Si svolgerà come è ormai tradizione presso l’Auditorim Mario Rigoni Stern, all’interno della Cittadella della Cultura, la prossima edizione della fiera del disco di Agrate Brianza.
Location: Via G.M. Ferrario, 53 – Agrate Brianza, in fianco alla Biblioteca Comunale
Orario: dalle 10.00 alle 18.00
Ingresso Libero
INTERVENITE NUMEROSI!!
TODD PARTRIDGE
AUTUMN NEVER KNOWS
Autoprodotto 2023
Todd ha preso in mano seriamente la chitarra a 18 anni, iniziando a comporre. The Black Light Syndrome è stata la sua prima band, seguita da Salamagundi e infine da King Of The Tramps, coi in quali ha pubblicato 5 album e suonato centinaia di concerti ottenendo una discreta fama specialmente nel Midwest. Dopo la pandemia ha preferito dedicarsi all’attività solista da “one man band” mischiando il materiale delle band citate con brani nuovi e covers. La sua musica miscela blues, roots rock, classic rock, country, gospel e folk cantautorale, con un gusto naturale per la melodia che viene mantenuto anche in studio. Cresciuto in Iowa in un ambiente rurale circondato da campi di grano e vecchi fienili, ha apprezzato il rock di Dylan, Beatles e Santana dai dischi della madre e si è appassionato al country vedendo gli spettacoli televisivi della Grand Old Opry. Il padre suonava la tromba in un’orchestra ed era appassionato di jazz. Dopo un periodo di infatuazione per l’hard rock e uno per la black music, è tornato al blues e all’Americana. Abituato dalla sua famiglia a spostarsi per motivi di lavoro, nella sua esperienza da solista si è dedicato a spettacoli in cui alterna canzoni, racconti e poesie (ha anche scritto un libro in versi). Inoltre ha creato uno studio di registrazione chiamato Old School Studios perché occupa gli edifici di una vecchia scuola degli anni venti.
Autumn Never Knows è stato registrato principalmente in questo studio a Auburn in Iowa e a Des Moines con l’aiuto del produttore e batterista Bryan Vanderpool, del bassista Jay Foote, delle tastiere e voce di Sarah Vanderpool e del violino di Kathryn Severing Fox. Todd, oltre ad avere composto e cantato tutti i brani, suona chitarra e mandolino.
Il disco comprende otto tracce per poco più di 30’ che scorrono veloci. Il country/folk cantautorale di Postcards From The Sea funge da apertura con qualche rimando a Harry Nilsson e John Prine, che torna nella gradevole ballata Where The Highway Meets The Sky sulla necessità di aiutarsi nei momenti difficili. Nella ballata Sioux Falls il suono risulta ammorbidito dall’interpretazione vocale e dalla lap-steel che contrastano un’elettrica più robusta, mentre Wood ha un sapore campestre dato dalla presenza importante del violino e del banjo. Si prosegue con la malinconica Lucy Brown bilanciata da Junk Train tra country e John Mellencamp. Confermando la preferenza alla moderazione e ai tempi medi o lenti, Blessing e la pianistica Sorrow avvolta dagli archi chiudono un disco che non inventa nulla, ma si ascolta senza intoppi, una considerazione che può essere un pregio o un difetto a seconda dei gusti.
MICHAEL JOHNATHON
GARDEN OF SILENCE
Poetman Records 2022
Non ci sono dubbi sul fatto che il newyorkese Michael Johnathon sia un artista eclettico ed estremamente prolifico come dimostra il fatto che Garden Of Silence sia il suo ventesimo album. Oltre ad essere uno stimato folksinger e chitarrista Michael è drammaturgo, scrittore (la serie Woodsongs di cinque libri e una per bambini sugli strumenti musicali), compositore di opere teatrali (Walden: The Ballad of Thoreau), fondatore dell’organizzazione di artisti SongFarmers, animatore di un conosciuto programma radiofonico (The Woodsongs Old-Time Radio Hour) che da poco ha anche una versione per i bambini (Woodsongs Kids). Nel 2020 ha ricevuto il prestigioso Milner Award per meriti artistici dal governatore del Kentucky.
Garden Of Silence è composto da dieci tracce originali e da una cover di Pete Seeger ed è un disco morbido e melodico in cui il cantante e polistrumentista (chitarra, mandolino, banjo, organo) è accompagnato da un nutrito gruppo di collaboratori compresa una sezione di fiati e di archi in alcune tracce. Ci sono riferimenti alle sue passioni e attività passate e presenti: la title track ha come tema il giorno della morte del pittore Van Gogh al quale era stato interamente dedicato il disco The Painter, Winter Song si riferisce al filosofo e scrittore Henry David Thoreau, Front Porch Symphony parla dello spirito della sua organizzazione di artisti, Seeger Mashup è un tributo al grande folksinger che è stato un suo mentore introducendolo nel mondo della musica cantautorale, mentre la conclusiva Folksinger è un ringraziamento alla passione che anima i cantanti folk di ogni epoca. Non mancano un blues acustico (Narcissistic Blues), un pregevole strumentale con il banjo in primo piano (Petrichor) e riferimenti a temi più generali come la rabbia e il dolore in Hurricane e l’amore in September Eve.
Echi di Don McLean e Gordon Lightfoot attraversano un disco semplice, quieto e dalle atmosfere bucoliche.
LUCA & THE TAUTOLOGISTS
PARIS AIRPORT ‘77
RecLab/Ird 2023
Nelle sue sette vite musicali (o forse sono di più) Luca Andrea Crippa ha collaborato con artisti internazionali (Don DiLego, Damon Fowler, Baby Gramps, Jonny Kaplan), ha fatto per cinque anni il promoter con lo pseudonimo Curtis Loew (scelto non a caso…), ha inciso una manciata di dischi come chitarrista, arrangiatore e produttore con Ruben Minuto e suonato per anni nella piu longeva tribute band italiana dei Lynyrd Skynyrd (Mr Saturday Night Special) e in una band di alternative country (No Rolling Back). Alla fine è giunto finalmente il momento dell’esordio come solista avendo già pronti più di 40 brani per completare una tetralogia (!). Per questa occasione speciale Luca (voce e chitarre di ogni tipo) si è appoggiato a dei veri amici oltre che valenti colleghi: Ruben Minuto che stavolta si disimpegna prevalentemente al basso lasciando il ruolo di chitarrista a Leandro Diana e Daneb Bucella alla batteria sono i Tautologists, con la valente assistenza di Riccardo Maccabruni alle tastiere.
Registrato in pochi caldi giorni di luglio nei RecLab Studios di Larsen Premoli e prodotto da Crippa, Paris Airport’77 è un disco corposo di 14 tracce (compresa una mini suite in tre parti) in cui viene riassunto il percorso musicale dell’autore, da sempre vicino a un suono rock di matrice americana qui riproposto in un modo particolare, senza ricalcare schemi prevedibili o prefissati che si ricolleghino alle sue passioni (southern e country rock), con una certa fantasia e arrangiamenti molto curati anche nei particolari.
La title track posta in apertura si distende scorrevole grazie a una melodia ben definita, con la voce che richiama Mike Scott dei Waterboys e una ritmica in cui è accentuato il ruolo della batteria, prima dello spazio per gli assoli di Ruben (di stampo southern), Riccardo e Luca (più intimista). Il melodico tempo medio Dreams Become Promises ha una sorprendente accelerazione finale che precede la prima parte di Things Get Their Name From A Spell con la voce bassa narrante di Luca che si apre nel finale ad un’altra accelerazione, mentre solo nella terza parte le chitarre si lasceranno andare. Nel prosieguo spiccano l’immediata e nostalgica There’s A Time That Never Ends, primo singolo dell’album, la raffinata Undelivering con il piano in evidenza, la ballata intima Is It All That I Learnt e la grintosa The Man In The Wool Overcoat, mentre non mi convince l’oscura e anomala Winter Heights And My Falldowns ammantata dai suoni programmati di Zowa.
Nella parte finale che forse si sarebbe giovata di qualche taglio emerge From Dawn Till Late, un soave inno alla musica e alle buone vibrazioni.
Marty Stuart & His Fabulous Superlatives – Altitude (Snakefarm 2023)
C’è voluto qualche anno per avere il seguito dell’ottimo Way Out West, inciso da Stuart e soci sotto la guida di Mike Campbell: finalmente però il nuovo disco può girare nei nostri apparecchi stereofonici, giradischi o lettori CD che siano, ed è un degno seguito del disco prodotto dall’ex Heartbreaker.
Nel frattempo, Stuart i Superlativi favolosi non hanno certo dormito, hanno suonato molto in giro, Europa (ma non Italia) inclusa, hanno fatto un tour insieme a Roger McGuinn e Chris Hillman per celebrare i 50 anni del byrdsiano Sweeteheart Of The Rodeo e altrove hanno anche ospitato sul palco Gene Parsons, costruttore del primo prototipo di Stringbender, posseduto ora proprio da Marty Stuart.
E proprio attorno alla storica Fender Telecaster già di Clarence White ed ora di Stuart gira il nuovo disco, attorno a quella chitarra e alla musica dei Byrds che Marty ascoltava da ragazzo e che fondamentale è stata per la sua formazione musicale a cavallo tra rock e country.
Marty è un chitarrista e mandolinista straordinario, ma nel suo gruppo c’è anche un altro chitarrista ancor più straordinario, Kenny Vaughn, e i due insieme riescono a far uscire scintille e lampi dai loro amplificatori. Aggiungiamoci poi un batterista essenziale e preciso come Harry Stinson e un bassista con un pedigree da favola come Chris Scruggs, senza dimenticare che sono tutti abili armonizzatori in fase cantata…
Altitude, come dicevamo, gira intorno ai suoni del country spaziale basato sugli intrecci delle chitarre, Scruggs è qui anche in veste di chitarrista di pedal steel e provoca nell’ascoltatore un’autentica sbornia sonora irrinunciabile.
Fin dalla copertina è evidente la volontà di omaggiare i Byrds, il titolo del disco sembra poi un richiamo alle mitiche otto miglia di altezza: Lost Byrd Space Train (Scene 1). lo strumentale che apre il disco è da solo un capolavoro, un paio di minuti di pura poesia chitarristica in cui lo stile, il sound, la tecnica, la creatività fanno quasi pensare che ci sia ancora Clarence White a toccare le corde di quella Telecaster “truccata”. Si sfocia poi in Country Star, quasi una prosecuzione del brano strumentale in cui Stuart canta le sue aspirazioni ispirate dalla musica dei Byrds, e non da meno è la solida Sittin’ Alone con un bel lavoro di dodici corde elettrica (guarda caso). A Friend of Mine ha un’andatura sixties, molto surf con chitarra e tamburi come si deve e echi che riportano alla mente i temi principali dei Bond Movies, come curiosamente avevamo riscontrato anche nel recente album di Rhiannon Giddens; Space dice tutto fin dal titolo, Stuart è impegnato al sitar, il cui suono si intreccia con le chitarre di Vaughn e sembra di ritrovarsi in un disco dei Byrds del 1966 (non sarà un caso che in occasione del tour del 2022, Stuart e soci si fossero fatti ritrarre su sfondo nero a bordo di un tappeto volante!).
La bellezza del disco sta però nel fatto che al di là di tutte le volute citazioni sonore e iconografiche, si tratta di un disco originale in tutto e per tutto, probabilmente da tenere presente nel fare le classifiche del meglio a fine anno: la title track è country rock del più classico, uno dei pochi brani con ospiti, vale a dire Gary Carter alla pedal steel, Pig Robbins al piano e Aubrey Hayne al violino. Per il resto il quartetto fa quasi tutto da solo, con i risultati che vi abbiamo detto.
Ancora country rock nella seguente Vegas con un interessante stacco nel bridge e assolo di chitarra micidiale; la breve The Sun Is Quietly Sleeping sembra far riferimento alla psichedelia colta di scuola britannica, armonie vocali accurate e quartetto d’archi ad accompagnare un arrangiamento in punta di piedi, segue a ruota lo strumentale che riprende il titolo del brano iniziale, in versione virata leggermente verso la latin music, con le percussioni in primo piano e gli archi usati in coda in maniera sperimentale.
La ritmica di Nightridin’ sembra quasi un boogie blues di John Lee Hooker, le chitarre fanno però la differenza con sonorità quasi garage e echi surf. Tomahawk ha il testo concepito come un talking blues adattato ad un ritmo veloce sorretto da Stinson e Scruggs su cui le chitarre, ritmiche e soliste, si rincorrono. Rock duro e puro è invece, fin dal riff, la successiva Time To Dance, forse il brano che si stacca maggiormente a livello musicale dal concept byrdsiano: le parti di chitarra sono comunque sempre a livello strepitoso, l’affiatamento tra il leader e Vaughn è davvero fantastico, la loro bravura non è virtuosismo fine a sé stesso, in ogni nota che suonano ci sono anima e cuore, come direbbero a Napoli.
The Angels Came Down ha qualcosa del tardo Johnny Cash (non dimentichiamo che Stuart è stato per anni al servizio dell’uomo in nero): sicuramente molto è dovuto allo scarno arrangiamento tutto costruito su un arpeggio di chitarra acustica, solo sull’ultimo minuto si innestano le fantastiche armonie vocali dei Superlatives; poi i trenta secondi di Lost Byrd Space Traine (Epilogue) chiudono elegiacamente il disco.
Non credo sia un caso che due dei migliori dischi di quest’anno siano dischi di donne e che entrambi siano pubblicate dalla Nonesuch, prestigiosa etichetta del gruppo Warner (l’altro è il nuovo disco di Molly Tuttle).
Due dischi di genere diverso ma ugualmente pregni di buone sonorità e suggestioni.
Rhiannon Giddens ormai è sulla scena da una ventina d’anni, dagli esordi con i Carolina Chocolate Drops ai bei dischi da titolare, passando per i progetti a più teste come New Basement Tapes, Our Native Daughters e i più complessi prodotti orditi e condivisi col marito Francesco Turrisi.
Questo nuovo disco è il primo in sei anni da solista con brani originali e suonati con una band alle spalle, l’attesa era dunque molta visti i precedenti (pensiamo allo spettacolare Freedom Highway, tradizionale e innovativo al tempo stesso, indubbiamente il capolavoro della Giddens).
E l’attesa non è stata disattesa, se mi passate il gioco di parole, le diverse percentuali di sangue che scorrono nelle vene di questa artista, da quello celtico a quello nativo, senza dimenticare l’alta percentuale black, si mescolano tra le tracce del disco dando vita ad una sequenza di canzoni memorabili, se non quanto quelle del suddetto predecessore, molto vicine a quel risultato.
Il disco prende subito bene, ma ascolto dopo ascolto ha pure la tendenza a crescere d’intensità e bellezza.
Si parte in quarta con l’energica Too Little Too Late Too Bad in cui la Giddens dispiega le corde vocali su un accompagnamento adeguato che garantisce subito la presa, e anche se nel brano successivo il ritmo rallenta, la qualità resta altissima, la title track è una delle cose migliori del disco (ma non dimentichiamo che tutto il disco è grande), una composizione misurata e densa di profumi musicali, con l’amica Leila McCalla ospite al violoncello.
E che dire di Yet To Be, il duetto con Jason Isbell, una perla di composizione in cui ritmi nativi e atmosfere irlandesi si miscelano come il sangue nelle vene della Giddens dando vita ad un brano multiforme per nulla ripetitivo.
Wrong Kind Of Guy, per quanto all’ascolto sembri essere un ripescaggio da tempi lontani è tutta farina del sacco di casa Giddens, una splendida soul ballad con l’organo di Dwayne Bennet che ci riporta agli anni sessanta, la titolare ci mette il banjo, e ci sono archi e fiati a fare il botta e risposta come nella miglior tradizione del genere. Another Wasted Life avrebbe potuto essere il main title theme di una qualunque pellicola di James Bond, ascoltatene l’arrangiamento che sembra citare proprio quello stile: a dispetto di tutto è una canzone molto moderna e la voce di Rhiannon si supera, suggellando la chiusura di una facciata A senza sbavature.
La seconda parte si apre con incursioni nella tradizione, un cajun intitolato Hey Louisiana Man in cui la fisarmonica del coniuge (e nostro connazionale) e il violino di Dick Powell s’innestano su una ritmica mai scontata e datata, concedendo nel finale spazio anche all’organo Hammond.
Gli strumenti tradizionali sono l’ossatura anche della seguente If You Don’t Know How Sweet It Is, altra composizione in bilico tra tradizione e modernità che ci conferma ulteriormente la statura di questa autrice che non finisce mai di stupirci.
Ritmi voodoo e latenti suoni calypso sono invece l’abito scelto per Hen in The Foxhouse che sembra uscire dai primi dischi di Dr. John, ancora con il suono della fisarmonica di Turrisi e con le percussioni in evidenza, senza dimenticare un testo non banale e la resofonica del produttore Jack Splash. Who Are You Dreamin’ Of, scritta con Dick Powell, ci consegna una Giddens in versione crooner a cui con naturalezza fa seguito un brano d’atmosfera dixie swing, You Put The Sugar In My Bowl.
La conclusione è un blues d’impronta zydeco che riporta alle vecchie produzioni della cantautrice, Way Over Yonder ha alle seconde voci Lalenja Harrington, il coautore è Keb Mo, e le chitarre acustiche in stile blues si mescolano con violino e fisarmonica trascinando il disco al suo epilogo, consistente nei quarantacinque secondi del tradizionale Good Ol’ Cider, autentica down home music che pare catturata sul ballatoio di una casa di campagna.
Il 2023 si sta rivelando un’ottima annata per il rock italiano di matrice roots. Dopo gli eccellenti album di Graziano Romani e di Ellen River, anche Ed Abbiati coglie il bersaglio con il suo secondo disco da solista (il quarto se consideriamo quelli con Chris Cacavas e con The Acc). Chiusa l’avventura con i Lowlands che ha caratterizzato la prima parte del suo percorso con album di qualità come Gypsy Child, Beyond e Love Etc…, il cantautore italo-inglese (nato a Portsmouth, ma da anni residente a Pavia) ha inciso nel 2019 Beat The Night, un album prevalentemente acustico, intenso, fragile e sincero, condizionato nelle tematiche e nell’aspetto musicale dai problemi di salute vissuti in quel periodo.
Quattro anni dopo To The Light ne rappresenta il seguito anche nella veste grafica curata dalla moglie Deborah, che nella colorata copertina raffigura un sole in contrapposizione alla luna del precedente. La situazione è cambiata, è tornata la luce, un ottimismo che si traduce in una musica più gioiosa, elettrica, punteggiata da fiati, tastiere e archi, registrata con l’aiuto degli amici di sempre. La collaborazione di Maurizio “Gnola” Gliemo alla produzione e alla chitarra (tanto discreto quanto indispensabile) e il basso di Enrico Fossati sono presenti in ogni traccia, mentre alla batteria si alternano Mattia Martini e Winston Watson (Bob Dylan). Essenziali la presenza dell’Hammond di Joey Huffman (Drivin’ n’ Cryin’, Soul Asylum), della lap steel di Mike Brenner (Marah) e della fisarmonica di Francesco Bonfiglio, nonchè di una sezione fiati.
Edward si muove agilmente tra garage rock, romanticismo, Jersey sound, influenze punk e folk, infilando una serie di canzoni che si ascoltano senza alcuna fatica e che lasciano una sensazione di serenità e di forza di cui si sente il bisogno in questo periodo storico. L’energica apertura garage-punk di Three Chords & The Truth si trascina dietro una carica mantenuta dalla ritmata Nothing Left To Say, appena acquietata dalla melodica Just About Now in cui l’impasto di archi e fiati profuma di New Jersey e dalla nostalgica Rags, traccia folk con la fisarmonica e il dobro. Si riparte con la robusta Coast Of Barcelona, seguita da To The Light percorsa dall’Hammond e dal rock insistente, bluesato e distorto di Going Downtown con l’armonica di Richard Hunter e la voce di Marco Diamantini (Cheap Wine). Seconda pausa con l’intima Stairs To The Stars caratterizzata da una riuscita coda strumentale, che precede la vitale One Step At The Time venata di soul e la chiusura riflessiva di Love Note, una lettera d’amore ad amici e famiglia scritta in un momento difficile con la giusta dose di ottimismo perché, come recita il testo, “Sending a love note to the open road / The end of this story is still to be told”.
Un plauso anche alla qualità del suono mixato da Chris Peet in Galles e masterizzato da Alex McCollough a Nashville.