Archivio di marzo 2018

CARRINGTON MACDUFFIE – Rock Me To Mars

di Ronald Stancanelli

28 marzo 2018

MacDuffie Rock me Mars[702]

CARRINGTON MACDUFFIE
ROCK ME TO MARS
2017 Pointy Head Records

Carrington MacDuffie, l’artista di New York, che recensimmo con piacere tempo fa è tornata dopo tredici mesi con un nuovo, seppur breve, lavoro. Proprio oltre un anno fa avevamo parlato positivamente del suo Crush on You, bissato adesso dopo quattordici mesi da Rock me to Mars, album che è notevolmente caratterizzato dalla sua title track, piacevolissimo ed orecchiabile sincopato brano folk/pop che una volta sarebbe stato un eccellente 45 giri. Segue la roccheggiante e solare Because I couldn’t have you con leggera infarinatura pezzata, notevole pezzo di gran ritmo. Come l’anno sorso nel quale il suo album minimale proponeva solo cinque pezzi ci troviamo tra le mani un dischetto di soli sei brani ma come la precedente volta anche in questa occasione sono tutti piacevoli e ben eseguiti. Better than Way segue una miscela di folk acustico diremmo da camera tanto edulcorato e tanto classico nella sua schietta semplicità. Lay Down and Let Go è caratterizzato da un suono simil moog e si potrebbe collocare a cavallo tra funky, prog ed elettronica, può ricordare una progressiva Ani Di Franco mentre Sweet Young Thing, cover da C.King/G Goffin/M.Nesmith ripercorre i canoni classici del cantautorato con la chitarra elettrica da lei suonata che detta i tempi ed è pure questo brano di semplice orecchiabilità che resta impresso al primo ascolto, pur se non si conosce l’originale. Lei oltre alle chitarre si cimenta al piano e all’ukulele aiutata da Rob Halverson al basso, synth organo, piano, percussioni e chitarra; da Daniel Jones e Thor Harris alla batteria e da Paul Klemperer al sax. Brava e bella artista, che ricorda pur se in versione capelli neri molto Sharon Stone e ci regala un dischetto dai contenuti intensi ed inebrianti prodotto da Halverson che si chiude con Come for Me, lancinante ballata minimale ma di grandissimo effetto ed impatto. Molto bello, sicuramente non una sorpresa considerando quanto ci aveva affascinato anche il suo precedente lavoro.
Molto meglio la back cover che la front cover clone quasi spudorato di un vecchio album di Roger Mc Guinn.

JUDY NAZEMETZ – Balancing Act

di Paolo Crazy Carnevale

24 marzo 2018

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JUDY NAZEMETZ – Balancing Act (Smokey Lady Music/Hemifran 2017)

Un disco controcorrente, in tutti I sensi: Judy Nemetz è una signora che in America si è conquistata una certa nomea grazie alle sue numerosissime apparizioni al Jay Leno Tonight Show, ma ha anche preso parte a qualche musical e, a tempo perso, si è messa a fare la cantautrice. Non nel senso classico però, con una voce assai particolare, abbastanza tipica per cantare nei musical ed un gusto per un jazz/folk non scevro da ulteriori contaminazioni, da qualche anno la Nazemetz si è messa in testa di registrare le proprie canzoni.

Sicuramente l’accostamento a sonorità un po’ dixieland e allo swing si attagliano bene alla sua voce acuta e con l’accompagnamento di un buon gruppo guidato dal pluridecorato Chad Watson (bassista, chitarrista, produttore e cantautore che ha offerto i propri servigi a Janis Ian, Essra Mohawk, Kin Fowley, tra gli altri) mette in pista dodici nuove composizione, tutte scritte di proprio pugno, in cui per la verità brillano maggiormente quelle che si distaccano un po’ dal gusto retrò che domina i brani più jazz/swing con i fiati che ricordano un po’ i funerali di New Orleans.

Appartiene a questa tipologia di brano, l’inaugurale The Way Back, con tromba, trombone e clarinetto che guidano le danze, più interessante la successiva Which Cup, più sul modello Cab Calloway, con un ritmo moderatamente caraibico, e la terza traccia, intitolata A Song For Mary, brano molto intimista basato tutto sulla chitarra acustica e su un violoncello suonato da John Crozova. He Said My Name Right risente forse un po’ troppo dell’impostazione canora tipica dei musical. Three Sticks Of Butter ripesca atmosfere irish che ricordano troppo (per essere un brano autografo) la mitica Sally MacLennane dei Pogues.

Motivi particolarmente interessanti sono Miami Underwater con echi che richiamano fortemente la musica spensierata di Jimmy Buffett (con una pedal steel suona da John Wakefield e l’elettrica di Don Peake, già chitarrista per gli Everly Brothers, Sonny & Cher, Hank Williams Jr. ed ora autore di musica da film), My Daily Regimen, il folk-blues Behind That Locked Door con un bel piano suonato da JT Thomas (Captain Beefheart Magic Band, Jackson Browne, Bonnie Raitt sono alcuni dei talenti con cui Thomas ha suonato) e la deliziosa Altars, gioiellino acustico che vede in pista la sola Nazemetz accompagnata da Watson.

VIVA – Living Well Is The Best Revenge

di Ronald Stancanelli

24 marzo 2018

Viva_LivingWell[690]

VIVA
LIVING WELL IS THE BEST REVENGE
Autoprodotto 2017

Pop Rock melodico con striature prog e diramazioni ballad per tal Viva DeConcini della quale scopriamo l’esistenza oggi con il ricevimento di un suo cd per recensione dal significativo e lungo titolo di Living Well is the Best of Revenge. Cantante e nel contempo cantautrice la ragazza ha nel suo passato musicale esibizioni sia in festival rock che in manifestazioni jazz il che rende la sua musica un assemblaggio di differenti orizzonti ma che raggiunge un buon risultato che post shakeraggio regalano all’ascoltatore un buon rock soffusamente pacato con diramazioni estemporanee di buon assemblaggio musicale. Brava quindi a dirimere trame musicale e a stemperarle sul pentagramma in ordinata e dolce armonia a dispetto della copertina ove si penserebbe che la fanciulla si lancerebbe decisamente in strali punk rocchettari di insolito vigore e frastuono. Niente di tutto questo, abbiamo tra le mani e nelle orecchie un amabile dischetto di musica decisamente piacevole ove la buona voce, mai invadente, della ragazza, ben si amalgama con il basso di Mary Feaster, la batteria di Sean Dixon e le tastiere di Peter Apfelbaum. Per il resto testi, musiche e chitarre a cura della DeConcini che ama usare solamente il suo nome di battesimo. In Your Amazing Body un bel connubio tra percussioni e tastiere non invadenti regalano un eccellente momento di questo piacevole album che non possiamo esimerci dal consigliare a ogni buon appassionato di musica come si deve. Un rock annacquato ma nello stesso tempo viscerale è quello che ci regala questa ragazza di probabile origine italiana. Se amate certe atmosfere fine anni settanta avete trovato il giusto cd che fa per voi. Io lo sto ascoltando a rotazione e non solo non mi stanca ma mi avvince ad ogni ascolto. Molto stile appunto settanta/ottanta la copertina che mi porta alla mente sia Debbie Harry che Chrissie Hynde. Bellissima in puro stile Pogues Song for Shane and Nina, che poi lo Shane sia McGowan è implicito e la Nina credo sia la Hagen. Altro brano che non lascia adito a fraintendimenti è Lesbian sex in the Bathroom e notevole il ritmo sincopato della magnifica Driving to New York che chiude magistralmente un ottimo dischetto.

THUNDERBOLT & LIGHTFOOT – Songs For Mixed Company

di Ronald Stancanelli

21 marzo 2018

Thunderbolt Lightfoot[689]

THUNDERBOLT & LIGHTFOOT
SONGS FOR MIXED COMPANY
VESPER Music 2017

Anche qui siamo qualche minuto oltre la mezzora ma alfine è giusto dire che fare album che superano quasi sempre l’ora o si avvicinano ai settanta minuti non è certo sinonimo di qualità, anzi; infatti i quattro cd che ho recensito stanotte, notte nella quale non riuscivo a dormire erano tutti sulla falsariga dei 30 / 36 minuti che a volte è la formula migliore per fare dei buonissimi album, ed infatti erano tutti ottimi, senza mettere accozzaglie di brani in esubero che servono solo a dilatare spazi e tempi ma che fatalmente abbassano il valore delle opere in questione. Se hai 17/18 brani e riesci ad avere la forza e l’intelligenza commerciale e artistica di lavorare di sottrazione alfine caccerai fuori un album con 10/12 pezzi che saranno i migliori della compagnia rendendo il lavoro sicuramente più compatto, rilucente e scorrevole, a meno che non capiti, ma son casi rarissimi, di averne così tanti tutti di ottimo livello e allora ben venga il cd di minutaggio lungo o lunghissimo. Thunderbolt & Lightfoot sono un duo formato da Phil Barry e Sarah Fuerst, americani che con l’aiuto di altri cinque musicisti costruiscono un eccellente album acustico ove chitarre, basso, marimba, tastiere,mellotron, ( guarda chi viene riutilizzato !) , whistle, batteria/percussioni, organo, piano, fisarmonica tessono una tela musicale di variegata e piacevole sonorità. Non stiamo parlando certo di un capolavoro ma di un album che nei suoi dieci pezzi tra cui la cover I’m on Fire di Springsteen dolcemente folk, è lavoro intelligentemente piacevole e ben redatto come generalmente i musicisti di spessore sanno fare. A parte la cover i pezzi sono a loro firma e la produzione affidata a Michael Fuerst mentre la copertina pare un po’ insipida nella sua esagerata semplicità e nella scelta, secondo noi, non azzeccata dei colori. Per il resto come detto un sonoro complimento. Citeremmo ancora un’ottima Year of the Monkey con trame delicatamente progressive, diremmo dalle parti di Strawbs o Traffic per questo Songs Mixed for Company di estrema pulizia e gentilezza musicale.

JOHN PINAMONTI – The Usual

di Paolo Baiotti

21 marzo 2018

pinamonti[698]

JOHN PINAMONTI
THE USUAL
www.pinamonti.com 2015

Nel corso di una carriera ventennale nella quale ha inciso sei albums, il californiano John Pinamonti, nato a Los Angeles e cresciuto tra Texas (San Antonio) e Oregon (Portland) si è ricavato una nicchia in ambito roots music, con una voce personale e una capacità strumentale in costante crescita. Influenzato da uno zio violinista e chitarrista che gli ha regalato la prima chitarra elettrica, ha affinato le sue doti seguendo on the road per quattro anni il batterista del Ghana Obo Addy, uno dei primi musicisti africani che cercò di miscelare musica folk tradizionale e pop occidentale. Dopo questa esperienza ha deciso di avviare una carriera solista con Tragico Magico (Gregor Records ’97), seguito da quattro dischi nel primo decennio del nuovo millennio e più recentemente da The Usual, pubblicato a cinque anni di distanza da End Of Smith. Accompagnato dalla sezione ritmica formata da Joe Ongie (basso) e Steve Goulding (batteria), con l’aggiunta di un manipolo di amici, John ha inciso il suo album più personale e maturo sia nei testi che negli arrangiamenti, pur evidenziando limiti compositivi difficilmente superabili. Tuttavia, pur tra alti e bassi, The Usual è un disco di discreto livello che scorre veloce, fin dalla fluida partenza di Rough And Ready, traccia elettroacustica nella quale spicca la presenza del violino di Heather Hardy, proseguendo con la ballata Forget Everything You’ve Learned impreziosita dalla chitarra acustica spagnoleggiante di Danny Weiss e dalla fisarmonica di Gavin Smith, la riflessiva Thursday Night Is Alright e la sommessa There Will Come A Day. Prevalgono i ritmi lenti anche nell’acustica High, seguita dal rock elettrico di I Want It Now con la lap steel di Josh Roy Brown che ricorda i Dire Straits più grintosi e dalla mossa City Of Angels rinvigorita da una sezione di fiati. Tuttavia la dimensione migliore di Pinamonti si ritrova nel mid-tempo scorrevole di Mother’s Nature Son e di In Plain Sight e nelle ballate You, con un’armonica delicata e The Way The Wind Blows con un riuscito arrangiamento fiatistico. In chiusura l’unica cover, il folk tradizionale I Can’t Feel At Home In This World Anymore della Carter Family, eseguito da John al banjo e voce.

STEVEN CASPER & COWBOY ANGST – Sometimes Jesse James

di Paolo Crazy Carnevale

20 marzo 2018

Steven Casper Sometimes[696]

STEVEN CASPER & COWBOY ANGST – Sometimes Jesse James (Silent City/Hemifran 2017)

Ormai è cosa risaputa che l’America è piena di talenti minori ma non per questo disprezzabili: ennesima testimonianza è questo EP, che ci giunge tramite l’impeccabile Hemifran, della solida band californiana di Steven Casper, l’ottavo con questa denominazione, ma Casper ha in saccoccia altre esperienze con gruppi differenti.

Certo non si tratta di ragazzini, le foto a disposizione ci raccontano di un gruppo di veterani dalla gran voglia di suonare calandosi nell’immaginario tutto californiano della banda di fuorilegge. Sono tutti dei signori nessuno, tranne John Groover McDuffy che si occupa di tutte le chitarre, lui ha una lunga collaborazione con Rita Coolidge alle spalle e il suo apporto strumentale nelle composizioni di Casper si fa sentire parecchio.

L’altro pilastro del gruppo è Carl Byron (hammond organ, fisarmonica, piano) che insieme a McDuffy traccia le coordinate e crea la solida base su cui si sviluppano e muovono le canzoni. Alla produzione troviamo invece Ira Ingber, veterano ed esperto regista che ha lavorato persino con Dylan (ma non certo nei momenti migliori dell’ebreo).

Il formato è quello dell’EP, prediletto da molti indipendenti in America, un formato che permette agli artisti di essere frequentemente presenti sul mercato senza avere l’onere di pubblicare un nuovo disco ogni anno, e al tempo stesso un formato facilmente spendibile durante i concerti, sicuramente la maggior fonte di guadagno per questi personaggi.

L’inizio di questo EP è affidato ad un brano dai chiari rimandi al miglior Tom Petty, Down, in cui la voce di Casper ricorda molto da vicina quella del compianto Tom – cosa che non si ripeterà nei brani successivi – è un rock solido, d’effetto, ma scivola presto via, molto più impressiva la successiva The Best Day Of Our Lives, una ballata dal respiro arioso sorretta da pedal steel e hammond, davvero bella. Segue una cover, piacevole, di My Wrecking Ball, presa dal repertorio di Ryan Adams, ma il brano che arriva dopo sembra più interessante, è quello che contiene il verso da cui il disco prende il titolo: Born To Loose Blues è una composizione dall’incedere notturno e ancora una volta con grande dispiego delle chitarre. La chiusura è affidata ad uno strumentale quasi acustico, Mi Sueno, Mi Dolor, brano dall’incedere sontuoso, con uso di altri strumenti – suonati dal producer – e particolarmente calato nelle atmosfere western suggerite da titolo e copertina del disco.

PETER GALLWAY – Feels Like Religion

di Ronald Stancanelli

20 marzo 2018

Peter Gallway Feels Religion[688]

PETER GALLWAY
FEELS LIKE RELIGION
2017 Bay Music

Peter Gallway, personaggio col viso in parte Waits e in parte Cohen, potrebbe tranquillamente fare la loro controfigura se non fosse che non faccia parte del mondo cinematografico ma bensì sia lui stesso un cantautore musicista che, come gli illustri colleghi suona e canta e questo Feels like Home giuntoci oggi per recensione caratterizzato da una back cover impressionante per la sua somiglianza con Cohen è il suo ultimo lavoro in ordine di tempo. Album profondamente dedicato a Laura Nyro e al suo capolavoro, forse ancora un po’ misconosciuto New York Tendaberry si avvale della prestazione bonaria ma fortemente incisiva del grande Jerry Marotta e della bravissima Annie Gallup. La voce pur un po’ gutturale e profonda fa molto effetto e la sua dizione incisiva e penetrante aiuta moltissimo. Mettiamoci poi che le canzoni, tutte scritte da lui meno una con la Gallup, sono molto piacevoli e rilassanti ed abbiamo un quadro decisamente positivo. Gallway suona le chitarre, il basso, e le tastiere mentre ovviamente Marotta è ottimamente sul pezzo con batteria e percussioni. La dolce e gradevole voce della Gallup si affianca nella intensa title track mentre suona la lap steel in Maria Makes, swingata ballata. Molto bella la suadente cavalcata di Women’s House in D mentre aguzza e penetrante la ritmìa delle percussioni in Dark Matter che par pezzo arrangiato da Daniel Lanois tanto è particolare mentre la voce del songwriter splendidamente accattivante. Gran bella canzone. Un ottimo album di categoria superiore nell’ambito di certo cantautorato sicuramente meno noto ma non per questo non meritevole. Gallway è personaggio molto prolifico in materia di album, ne abbiamo scoperto in rete ben sedici ed il suo percorso inizia addirittura dai settanta con due dischi licenziati dalla Reprise ed è anche noto agli addetti per aver formato il gruppo della Fifth Avenue Band. Da segnalare in precedenza, si era nel 2016 un interessante album, sempre con la Gallup dal titolo Two sides to evey Story uscito col moniker di Hat Check Girl pregno e denso di atmosfere texane con interessanti striature di desert tunes, recensito enfaticamente e positivamente all’epoca su questo sito. A questo punto anche da non scordare Six Bucks Shy, altro album con Jerry Marotta che ricordiamo musicista a volte prestato a certo prog rock e la stessa Gallup anche questto accreditato come Hat Check Girl; detto lavoro nonostante fosse carico di intense canzoni dal sapido sapore che ti lascia un gusto retrodolce in bocca purtroppo non mi pare abbia mai raggiunto livelli o notorietà elevate, non parliamo poi da noi. Insomma nonostante una discografia diremmo quasi sterminata Artista di culto per pochissimi, anche se artista con la A maiuscola. Chissà che questo suo ultimo cd denso di bellissime ballate non compia il miracolo, ci farebbe tanto piacere ma ci crediamo poco, anche se un brano della gradevolezza di Roller Coaster meriterebbe un’ampia ed attenta platea.

KASHKA – Relax

di Ronald Stancanelli

20 marzo 2018

KASHKA[687]

KASHKA ( KAT BURNS)
RELAX
Autoprodotto Play the Triangle. com

Breve album, solo qualche secondo oltre i ventiquattro minuti per Kashka, vero nome Kat Burns, musicista canadese. La fanciulla proviene dall’Ontario, precisamente da Toronto e nella sua musica si sente l’atmosfera dei grandi spazi, delle immense distese, dei cieli aperti che in questo album si coniugano perfettamente con atmosfere musicali che le suggellano in modo direttamente proporzionali. Disco calmo ma intensamente impegnato ed accorto ove la voce che potrebbe portare in certi frangenti a Bjork ben si amalgama alle atmosfere un po’ indie, un po’ ambient che scaturiscono dai solchi. Sicuramente piacerà a coloro che della musica fanno una componente essenziale e rilassante della propria esistenza ma senza abusarne in velocità , espansione, volume o esasperazione. Qua siamo tra una grande verde pianura e una rilassante vasca di acqua a giusta temperatura con idromassaggio che stimola la non creatività ma solo un dolce rilassamento dell’essere e dobbiamo ammettere che pur essendo di orientamento diverso riguardo i nostri gusti musicali questo è veramente un bel dischetto e mentre ora sta finendo ci troviamo beatamente calmi, tranquilli e rilassati,. Ah, la terapia della musica ! I brani sono firmati da lei a parte un paio in coabitazione con altri due artisti. Cd arrivato in versione promotional copy senza dati o info alcune quindi di lei poco sappiamo e poco in rete si trova. Ma caparbi troviamo qualche esigua notizia. Comunque pare questo sia il suo terzo lavoro preceduto da un altro album e da un EP ed in questo, nonostante la musica ambientale alquanto minimale surrogata dalla splendida sua voce ben undici altri artisti la accompagnano in questa parca passeggiata nei boschi del nord. Strana la copertina in relazione a quanto il dischetto propone, dischetto che produce lei stessa assieme a Lisa Conway e Andrew Collins. Non vorremmo essere ripetitivi ma questo è realmente un breve bel disco che fa bellamente a pugni con tanta musica caciarona e casinara d’oggigiorno. Mi accorgo adesso di non aver mai citato il titolo che solo ora leggo anche io per la prima volta data sia la distrazione che poi il cimentarsi nella recensione e nell’ascolto. Il cd si chiama Relax e mai titolo fu più appropriato !

LELLE DAHLBERG – These Words Are True

di Paolo Crazy Carnevale

17 marzo 2018

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LELLE DAHLBERG – These Words Are True (Lelle/Hemifran 2017)

Uno dei tanti: questo signor Dahlberg sembra essere uno dei tanti, forse tantissimi nordici che si sono innamorati di sonorità lontane anni luce dalle latitudini in cui risiedono.

Non so se sia per via delle temperature sub artiche che probabilmente danno l’impressione di attenuarsi se le si affronta giorno dopo giorno con una musica calda e morbida.

Forse semplicemente non c’è luogo più o meno idoneo per amare un certo tipo di musica e tanto basta. Basta anche a Lelle Dahlberg, svedese, che lo scorso anno ha dato alle stampe il proprio primo disco, nonostante la canizie evidente dalle foto di copertina. Basta accontentarsi di poco – avrà pensato – l’America del country non sarà poi così differente…

Differente lo è di certo, dalla Svezia come dall’Europa in generale. Lo stile di vita innanzitutto, soprattutto quello scandinavo, l’orizzonte, i paesaggi, le architetture. Proprio quelle, immortalate in fondo ai binari su cui Dahlberg cammina. Sono tipicamente europee. La musica no, e non è neppure quel country troppo annacquato che piace tanto agli europei, in particolare ai germanofoni: è country, ma è anche soul, una fusione che a Dahlberg riesce facile, in particolare per via della voce che si ritrova, un vocione dalla consistenza robusta e dalle sfumature da soul singer appunto.

Poi il parco strumenti è quello giusto, c’è la pedal steel, il violino, una sezione ritmica puntuale, tastiere giuste, un po’ di chitarre.

Anche se è un disco di debutto si comprende che il titolare ha avuto tempo di lavorarci su a lungo, pare che abbia cominciato a scrivere canzoni a tredici anni, dopo aver strimpellato a lungo la chitarra del nonno.

Dodici brani in tutto, forse un po’ monotematici (sono per lo più canzoni d’amore), ma piacevoli, sia che li canti da solo o che si faccia accompagnare dalla cantante Pearl (nessun aggancio stilistico con Janis Joplin però): sicuramente è interessante la canzone che apre ed intitola il disco, forse anche il brano più riuscito, ma non è male neppure There’s Only You (il duetto con Pearl), uno slow con belle chitarre. Come Back Home è invece una composizione dominata dall’organo e dall’andatura a metà tra rock lento e anni sessanta, mentre Tonight’s The Night è country-rock solido in stile Nashville.

Nulla di originale, certo, e tutto suona come già sentito. Onesto però. Uno dei tanti.

JAN DALEY – The Way Of A Woman

di Paolo Baiotti

17 marzo 2018

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JAN DALEY
THE WAY OF A WOMAN
Log Records 2017

La biografia di Jan Daley è ricca di attività di vario genere nell’ambito dello spettacolo. Nata nella California del Sud, adolescente affascinata dalle voci di Doris Day e Julie Andrews, ha iniziato la carriera nello show business vincendo il concorso di Miss California, diventando poi la cantante di una big band. Entrata nel mondo della televisione, ha partecipato alla serie “Here Comes The Stars” con artisti come Bob Hope, Bing Crosby e Debbie Reynolds, spostandosi a Las Vegas dove ha aperto per attori e cantanti tra i quali Louis Armstrong. Dopo l’ingaggio nel Bob Hope World Christmas Tour ha proseguito in televisione, superando anche un tumore e incidendo a Roma nel ‘70 una canzone di Riz Ortolani candidata all’Oscar come colonna sonora del western Madron di Jerry Hopper. A questo punto però Jan sente il richiamo della famiglia: si dedica al matrimonio, ha una bambina, si avvicina alla religione e incide due dischi di Christian Music, specializzandosi in jingle pubblicitari che le consentivano di non spostarsi da casa. Solo verso la fine degli anni novanta riprende a cantare in teatro e in spettacoli a Los Angeles e Nashville, incidendo l’album Something Old, Something New. Dopo un ritorno a Las Vegas e la partecipazione a un paio di musical, prosegue impegnata principalmente tra televisione e teatro, scrivendo canzoni e incidendo nel 2016 l’Ep When Sunny Gets Blue, dal quale si è sviluppato il progetto di The Way Of A Woman, che comprende undici tracce tra le quali i cinque brani dell’Ep. Sei composizioni sono di Jan, tra le altre cinque ne spiccano due di Jack Segal, famoso pianista e compositore di canzoni riprese dai più famosi interpreti tradizionali, da Frank Sinatra a Barbra Streisand, che è stato maestro di canto di Jan e l’ha convinta a proseguire nella sua carriera musicale. Proprio When Sunny Gets Blue di Segal ha lanciato l’Ep, salendo al n.1 nella classifica di Smooth Jazz della AOL Radio, un network americano di stazioni radio online. Sulla spinta di questo brano, The Way Of A Woman è entrato nella Billboard Jazz Chart, salendo fino al n.1 e restando per più di venti settimane nella Top 5. Un successo inaspettato, dovuto principalmente alla voce di Jan, davvero notevole, perfetta per un repertorio tra jazz tradizionale e pop, che privilegia le ballate, anche troppo, con qualche momento eccessivamente zuccheroso che sfiora la monotonia. I brani più mossi e jazzati come l’eccellente When Sunny Gets Blue, Come On Daddy e l’intensa cover di Cry Me A River evidenziano la classe di Jan e del gruppo, ma le ballate soverchiano il resto, specialmente nella parte centrale del disco. In The One I’ve Been Waiting For la voce ricorda la Whitney Houston più ispirata, in God Bless The Child l’interpretazione è adeguatamente intensa, ma in altri momenti si entra nel campo dell’Adult Contemporary, ai confini con lo smooth jazz, di stampo prettamente radiofonico.

RADOSLAV LORKOVIC – The Po, The Mississippi

di Paolo Crazy Carnevale

17 marzo 2018

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RADOSLAV LORKOVIC – The Po, The Mississippi (Appaloosa/IRD 2017)

Sono almeno venticinque anni che Radoslav Lorkovic bazzica la nostra penisola, che sia come accompagnatore di qualche cantautore o che sia per suonare per conto proprio, l’Italia gli è entrata nel cuore da un pezzo, e bazzicare il mondo musicale di quegli italiani che amano la musica americana è un’abitudine che ha fatto sua da subito.

Questo è un po’ il retroterra culturale del suo disco uscito sul finire dello scorso anno sotto l’egida dell’Appaloosa e con la supervisione amicale di Andrea Parodi: The Po, The Mississippi è un disco fluviale non solo per il suo titolo, è un omaggio alle sue due terre d’adozione, l’America e l’Italia, ma anche alla sua terra d’origine, la Croazia.

Il disco è stato inciso in una giornata, in un piccolo studio brianzolo, in compagnia di Charlie Cinelli al contrabbasso e del maestoso Andrew Hardin alla chitarra, poi sono state sovraincise delle parti con vari ospiti. Il risultato è un disco essenziale, molto piacevole, intenso, in cui oltre ai brani si fa molta attenzione al suono degli strumenti: come è giusto che sia, il piano di Lorkivic e la chitarra di Hardin hanno un suono inconfondibile che va trattato con le dovute attenzioni.

Qualche brano originale, un paio di cover pescate dai dischi dei suoi compagni di viaggio o dei suoi maestri ispiratori, un paio di tradizionali dell’ex Jugoslavia.

Si comincia con l’ariosa Blue Parade, la canzone che sta anche all’origine del titolo del disco, la parata blu è quella dell’acqua dei due fiumi osservati da Lorkovic durante due differenti voli aerei, oltre al piano è fondamentale l’inconfondibile chitarra di Hardin che conferisce al brano un’atmosfera da border song fantastica.

Tango ‘Til They’re Sore è del miglior Tom Waits, l’arrangiamento con il dobro di Palo Ercoli è eccellente, l’interpretazione ispirata; Mexican Cafè è puro south of the border sound, con la fisarmonica e la chitarra di Hardin che sembrano chiamare in causa un altro fiume, il Rio Grande.

Jeremija è invece un brano tradizionale della terra d’origine del pianista, siamo anni luce lontani dal Po e ancor più dal Mississippi, ma anche questo fa parte del background di Lorkovic, imprescindibile. Con Fishing si va a pescare nel repertorio del suo grande amico Richard Shindell e c’è un bel cameo di Mary Gauthier che valorizza il brano, mentre Headin’ South è di nuovo Mississippi, sia per il sound che per il testo; ancor più lo è il classico di Randy Newman Louisiana 1927, ispirato da uno straripamento del grande fiume. L’interpretazione vocale non può competere con quella che ne dette anni fa Aaron Neville, ma il lavoro di piano e chitarra è da premio oscar e a dare una mano nei cori c’è Shawn Mullins. Dal repertorio di Greg Brown arriva invece In the Dark With You, particolarmente riuscita anche dal punto di vista vocale, con la band di Tony Felicioli a dare una mano. Ancora Felicioli e il suo flauto sono protagonisti di Northwind, lungo ed intenso brano che Lorkovic considera la sua migior canzone: Hardin all’acustica e Ercoli diviso tra dobro e pedal steel rivestono la composizione di un abito drammaticamente bello. Atmosfere malinconiche e balcaniche da post sbornia triste per Ribor plete mirzu sojo, in cui la chitarra di Hardin suona come un mandolino e il titolare va di fisarmonica e canta con suggestione. Poi il finale con l’omaggio al compagno di scorribande Jimmy Lafave di cui viene proposta Cafè In The Rain.

A Milano la terza edizione della Fiera del Disco e dell’editoria musicale

di admin

13 marzo 2018

MILANO PIME 17 MARZO 2018[682]

Si svolgerà a MIlano, il prossimo 17 MARZO, la terza edizione della Fiera del Disco e dell’Editoria Musicale, sempre presso la Sala Girardi del PIME, in Via Mosé Bianchi, 64.

INGRESSO LIBERO

il PIME è facilmente raggiungibile con la linea Rossa della metropolitana, fermata LOTTO – Piazzale Zavattari

LATE PRESENTE CON L’ULTIMO NUMERO!

VI ASPETTIAMO

DUSAN JEVTOVIC – Live At Home

di Paolo Crazy Carnevale

11 marzo 2018

dusan jevtovic live at home[679]

DUSAN JEVTOVIC – Live At Home (SKC Kragujevac/Moonjune 2017)

Dusan Jevtovic, chitarrista serbo dallo stile particolarmente interessante e vario, è uno tra i rappresentanti storici del sound di casa Moonjune (in questo caso però solo distributrice del disco) per la quale ha già realizzato diverse produzioni.

Per quanto la sua casa sia da tempo la Catalogna – il chitarrista si è insediato in quel di Barcellona – questo live in edizione limitata e assolutamente godibile è stato catturato in quella Serbia che è la casa anagrafica di Jevtovic, per la precisione al Decije Pozariste di Kragujevac poco prima del natale 2016. Il chitarrista è accompagnato per l’occasione da una band di suoi connazionali (tra cui spicca il tastierista Vasil Hadzimanov che nel disco appare anche in qualità di autore).

Il disco, dalla bellissima copertina, si apre in scioltezza con due brani inediti al momento della registrazione:, No Answer , una composizione di gran classe e il meno impressionante il medley tra Angel e Al Aire – Soko Bira: entrambe le tracce sarebbero apparse sul disco di Jevtovic pubblicato la primavera scorsa: per quanto riguarda No Answer si tratta di un brano molto riuscito, a cavallo tra prog e psichedelia, con un ispirato assolo di chitarra ed un finale a base di pianoforte ad appannaggio di Hadzimanov , presente anche nella versione di studio.

Molto riuscita la terza traccia, Ohrid, una composizione del pianista che vi suona una gran parte lasciando comunque un grande spazio anche alla chitarra ispiratissima del titolare: il brano ha uno sviluppo incredibile che lo conduce a svilupparsi in una galoppata col piano elettrico protagonista su una base retta dal basso di Pera Krastajic e dalla batteria di Pedja Milutinovic.

New Pop è un’altra lunga composizione del titolare, molto in odor di fusion, col basso molto rotondo atmosfere latin jazz meno interessanti, mentre Babe una delle composizioni più brevi del live ha un sapore a cavallo tra canzone popolare – con un coro non meglio identificato, forse anche campionato – e sperimentazione chitarristica; Briga è invece di nuovo firmata dal pianista ed inizia anche con una voce campionata su cui il piano tesse una serie di passaggi orientaleggianti che come nel brano precedente sembra voler mediare la matrice musicale contemporanea con la cultura ottomana che per anni ha imperversato sui Balcani in generale e quindi anche in Serbia, poi la musica si dipana, il jazz fa capolino, gli strumenti si rincorrono, fino a condurre la composizione ad un finale avanguardistico.

La chiusura è affidata a Gracias y perdon, poco più di due minuti che fungono da sigla finale del concerto.

NEIL YOUNG + PROMISE OF THE REAL – The Visitor

di Paolo Crazy Carnevale

11 marzo 2018

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NEIL YOUNG + PROMISE OF THE REAL – The Visitor (Reprise 2017/2018)

Ci sono stati dei momenti in cui ho atteso ogni nuovo disco di Neil Young con golosità. Poi negli anni ottanta ha sparato un brutto disco dietro l’altro, alcuni davvero bruttissimi e inascoltabili, tanto che a un certo punto ho anche smesso di comprarli. Poi è rientrato nelle mie grazie, o meglio, è tornato nelle grazie dell’ispirazione. Ora sono un po’ di anni che i suoi dischi mi lasciano nuovamente perplesso.

L’imprevedibilità è sempre stata di casa nella sua discografia. Ma dopo Psychedelic Pill non c’è un solo disco che mi piaccia. Si salva qualche brano. Molti sono poco ispirati, fuori sintonia. Young è così, prendere o lasciare, ma che fatica!
Tralasciando i dischi d’archivio, sempre dignitosi, in particolare il recentissimo Hitchhiker, questo The Visitor sembra comunque essere quello riuscito meglio, ma contiene cose che sarebbe stato meglio lasciare nei cassetti. A vita.

Posto che il canadese ha sempre e comunque qualcosa da dire, se non altro nei testi, l’accompagnamento dei Promise Of The Real sembra più azzeccato che nell’altro disco di studio inciso con loro, e sì che dal vivo (ma non di certo nell’appena passabile doppio live Earth) i ragazzi spaccano!

Qui comunque si inizia con un brano politico sicuramente ben riuscito, al di là del testo che vorrebbe risvegliare le coscienze di quegli americani che hanno votato Trump sperando di tornare una grande nazione, la musica viaggia dalle parti delle sonorità dello Young del 1973, con venature blues e belle chitarre. Il brano successivo, Fly By Night Deal, è però un tonfo, davvero brutto. È un attimo che per fortuna dura poco, la canzone che segue, Almost Always è per contro una delizia, una delle perle del disco, peccato che ricordi alcuni passaggi di From Hank To Hendrix, ma Young ha spesso saccheggiato se stesso: qui comunque l’arrangiamento è vincente, le chitarra sono elettriche in luogo dell’acustica e le tastiere sono perfettamente inserite, il drumming è giusto quello che ci vuole. È questo il suono migliore dei Promise Of The Real, che d’altra parte durante i tour hanno dimostrato di riuscire meglio proprio nell’esecuzione dei brani degli anni settanta. Stand Tall è un’altra invettiva, stavolta anche in nome della salvaguardia del pianeta, ottimi gli intenti, meno il risultato dal punto di vista musicale di cui si lascia ricordare solo il finale distorto. Il secondo lato del primo disco (il vinile di The Visitor è doppio e si compone di tre facciate solamente, la quarta è nera e senza label e riporta i nomi di young e del gruppo e una penna d’aquila) si apre con la delicata e acustica Change Of Heart, quasi un brano parlato, sempre con un testo interessante e con un bel mandolino suonato da Micah Nelson, mentre il fratello si divide le parti di chitarra col padrone di casa, semplice e adeguato il lavoro di Anthony LoGerfo alla batteria. Carnival è una (troppo) lunga composizione dall’andamento spagnoleggiante – ho letto con perplessità una recensione in cui veniva paragonata a certe atmosfere di Santana –, sembra un lungo delirio ipnotico, con risate e atmosfere circensi, a partire dal testo, sinceramente non la necessità di averla fatta diventare così lunga non avendo mai una variazione, un cambio di atmosfera, di ritmo, salvo nel refrain in cui fa capolino anche il suono della calliope (una sorta di organo a vapore). I cori sono noiosi e le risate alla Mangiafuoco tra una strofa e l’altra dopo un po’ si fanno irritanti. A chiudere il secondo lato c’è un blues, un blues da ridere con Young che sembra improvvisare un testo su un giro di blues appunto e con i ragazzi che gli fanno il botta e risposta nel cantato di un testo casuale. Probabilmente si sono divertiti a farlo e bisogna cercare di divertirsi ad ascoltarlo: se non altro dura poco!

Terza ed ultima facciata: ad aprirla un brano dall’incedere epico, sembra un sunto tra tutte le cose discutibili che Young ci ha fatto ascoltare negli ultimi anni: Ci sono i fiati e c’è un’orchestra, ci sono un sacco di coristi e naturalmente i Promise Of The Real. Buon testo, di certo, di nuovo un invito a preservare il pianeta per i nostri figli, spiazzante l’arrangiamento, ma non da buttare: se non altro dura meno di quattro minuti. When Bad Got Good è brevissima, un invito a sbattere in galera qualcuno, molto probabilmente Trump, ma sembra l’unica cosa intelligente del brano. La perplessità sale.

Per fortuna a chiudere il disco arriva Forever, dieci minuti di inno alla terra, ad una terra al limite del collasso, un pianeta da dopobomba che ricorda la copertina di On The Beach, a metà strada tra le storie dell’autostoppista i Hitchhiker e dell’emarginato di Trashers: Neil canta con voce bassa e quando arrivano gli acuti lui e i Promise Of The Real ci stonacchiano su un po’, ma la costruzione non è male, di tanto in tanto l’elettrica lancia guizzi sul tessuto di base tracciato dall’acustica e dal mandolino (qui non accreditato ma perfettamente udibile).

Chissà, fosse stato un lungo EP di cinque brani, questo The Visitor avrebbe potuto essere un disco migliore.

GEOFF ALPERT – Open Your Heart

di Paolo Baiotti

11 marzo 2018

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GEOFF ALPERT
OPEN YOUR HEART
Geoff Alpert 2017

Geoff Albert, californiano del sud, cresciuto in una famiglia dove la musica ha sempre avuto un ruolo importante, ha studiato alla San Diego State University specializzandosi nei fiati, da innamorato del trombone ispirato da J.J. Johnson (Count Basie, Charlie Parker), James Pankow (Chicago), Wayne Henderson (The Jazz Crusaders) e Raul De Souza (Sergio Mendes, Flora Purim, Sony Rollins). Nei primi anni ottanta ha lasciato la musica per dedicarsi alla famiglia e a un lavoro sicuro. Dopo la dolorosa perdita della moglie a causa di un tumore nel 2002, ha rispolverato il trombone ed è gradualmente tornato in scena, con l’aiuto del bassista Darryl Williams e della tastierista e band leader Gail Jhonson che lo hanno avvicinato allo smooth jazz, un tipo di jazz prettamente radiofonico apparentato con la fusion, il pop e il rhythm and blues, Un genere tendenzialmente leggero, melodico e ballabile discretamente popolare negli Stati Uniti. Affiancando la passione per la musica con le discipline orientali (in particolare il Ken-Ka-Kung-Fu del quale è maestro), Geoff ha affrontato un viaggio nel dolore, riuscendo ad accettare e superare la grave perdita. Open Your Heart è il suo primo album, il frutto di parecchi anni di scrittura e di arrangiamento nel quale è stato affiancato da Darryl e Gail (arrangiatrice del disco) e da Adam Hawley (chitarrista che ricorda lo stile di George Benson), Greg Manning (tastiere) e Tony Moore (batteria), oltre a una sezione fiati, sempre con il trombone in primo piano. In questo album c’è tutta la vita del musicista, autore di quasi tutti i brani. La toccante Thinking About You, un duetto tra tastiere e trombone è stata scritta pensando alla moglie e alla madre, mentre la insinuante The Crusade è un tributo a The Jazz Crusaders con una sezione ritmica scattante e il sax di Steve Nieves. Zen Funk cerca di musicare le suggestioni dell’amata arte marziale con il basso in primo piano, Don’t Ask My Neighboors, cover di The Emotions del ’77, è una traccia da night club un po’ troppo leggera. Colgono il bersaglio la ritmata ripresa dell’errebi Heartbreak Hotel di Michael Jackson (con i Jackson 5), completata da un delizioso assolo di Adam Hawley e la latineggiante Open Your Heart con Althea Rene al flauto. Geoff costruisce un disco piacevole e rilassato, senza particolari squilli o cadute, nel quale non può mancare un pensiero per le amate isole Hawaii, omaggiate in Aloha Nights.

CAROLINE WICKBERG – I’m Not Mad

di Paolo Crazy Carnevale

6 marzo 2018

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CAROLINE WICKBERG – I’m Not Mad (Hemifran 2017)

Un’algida bionda nordica dagli occhi come punte di spillo: Caroline Wickberg occhieggia così sulle foto promozionali, l’artwork del suo EP di debutto invece, riproduce un cielo tempestoso a picco su un fiordo tenebroso: questa cantautrice svedese di nuova generazione, avrebbe voluto diventare una cantante jazz, ma fin da piccola ha sempre avuto la passione per lo scrivere canzoni ed ora, dopo aver provato a battere i territori del pop e del jazz è tornata alla sua propensione iniziale.

Non so che chance possa aver avuto nelle vesti di jazz singer, sicuramente in quelle della cantautrice intimista ci si ritrova molto bene e le cinque canzoni incluse in questo EP, pur non facendo gridare al miracolo, fanno ben sperare: atmosfere soffuse, in deciso contrasto con quelle procellose della copertina e del suo retro.

Band essenziale, composta da sezione ritmica quasi in punta di piedi, con la Wickberg che si suona tutte le chitarre, il violino e i synth ed una sezione d’archi che ci porta nell’ambito di quello che potremmo considerare folk-rock da camera, laddove il rock è (per quanto cautamente) rappresentato da basso, batteria e chitarra elettrica.

Per un disco autoprodotto il sound è decisamente interessante, belli gli intrecci delle chitarre, la voce richiama vagamente Margo Timmins e anche certe composizioni vanno a ravanare nell’orbita dei Cowboy Junkies: è poi da vedere se la Wickberg possieda lo stesso magnetismo che la Timmins sa sprigionare sul palco, ma il beneficio d’inventario si può anche concederglielo. Bella senza dubbio la title track, When I Stood By You è invece pervasa da suoni più arditi, in Wedding Crasher con la sezione d’archi in evidenza sembra di imbattersi in certe cose di Angelo Badalamenti cantate da Julee Cruise.

Certo, la via che la Wickberg ha scelto di percorrere è difficile e la concorrenza è davvero molta. In bocca al lupo.

SAWARA – L’eccitante Attesa

di Paolo Baiotti

6 marzo 2018

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SAWARA
L’ECCITANTE ATTESA
Sawara 2017

Fabio Agnesina, alias Sawara, cantautore brianzolo attivo da qualche anno come solista dopo le esperienze con i Delsangre (in finale ad Arezzo Wave) e con gli Effetto Doppler, firma il suo terzo disco con L’Eccitante Attesa, preceduto nel 2015 da Il Tempo Supplementare. Un album scarno, intimista, cantato (e recitato) con una voce personale e riconoscibile: grave, oscura, un po’ sporca. Anche gli arrangiamenti sono spartani, con incursioni rapide e incisive della chitarra elettrica, una batteria secca e ripetitiva, qualche inserto elettronico e pochi avvolgenti accenni orchestrali. Un disco essenziale anche nella durata, otto canzoni per poco più di mezzora, con l’aggiunta di un remix di E’ Bello Anche Aspettarti che apre e chiude l’ascolto. I testi sono personali, parlano di amore in tutte le sue possibili accezioni, in modo non banale. L’autore è aiutato dalle chitarre di Matteo De Capitani, dal basso di Massimiliano Di Stefano e dalla batteria di Davide Galbusera.
Delicati arpeggi acustici introducono E’ Bello Anche Aspettarti, traccia recitata con arrangiamento minimalista che, nella più lunga versione rimixata in chiusura, inserisce il piano di Mattia Scarpa nell’eterea introduzione strumentale e una batteria elettronica che ne modifica la dinamica. La ballata Ananda è avvolta da un arrangiamento più ricco con qualche tocco orientaleggiante del sitar di Maurizio Consonni e la seconda voce di Chiara Pezzotti, mentre EA è pervasa da sventagliate elettriche e da una batteria cadenzata, con un finale in crescendo dissonante e maestoso. La pianistica Vedo Chiaro è una traccia lenta e malinconica che si inasprisce con gli inserimenti nervosi della chitarra elettrica, Io Deludo un brano oscuro e inquieto, Corri Johnny un tambureggiante rock chitarristico, Il Soffitto un altro brano lento arrangiato con essenzialità, che precede le sventagliate di Alba Ad Alba che sembrano ondeggiare tra richiami grunge e dissonanze alla Nick Cave, con un cantato basso e ruvido.
Un disco inconsueto, breve, intenso, affascinante e coinvolgente che merita più di un ascolto distratto.

LARA MOLINO – Forte e Gendile

di Paolo Baiotti

4 marzo 2018

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LARA MOLINO
FORTE E GENDILE
Foro Bisanzio 2017

Fòrte e Gendìle è un disco pregevole e interessante, dietro al quale c’è un attento e scrupoloso lavoro di ricerca con l’intenzione di preservare e rinverdire le tradizioni locali. Lara Molino è una cantautrice abruzzese di San Salvo (Chieti), legata all’esperienza dell’Hope Music School di Roma, insegnante di musica che ha alle spalle un’attività ventennale come cantante e autrice con alcuni dischi solisti e con l’Hope Music Group. Ma Forte e Gendile è un disco molto particolare, cantato interamente in abruzzese, scritto da Lara insieme al padre poeta Michele Molino, nel quale si susseguono racconti di antichi riti comunitari, leggende, migrazioni, affascinanti briganti, eccentrici pescatori e donne povere, ma forti e gentili. E’ un disco folk, che in alcuni momenti mi ha ricordato le canzoni in dialetto di Fabrizio De Andrè, valorizzato dalla voce limpida e melodica dell’artista e dalla produzione essenziale e rigorosa del violinista Michele Gazich, che ha contribuito alla scrittura di un brano e agli arrangiamenti, offrendo ovviamente il suo prezioso apporto con la viola e il violino, affiancandosi a Marco Lamberti (chitarra acustica), Titti Castrini (fisarmonica), e a Lara alla chitarra acustica e classica. Dall’accensione del fuoco in Lu Foche de San Tumasse alla storia d’amore di Nicoletta Zappetti per la propria famiglia e la propria terra nella title track, dalla leggenda dello spiritello Mazzemarèlle alla delicata filastrocca di Scénné D’Ore, dalla storia piena di rimpianti di L’Emigrànde alla drammatica epopea del brigante Pomponio, Lara ci guida in un viaggio che può affascinare anche chi non conosce il dialetto abruzzese, aiutato in questo da un booklet curato con i testi tradotti in italiano e inglese. In chiusura Casche La Lìve, struggente canto popolare locale di lavoro che in passato è stato ripreso anche da Domenico Modugno in Amara Terra Mia.
Fòrte e Gendìle merita più di un ascolto. Come scrive Gazich nelle note di presentazione, è un prodotto di tante generazioni e di tanti cuori, un album nel quale i cuori dei figli ritornano ai cuori dei padri.

DAVID CROSBY – Sky Trails

di Paolo Crazy Carnevale

2 marzo 2018

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DAVID CROSBY – Sky Trails (BMG 2017 2 LP)

Un nuovo disco di David Crosby ad un anno di distanza dall’ottimo Lighthouse non se lo aspettava nessuno. Ed invece il vecchio tricheco, con una nuova etichetta – il disco precedente era uscito su Verve – torna a colpire, ma purtroppo non a graffiare.

Se il disco precedente aveva davvero convinto molto quanto a bontà del materiale e a sonorità, con questo Sky Trails si torna ad un easy listening raffinatissimo ma anche fastidioso nella sua raffinatezza. In qualche brano ci sono ancora Michael League e Becca Stevens che avevano contribuito a fare di Lighthouse un disco eccellente, ma per il resto sono tornati gli accompagnatori abituali come il batterista Steve Distanislao, il chitarrista Jeff Pevar e – purtroppo – James Raymond e Steve Tavaglione, che funestano con tastiere troppo pesanti e sax il sound generale di questo doppio vinile. Ci sono anche ospiti come Dean Parks e Greg Leisz, purtroppo decisamente sottoutilizzati.

Il brano d’apertura, She’s Got To be Somewhere non è male, ma troppo in odor di Steely Dan, gruppo che per altro Croz ha sempre dichiarato di amare molto, per quanto distante musicalmente dal Crosby che si è guadagnato i nostri favori in tempi assai lontani. La sensazione generale, ascoltando il disco, è quella già espressa in precedenza circa la mancanza di idee proprie e il conseguente affidarsi troppo a musiche composte dai suoi soci. Musiche che non sempre si rivelano all’altezza. Qui il brano poi è tutto scritto da Raymond, con i risultati che ci si possono attendere. Decisamente meglio il brano successivo, una perla degna del miglior Crosby, composta in tandem con la Stevens, sicuramente più vicina a quell’ottica musicale di cui sopra. Il brano, che è quello che titola il disco, è una splendida composizione premiata dallo scarno accompagnamento quasi acustico che splende di luce propria nonostante la presenza di Tavaglione e Raymond. Il lato A si chiude con Sell Me a Diamond, inferiore alla title track ma graziato dagli ispirati contributi di Pevar alla solista e di Leisz alla pedal steel.

Il lato B è aperto da Before Tomorrow Falls On Love composta in coppia con Michael McDonald, è una ballata pianistica molto raffinata in cui spicca particolarmente la voce inintaccata del titolare. Segue Here It’s Almost Sunset scritta col bassista Mai Agan e aperta di nuovo dall’inutile sax di Tavaglione; molto meglio Capitol, canzone politica scelta anche come singolo di lancio del disco: un po’ sovrarrangiata, ma ben strutturata: è una canzone di spessore che ci restituisce il Crosby barricadero che spara a zero sul governo (“And the votes are just pieces of paper, and they sneer at the people who voted”), il tutto con le chitarre di Dean Parks (elettrica), Steve Postell (acustica) e Greg Leisz (pedal steel). A chiudere facciata e primo disco c’è la cover di Amelia, grande brano di Joni Mitchell: la versione è all’altezza, niente sax, solo Croz con Leisz e Raymond, per una rilettura fedele all’originale.

Con Somebody Home inizia invece il secondo disco, si tratta di un brano a firma del solo Crosby, atmosfere ancor più rarefatte, chitarra acustica, bell’organo (Cory Hensry) e non male neppure il piano elettrico (Justin Stanton), peccato anche qui per l’uso dei fiati (qui ci sono altri musicisti al posto del vituperando Tavaglione) che ammazzano un po’ tutto il disco. Il brano sembra comunque l’ultimo momento di interesse del disco, che va spegnendosi perdendo interesse con la successiva Curved Air (musica firmata da James raymond), una scontatissima sambetta decisamente inutile in un disco di questo artista capace – e lo ha dimostrato a più riprese – di ben altre risoluzioni a livello sonoro. Peccato. Non è meglio Home Free vittima a sua volta di quell’eccessiva raffinatezza che sembra voler supplire ad una generale mancanza d’idee.

La quarta facciata del disco riprende She’s got To Be Somewhere e Here It’s Almost Sunset e viaggia però a 45 giri. Una scelta, quella dei brani, che non sembra propriamente avveduta.

A Varedo la seconda edizione della Fiera del Disco

di admin

2 marzo 2018

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Il prossimo 11 marzo, presso l’Oratorio della Chiesa “Maria Regina”, in Via Friuli, 18, a Varedo (MB) Frazione Valera, si svolgerà la seconda edizione della Fiera del Disco. come sempre, ingresso libero, e la possibilità di scambiare dischi e CD con gli espositori.
orario: dalle 10.00 alle 19.00
INTERVENITE NUMEROSI!