Archivio di dicembre 2019

MICHAEL JEROME BROWNE – That’s Where It’s At!

di Paolo Baiotti

30 dicembre 2019

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MICHAEL JEROME BROWNE
THAT’S WHERE IT’S AT!
Borealis Records 2019

Michael Jerome Browne proviene dalla vivace scena canadese. Vincitore di tre Folk-Music Awards (nel 2015 come cantante tradizionale, nel 2012 e 2008 come artista solista), per ben 32 volte nominato ai Blues Awards canadesi, è un polistrumentista e cantautore molto considerato nell’ambito della roots music. Nato a South Bend in Indiana, si è trasferito da bambino a Montreal con la famiglia entrando a far parte da adolescente della scena folk locale. Impegnato anche come session man e collaboratore, ha lavorato spesso con Eric Bibb sia in studio che dal vivo, producendo il suo Migration Blues, candidato al Grammy.
Michael ha alle spalle una decina di dischi sempre per la Borealis tra i quali Sliding Delta del 2015, un tributo al blues rurale e Can’t Keep A Good Man Down che raccoglie brani dai primi album a partire da Drive On, esordio del 2001.
That’s Where It’s At, finanziato da una campagna di crowfunding, è focalizzato sulla connessione tra blues e soul, con l’inserimento di un paio di spirituals originali e qualche blues degli anni sessanta affiancati a tracce di Stevie Wonder, Sam Cooke e Al Green, completati da qualche brano autografo, il tutto eseguito in modalità acustica e stringata, evidenziando il finger-style di Jerome, protagonista assoluto alla voce, chitarra, banjo e armonica, con l’aiuto di John McColgan alle percussioni e delle voci di Harrison Kennedy, Eric Bibb e Roxanne Potvin.
Lo strumentale Don’t Ask Me Why apre il disco mischiando venature funky e jazz, seguito dal blues Black Nights in cui spiccano la calda voce soul e la slide di Browne. Se Skeletons di Stevie Wonder ne mantiene l’andamento funky-soul, lo spiritual Pharaoh, ripreso dalla versione della cantante Sidney Carter, si giova della presenza dell’esperto Harrison Kennedy, mentre Eric Bibb offre il suo inconfondibile aiuto in Everybody Ought To Treat A Stranger Right, blues di Blind Willie Johnson. In tutto il disco si respirano passione, cultura, rispetto e conoscenza della materia, che consentono di interpretare con efficacia anche tracce che sembrano meno legate al tema, come la ballata Louisiana 1927 di Randy Newman.

JUSTINE VANDERGRIFT – Stay

di Paolo Baiotti

26 dicembre 2019

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JUSTINE VANDERGRIFT
STAY
JustineVandergrift.com 2019

Giovane cantautrice canadese residente a Calgary di origine olandese, Justine ha pubblicato tre albums prima di questo Stay, avendo esordito con Yes Alright Ok, seguito da So Far…e Sailor. Ha avuto i primi approcci con la musica in chiesa, partecipando a un coro e poi imparando a suonare il piano. Dopo il periodo universitario, dal 2011 si è dedicata completamente alla sua passione. La voce ricorda cantautrici come Tracy Chapman, Patty Griffin e Susanne Vega, il suono ha una base folk con influenze soul e country, puntando decisamente sulla melodia, lasciando un’impressione di sincerità e purezza non ancora compromessa dall’industria musicale. Justine non cerca soluzioni particolarmente complesse; le sue canzoni sono semplici e lineari, prevalentemente elettriche, con le chitarre di Russell Broom e Joey Landreth, la pedal steel e il dobro di Mitch Jay, le tastiere di Brendan Waters e la sezione ritmica di Corbett Frasz e Chris Byrne che danno il giusto supporto, senza l’intenzione di primeggiare. Nei concerti alterna composizioni originali a covers che fanno capire le sue influenze, da Wild World di Cat Stevens (che ha anche inciso in studio su So Far…) a Country Roads di John Denver, da I Still Miss Someone (Johnny Cash) a Cold Cold Heart (Hank Williams), da Our Town (Iris Dement) a varie canzoni di Patsy Cline.
Stay, sostenuto da una campagna di crowfunding su Kickstarter e inciso negli studi OCL di Calgary con la produzione di Josh Rob Gwilliam, è un disco breve (nove canzoni per circa trenta minuti) aperto dall’omonimo primo singolo, una canzone sciolta e orecchiabile di presa immediata, seguita da American Dream, un country-pop un po’ scontato ingentilito dalla presenza della pedal steel, dalla ballata elettroacustica Anymore e dal riuscito mid-tempo country-blues Crazy Enough che mi ha ricordato Bring It On Home To Me, con il piano di Jenie Thai in evidenza. Nella parte centrale dell’album le acustiche You Need Time e Under Your Shell (appena sfiorata dalla pedal steel) rafforzano l’indirizzo cantautorale di Justine, mentre Oh, Sister paga il debito con Bob Dylan, risultando l’unica cover in duetto con il cantautore canadese Joey Landreth (già componente dei Bros.Landreth e ora solista). Nel finale l’elegante Hold Your Head High e la mossa You’re Already There confermano le discrete doti di scrittura e di interpretazione della giovane cantautrice.

DIESEL PARK WEST – Let It Melt

di Paolo Baiotti

22 dicembre 2019

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DIESEL PARK WEST
LET IT MELT
Paolo Santo 2019

Veterani della scena alternativa inglese, i Diesel Park West provengono da Leicester e sono attivi dal 1980. Specialmente nella prima parte della loro carriera, che conta nove album in studio e varie interruzioni, sono stati ispirati dal sound della West Coast degli anni sessanta, molto apprezzato dal leader e cantante John Butler, da sempre quasi esclusivo compositore del quartetto. Della formazione originale oltre a Butler rimane il bassista Geoff Beavan, mentre il chitarrista Rich Barton si è inserito prima dell’uscita dell’esordio Shakespeare Alabama, prodotto da Chris Kimsey e pubblicato dalla Emi nell’89. Liquidati dalla label dopo il secondo album, hanno proseguito con etichette indipendenti ridimensionando le loro ambizioni, con qualche pausa e poche pubblicazioni in studio. Let It Melt esce a sette anni dal precedente disco con materiale nuovo e dopo il rientro di Barton nel 2014. Nel frattempo Butler ha inciso tre dischi da solista tra il ’97 e il 2017. L’attuale formazione è completata dal batterista Robert Morris.
Dunque Let It Melt sembra quasi una ripartenza o comunque la volontà di riaffermare la propria presenza, nonostante il passaggio del tempo. Come recitano in Scared Of Time “le mie braccia e le mie gambe non si muovono come una volta…i miei capelli e la mia pelle non brillano come una volta”; tuttavia ci siamo ancora e siamo vitali, con la voglia di suonare, dimostrata pienamente tra i solchi di questo album che, più che il suono californiano dei Love o dei Moby Grape, sembra riagganciarsi al rock sporco dei Rolling Stones o dei Mott The Hoople. In particolare The Golden Mile ha un debito evidente nei confronti di Let’s Spend The Night Together e in generale il modo di cantare di Butler ricorda le inflessioni di Jagger. La stradaiola opener Let It Melt ha un tiro notevole corroborato da una slide efficace, mentre Pictures In The Hall richiama certe atmosfere dei Kinks. La strascicata Everybody’s Nuts, la stonesiana Living In The UK, non priva di critiche alla società britannica e la trascinante Bombs Away mantengono alto il ritmo e l’attenzione, seguite dalla bluesata You Got The Whole Thing Wrong in cui chitarra e piano duettano amabilmente.
Butler ha dichiarato: “penso che non siamo riusciti in nessun altro momento della nostra carriera a incidere un album come questo. C’è qualcosa di definitivo che esprime quello che siamo adesso. E’ veramente l’album più vero che abbiamo pubblicato”. Di sicuro è un buon disco di rock and roll, che si ascolta con gusto e divertimento.

THE STRANGLERS – Venaria Reale, Teatro della Concordia, 2/12/2019

di Paolo Baiotti

8 dicembre 2019

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Dopo qualche anno gli Stranglers sono tornati a calcare i nostri palchi con tre date a Bologna, Roma e Venaria presso Torino. La gloriosa e veneranda band inglese, nata a metà degli anni settanta a Guildford (il nome originario era Guildford Stranglers), dopo avere acquisito una certa popolarità nel circuito del pub-rock è entrata a far parte della scena punk, pubblicando quattro album di grande impatto e successo, specialmente in patria, tra il ’77 e il ’79: il travolgente esordio Rattus Norvegicus, No More Heroes, Black & White e The Raven che lasciava intravedere un cambiamento di suono con un ammorbidimento e una maggiore complessità, una strada proseguita nei dischi successivi, ma con minore convinzione e un progressivo calo di ispirazione. Nel nuovo millennio il quartetto ha rilasciato tre dischi in studio, il più recente Giants del 2012, restando molto attivo dal vivo. Sono tuttora presenti due membri della formazione originale, Jean-Jacques Burnel (basso e voce) e Dave Greenfield (tastiere), ai quali si aggiungono Baz Warne (voce e chitarra dal 2000) e il giovane Jim Macaulay (batteria) che dal 2012 ha prima affiancato e poi sostituito Jet Black, il batterista originale che aveva 39 anni quando la band pubblicò il primo album e che si è definitivamente ritirato nel 2015 per motivi di salute. E’ chiaro che l’assenza rilevante è quella di Hugh Cornwell, voce principale e chitarra del quartetto originale, che se ne è andato nel ’90 per intraprendere una carriera solista non particolarmente significativa, come d’altronde quella della band senza di lui. Ma è anche vero, e il concerto torinese lo ha confermato, che la diversità e originalità del suono del gruppo si fondano sulle tastiere doorsiane e raffinate di Greenfield.

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Che senso ha un concerto degli Stranglers oggi? Vale il discorso di molte vecchie band…è prima di tutto una questione di nostalgia da parte del pubblico (non certo giovanissimo, almeno dalle nostre parti) che vuole risentire le canzoni che ha amato in passato e una questione finanziaria per i musicisti. Ma c’è anche la voglia di dimostrare di essere ancora vitali e di emozionarsi, come hanno dimostrato i quattro inglesi, in ottima forma e non legati del tutto al lontano passato, visto che metà delle 20 canzoni eseguite a Venaria provengono dai primi quattro dischi, ma le altre dieci ripercorrono le tappe successive con cinque episodi dagli album post 2000 che non hanno sfigurato.

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Dopo un set divertente dei Ruts DC, sopravvissuti dell’epoca punk/reggae quando si chiamavano Ruts, che ha ovviamente compreso i loro brani più conosciuti Jah War, Babylon’s Burning e Staring At The Rude Boys, gli strangolatori sono entrati in scena vestiti di nero, iniziando con due tracce da Norfolk Coast, la title track e I’ve Been Wild, seguite da Get a Grip dall’esordio. Tre tracce dure e aggressive, eseguite con professionalità e precisione, nelle quali sono emerse la batteria puntuale ed energica di Macaulay e le tastiere brillanti di Greenfield, in appoggio al basso pulsante di JJ e alla voce e chitarra di Baz, che nei brani vecchi ricorda le tonalità di Cornwell. Dopo la morbida Midnight Summer Dream e Time To Die, quasi interamente strumentale, il riff nervoso di Nice ‘n’ Sleazy ci ha riportato al terzo album Black & White, seguita dall’’avvolgente The Raven cantata (e in parte recitata) da Burnel. Nella parte centrale si sono susseguite tre ballate: il valzer Golden Brown (singolo n. 2 in Gran Bretagna nell’82), la scorrevole Always The Sun cantata con il pubblico e l’affascinante Don’t Bring Harry con JJ alla voce. L’energia di Nuclear Device, il basso nervoso e il ritmo spezzato di Peaches e l’eccellente cover di Walk On By (uscita come singolo nel ’78) in cui hanno avuto spazio solista la chitarra e le tastiere hanno preceduto il finale con due brani storici, Hanging Around e Tank. Il quartetto ha concesso un unico bis, No More Heroes, title track del secondo album, ad un pubblico sufficiente per presenza, ma probabilmente meno caldo che in altri paesi come Gran Bretagna, Germania e Francia dopo il gruppo ha un culto molto radicato.

A Cardano Al Campo la 9° edizione della Fiera del Disco e del CD

di admin

7 dicembre 2019

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Malpensa Vinile torna il prossimo 15 dicembre nelle sale del Novotel Malpensa Aeroporto, con la sua ricca messe di vinile, CD, DVD & so on.

Ingresso e parcheggio liberi, dalle 10 alle 18.

Il Novotel di Cardano al Campo (VA) è in Via Al Campo 99 – Uscita Cardano al Campo/ Ferno

Late presente, non mancate!

ROBERT RANDOLPH & THE FAMILY BAND – Brighter Days

di Paolo Crazy Carnevale

2 dicembre 2019

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Robert Randolph & The Family Band – Brighter Days (Provogue 2019)

Non c’è ormai dubbio, Robert Randolph va via via maturando: non che prima fosse acerbo, strumentalmente aveva dato ampie dimostrazioni di classe e abilità strumentale già dal primo disco “vero”, quello sotto la denominazione The Word, il supergruppo con i North Mississippi Allstars e John Medeski, un caposaldo assoluto della musica strumentale, del genere jam e, se vogliamo, anche di un certo modo di fare southern rock.

CI sono voluti un po’ di anni e un po’ di dischi da solista però per arrivare ad avere dei prodotti che stiano insieme anche senza dover andare a pescare ospiti titolati per attirare l’attenzione: se il precedente LP di Randolph, I Got Soul era stato una bella conferma dello status raggiunto come performer live, questo nuovo disco lo è ancor di più. Merito senz’altro della produzione mirata e ben costruita di Dave Cobb, che già pochi mesi prima era stato il gran rifinitore del gran disco della Marcus King Band. Anzi, personalmente trovo Cobb più idoneo a produzioni elettriche e per così dire di matrice rock-blues che non quando siede in regia per i cantautori di Nashville.

Nashville è però il suo locus operandi e quindi anche il disco di Randolph e famiglia è stato registrato nella città musicale del Tennessee.

Niente ospiti di grido, solo un coro di voci soul e la chitarra dello stesso Cobb, per il resto è tutta farina delle chitarre di Robert, della batteria del fratello Marcus, delle voci di Lanesha (la sorellona) e di Steven Ladsen, del basso suonato dal cugino Danyel Morgan, tornato in seno al gruppo, e delle splendide tastiere di Philip Towns.

Il risultato è uno dei dischi migliori dell’anno, che si gioca la palma con quello dei Long Ryders e quello delle Ace Of Cups (in realtà uscito a fine 2018).

Ovviamente a guidare le danze è sempre la pedal steel multisonora suonata dal leader di questa splendida famiglia musicale, Randolph si conferma sovrano nella padronanza di questo strumento, che suona con la stessa aggressività e pirotecnicità con cui Jimi Hendrix suonava la Stratocaster bianca che ben sappiamo. Non solo è in costante crescita anche a livello vocale.
Rock e blues, anzi, più che blues, soul: rock e soul. Questo è il termine giusto per definire la musica di Brighter Days.

La prima facciata è da urlo, cinque brani, uno dietro l’altro, col gruppo in tiro da battaglia. In apertura c’è già uno dei brani migliori, con la chitarra che si sbizzarrisce e l’organo che si infila dappertutto: si tratta di Baptise Me, cantato benissimo da Robert con la sorella Lanesha che gli mette a disposizione una voce intrisa di anima e cuore da manuale. Don’t Fight Me è invece un brano da combattimento bello e buono, di quelli utili per incendiare le esibizioni sul palco, pedal steel tiratissima, soprattutto nel finale, un boogie virato al funk come non è da tutti fare.

Poi, spiazzando tutti, Robert sfodera una versione da pelle d’oca di Simple Man, di Pops Staples, e l’atmosfera si rende più intima, la voce di Randolph è perfettamente a proprio agio con l’atmosfera e le chitarre (la sua e quella di Cobb) creano una situazione notturna impreziosita dal lavoro di Philip Towns al piano elettrico. Applausi. Come se non bastasse nel brano seguente, Have Mercy, sul tappeto di tastiere Robert duetta con Lanesha resuscitando immagini sonore di un country/soul/rock che temevamo perduto nelle pieghe dei primi anni settanta. La pedal steel è lancinante, il lavoro del basso eccellente quando fondamentale: il duetto tra i due fratelli ricorda quelli eccelsi di Delaney & Bonnie (altra coppia di parenti musicali a me molto cara).

Di nuovo applausi.

Poi, a chiudere la prima facciata, Cut Em Loose, brano più veloce, tosto e, soprattutto sempre molto ispirato.

La seconda parte (il vinile è color viola, bellissimo!) si apre con un piano che ricorda certe cose di Leon Russell, quello dei tempi d’oro: il brano è Second Hand Man, molto elettrico, corale, niente vocalizzi elettrizzanti ma grande dispiego di chitarre. Cry Over Me è invece una ballatona cantata dalla sola Lanesha. L’interpretazione è buona, sotto la voce si muovono piano e organo, Lanesha canta bene, forse il brano è un po’ ripetitivo, o forse solo troppo lungo. Soul pop, e ancora viene in mente Leon Russell (magari quando girava con Joe Cocker), è la matrice di I Need You, un’altra ballata struggente in cui Randolph alla voce duetta con la sua pedal steel, ben supportato dalle tastiere. È poi la volta di una bella cover di Little Milton, I’m Living Off The Love You Give: grande resa, molto solida, ben cantata con CObb alla ritimica in odor di Doobie Brothers e California w Randolph che spazia su tutto il manico della pedal steel. Più di maniera la finale Strange Train, sferragliante boogie cantato da tutti all’unisono, con una bella parte rallentata nel mezzo ed il basso in grande evidenza nell’incandescente parte finale.