Archivio di luglio 2015

PURE GRAIN – Indiana Sun

di Paolo Baiotti

30 luglio 2015

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PURE GRAIN
Indiana Sun
(2014 Sol Records)

Originari dell’Indiana, sono considerati una band emergente in ambito country/southern rock. Il loro è un rock morbido molto influenzato dal country con qualche reminiscenza di rock sudista. Possiamo accostarli alla Marshall Tucker Band, agli Allman Brothers più leggeri, ma anche a Zac Brown Band, Doobie Brothers, Lady Antebellum o ai Blackhawk. Il primo nucleo risale al 2002; in seguito a numerosi cambiamenti, del nucleo originale rimane il solo batterista Brian DeBruler.

Dopo una pausa di due anni ritornano nel 2008 con i nuovi Michelle Damico (voce e percussioni) e Courtney Damico (voce) incidendo Out Of The Storm comprendente il singolo Truckin’ Song che ha avuto un discreto airplay. In seguito si sono aggiunti il cantante e chitarrista Scott Siefferman e il bassista Tony Nasser, mentre il vecchio leader Chris Taber collabora ancora a livello compositivo.

Il nuovo album è stato registrato negli studi della Sol, etichetta fondata dal batterista DeBruler per aiutare le band del midwest, che pubblica anche la Dallas Moore Band. Indiana Sun è un disco vario e piacevole prodotto dall’esperto Bill Halverson (Stephen Stills, Reo Speedwagon, Beach Boys, Jack Bruce, CSN…), forse un po’ leggero e privo di grande personalità, ma pieno di brani che, se fossimo in un altro periodo, potrebbero essere potenziali hit radiofonici. Ad esempio l’accattivante opener Lie To Me scritta da Clint Walston, con una chitarra scorrevole e la voce piacevole di Siefferman in primo piano, la morbida elettroacustica Summer Song che scorre veloce ricordando gli Eagles dei primi dischi, la ballata New Dawn cantata da Courtney Damico e la corale Long Time Comin’ nella quale spiccano curati impasti vocali. In Perfect Time il ritmo si spezza senza esagerare con sfumature caraibiche, mentre The Blessing ha un’impronta sudista sia nella voce che nella chitarra e la conclusiva Higher Ground tonalità vocali che richiamano gli America, un accattivante tappeto di percussioni e una chitarra fluida, mai sopra le righe, che si distende nella coda strumentale del brano.

Indiana Sun è un disco di rock morbido e potenzialmente radiofonico, non un capolavoro, espressione di una band che ha basi solide e promettenti.

PETER OXLEY & NICHOLAS MEIER – Chasing Tales

di Paolo Crazy Carnevale

28 luglio 2015

oxley e meier chasing tales

PETER OXLEY & NICHOLAS MEIER
Chasing Tales
(MGP Records 2014)

L’avvertenza del popolare settimanale britannico “The Observer” è perentoria: “Non cadete nell’errore di liquidare questo disco come una raccolta di semplici cose da jazzisti o da chitarristi. Se amate la musica di qualunque genere probabilmente ve ne innamorerete”.

E certo, le definizioni di noi pennivendoli del pentagramma vanno prese sempre con le pinze – come insegnava Frank Zappa quando con un po’ di esagerazione soleva affermare che scrivere di musica è come danzare di architettura – però è anche vero che questo disco recentemente rilasciato dai due chitarristi inglesi Peter Oxley e Nicholas Meier ha quel quid che gli consente di piacere a platee più vaste di quelle più selettive dei jazzofili – alle quali il vostro scribacchino non appartiene di certo – o dei semplici cultori delle prodezze da chitarristi. E il genere non è neanche riconducibile troppo filologicamente alla fusion, quella cosa astratta che può essere definita ironicamente il “jazz per tutti”.

I due d’altronde vantano un curriculum vitae che lascia a bocca aperta: Oxley è sulla breccia da oltre vent’anni ed ha inciso ben quattrodici dischi a proprio nome, Meier, titolare di un proprio gruppo che ha diviso il palco con gente come Bill Evans e Brad Mehldau, al momento fa parte della band di Jeff Beck, e detto questo credo non serva aggiungere altro!

Il disco, composto, prevedibilmente, da dodici brani strumentali (undici composti dal duo in separata sede ed uno firmato dal turco Asik Veysel) è stato concepito, registrato mixato e pubblicato in un arco temporale molto breve, tre mesi, e vede i titolari dilettarsi in una serie di fraseggi passando da una chitarra all’altra, con effetti, senza, elettriche, chitarre jazz, acustiche, dodici corde, corde di nylon o d’acciaio, slide, fretless e molto altro, incluse incursioni di synth (talvolta indigeste al vostro recensore).

Ma non si tratta di una semplice vetrina di tecnica e di bravura, come dicevo in apertura. Il lavoro dei due è molto spaziale, sfiora momenti progressive ma, come si conviene alla fusion più interessante, non dimentica di farsi contaminare qua e là dall’elemento etnico, non come nel caso di altri artisti analoghi presentati in queste colonne (pensiamo agli indonesiani che incidono per la Moonjune), ma con riferimenti meno precisi eppure piacevoli, più quando ad essere esplorate sono le tradizioni musicali orientali che non quelle latine. Ecco quindi che un brano come Tales (la firma è qui quella di Meier) si innalza e pur nei soli cinque minuti scarsi della sua durata riesce ad inebriare e aprire un sacco di prospettive all’ascoltatore, come l’incipit acustico di Serene, lunga dissertazione strumentale quasi in odor di classica o ancora Riversides. Fino ad arrivare al brano turco che chiude il disco, quello di Veysel.

ROY HARPER – Man & Myth

di Paolo Crazy Carnevale

26 luglio 2015

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ROY HARPER
Man & Myth
(Bella Union 2013)

Ascolto questo disco da mesi, continua a piacermi allo stesso modo, mi piace la combinazione sonora con cui è stato realizzato, sempre tesa a mettere in evidenza i lunghi testi del vecchio cantautore britannico, mi piace la sua voce che non suona affatto come quella di un ultrasettantenne, mi piace la produzione.

Non ho mai frequentato la discografia di questo illustre signore, lo ammetto, ma è il bello dell’ascoltare musica. Non si può aver ascoltato tutto, e se lo si è fatto non lo si può aver fatto con la dovuta attenzione. Così si può sempre scoprire qualcosa di nuovo e soprattutto interessante. Io ho sempre preferito i lidi americani a quelli britannici, forse questo è il motivo. Ad accostarmi al disco in questione è stato il fatto che vi fosse coinvolto – producendo quattro dei sette brani e suonandovi – Jonathan Wilson. Il bello naturalmente è che il disco risulta comunque un signor disco, indipendentemente dal fatto che via sia dentro il mio beniamino.

Sette brani dicevo, pochi all’apparenza, ma se si va poi a vedere il dettaglio e si scopre che il primo e l’ultimo durano sette minuti ciascuno e il sesto supera il quarto d’ora, va da sé che di musica ce n’è in abbondanza.

L’apertura è subito di quelle che colpiscono bene, The Enemy è una gran canzone, ben strutturata, che si dipana per tutta la sua lunghezza con la voce importante di Harper che scandisce il testo come pochi sanno fare. L’arrangiamento poi è azzeccato e sottolinea l’incedere deciso del brano. Time Is Temporary è invece più intima, meno piena di musica ma nel suo essere scarna fa uscire bene la voce, la chitarra acustica e il banjo di Wilson. January Man, prodotta invece da John Fitzgerald e registrata in Irlanda, è anche molto raccolta, solo la voce e la chitarra, un basso lontano e una sezione d’archi che non invade. La sezione d’archi torna anche in The Stranger, registrata però a Los Angeles di nuovo sotto la direzione di Wilson, chitarre arpeggiate, la voce sempre protagonista, un mandolino, un’andatura in crescendo che conferma il buon momento creativo di Harper. Più rock invece l’ultimo dei brani prodotti da Wilson, Cloud Cuckooland, un’ottima canzone, dal refrain che acchiappa bene e con la partecipazione del vecchio amico Pete Townshend all’acustica e all’elettrica (in passato altre glorie avevano contribuito ai dischi di Harper, Jimmy Page in primis, Ian Anderson, Keith Emerosn, John Paul Jones, David Gilmour) sicuramente una delle cose più istintive del disco. Heaven Is Here è il brano da un quarto d’ora, Harper non è certo nuovo a queste durate, con la sezione d’archi, le chitarre cristalline protagoniste di un bel break intorno a metà brano, il cantato quasi etereo, ancora gli archi. Il finale è affidato a The Exile, ancora prodotto da Fitzgerald ma con un cameo di Wilson in coda.

LUCINDA WILLIAMS – Down Where The Spirit Meet The Bone

di Paolo Crazy Carnevale

24 luglio 2015

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LUCINDA WILLIAMS
Down Where The Spirit Meet The Bone
(Highway 20 Records 2014)

In controtendenza con la moda di pubblicare degli EP – dettata probabilmente dal sempre più imperante dominio del download rispetto al supporto digitale solido – Lucinda Williams ha sfornato, ormai lo scorso anno, un bel doppio di quelli di cui non si butta via nulla. Mica paglia, di artisti in grado di realizzare dischi del genere ce ne sono ormai pochi in circolazione e, lo dico subito a scanso di equivoci, questo è uno dei dischi più belli che mi sia capitato di ascoltare negli ultimi tempi, per quanto riguarda le novità.

Un disco di canzoni e di chitarristi, sì perché quello di cui sto raccontandovi è un disco che offre una ventina di solide composizione suonate con le chitarre sempre in bella evidenza. Le canzoni sono quasi tutte a firma della titolare, salvo quella iniziale in cui Lucinda divide la paternità della canzone, Compassion, con l’accademico genitore e quella conclusiva, una cover della Magnolia di J.J. Cale. Le chitarre, molte, sono innanzitutto quelle di Greg Leisz che è anche il produttore del disco: con elettriche, pedal steel e acustiche, Leisz conferisce a questo doppio una serie di sonorità eccellenti che entrano rapidamente sottopelle e non ne vogliono più uscire. Ma poi ci sono quelle degli ospiti, tutti molto attenti a non strafare e a non rubare la scena alla Williams, ma tutti comunque riconoscibilissimi, da Bill Frisell a Jonathan Wilson, fino al veterano Tony Joe White.

Non so se sia giusto affermare che questo è il più bel disco di Lucinda, non ne conosco moltissimi, ma tra quelli che ho avuto modo di ascoltare non ho dubbi sulla sua superiorità qualitativa. Il disco inizia con l’acustica Compassion, da un cui verso è ripreso il titolo del CD, l’accompagnamento è scarno ma la voce è fantastica, ricca di tutto quanto si potrebbe chiedere ad una voce: sfumature, intonazione e soprattutto tanta anima!

A seguire arriva Protection, e arriva anche l’accompagnamento elettrico che nel terzo brano, Burning Bridges, beneficia della presenza di Jonathan Wilson con la sua sei corde protagonista di un break fantastico che si sviluppa sulla granitica ritmica fornita da Pete Thomas (degli Attractions) e Davey Faragher (Crackers), presenti in gran parte del disco. East Side Of Town è più leggera, ma molto piacevole e a duettare splendidamente con Leisz c’è la chitarra di Stuart Mathis mentre seduto magistralmente al piano wurlitzer abbiamo Ian McLagan, in una delle sue ultime session (l’ex Faces è mancato tre mesi dopo l’uscita del disco). West Memphis è il primo brano in cui compare Tony Joe White che inserisce qua e là il suo classico tocco, cosa che farà in maniera ancor più evidente nel brano che apre il secondo disco, l’ossessiva e imponente Something Wicked This Way Comes, un blues torrido. Tornando al primo CD si distinguono particolarmente ancora Foolishness, con McLagan al piano, la ballata Stand Right By Each Other e It’s Gonna Rain con Bill Frisell a duettare con Leisz e Jakob Dylan a duettare nel finale con la Williams in un abbinamento vocale molto azzeccato. Nel secondo disco ci sono di nuovo alcuni interventi del tastierista britannico (Walk On e Temporary Nature) ma va riconosciuto che anche l’altro tastierista presente in studio, Patrick Warren, fa la sua parte, sia all’organo che al piano. Si passa da slow blues a ballate rock a tutto tondo a brani dal refrain ossessivo, passando per virate al country (come nel caso di This Old Heartache, in cui Leisz si sbizzarrisce con la pedal steel) e addirittura per valzeroni come Stowaway In Your Heart e Cold Day In Hell (sul primo dischetto, con tanto di cori gospel ad opera di Doug Pettibone e Gia CIambotti). Il finale è apocalittico, la Williams si impossessa di Magnolia e la fa sua, strascicata, immensa, lunga (siamo intorno ai dieci minuti), mentre Leisz e Frisell fanno viaggiare le chitarre consolidando una partnership già sperimentata con successo nei dischi di Frisell.

Sono oltre cento minuti di musica, roba che potrebbe stufare. Eppure è più forte di me, quando il disco finisce, lo faccio ripartire.

JP & THE TOUGH CHOICES – Home Is Where The Hurt Is

di Paolo Crazy Carnevale

19 luglio 2015

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JP & THE TOUGH CHOICES
Home Is Where The Hurt Is
(Cow Island Music 2014)

Country. Null’altro. JP Harris preferisce che la sua musica venga indicata semplicemente così. Senza ricorrere a ulteriori definizioni coniate da chi deve scrivere e la musica non la fa di persona. Ed effettivamente è così, noi scribacchini tendiamo a voler definire a tutti i costi quello che i musicisti fanno, talvolta inventando termini che dicono poco o niente.

Attenendoci al desiderio di JP Harris di essere country e basta, bisogna però osservare che il termine country – almeno all’ascoltatore cisatlantico – può suonare fuorviante e il pensiero finisce col volare ai suoni di Nashville, da sempre un po’ ostici alle nostre orecchie. Eppure JP e i suoi Tough Choices questo sono. Ammetto che non mi sarei mai accorto di loro se non mi fossi imbattuto in un loro concerto lo scorso marzo al SXSW di Austin e posso dirvi che pur non avendo visto tutti gli artisti ivi convenuti per l’occasione, trovo azzeccata la definizione di Rolling Stone che ha inserito quello del gruppo come uno dei 21 live-act da non perdere assolutamente al SXSW.

Originario del sud, la solita immancabile Alabama, Harris è però cresciuto nel west, California e Nevada, e la sua musica sembra aver assorbito in toto le varie influenze musicali, gli stili e gli stilemi del country, da quello più tradizionale a quello venato di rock. Il risultato è folgorante, questo suo disco – il secondo – è sicuramente tra le cose più interessanti in cui mi sia imbattuto negli ultimi tempi, suonato bene, moderno, ricco di suoni (le chitarre sono sempre misurate ma si mescolano in maniera spettacolare, acustiche, elettriche, pedal steel: nessun mostro sacro nel gruppo, ma tutta gente che evidentemente ha imparato e mette a frutto gli insegnamenti).

Harris, barba da mormone e tatuaggi che spuntano dappertutto, ha una felice vena compositiva e in questo disco la ha affinata per bene, ha anche una voce originale e adattissima alla musica che fa, riuscendo a passare da punte di lirismo totale a toni baritonali talvolta richiesti dalla struttura dei brani. E il risultato è perfetto.

Give A Little Lovin’ è un ottima partenza, dimostra subito quale sia la pasta di cui Harris e soci siano fatti, le coordinate geografiche sono dirette, da Bakersfield a Nashville e ritorno, in soluzione di continuità, senza scordare le lezioni di gente come Buck Owens, Cash e Parsons (la title track dal testo struggente e Maria, che apre il lato B del vinile sembrano uscite da un disco dei Flying Burrito Brothers). Every Little Piece è un valzerone che sembra invece arrivare direttamente dai solchi di un disco dell’uomo in nero ed è ricco di spunti per i chitarristi. Ma non solo richiami alla musica altrui: il pregio di Harris e dei suoi Tough Choices è proprio quello di brillare di luce propria ed ecco quindi la deliziosa South Oklahoma, Old Love Letters dedicata ad un vecchio amore: “Stanotte ho tolto la tua foto dal muro – canta Harris – l’ho bruciata insieme ad alcune vecchie lettere, ma non mi pare che questo mi faccia sentire meglio. Almeno però non c’è nulla in giro che mi ricordi te…Perché le canzoni d’amore mi fanno sempre piangere?”

One Day Everyday viaggia musicalmente in territori honkytonk e anche qui i chitarristi (Adam Meisterhans, Chanve Mc Coy e Brett Resnick) hanno modo di sbizzarrirsi. Truck Stop Amphetamines sposta l’asse verso il Texas, è una canzone più intima, raccolta, eseguita quasi in punta di piedi e i riferimenti sembrano essere l’immenso Townes e Lovett. La chiusura è in chiave rockabilly – c’è persino il sax di Steve Berlin – ed è affidata alla tirata Young Women And Old Guitars, altro brano immediato e di ottima fattura che è la conferma definitiva della bontà del disco. Fidatevi, non ho esagerato nel tessere le lodi di questo artista…

JOHN STRADA & THE WILD INNOCENTS – Live In Rock’a

di Paolo Crazy Carnevale

16 luglio 2015

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JOHN STRADA & THE WILD INNOCENTS
Live In Rock’a
(JS 2011, 2 CD)

Che bisogno c’è di un clone di Bruce Springsteen? La risposta viene da sé se si è amato il vecchio Boss, cosa che è successa al sottoscritto, e non si riescono a digerire le sue produzioni da metà anni ottanta in poi (sempre il sottoscritto), allora un clone come John Strada serve, eccome.

A parte tutto, questo autentico rocker sanguigno della bassa padana, di Dodici Morelli per l’esattezza, negli anni ottanta/novanta era noto tra i suoi compaesani come Springsteen Sedici (tanti si supponeva fossero i cloni del Boss che stavano in fila prima di lui), ora, in tempi meno sospetti, in anni in cui la concorrenza non è più così spietata, Springsteen Sedici è nel frattempo divenuto John Strada e, da solo o accompagnato da band con tanto di nome proprio come gli Small Town Rockers o i Wild Innocents – il richiamo a Bruce è palese –, ha messo in pista diversi CD.

Questo doppio dal vivo uscito un paio d’anni fa e registrato nella sua zona, alla Rocca (da cui il titolo del disco) di Cento, è un bel sunto della sua ispirazione del suo essere votato per missione alla diffusione del verbo rock – come viene eloquentemente raccontato nella traccia 7 del secondo disco di questo live intitolata …e furono una band – con più che un occhio di riguardo nei confronti di Springsteen. Eppure, per quanto le cover di Growin’ Up e Born To Run siano sorprendentemente ricalcate sugli originali, la vera forza del disco sono i brani originali, cantati da Strada con convinzione e suonati dai suoi Wild Innocents con un piglio fantastico e con gli strumenti giusti. Particolarmente indovinate sembrano Eccomi qua, Sempre di più, Signora Rina dedicata evidentemente al prototipo della vicina di casa impicciona, Ci deve essere un errore e le ottime Sabbie mobili, ben costruita, e La storia è fatta di notte.

Meno indovinata la barricadera Cohiba di Daniele Silvestri, un po’ lontana dalle corde di Strada, buona per l’idea di fare un brano che non può non richiamare certe cose di Gang e Modena City Ramblers, ma Cuba è lontana anni luce dalle strade polverose del rock’n’roll. Non male Come Together, anche se quanto a cover a Strada vengono meglio quelle di Springsteen.

Ma sono peccati che si possono perdonare quando uno vive e canta il rock’n’roll in maniera così sanguigna e verace, cosa che allo stesso Springsteen originale non viene più così bene da anni…

From Sweden With Love…

di Ronald Stancanelli

14 luglio 2015

Riceviamo dalla svedese Hemifram, una società distributrice di ottima musica, un po’ di CD di autori noti e meno noti, ma che riteniamo possano essere graditi dai nostrri lettori. Per saperne di più (il sito Internet è anche in inglese) potete sintonizzarvi sul sito: www.hemifran.com

Di seguito, le prime recensioni, a cura di Ronald Stancanelli. (More in the way…)

GOOD LOVELESS

THE GOOD LOVELIES
Burn The Plan
2015 Good Lovelies In Association With Six Shooter Records

Ritmato e pregno di ampie armonie con finanche sfumature reggae questo CD di tre ragazze canadesi di Toronto che si fanno chiamare The Good Lovelies. Tredici brani per chi apprezza gli impasti di voci e in special modo quelli femminili. Trio folk che nel 2010 con l’album omonimo vinse il premio Juno, nel 2011 con Let’s The Rain furono sempre nominate per lo stesso premio e nel 2012 col Live At Revolution ebbero ottimi punteggi negli Awards Folk canadesi. Adesso con Burn The Plan, Caroline Brooks, Kerri Ough e Susan Passmore assieme ad altri sette musicisti propongono un piacevolissimo lavoro che riempie di gioia e leggiadria facendosi ascoltare con grande piacere. Tutti i brani a loro firma compresi i quattro scritti assieme al chitarrista Les Cooper che presta chitarra elettrica, acustica e mandolino a questo incantevole CD da lui prodotto. Ardente la copertina!

Annie Keating - 'Make Believing' - cover (300dpi)

ANNIE KEATING
Make Believing
2015 Autoprodotto (8th Street Studios) BMI

Annie Keating è una esecutrice-cantautrice di Brooklin che grazie all’album Make Believe ha aumentato la sua reputazione e notorietà musicale negli Stati Uniti con questo disco di genere country/americana. Questa informazione troviamo in rete su questa cantautrice che scopriamo oggi grazie a questo CD ricevuto per parlarne anche da noi. Scopriamo che oltre ad avere una bella voce è anche molto brava nel finger-picking e nelle undici canzoni che compongono questo suo lavoro la direzione presa abbraccia più stili; dal sound bluesato di I Want To Believe al countryrock di Sunny Dirt Road, dalla ballata cadenzata di Foxes al ritmo sincopato di Sink Or Swim. Splendida la ballatona Just Up Ahead che ricorda lo stile della canadese Ferron, come la sfolgorante Coney Island in odore di Tom Russell o Rosie Flores. Gran bel disco, piacevolissima voce, canzoni che affascinano al primo. ascolto. Vivamente consigliato.
Tutti brani a sua firma come lo stesso dicasi per la produzione, in questo caso assieme al bassista Jason Mercer, ex del gruppo di Ani Di Franco, presente nel disco con anche altri strumenti tra cui il mellotron! Bellissima l’immagine di copertina della ruota panoramica di Coney Island, Wonder Wheel.

AstridYoung

ASTRID YOUNG
One Night At Giant Rock
2014 Autoprodotto

Vendela Astrid Paterson Young è la sorellastra di Neil utilizzata da lui come corista in varie occasioni. Quello che non sapevo era che la stessa fosse autrice di ben tre album a suo nome, 1995, 2002 e 2015 e due con il gruppo glam-metal dei Sacred Child, 1986 e 1997, oltre a un album accreditato al gruppo degli Ist del 2002 ove, oltre a cantare, suonava il basso. Questo One Night At Giant Rock parte maluccio con i primi tre pezzi decisamente insipidi, poi recupera un po’ con The Nerve, solido rock e con Your New Drug e Why Run When You Can Hide, ballatone di maniera. Diremmo comunque che già il peso di un cognome così pesante certo non aiuta e poi mettendoci anche la leggerezza di un album oserei dire inutile si può tranquillamente passare oltre. Il brano Patchouli Boy è spudoratamente copia di Don’t Let Me Down dei Beatles, forse un omaggio si spera, chissa! Un velo pietoso anche sulla copertina.

whitehorse

WHITEHORSE
Leave No Bridge Unburned
2015 Six Shooter Records

I Whitehorse sono un duo canadese dal suono caratterizzato dalla totale assenza di batteria o percussioni. Questo dato trovato sul loro sito mi fa sorridere, considerando che Melinda McClelland e Luke Doucet per la prima volta prodotti da Gus Van Go e che si avvalgono dello stesso Van Go al basso hanno nel novero dei musicisti coinvolti ben quattro, dicasi quattro batteristi coinvolti, ma si sa il mondo è bello perché vario quindi ben vengano ‘ste notizie che tramortirebbero ogni recensore di buona volontà! Ottimo il brano iniziale Baby What’s Wrong? che introduce in un album di notevole impatto e grandi ritmie nel quale la fa da padrone la bella voce della Melinda e in odore di desert western movie molto belle anche Tame As Wild Ones, Evangelina e The One I Hurt, questa cantata con Doucet. Intensi e bravissimi i musicisti coinvolti. Uscito a febbraio per la Shooter Records il CD, il loro quinto, si presenta con un’allegra cover disegnata. Furono nominati nell’anno 2013 ai Polaris Music Prize che sarebbero gli Award canadesi, come disco dell’anno ed è di questi giorni che lo sono di nuovo anche per questo ultimo piacevolissimo album che mi ricorda il duo ora scioltosi dei Civil Wars.

Gallup-Ghost2015

ANNIE GALLUP
Ghost
2015 Gallway Bay Music

Annie Gallup, parentela coi panettoni piemontesi?, è una cantautrice di Ann Arbor, Michigan, che con questo Ghost tra album singoli e col gruppo delle Hat Check Girl è al quindicesimo lavoro, il primo del 1994. Album piacevole con 11 brani di cui nove suoi e due cover tra cui la nota Rock, Salt And Nails di B.U.Phillips portata al successo da Steve Young nel 1969. La signora oltre a cantare suona banjo, dobro chitarra e ukulele aiutata dal bassista Peter Gallway che produce il CD con lei, da Gabe Witcher al violino e da David West al mandolino ed è anche impegnata spesso col teatro in piece teatrali da lei create. CD molto pacato, a tratti un po’ lento ma sicuramente un bell’album di musica d’autore che si chiude con la piacevole Caledonia di Dougie MacLean. Se dovessimo fare un parallelo con artista similare ci viene in mente Mary Mc Caslin. Cervelloticamente astrusa e scomoda la confezione del CD in cartonato che si apre in varie parti creando gran confusione per seguirne i dati.

Bill Gable

BILL GABLE
No Straight Lines
2015 Idle Speculation Music

Bill Gable è un cantautore e produttore multistumentista americano. Questo suo terzo lavoro No Straight Lines è stato principalmente scritto in un itinerario musicale tra Spagna, Portogallo e Marocco che l’artista ha recentemente compiuto ed è indubbiamente influenzato da dette culture musicali, anche se in questo percorso assoggettato anche a striature jazz ricorda moltissimo i primi Loggins & Messina. Una marea di musicisti collabora con lui che compone e scrive tutti i brani producendo e mixando il tutto. CD che si lascia ascoltare con piacevolezza, è lavoro molto caratterizzato dalla sua accattivante voce che sembra un misto tra Kenny Loggins e James Taylor anche se a tratti forse troppo crooner. Jazz oriented la foto di copertina.

Slowman

SLOWMAN
Happy Boy
2014 Autoprodotto

Slowman ovvero Svante Torngren è un cantautore svedese che oltre a scrivere tutti i dodici brani di questo CD e aver suonato le chitarre e l’armonica, si è avvalso dell’aiuto di Mats Lundstrom alle tastiere, Jan Enegard al basso e di Stefan Rosen alle percussioni e batteria ottenendo un album di chiara impronta cantautorale americana(!). Ove il nostro amico dotato di una eccellente voce percorre sentieri di nobile cantautorato. Album decisamente in sintonia con quello che da sempre i lettori di Late amano, ovvero ampie ballate ben suonate e ben cantate dove il pathos espresso dall’autore colpisca profondamente gli animi degli ascoltatori. Cosa che accade puntualmente in questo CD di gentili e liquide armonie.

JERRY JEFF WALKER – No Leavin’ Texas 1968 1982/The Classic Jerry Jeff Walker

di Ronald Stancanelli

12 luglio 2015

J J WALKER

JERRY JEFF WALKER
No Leavin’ Texas 1968-1982/The Classic Jerry Jeff Walker

Doppio antologico album di Jerry Jeff Walker distribuito dalla IRD dal lungo titolo di NO LEAVIN’ TEXAS 1968 – 1982 THE CLASSIC JERRY JEFF WALKER che in trentanove canzoni estrapolate da quindici album diversi e addirittura ben sei etichette differenti sviscera e racchiude una buona parte, diciamo la crema della sua straordinaria carriera. Molte le cover tra le quali spiccano straordinari pezzi dell’amico Guy Clark e ovviamente pezzi suoi.

Una lunga carriera quella di JJW costellata di tanti successi e molti album di cui alcuni veramente di culto, due su tutti i caposaldi Viva Terlingua e Mr. Bojangles.
Sicuramente non notissimo nel nostro paese è stato però molto vicino a venirci a suonare un paio di volte anche se poi all’ultimo le opportunità purtroppo sono naufragate.

Artista schietto e genuino, sicuramente schivo e riservato è sempre stato additato assieme a Townes Van Zand come padre putativo da tanti artisti texani e non che li hanno identificati un puro simbolo della musica cantautoriale texana.
Questa raccolta dalla scaletta strepitosa permette a chi lo conosce di riascoltare in nuova sequenza una pletora di pezzi noti ma sempre molto molto piacevoli mentre è occasione per i neofiti di conoscere un personaggio che al di la della mera bravura è artista vero dai toni sicuri e ben delineati. Quindi impedibile occasione per addentrarsi nel suo mondo musicale.

Citare un brano a scapito di un altro sarebbe riduttivo e fuori luogo dato il considerevole valore di tutti nessuno escluso anche se quando un pezzo reca la firma di Clark qualcosa nell’animo dell’ascoltatore si accende maggiormente.

JESSE DAYTON – Jesse Sings Kinky

di Paolo Crazy Carnevale

11 luglio 2015

Jesse dayton - jesse sings kinky

JESSE DAYTON
Jesse Sings Kinky
(Stag Records 2012)

L’ebreo chicagoano Kinky Friedman, naturalizzato texano, autentico maestro dell’umorismo ebraico applicato alla canzone d’autore e in seguito alla letteratura pulp con una serie di romanzi di cui è lui stesso protagonista, con ampi riferimenti alla “sua” musica e ad i suoi importanti amici (da Dylan a Willie Nelson), ha già beneficiato di un bel tributo diversi anni fa, quando prima del giro di boa del terzo millennio uscì Pearls In The Snow, un quasi auto tributo visto che il CD era uscito sulla label Kinkajou, l’etichetta dello stesso Kinky. Per l’occasione vi si erano dedicati amici e cultori della musica di Kinky ed il risultato era stato decisamente interessante.

Ugualmente riuscito, interessante, ma di tutt’altra natura è questo tributo realizzato dal singer/songwriter Jesse Dayton, personaggio molto attivo sulla scena di Austin, frequentatore di gente come Nelson, Jennings, Glen Campbell, produttore (recentemente si è occupato del disco del Supersucker Eddie Spaghetti), titolare di dischi in proprio e componente del “supergruppo” occasionale texano El Trio Grande (insieme all’ottimo Mike Stinson e a John Evans); Dayton ha avuto la ventura di interpretare il ruolo di Friedman in un musical dedicato al “jewboy” (come lo stesso Kinky si definisce giocando sul suo essere una sorta di cowboy e sulle sue origini ebraiche). Va da sé che in questo frangente Dayton abbia familiarizzato con lo stesso Kinky e col suo repertorio, arrivando alla decisione di dedicargli il proprio nono disco, questo Jesse Sings Kinky appunto, che ci offre dieci belle riletture di brani tratti dai primi quattro dischi di Friedman.

Il risultato è decisamente notevole, innanzitutto per la bontà delle interpretazioni vocali di Dayton che cerca di cantare come l’ebreo ma ha una voce decisamente più ricca di tonalità e sfumature. Poi gli arrangiamenti, per quanto molto lineari sono ben fatti, studiati con gusto, merito dei tecnici del Casa Studio e del Red Horse Studio, entrambi locati ad Austin.

Dayton dà voce ad intense interpretazioni di brani come Autograph, una delle migliori composizioni di Friedman, Nashville Casualty And Life, Sold American, particolarmente struggente è l’abito sonoro con cui è stata rivestita in punta di piedi Marilyn & Joe, dedicata alla storia della Monroe e Di Maggio, Twirl è in odor di cajun, ma a riportare tutto a casa, laddove la fisarmonica apre il brano spingendolo verso la Louisiana, ci sono delle chitarre e degli urletti da rodeo che tirano invece verso il Messico, con risultati eccellenti, tanto che anche la fisarmonica ad un certo punto sembra voler seguire le chitarre. Highway Cafè è un’altra delle belle ballate di Kinky è nella rilettura di Jesse Dayton sembra diventare un valzerone da posada. E anche Wild Man Form Borneo, ancora ricca di belle chitarre (suonate dallo stesso Dayton) che sviluppano arpeggi e soli su un tappeto di Hammond B-3. La chiusura è affidata alla classica Silver Eagle Express, con ancora Dayton alla sei corde, stavolta elettrica ad interagire con una pedal steel suonata da Nathan Fleming, e chiusura più indicata non poteva esserci per un disco che a lungo andare conquista sempre più, mostrando l’ottima pasta di cui Jesse Dayton è fatto.

GAELLE BUSWEL – Black To Blue

di Ronald Stancanelli

8 luglio 2015

GAELLE

GAELLE BUSWEL
Black To Blue
Organic/IRD 2014

Black to Blue è il secondo album, autoprodotto, della parigina Gaelle Buswel che si avvale dell’aiuto di alcuni amici operanti appunto nell’ambito della capitale francese. Il più noto per noi che lo seguiamo da innumerevoli anni è sicuramente Elliott Murphy che oltre a scriverle la title track regala la sua voce in Nobody Knows You e canta assieme a lei e Neal Black e JC Pagnucco una strofa di The Weight, l’indiscusso capolavoro di Robbie Robertson. In una recente intervista Elliot ha detto che più che un collaboratore nel suo disco, lui si sente un fan della Buswel esortando chi ne avrà l’opportunità di andarla sentire dal vivo poiché ne resterà sicuramente soddisfatto.

In questi anni la cantante grazie alla sua bravura e innata simpatia ha conquistato una miriade di fan in tutta Europa grazie a oltre cinquecento concerti che hanno fatto di questo cd, che ha visto la luce con l’ormai diffusa moda del fan che lo sovvenziona anticipatamente, un successo magari insperato ma sicuramente meritato. Dei quattordici brani che lo compongono dieci sono a sua firma, alcuni cofirmati, e sono caratterizzati dalla bella voce della cantante che riesce a essere molto credibile sia nelle ballate che possono virare al blues che nei brani più roccheggianti con tinte di pop e venature di soul.

Sicuramente decisivo il lavoro alla chitarra elettrica di Michael Benjelloun per un disco che si fa ascoltare con gran piacere e che le rende pieno merito considerando la fatica fatta per ottenerlo. Un album di piacevoli melodie con ospiti che lo nobilitano, da non sottovalutare anche l’ottimo lavoro a batteria e percussioni di Jimmy Montout e i decisivi interventi di Laurlan Daire al piano, all’organo e al Wurlitzer. Piccoli ma fondamentali interventi anche di mandolino e pedal steel. La Buswel che si definisce musicalmente figlia degli anni settanta e di conseguenza cresciuta con la musica migliore mai prodotta ci regala un album, distribuito dalla IRD, di estrema piacevolezza che non esitiamo a consigliare. Molto bella infine tra chiari e scuri la di lei foto usata per la copertina che la vede solare e sorridente come in tutte le altre foto di questo digipack che gira ancora piacevolmente nel nostro lettore.

THE DEEP DARK WOODS – Jubilee

di Paolo Crazy Carnevale

7 luglio 2015

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THE DEEP DARK WOODS
Jubilee
(Sugar Hill 2013)

Cercando di scoprire qualcosa – ma non troppo, per non togliermi il gusto della sorpresa – su questa band e su questo suo secondo disco, leggo che qualcuno ne parla associandoli a Neil Young e qualcun altro tirando in ballo The Band. Si parla anche di Tindersticks, ma questi li conosco solo di nome. Sarà perché sono canadesi. E difatti l’ascolto di questo fantastico, e sottolineo fantastico, doppio album uscito alla fine del 2013 è di quelli che premiano le orecchie, il cuore, la mente. Non voglio essere esagerato, ma il disco convince davvero appieno. Certo, i canadesi tirati in ballo da altri recensori ci stanno comodamente, forse più Neil che gli altri, ma bisogna ammettere che l’uso delle tastiere a volte ricorda davvero la Band. Young è più facile ritrovarcelo tra i piedi, sarà per via delle voci e di certi riff, ma è anche vero, riconosciamolo a questi Deep Dark Woods, che ci mettono anche molto del loro. Le canzoni si fanno piacere quasi tutte, sono tredici in tutto, talvolta anche molto lunghe, e gli intrecci delle chitarre (acustiche, elettriche e pedal steel) con le tastiere sono davvero trascinanti, da manuale. A questo punto è opportuno spendere un po’ di parole sulla musica: infatti la casa discografica e i nomi di Young e The Band potrebbero trarvi in errore. Siamo al cospetto di un gruppo che fa musica moderna, molto anche, pur traendo ispirazione dal passato, con sonorità per nulla scontate, non è infatti un caso se in cabina di regia come produttore troviamo quel Jonathan Wilson il cui nome è ormai una certificazione di bontà come in altre ere lo sono stati quelli di Jimmy Miller, Glyn Jones o Joe Boyd, beninteso in generi diversi.

A cantare sono in due, Chris Mason e Ryan Boldt (entrambi pluristrumentisti del gruppo, ma soprattutto impegnati alle chitarre e al basso), azzardare una paternità vocale ad ogni singolo brano è difficile però avendo come unico riferimento la firma dell’autore, uno ricorda più Young l’altro esibisce certe enfasi vocali che a me ricordano addirittura Bryan Ferry. Comunque sia il risultato finale fa stare tutto perfettamente in equilibrio e il disco è davvero di quelli che si lasciano ascoltare a lungo, coinvolgendo, ammaliando, scaldando il cuore quando fa freddo.

Le canzoni, dicevo prima, sono quasi tutte di notevole livello, il primo lato contiene subito una serie di belle prove: 18th of December, Picture On My Wall e soprattutto l’ottima Red Red Rose, un country-folk moderno in cui le tastiere di Geoff Hilhorst (che usa davvero ogni diavoleria possibile, dal Wurlitzer al mellotron, dal paino all’organo, alla celeste) ricordano davvero lo stile di Garth Hudson.

Il lato B è quello meno penetrante, ma il disco si ripiglia con l’ultima traccia, la terza, una gran bella East Saint Louis. Il secondo vinile della confezione riserva molte sorprese, non solo per quanto riguarda le canzoni ma anche a livello stilistico, quattro brani su un lato, tutti considerevoli, con una chiusura assai intrigante che si intitola Bourbon Street e che, a dispetto del titolo, musicalmente non ha nulla a che vedere con la Crescent City: gran chitarre, ancora una volta, e tastiere penetranti, il tutto per una canzone che sembra uscita da Notorious Byrd Brothers dei Byrds. Due le tracce sulla quarta facciata di questo giubileo, sei minuti per la delicata The Beater, con chitarre acustiche e pedal steel in bella evidenza, ben dieci minuti per la traccia conclusiva, The Same Thing, in cui le tastiere diventano pura psichedelia, con la voce di Boldt che si dipana cantando su un insistente riff quasi mutuato dai Grateful Dead ma che non si concede mai alla citazione pura e semplice. Certo, se non avessero ascoltato la musica degli anni settanta e probabilmente senza la produzione di Wilson, i Deep Dark Woods forse non avrebbero fatto un disco come questo, o forse anche sì. A chi può importare quando un disco è tanto bello?

Vinile In Villa

di admin

7 luglio 2015

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Domenica 12 luglio, presso Villa Sormani a Mariano Comense, in Via Palestro 2, si svolgerà una interessante Fiera del disco e del CD, organizzata dall’Associazione Culturale Rock Paradise, in collaborazione con il Comune di Mariano Comense.

L’ingresso è libero, il parcheggio anche, e gli organizzatori invitano il pubblico a portare i propri dischi per un possibile scambio con gli espositori presenti.

Un’altra ghiotta occasione per vinilare, il miglior antidoto al caldo.

Altre informazioni su www.villasormani.it

DAYNA KURTZ – Rise And Fall

di Ronald Stancanelli

5 luglio 2015

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DAYNA KURTZ
Rise And Fall
Appaloosa/IRD 2015

Dayna Kurtz è un mio vecchio pallino e regolarmente ogni volta che viene in Italia o per un motivo o per l’altro non riesco ad andare a sentirla, lo stesso dicasi quando il mese scorso si è esibita a Vicenza. Adesso, ricevuto per recensione dalla IRD che distribuisce il suo ultimo lavoro, vedrò di rifarmi almeno con le orecchie considerando che per la vista bisognerà attendere la prossima occasione, sperando questa volta di riuscire a sfruttarla!

Un suo disco straordinario che consigliamo fu Another Black Feather del 2006 con la quale l’avevamo scoperta ma detto cd era il quarto della sua discografia e poi ne sono usciti ben altri quattro, oltre a due EP, compreso questo che adesso abbiamo tra le mani, Rise and Fall contenente anche un cd bonus con ulteriori cinque pezzi.

La prima sorpresa aprendo il digipack è che i testi nel libretto sono sia in inglese che in italiano facendole subito meritare una eccelsa nota di merito. Su quindici brani ben dieci portano la sua firma e la produzione è a lei affidata assieme a Randy Crafton. La Kurtz suona la lap steel guitar e il banjo mentre Robert Mache il mandolino, Peter Vitalone l’organo, Dave Richards il basso e non vi è batteria! Con la sua voce sospesa tra blues, soul e gospel la Kurtz propone un lavoro con due iniziali brani d’amore, It’s how you hold me e You’re not what I need e un altro d’impronta liturgica, Raise the last Glass dal testo drammaticamente attuale : “Se Gesù ritornasse scuoterebbe la testa mentre cerchiamo i dispersi e contiamo le vittime e direbbe che non abbiamo sentito quanto aveva detto…” che si erge come brano guida di questo suo nuovo cd. Eccezionale anche If I go first, straordinaria ballata musicalmente in stile dilaniano ma con un testo che sembra uscire dalla penna del miglior Bubola.

Per il resto i testi continuano a solcare i mari dei sentimenti personali mentre la sua partecipazione è sempre molto intensa come lancinante a tratti il suo modo di cantare. Cd di enorme intensità magari da evitare di ascoltare quando si è leggermente depressi. In tono col contenuto la copertina di Caroline Hwang .

CHARLEY OVERBEY & THE BROKEN ARROWS – The California Kid

di Paolo Crazy Carnevale

4 luglio 2015

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CHARLEY OVERBEY & THE BROKEN ARROWS
The California Kid
(C.O./Notorious Pie 2015)

Non so da quanto sia in pista questa band californiana dell’area di Los Angeles, certo i suoi componenti non sono certo dei novellini ma hanno comunque uno spirito fresco e la loro musica ha tutte le carte migliori per portarli alla ribalta: Overbey, col nome di Kit Ashley, si è fatto le ossa come cantante in una metal band degli anni novanta, i Big Bang Babies, ma con questo suo gruppo attuale il suo sound ha virato decisamente verso altri lidi, chitarre acustiche ed elettriche, pedal steel e tutto il resto, in una miscela accattivante che attinge alla scuola dei cantautori più ruvidi e nello stesso tempo a quella della west coast classica. La voce di Overbey ed il suo songwriting colpiscono dritto al cuore, con una carica davvero notevole ed i Broken Arrows sono una bella band che lo asseconda alla perfezione come i Dukes facevano con Steve Earle, gli Heartbreakers con Tom Petty e via dicendo.

Ho avuto la fortuna di imbattermi in questo gruppo lo scorso marzo al SXSW di Austin (dove il gruppo si è esibito per dieci concerti nel corso di una settimana e Overbey da solo ha suonato a ben sette showcase mattutini!), apprezzandoli dapprima sul palco, constatandone e apprezzandone la carica, e di seguito ho adorato il loro EP in vinile acquistato al concerto: sei brani a 45 giri, tutti belli, alcuni ottimi.

Il brano che apre il lato A è subito da colpo di fulmine, è quello che intitola l’EP e ha un giro di chitarra che entra subito in circolo e ne esce solo perché nel disco ci sono altre ghiottonerie che fanno lo stesso effetto sull’ascoltatore. Che siano brani più tirati o ballate, le canzoni di Overbey hanno quel quid che le rende vincenti, e pazienza se questo genere musicale non l’ha inventato lui, la lezione l’ha imparata molto bene… La seconda canzone è più lenta, I’m In Love Again è il titolo, e viene introdotta dall’acustica e dalla pedal steel affidata a quel Jordan Shapiro che ha suonato nei Supersuckers (e non è un caso se nei ringraziamenti di Overbey figura anche Eddie Spaghetti), 1975 è un’altra ottima composizione che fa il paio con la title track ed è tra quelle che fanno maggiormente presa all’ascolto. Il secondo lato è più tranquillo, si fa per dire, inizia comunque con del buon tiro grazie a I Will Have Danced, poi si procede con Damn That Train, il brano più lungo del disco, dall’incedere cadenzato in crescendo che conquista ascolto dopo ascolto. Ma quando ormai pensiamo di sapere che cosa aspettarci da Overbey e dai suoi Broken Arrows (il richiamo al brano di Neil Young non sembrerebbe nemmeno troppo fuori luogo) ecco che il disco si chiude con una struggente ballata lenta, le chitarre spariscono all’improvviso e oltre alla voce del leader sentiamo solo le tastiere suonate da Jonah Smith, il piano contrappuntato da un tappeto d’organo, e sul finale entra pure il violino di Paul Cartwright a rendere ancor struggente questa Sweet Baby Blues.

Temo non vi sarà facile recuperare questo vinile ma non lasciate nulla d’intentato, ne sarete più che deliziati!