in seguito alla registrazione di questo album), seguito dal robusto e scattante mid-tempo Delta Hurricane, in cui riappare la chitarra di Bonamassa in ottima forma, accompagnata dall’hammond e dalla sezione fiati. The Hurt Inside è una ballata di Gary Moore da After Hours del ’92, interpretata con gusto e cantata con voce profonda, inserendo dei fiati avvolgenti e l’incisiva chitarra di Larry McCray. Gli ultimi tre brani sono scritti da Mayall: il grintoso tempo medio It’s So Tough con un altro ospite impensato, Little Steven che da sempre è appassionato di blues e soul, ma non aveva mai suonato con il bluesman, lo scorrevole up-tempo Like It Like You Do tra blues e rock and roll con l’energica partecipazione della Wonderland che dà il meglio nell’eccellente slow Nobody Told Me, degna chiusura di un album che convince per freschezza ed energia, nonché per il livello qualitativo dei musicisti, degno del passato di uno dei più grandi artisti della storia del blues inglese.