Archivio di aprile 2019

BEN BEDFORD – The Hermit’s Spyglass

di Paolo Crazy Carnevale

22 aprile 2019

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BEN BEDFORD – The Hermit’s Spyglass (Cavalier/IRD 2018)

Non conoscevo assolutamente questo barbuto songwriter americano, e la copertina spartana, con altrettanto spartane note mi diceva solo che il disco è tutto opera sua, suonato, composto e cantato in assoluta solitudine. Va da sé che non volendomi fare influenzare cercando notizie ulteriori sul disco mi sono buttato nell’ascolto e basta.

Sorpresa! Che signor disco questo The Hermit’s Spyglass, una raccolta di brani cantati e strumentali totalmente acustici (poteva trattarsi anche di uno di quegli autori alla Prince o Jonathan Wilson, che si suonano tutto da soli), decisamente gradevoli, ben concepiti e altrettanto ben eseguiti. L’eremita del titolo a questo punto non può che essere lui stesso, il titolare, che se ne vive in solitudine col suo gatto, Darwin, nella sua fattoria sperduta nelle praterie dell’Illinois, concependo piccoli gioielli come quello di cui stiamo appunto parlando. Bedford non è alla sua prima esperienza, ci sono almeno quattro altri dischi prima di questo, ed è già stato acclamato come un erede di Dylan, Townes Van Zandt, John Prine. Ora, forse tutta questa acclamazione può sembrare fuori luogo, eccessiva, ma il Bedford è davvero un soggetto a cui dedicare attenzione. Magari Prine e Dylan non c’entrano più di tanto, piuttosto ci trovo delle similitudini con Bruce Cockburn (che non è sicuramente da meno), soprattutto per l’uso della voce e per la capacità con la chitarra. Lo scorso anno è stato anche uno dei vincitori del Kerrville Folk Festival, autentica pietra miliare tra le storiche manifestazioni musicali texane.

Quello che importa però, al di là dei paralleli e dei paragoni è il contenuto del disco, undici tracce, alcune decisamente riuscite, altre, magari, troppo brevi per brillare da sole, ma teniamo pur sempre conto che si tratta di un disco concepito come un progetto, come una storia della prateria, la storia del girovagare di Bedford e del gatto. Se composizioni come Morning Rise (cantata) o The Hermit’s Cat (strumentale) sono appunto degli sketches di breve durata, altre sono decisamente autentiche piccole perle che sarebbe un peccato trascurare.

Little Falcon è invece già una canzone di tutto rispetto, molto bella, le fa seguito lo strumentale Larkspur Awakes (tutt’altro che interlocutorio) e più avanti brillano in particolare un altro brano cantato intitolato Coyotes (qui l’influenza di Cockburn è quanto mai evidente), davvero sorprendente, come anche lo strumentale The Mule And The Horse, assolutamente ben costruito, con una notevole padronanza dello strumento. Più intimista è invece Moon And March End, di nuovo cantata, e sulla stessa lunghezza d’onda è Thunderstorm. Morning Conversations, meno di un minuto e mezzo è cantata e racconta dei dialoghi tra il gatto e gli uccelli, di cui il felino pare conoscere il linguaggio. Il finale è affidato ad un ultima creazione strumentale struggente, Quiet on The Green Hill, vagamente folkie, avvincente, bella insomma.

Chapeau!

JOSHUA BRITT – Starting Over In A Storm

di Paolo Crazy Carnevale

15 aprile 2019

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JOSHUA BRITT – Starting Over In A Storm (Appaloosa 2019)

Non poteva mancare: dopo i dischi solisti dei suoi due colleghi negli Orphan Brigade, l’Appaloosa ha pubblicato, all’inizio dell’anno il disco da solo di Joshua Britt. Il discorso potrebbe essere complesso, o forse no, però ci permette di tirare le conclusioni una volta per tutte su questi tre artisti.

Si suol dire che non sempre la somma di tre talenti corrisponda al valore reale dei tre, in genere quando musicalmente si mettono insieme dei nomi ed il risultato è inferiore alle aspettative (ricordate la Souther-Hillman-Furay Band?). Gli annali della musica rock sono pieni di tali esempi. Con questi musicisti il problema è inverso. Tre discreti cantautori, chi più chi meno dotato (Ben Glover è quello messo meglio, mentre Neilson Hubbard è il più accreditato in sede di produzione) che messi insieme riescono ad incantare con un progetto ricco di spunti, idee e suggestioni.

Singolarmente però la storia suona differente.

Se il disco di Glover poteva anche essere carino, quello di Hubbard uscito poco dopo stentava a passare la sufficienza: Britt ne resta al di sotto. Non basta la produzione di Hubbard (che in altri frangenti si è rivelato capace e talentuoso produttore, ma una cosa è produrre le canzoni di una fuoriclasse come Mary Gauthier, altra è cavar qualcosa dalle sonnacchiose composizioni di Britt) a fare di questo CD un prodotto interessante: il suo sound neo folk è decisamente da catalessi.

Non vi è un guizzo, uno stimolo a cercare di approfondirne la conoscenza, dopo tre brani sembra aver già detto tutto, non basta il suono Farfisa della quarta traccia, Summer Heat’s On (cantata con un piglio un po’ più pimpante), a risvegliare l’ascoltatore dal torpore. Ed il secondo ascolto non cambia l’impressione. Ci sono troppi bei dischi (vecchi o nuovi) in circolazione per perdere tempo con questo.

Forse, se i tre “Orfani” non ci arrivano da soli, i loro consulenti musicali potrebbero provare a far capire loro che la loro magia si accende quando lavorano insieme e che pubblicare in due anni tre dischi da solisti e due come band intasa ed inflaziona il mercato, oltre a lasciare l’ascoltatore con l’amaro in bocca.

MICHAEL McDERMOTT – Out From Under

di Paolo Crazy Carnevale

15 aprile 2019

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Michael McDermott – Out From Under (Appaloosa/Pauper Sky 2018)

A tamburo battente. Michael McDermott non cede di un centimetro, di cose da dire deve averne tante e uscito dalle sue varie dipendenze, rinato artisticamente pare avere l’urgenza di pubblicare senza troppi indugi tutto quello che sta uscendo dalla sua penna e dalla sua chitarra. Mentre sto scrivendo queste righe sul disco uscito lo scorso anno ne è già nei negozi uno nuovo. Tutti pubblicati dalla sua etichetta personale, Pauper Sky, titolo di un’ottima canzone incisa con i Westies (il progetto parallelo alla carriera solista) nonché nome dello studio chicagoano di casa sua, e in esclusiva per l’Europa per l’Appaloosa.

Questo Out From Under conferma il buono stato di salute di McDermott, undici tracce con storie di America profonda, quella delle lunghe strade perse nel nulla con stazioni di servizio che ricordano quelle viste in decine di film, dal bogartiano La foresta pietrificata in poi, ma anche le periferie più degradate e povere. McDermott, accompagnato dai soliti fedeli amici (dalla violinista Heather Lynne Horton al tastierista John Deaderick e al polistrumentista Will Kimbrough), fin dalla prima traccia lascia subito segni graffianti: Cal-Sag Road si apre con atmosfere desertiche, quasi fosse la colonna sonora di un film commentato musicalmente da Ry Cooder, con un testo che è un film a sua volta, un po’ pulp, un po’ hard boiled, coinvolgente; tanto quanto la successiva e acustica Gotta Go To Work, altro drammatico ritratto di quell’America lontana dai lustrini e dai sorrisi patinati, una storia da classe operaia incazzata. La stessa America cantata, sempre senza mezzi termini in Knocked Down un talking rock dalle inflessioni dylaniane con implicazioni sicuramente autobiografiche che raccontano il fondo toccato nei momenti più bui.

Sad Songs racconta della voglia di scrivere storie più allegre, una voglia che rimane però tale, come dice il titolo stesso di questo brano che musicalmente è molto debitore alla scuola di Johnny Lyons, in arte Southside Johnny. Il pessimismo regna anche in This World Will Break Your Heart, ma nella title track ecco la svolta, la volontà di farcela è il tema conduttore di questa song dall’andamento quasi western in cui il protagonista (l’autore) si rivolge così alla propria amata: “Svegliami da questo torpore crudele e insensato, per vivere una vita di amore, luce e stupore, oh so che un giorno riemergeremo”.

Celtic Sea, sembra la prosecuzione del brano precedente, con i due amanti che davvero ce la fanno, sulle note di una chitarra acustica che poi esplode in un arrangiamento più corposo, con le tastiere ben calibrate ed un sound che continua ad aggirarsi dalle parti di Asbury Park. Più qualunque il testo della scanzonata (anche musicalmente) Rubber Band Ring, mentre Never Goin’ Down Again sembra voler ribadire il concetto che i tempi duri sono terminati, con un refrain che suona proprio come un inno. Sideways, è un altro lungo racconto che pare rifarsi all’autobiografia di McDermott, poi, in conclusione troviamo l’elegiaca invocazione di God Help Us, lenta, rarefatta, essenziale: una preghiera.

ELVIN BISHOP’S BIG FUN TRIO – Something Smells Funky ‘Round Here

di Paolo Crazy Carnevale

9 aprile 2019

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ELVIN BISHOP’S BIG FUN TRIO – Something Smells Funky ‘Round Here (Alligator 2018)

Il nome del gruppo dice tutto: una formazione con cui, soprattutto, Elvin Bishop si diverte a suonare. E alla grande.

Il chitarrista californiano (di nascita), è sulla breccia dalla fine degli anni sessanta e di strada ne ha fatta tanta, ha macinato note su note diventando uno dei chitarristi blues dalla pelle bianca più credibili; in anni lontani ha calcato gli stessi palchi di gente come Michael Bloomfield e Allman Brothers Band, si è persino meritato una menzione nel testo di un brano arcinoto di Charlie Daniels all’epoca in cui il suo filone musicale era orientato verso il southern rock più classico ed era accasato (discograficamente) presso l’etichetta Capricorn.

Nel corso di una lunga carriera ha sfornato una ventina di dischi ed ora ha appena pubblicato la sua terza fatica per la Alligator, la seconda attribuita a questo Big Fun Trio che oltre a lui comprende anche il tastierista Bob Welsh e Willy Jordan che si occupa delle percussioni, nella fattispecie del cajòn.

Welsh è uno stretto collaboratore del chitarrista, suona con Bishop da una decina d’anni e cinque CD, ed ha un discreto curriculum alle spalle, va però da sé che il pezzo forte del trio è Elvin, con la sua voce e la sua grande chitarra.
Questo Something Smells Funky ‘Round Here, registrato e mixato in California allinea una decina di brani per lo più composti dai tre componenti (in solitudine o in stretta collaborazione), con l’aggiunta di qualche azzeccatissima cover ripescata nello sterminato songbook del blues.

Il risultato è un suono robusto e ben strutturato, nonostante la formazione si basi praticamente su chitarre, tastiere e cajòn (c’è solo un cameo del fisarmonicista Andre Thierry nella conclusiva My Soul): la prestazione vocale di Bishop (coadiuvato dal percussionista) è assolutamente di buon livello e le chitarre ruggiscono con grinta, sia quando sono suonate normalmente, sia quando le corde vengono strapazzate dal bottleneck.

L’inizio è affidato alla canzone che intitola il disco, un buon lancio, ma il decollo è affidato alla seconda traccia, una ripresa della (Your Love Keeps Lifting Me) Higher And Higher di Jackie Wilson che più riuscita non poteva essere, ricca di groove e passione. Altra cover che incontriamo è Another Mule scritta da Dave Bartholomew, mentre tra i brani originali spiccano Stomp, con una notevole e agguerrita slide e Looking Good un ottimo blues recitato, lento, con gran pianoforte e soprattutto grande chitarra, con Bishop impegnato in una sorta di autobiografia in musica. Da menzionare assolutamente anche la ripresa di I Can’t Stand The Rain (Ann Peebles) con un dispiego d’organo davvero avvincente.

JAMES MADDOCK – If It Ain’t Fixed, Don’t Break It

di Paolo Crazy Carnevale

9 aprile 2019

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JAMES MADDOCK – If It Ain’t Fixed, Don’t Break It (Appaloosa 2018)

Ad appena un anno dal precedente e molto interessante Insanity Vs. Humanity, il rocker britannico di casa negli Stati Uniti torna a colpire con un nuovo disco, un disco dall’approccio molto più virato verso il rock’n’roll rispetto a quel prodotto che ci aveva colpito per l’originalità e la varietà musicale.

Questa nuova uscita non è male, assolutamente, ma convince molto meno, sembra più uscita dall’urgenza di mettere in pista le nuove canzoni che da una reale idea musicale. Maddock ha ormai una nutrita discografia alle spalle e i riferimenti a certe cose dello Springsteen migliore sono più che mai evidenti in questa ennesima fatica, molto più che sul disco del 2017, però si avverte una certa tendenza a ripetersi, le composizioni sono buone ma sembrano un po’ ripetersi.

La band che lo accompagna è naturalmente quella rodata e affiatata che già conosciamo, con le tastiere di Ben Stivers ad imprimere un sound deciso al risultato finale e la sezione ritmica formata da Drew Mortali al basso e Andrew Comess alla batteria che macina molto bene nelle dieci tracce in cui compaiono come ulteriori ospiti solo le voci di Joy Askew e Shannon Conley.

L’inizio è di forte impatto con la solida Discover Me, mentre la virata verso un rock con pianoforte honky tonk della successiva No Love In Our Love non è troppo riuscita.

Assolutamente più riuscita la cover di Loretta, il brano di Townes Van Zandt qui rivisitato in chiave molto veloce e originale, peccato che l’avessimo già ascoltata lo scorso anno sul doppio tributo al cantautore texano prodotto da Andrea Parodi proprio per la medesima Appaloosa.

Ain’t Leaving My Girl For You è un passo indietro, un po’ melensa, anche nei suoni; il disco riprende quota con la sferragliante Knife Edge, un continuo crescendo costantemente sorretto dall’organo suonato da Stivers, qui perfettamente inserito nel ruolo.

Calling My People è invece uno scanzonato incalzante boogie che però con i suoi oltre sette minuti di durata, risulta a lungo andare monotono nonostante i cambi di andatura tra la strofa ed il refrain (per altro accattivante). A seguire Music In The Stars, una ballatona in cui non tutto funziona alla perfezione a livello sonora in cui gli archi sintetizzati stridono eccessivamente, non va meglio con Don’t Lie To Me troppo fifties con un piano alla Perry Como. Prima della conclusione c’è spazio anche per uno strumentale, Dad’s Guitar, dall’ispirazione vagamente surf che ricorda lontanamente Merrel Fankhauser, poi per il finale Maddock e soci tornano ad essere all’altezza della situazione con la breve Land Of The Living che oltre ad un buon tema musicale con la chitarra del titolare finalmente in bella mostra, mette in pista anche un testo meno qualunque, tra riflessione ed ironia, nella scia di quanto ci aveva fatto apprezzare il disco precedente.

JOHN MAYALL: La storia del blues a Fontaneto D’Agogna.

di Paolo Baiotti

7 aprile 2019

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JOHN MAYALL: LA STORIA DEL BLUES A FONTANETO D’AGOGNA.

Sabato 30 marzo il Phenomenon di Fontaneto D’Agogna, nei pressi di Borgomanero, ha ospitato l’ottava e ultima data italiana del tour europeo di John Mayall, il decano del blues inglese.
A 85 anni, compiuti il 29 novembre del 2018, John non solo continua a pubblicare con regolarità (quattro dischi in studio e uno dal vivo negli ultimi sei anni), ma si sottopone a tour che artisti molto più giovani faticherebbero a sopportare. Quello in corso prevede 40 date in 48 giorni in 14 paesi. Inoltre l’artista tutte le sere prima del concerto vende personalmente al banco del merchandising i suoi dischi e subito dopo, senza riposarsi un attimo, si mette a disposizione per autografi e saluti. Evidentemente ha deciso di suonare finchè le forze lo sostengono ed è uno dei motivi del rispetto e dell’affetto del pubblico che lo ha accolto con un’ovazione quando è salito sul palco del locale, completamente esaurito.

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Un po’ piegato, ma vitale e lucido sia nel suonare che negli intermezzi parlati nei quali ha infilato qualche battuta fulminante dimostrando una notevole ironia, Mayall si è diviso tra hammond, suonato solo nel primo brano Dancing Shoes, piano elettrico e chitarra (rettangolare e leggera, un modello ad hoc costruito per lui), senza trascurare l’armonica. A parte qualche esitazione con la chitarra si è disimpegnato egregiamente, sempre in piedi, aiutandosi con un quaderno per ricordare i testi delle canzoni. La scaletta varia ogni sera e non di poco: a Fontaneto ha eseguito due soli brani dal nuovo disco, The Moon Is Fool e It’s So Tough, ripescando chicche dimenticate come One Life To Live e lo slow A Dream About The Blues da Chicago Line dell’88. Un discorso a parte lo merita la band, a partire dalla collaudata sezione ritmica di Jay Davenport (batterista presente dal 2009) e Greg Rzab, formidabile bassista già con Otis Rush e Buddy Guy che, entrato nella band nel ’99, è uscito l’anno dopo per suonare con i Black Crowes e con i Gov’t Mule, ma è tornato in pianta stabile nel 2009. Per un certo periodo hanno suonato in trio, senza chitarra, poi Mayall ha deciso di assumere una nuova chitarrista, Carolyn Wonderland, texana di Houston, che ha già inciso una decina di dischi da solista o con The Imperial Monkeys. Una decisione che dimostra l’eterna voglia di rinnovarsi del bluesman e la sua innata capacità di trovare musicisti poco conosciuti da valorizzare, come ha fatto in modo clamoroso negli anni sessanta (Eric Clapton, Peter Green, Mick Taylor solo per citare i chitarristi) e anche in seguito (Coco Montoya, Walter Trout, Buddy Whittington e Rocky Athas in tempi più recenti). La Wonderland ha rivitalizzato la band, con la sua energia, la sua capacità di chitarrista fluida e grintosa e le doti vocali non indifferenti, tanto che ha cantato un paio di brani tra i quali la sua Two Trains, con un riff ispirato da You Don’t Love Me, tratta dall’album Peace Mill del 2011.

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Il concerto non ha avuto un momento di stanca, con particolari note di merito per il mid-tempo Dirty Water tratto da Stories, una traccia ecologista scritta da Buddy e Julie Miller, una scintillante Help Me (Sonny Boy Williamson), una lunga Chicago Line con spazio solista per la sezione ritmica e il bis Looking Back, una delle poche riprese dagli anni sessanta.

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Una serata che ha riproposto ancora una volta la magia del blues e il temperamento dell’indomito musicista originario di Macclesfield, che ha esordito con un singolo nel ’64 e che quindi sta festeggiando nel modo migliore 55 anni di carriera, sul palco e con il nuovo brillante album Nobody Told Me.

TWO TONS OF STEEL – Gone

di Paolo Crazy Carnevale

3 aprile 2019

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TWO TONS OF STEEL – Gone (Big Bellied/Two Tons Of Steel 2017)

Non si può dire che siano molto noti dalle nostre parti, ma i Two Tons Of Steel sono un’autentica Gloria locale della musica texana, in particolare dell’area tra San Antonio e Austin (ma si esibiscono con frequenza e gran seguito in tutto lo stato della Stella Solitaria, e sono arrivati anche in Europa). Sulla breccia da oltre vent’anni, capitanati dall’inossidabile Kevin Geil, un cantante dotato, buon compositore, i Two Tons Of Steel sono da qualche anno il prodigioso chitarrista mancino Will Owen Gage, il batterista Rich Alcorta e il contrabbassista Jake Marchese. La loro miscela musicale attinge a piene mani nel rockabilly, nell’honky tonk, nello swing e naturalmente nella visione tutta texana del country, soprattutto musica per divertirsi, per ballare, ma suonata davvero bene: perché la dimensione ideale per ascoltare questa band è quella live, magari in una sala da ballo dalle luci soffuse, con cowboy e cowgirl che ballano allacciati una slow ballad oppure si lanciano vorticosamente in un giro di swing, roteando sugli stivali col tacco, incuranti dell’età, giovani, meno giovani, anziani, anche bambini.

Ma anche su disco i Two Tons Of Steel rendono molto bene, la voce di Geil è adatta a tutte le occasioni, la chitarra di Gage fa il suo bel lavoro e la sezione ritmica funziona metronomicamente, per di più il chitarrista e il batterista forniscono anche delle ottime armonie vocali, che arricchiscono un lavoro dietro la cui consolle è seduto nientemeno che Lloyd Maines, mica uno qualunque.

L’inizio è subito un tuffo negli anni cinquanta, Shoulda Known Better pare composta da Geil con la mente rivolta ad un grande texano, Buddy Holly, uno dei padri assoluti del rock’n’roll, spesso presente anche nelle set list dei concerti dei Two Tons Of Steel. All Tied Up viaggia più o meno sulla stessa lunghezza d’onda, mentre Jumpin’ Tonight (composta dal gruppo con il vecchio Augie Meyers) riporta allo swing più indiavolato, ma forse anche un po’ più risaputo. Poi arriva una sequenza di ballate spaccacuore, in cui Kevin sembra essere specialista, ed emerge particolarmente qui la presenza nel gruppo del veterano della pedal steel Denny Mathis, già alla corte di titolati personaggi quali Bob Willis e di Willie Nelson e ora membro aggiunto dei Two Tons Of Steel. Gone, il brano che dà titolo al disco è notevole, con rimandi dylaniani, vede il produttore ospite al mandolino, perfettamente inserito tra la chitarra di Will Owen Gage e la pedal steel; meglio ancora Does Heaven Know, languida al punto giusto, e il capolavoro Surrender, che grazie ai suoi oltre quattro minuti si fa apprezzare a lungo e pienamente, assolutamente la perla del disco.

Count On Me (I’ll Let You Down) è più veloce, Can’t Get You Off My Mind conferma lo status compositivo eccellente del gruppo, con la sezione ritmica in grande forma, impegnata a sostenere un riff indiavolato su cui Kevin canta disperatamente mentre Gage si lancia in assoli venati di fuzz, non siamo lontani dai Los Lobos dei vecchi tempi, e l’impressione è confermata anche nella successiva Sweet White Van, tra le composizioni migliori del disco autentica vetrina per le evoluzioni della chitarra solista, e nella conclusiva Runaway Baby, un po’ meno tirata, ma costruita in maniera ipnotica, coinvolgente.

I Two Tons Of Steel sono molto più di una local band texana, provate ad ascoltarli e ve ne renderete conto immediatamente.

WILKO JOHNSON – La sofferenza del blues

di Paolo Baiotti

1 aprile 2019

Nel 2013 Wilko Johnson, chitarrista di Canvey Island nato nel 1947, fondatore con Lee Brilleax dei seminali Dr. Feelgood, band di pub-rock apprezzata sia dagli appassionati di blues che dai punk-rockers, sembrava spacciato. Gli era stato diagnosticato un tumore terminale al pancreas, incurabile con la chemioterapia e non operabile. Wilko reagì da vero guerriero, continuando a suonare e pubblicando nel marzo 2014 un album con Roger Daltrey, Going Back Home, salito al n.3 in Gran Bretagna, il suo più grande successo dopo il clamoroso n.1 di Stupidity, il disco dal vivo dei Dr. Feelgood del 1976. L’anno dopo un oncologo gli disse che forse, con un’operazione invasiva di dieci ore, sarebbe sopravvissuto. Wilko ha affrontato l’operazione, gli è stata asportata una parte rilevante di stomaco e intestino oltre al pancreas, ha superato un lungo periodo di convalescenza e poi ha ripreso a suonare, ovviamente con qualche pausa in più, ma con immutato entusiasmo, passione e amore per la sua professione, pubblicando Blow Your Mind nel 2018.

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Influenzato da Mike Green, il chitarrista di Johnny Kidd & The Pirates, il mancino dell’Essex ha perfezionato uno stile che gli ha consentito di suonare ritmica e solista allo stesso tempo, emergendo nei Dr. Feelgood con un suono semplice, energico, secco ed essenziale ravvivato da assoli brevi e rabbiosi, muovendosi di continuo sul palco. Lasciata la band nell’aprile del ’77 per dissidi musicali con il cantante e armonicista Lee Brilleaux, ha formato i Solid Senders, diventati Wilko Johnson Band, ha suonato con i Blockheads di Ian Dury, poi è tornato alla carriera solista con un altro Blockhead, il bassista Norman Watt-Roy. La sua attività è proseguita senza squilli, ma la stima e il rispetto nei suoi confronti sono rimasti inalterati da parte di un fedele zoccolo duro di appassionati.

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Il concerto di sabato 23 marzo a Castelceriolo nel Cinema Macallè, un locale a due passi da Alessandria che ricorda gli anni sessanta e che l’anno scorso ha ospitato i Blasters grazie alla dedizione di Salvatore Coluccio, animatore di una realtà di provincia che resiste miracolosamente in questa Italia in cui le istituzioni ignorano la cultura, è stato un evento per gli appassionati delle zone limitrofe e non solo. Piemontesi, lombardi e liguri hanno riempito il locale per ascoltare Wilko, il fedelissimo Watt-Roy e il batterista Dylan Howe (figlio di Stevie, chitarrista degli Yes).

L’attesa è stata premiata quando il trio è salito sul palco un po’ tardi (come al solito), ma la serata ha avuto sviluppi imprevedibili. Vestito di nero, magro ed elegante, il chitarrista è apparso in buona forma con la sua Fender Telecaster rossa e nera (anche Mike Green suonava questa chitarra), senza l’ausilio dei pedali. La prima mezzora è filata liscia, a parte qualche problema tecnico, con una manciata di brani recenti come That’s The Way I Love You, Take It Easy e Marijuana e riprese da dischi più datati, If You Want Me You Got Me (da Barbed Wire Blues) e la reggata Dr. Dupree (da Solid Senders), mentre il pubblico si è scaldato particolarmente con il classico Going Back Home dei Feelgood, Wilko ha sfoggiato la solita essenzialità, più fermo di una volta (e ci mancherebbe…), ma sempre vivace e presente, seguito da una sezione ritmica pulsante con Howe puntuale e Watt-Roy che seguiva un suo copione mosso e sgraziato. A un certo punto il chitarrista è impallidito e si è accasciato lentamente, facendo segno di non stare bene. E’ accorso il manager, ci sono stati momenti di paura, lui ha cercato di tranquillizzare tutti mantenendo la calma, ma il concerto è stato sospeso per una ventina di minuti. Un’iniezione di insulina ha avuto l’effetto sperato…Johnson ha ripreso la chitarra, applaudito con affetto e la crisi è sembrata superata. Una certa stanchezza è emersa in Keep On Loving You e Roxette, la dilatata When I’m Gone e I Love The Way You Do non hanno sfigurato, ma alla fine della jammata Everybody’s Carrying A Gun, in cui il leader ha lasciato spazio alla sezione ritmica, Wilko si è appoggiato al suo manager visibilmente provato. Si è capito che questa volta non avrebbe ripreso il concerto, chiuso dopo un’ora di musica. Nessuno si è lamentato o ha fischiato, nessuno ha scattato foto dell’artista seduto sul lato destro del palco, solo tanto rispetto e un lungo applauso quando è tornato nel backstage.

Nonostante la parziale delusione non possiamo che ringraziare questo guerriero orgoglioso, il suo coraggio e la sua passione, sperando di poterlo rivedere in un’occasione più propizia.

A Varese la 39ma edizione della Fiera del Disco

di admin

1 aprile 2019

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Sarà come sempre l’Una Hotel di Via Francesco Albani, 73 il palcoscenico della 39° edizione della Fiera del Disco, del CD e di tutto quello che suona, di Varese.

il week end è quello del prossimo 13 e 14 aprile, ingresso libero, parcheggio libero. Dalle 10 alle 18.

potete anche visitare la pagina facebook: Fiera del Disco Varese.

L’importante è partecipare!