Archivio di aprile 2021

Srdjan Ivanovic Blazin’ Quartet – Sleeping Beauty

di Paolo Crazy Carnevale

28 aprile 2021

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Srdjan Ivanovic Blazin’ Quartet – Sleeping Beauty (Cool Label/Moonjune Records 2021)

Dopo la valanga di pubblicazioni uscite all’inizio dell’anno, ecco un nuovo prodotto dalla Moonjune Records, in via di totale trasferimento dell’attività da New York alla Spagna.
Stavolta il protagonista del disco è un quartetto internazionale guidato dal batterista/compositore balcanico Srdjan Ivanovic (è nato in Bosnia nel 1983), da ormai molto tempo di stanza a Parigi ed alla guida del Blazin’ Quartet, che compende Andreas Polyzogopoulos alla tromba, Federico Casagrande alla chitarra e Mihail Ivanov al basso.
Questo terzo disco del gruppo si snoda per poco meno di quaranta minuti offrendo una serie di paesaggi sonori che prendendo spunto dalla formazione jazz del leader e dei suoi comprimari si sviluppa come una sorta di colonna sonora dedicata alla bellezza dormiente della natura, non a caso, oltre ai brani originali, troviamo in scaletta due belle riletture di composizioni di Ennio Morricone, un immancabile omaggio al maestro romano scomparso lo scorso anno.
Srdjan Ivanov dà inizio al disco con una breve introduzione (Intro) che lascia poi spazio al brano da cui deriva il titolo, una specie di moderna jazz ballad in cui trova particolarmente spazio la chitarra di Casagrande che dialoga con la batteria del titolare, lasciando nello sviluppo il posto alla tromba di Polyzogopoulos.
Segue il primo omaggio a Morricone, con la rivisitazione di un classico immortale, The Man With The Armonica, dalla colonna sonora di “C’era una volta il West”: è Polyzogopoulos con la sua tromba a fare le veci dell’armonica che caratterizzava l’originale, poi a metà circa Casagrande si lascia andare in un’improvvisazione chitarristica sempre sostenuta dall’inventiva batteria di Ivanov, in cui non si perde mai di vista il tema originale.
Guchi è una composizione originale più ardita, con citazioni di musica orientale suggerite dal flauto ospite di Magic Malik,compagno d’avventure di Ivanov in un’altra formazione che questi condivide con Vladimir Nikolov.
Più interlocutoria la breve Andreas composta da Polyzogopoulos e a suo totale appannaggio, Rue des Balkans è invece più articolata e vede di nuovo nella parte centrale l’intervento di Magic Malik.
Viene poi ripreso il tema della title track in versione chitarra solista col trevigiano Casagrande (ma anch’egli da tempo parigino acquisito) a raccogliere tutti gli allori.
Il disco, prima della breve conclusione di Outro, omaggia nuovamente Morricone, stavolta con A l’Aube du Cinquième Jour un brano dal film di guerra “Gott Mit Uns”, di nuovo con tutto il Blazing Quartet a pieno regime.

Paolo Crazy Carnevale

THE C. ZEK BAND – Samsara

di Paolo Baiotti

28 aprile 2021

The-C.Zek-Band_Samsara-2020

THE C.ZEK BAND
SAMSARA
Andromeda Relix 2020

La C. Zek Band o Chris Zek Band nasce nell’ottobre del 2015 sulle ceneri del trio blues Almost Blue, da un’idea del chitarrista, cantante e compositore Christian Zek Zecchin, musicista con una lunga esperienza con Big Street, Major7, Chakra’s Band ed altri gruppi, appassionato del genere con il quale è cresciuto: il rock blues venato di hard, funky e soul. La band esordisce nel 2017 con Set You Free, in cui spicca la voce femminile di Roberta Della Valle. Dopo numerosi concerti e qualche aggiustamento della formazione con l’entrata del batterista Enea Zecchin, fratello di Christian, che compone la sezione ritmica con il bassista Nicola Rossin, già presente negli Almost Blue, mentre le tastiere sono affidate al talentuoso Matteo Bertaiola, viene pubblicato alla fine del 2020 il secondo album Samsara. Questo disco, pur restando fedele di base alle coordinate rock-blues e southern dell’esordio, amplia i riferimenti della band aggiungendo venature jazz, funky e un gusto per la jam, lasciando maggiore spazio alla voce solista di Christian.
Si parte con In The Storm, un rock-blues solare con influenze sudiste cantato da Roberta, con un break sognante e un assolo finale in crescendo, seguito da Each Day A Crossroad, ispirato dal suono fluido della Allman Brothers Band, con una sezione strumentale jammata in cui la chitarra scorrazza senza eccedere, seguita da un piano che mi ha ricordato Chuck Leavell. Another Train ha un riff granitico da power trio e una chitarra distorta che si lascia andare nel finale, mentre il mid-tempo Black River appare meno personale. La ballata This Is The Right Day To Cry incrocia influenze jazz con una chitarra floydiana e precede le due parti strumentali di Samsara, la prima lenta e raffinata, affidata alle tastiere con qualche inserto di synth e di elettronica, la seconda più rock con la chitarra protagonista affiancata dal piano, con una pausa centrale e un assolo in crescendo. Nel ritmato funky-rock Feel So Good torna la voce solista femminile che si affianca a quella più ruvida di Christian nella conclusiva Stolen Soul, in cui spiccano la slide e un piano jazzato in primo piano nel break jammato.
Samsara è un disco sicuramente ispirato dal rock classico degli anni settanta, ma non per questo privo di personalità.

David Grissom – Trio Live 2020

di Paolo Crazy Carnevale

21 aprile 2021

David-Grissom

David Grissom – Trio Live 2020 (Wide Lode/IRD 2020)

Una nuova grande prova da parte del chitarrista più sottovalutato della storia del rock. È inconcepibile che un talento come quello di Grissom sia completamente ignorato dai circuiti, dalle label, dal pubblico. Eppure è senza dubbio uno dei più bravi chitarristi in circolazione. Con un passato di tutto rispetto anche, visto che la sua sei corde è stata a lungo al servizio di personaggi di un certo rilievo come Joe Ely (nel live a Chicago uscito qualche anno fa c’è proprio Grissom che fa la differenza,ma anche in alcuni dischi di studio e nel live al Liberty Lunch), Mellencamp, McMurtry.

Per non dire del fatto che per un certo periodo ha sostituito Dickey Betts – spesso indisposto, non ancora silurato – nell’Allman Brothers Band.

Questo suo nuovo disco dal vivo potrebbe essere l’occasione per accostarsi a lui visto che la dimensione live – come testimoniato anche dalle quattro bonus track incluse nel disco precedente – è sicuramente quella che più gli si addice: pubblicato come i suoi predecessori dalla piccola ma stoica Wide Lode Records e distribuito in Italia dalla IRD, ci offre un Grissom che gioca in casa, in quella Austin che lo ha accolto anni fa quando vi arrivò dal Texas occidentale.

In formazione trio, quella che gli calza meglio (anche se sulle tracce live del disco precedente c’erano anche delle ottime tastiere): chitarra, basso (Chris Maresh o Glenn Fukunaga, a seconda della disponibilità) e batteria (Bryan Austin).

Tutti e otto i brani del disco provengono dalle serate del martedì al Saxon Pub, storico locale della capitale texana, dove Grissom si esibisce regolarmente.

Grissom non è un guitar hero, nel senso che non fa tante moine e tanti gesti sul palco, ma non è neppure un silenzioso e diligente turnista, è una via di mezzo, sul palco ci sa stare – lo si è visto anche in Italia un paio di anni fa, in forma smagliante al festival blues di Chiari – è un virtuoso e sa passare da un genere all’altro senza mai sbavare.

Le otto tracce sono tutte piuttosto lunghe e vanno dalle composizioni autografe al boogie al blues, ma definire Grissom un chitarrista blues è forse un azzardo, il blues è comunque riveduto alla Grissom, con inventiva, senza essere mai scolastico.
Ne è un particolare esempio la rilettura dello standard Crosscut Saw, un’invenzione dietro l’altra.

La sezione ritmica lo sostiene perfettamente, ritagliandosi anche i propri spazi (nell’originale Way Josè), Grissom quando necessario si occupa anche del canto, che comunque non è il suo piatto forte, anche se gli riesce dignitosamente. Lucy G e Never Came Easy To Me sono due buone dimostrazioni della tecnica alla sei corde, in particolare la seconda con l’uso di effetti, mentre Don’t Loose Your Cool è un boogie di Albert Collins, un po’ risaputo nella struttura ma poi condotto a librarsi dalla rilettura del texano.

In The Open è invece un accorato omaggio al compaesano Freddie King, un veicolo per le piroette della sei corde spinta dall’incalzare del lavoro della sezione ritmica, mentre Sqwawk è un’altra composizione originale, con tutte le carte in regola per essere un classico del jam rock sudista, che permette al titolare di avere libero spazio per le sue evoluzioni sul manico della PRS, la chitarra a cui è sempre fedelissimo.

Il disco si conclude con la tiratissima Boots Likes To Boogie, con un attacco micidiale in cui David snocciola una serie di passaggi uno differente dall’altro che spettinano letteralmente.

Paolo Crazy Carnevale

Rick Shea – Love & Desperation

di Paolo Crazy Carnevale

20 aprile 2021

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Rick Shea – Love & Desperation (Appaloosa/RD 2021)

Bel colpo quello dell’Appaloosa che si è aggiudicata la pubblicazione italiana di questo nuovo disco di Rick Shea, uscito alla fine dello scorso anno in America e registrato nei mesi della primavera 2020, quando tutti erano chiusi in casa per tenersi al riparo dal covid-19 ed i musicisti coinvolti hanno registrato ciascuno da casa propria.

Shea è sulla scena da molto tempo e non ha mai smesso di pubblicare dischi a cadenza abbastanza regolare, pur non essendo quel che si dice un autore prolifico: valente chitarrista scrive storie che ricordano molto i temi e lo stile dei migliori troubadour dei nostri tempi, da Townes Van Zandt (per andare nelle glorie del passato) a Michael McDermott (per rimanere più vicini ai nostri tempi).

Rick Shea allinea in questo disco una dozzina di composizioni, alcune particolarmente riuscite, altre – quando cerca di inserire strumenti e stili più popolari come cajun e tex-mex – meno interessanti, più qualunque e già ascoltate.

La sua voce ricorda per certi versi il vecchio leone David Bromberg, a cavallo tra sfumature country ed echi blues. Ad accompagnarlo una formazione essenziale, ridotta quasi all’osso se teniamo conto del fatto che le chitarre, acustiche, elettriche, dobro, pedal steel e il mandolino, Rick se li suona da solo. Qua e là ci sono le fisarmoniche di Phil Parlapiano (preferibile però quando si occupa delle tastiere) e David Jackson, più basso, batteria e basso, poco altro.

Se il brano iniziale, Blues Stop Knockin’ t My Door, rientra tra quelle canzoni che non convincono, con l’andatura zydeco un po’ fuori posto, il seguente Blues At Midnight piace subito con la sua andatura slow e il cantato che richiama certe cose del Bromberg recente. Bello anche il solo dell’elettrica. Anche (Down At The Bar At) Gypsy Sally è un blues in cui Shea si spende bene all’elettrica e sembra voler omaggiare nel testo il grande Townes (Gypsy Sally era il bar in cui trovava lavoro la protagonista della splendida Tecumseh Valley). Al sax è ospite Jeff Turmes.

Atmosfere desertiche e intrecci tra acustiche ed elettriche nella title track, brano in cui Shea canta di ragazzi che prendono la strada sbagliata e rapinano un treno, mentre in She Sang Of The Earth gli intrecci strumentali si giocano tra la pedal steel e il mandolino, suonati con ispirazione.

Di grande effetto anche Big Rain Is Comin’ Mama in cui la voce torna a citare Bromberg, e la pedal steel si fa protagonista di un bel break.

La canzone d’amore A Tenderhearted Love sembra invece un po’ più un riempitivo a livello di ispirazione e Juanita, con le sonorità dell’organo vox ci porta in atmosfere tex-mex, è un tentativo di appropriarsi di qualcosa che a Shea non appartiene più di tanto, anche il cantato in spagnolo fa un po’ ridere.

Il disco si riprende con la lenta The World’s Gone Crazy, e fa poi ancor meglio con Nashville Blues, uno dei brani migliori del disco, in cui Rick ironizza sul fatto di non aver mai voluto andare a Nashville a fare musica, bella qui l’alternanza tra acustica e dobro, ottima la scelta di non mettere in questa canzone altri strumenti (a parte un basso ed una batteria molto defilati).

Applausi a scena aperta anche per Mystic Canyon, composizione strumentale in cui Parlapiano tesse il sottofondo con l’organo Hammond e Shea si diletta con steel guitar ed elettrica.

Per il finale tornano le atmosfere tex-mex, come già il titolo Texas Lawyer fa intuire, con tanto di tromba, il risultato è migliore che in Juanita, complice anche il mandolino di Shea che è lo strumento principale.
Sempre molto apprezzata l’usanza Appaloosa di inserire nel booklet i testi con traduzione.

Paolo Crazy Carnevale

Stephan Thelen – Fractal Guitar 2

di Paolo Crazy Carnevale

16 aprile 2021

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Stephan Thelen – Fractal Guitar 2 (Moonjune 2021)

Il chitarrista svizzero Stephan Thelen, leader dei Sonar, aveva pubblicato il primo capitolo di questo suo progetto dedicato ai suoni chitarristici nel 2019, ora a due anni di distanza ecco la seconda parte, Fractal Guitar 2, in cui come in precedenza Thelen si avvale delle collaborazioni di illustri colleghi della sei corde.
Il risultato è assolutamente molto interessante, soprattutto se siete degli appassionati di musica prog strumentale e sperimentale, non solo, l’impressione è anche che il disco sia più riuscito rispetto al suo predecessore e più immediato nell’impatto sonoro. Thelen oltre che delle chitarre si occupa della programmazione, dei synth e di tastiere varie, mentre come band d’appoggio troviamo il bassista dei Dixie Dregs Andy West (laddove c’è un basso) e le percussioni di Manuel Pasquinelli (compare di Thelen nei Sonar), Andi Puppato e Andy Brugger. Ovviamente però a far a parte dei leoni sono le chitarre e oltre a Thelen, come si diceva è coinvolto un esercito di colleghi, ognuno specializzato in sonorità e stili diversi.
Le session iniziali risalgono alla fine del 2019, poi causa pandemia sono proseguite in maniera virtuale; ad aprire il disco c’è un omaggio a quella musica cosmica molto popolare soprattutto nei paesi d’Oltralpe negli anni settanta, il cosiddetto krautrock, e non a caso il titolo della composizione è Cosmic Krautrock. Oltre a Thelen ci sono qui Jon Durant, l’onnipresente Markus Reuter, David Torn, Stefan Huth e Bill Walker.
Nel brano successivo, quello che intitola il disco, le sonorità sono più rarefatte, Walker si occupa della lap steel e c’è Bill Cleveland, vecchia conoscenza di casa Moonjune, che si alterna alle acustiche sia con sei che con dodici corde, ma poi naturalmente ci sono anche Thelen e Reuter (che insieme siedono anche in cabina di regia).
Ancora Cleveland è presente in Mercury Transit, stavolta con una chitarra con la caratteristica del manico arcuato, nuovamente all’insegna di suoni particolarmente spaziali.
In Ladder To The Stars, una delle prime composizioni registrate a San Francisco per il disco, Thelen si affida ai suoni minimali dell’elettrica del poliedrico Henry Kaiser e di quella di Chris Muir.
Per Celestial Navigation torna in campo la lap steel di Bill Walker (impegnato anche all’elettrica) per animare un brano che ricorda da vicino certe composizioni strumentali d’atmosfera pinkfloydiana.
Chiude il disco Point Of Infection, dall’andatura più nervosa e sperimentale, Cleveland, Torn, Jon Durant (alla chitarra senza tasti), Reuter, Thelen e Huth ricamano sulla sezione ritmica di Puppato e Brugger tra dissonanze, suoni spaziali e un pizzico di psichedelica che sono i punti forti degli oltre dodici minuti attraverso i quali il brano si snoda.

Paolo Crazy Carnevale

Kevin Kastning & Mark Wingfield – Rubicon I/Kevin Kastning & Soheil Peyghambari – The First Realm

di Paolo Crazy Carnevale

16 aprile 2021

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Kevin Kastning & Mark Wingfield – Rubicon I (Greydisc 2021)
Kevin Kastning & Soheil Peyghambari – The First realm (Greydisc 2021)

Kevin Kastning è un artista molto prolifico, solo nei primi mesi di quest’anno sono già usciti tre dischi a suo nome, con collaboratori diversi e, di conseguenza, connotazioni diverse.
Il connubio tra Kevin Kastning e Mark Wingfield è ormai consolidato da parecchi anni di collaborazione e sperimentazione musicale in coppia che hanno dato origine ad una decina di dischi e questo Rubicon I prelude all’uscita a breve di una seconda parte del progetto.
Un progetto registrato addirittura nel 2018 e probabilmente tenuto a lungo nel cassetto per non inflazionare il mercato, su cui i due musicisti sono ampiamente presenti anche con progetti differenti.
Il disco in questione, registrato allo studio Traumwald in Massachusetts, è frutto di un lavoro introspettivo e molto sperimentale, con composizioni di media lunghezza, eccezion fatta per la chilometrica e conclusiva Particle Horizon.
Kastning si occupa qui del piano, ma ovviamente non rinuncia ad imbracciare le sue chitarre dalle peculiari sonorità molto elaborate, in particolare nel brano d’apertura Event Horizon o in Loop Quantum dove l’elettrica del socio dialoga con i particolari suoni della sua diciassette corde(!).
Ovviamente non si tratta di musica particolarmente digeribile vista l’attitudine di entrambi alla sperimentazione e alle dissonanze.
L’americano Kastning è poi anche una sorta di liutaio che elabora da sé alcuni dei modelli che suona nei suoi dischi e nei concerti, chitarre a doppio manico, con corde di risonanza che permettono di ottenere timbri e suoni che variano di volta in volta a seconda degli effetti usati e delle prestazioni desiderate.
L’inglese Wingfield invece, pur essendosi fatto le ossa in ambito jazz-rock, con Kastning condivide la passione nei confronti di una sorta di musica classica di stampo contemporaneo che sta alla base delle composizioni.
Nella fattispecie, come si diceva, pur essendo presente anche con le sue chitarre, Kastning è qui particolarmente impegnato al piano lasciando ampio spazio alla chitarra elettrica di Wingfield. Ogni composizione è una sorta di paesaggio sonoro a sé stante, un po’ nella scia di certe pubblicazioni di casa ECM, e non è quindi un caso che anche il concept grafico di Rubicon I si rifaccia piuttosto sfacciatamente a quello delle pubblicazioni dell’etichetta bavarese.
Diversa la natura del disco in coppia col clarinettista iraniano Soheil Peyghambari: si tratta infatti della prima collaborazione tra i due artisti e stando alle note di copertina, l’intesa tra i due è stata tale che potrebbe evolversi in un progetto in divenire come quello con Wingfield o con altri colleghi.
Si tratta come sempre di elaborate composizioni che si sviluppano attorno ai dieci minuti ciascuna, ma senza connotazioni elettriche e pianoforte: qui Kastning si dedica solo alle sue creature, la contrachitarra a due manici (una sorta di chitarra che si suona in verticale come il contrabbasso ed ha ben trentasei corde, e la chitarra classica ibrida, che di corde ne ha diciassette, alla faccia della scaramanzia.
Soheil Peyghambari, che vive tra il suo paese e la Francia, ha un curriculum meno lungo, essendo più giovani, ma le sue produzioni hanno già destato molti interessi in ambito fusion, e non è passato inosservato alle orecchie di Kastning che lo scorso gennaio (il disco è quindi freschissimo di registrazione, oltre che di stampa) lo ha voluto al suo fianco.
Il risultato della collaborazione è un disco dalle atmosfere acustiche e cupe in cui i toni più brillanti delle multi corde dell’americano si combinano con quelli molto bassi del clarinetto basso del suo pard. Se nel disco con Wingfield si può parlare di paesaggi sonori, in questo la classificazione sfugge e l’indirizzo sembra incastonarsi più verso quella concezione di musica classica contemporanea tanto cara al chitarrista.

Paolo Crazy Carnevale

The First Realm-cover

RASMUS BLOMQVIST – Columbia Road

di Paolo Baiotti

10 aprile 2021

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RASMUS BLOMQVIST
COLUMBIA ROAD
Wooden Shrine 2020

Abbiamo scritto di questo cantautore svedese nel 2017 in occasione del suo progetto solista Rami And The Whale. Già membro dei Ginter Trees e del duo Holy Farmers, Rasmus aveva inciso quel disco nel 2015 e 2016, occupandosi di quasi tutti gli strumenti prevalentemente acustici con qualche aiuto al violino, al flauto e alla batteria. Nello stesso periodo l’artista ha vissuto per qualche mese in Gran Bretagna, suonando nei club tra Londra e Bristol e scrivendo una manciata di canzoni. A Londra alloggiava da un amico nei pressi di Columbia Road, dove ogni domenica c’è un mercato dei fiori molto conosciuto e dove Rasmus ha anche suonato come artista di strada. Questo soggiorno ha ispirato le canzoni raccolte in Columbia Road, sempre di ispirazione indie-folk, molto melodiche e quasi sempre acustiche, con l’apporto di backing vocals molto curati, come nella deliziosa Somewhere che ricorda Simon & Garfunkel e CSN e saltuariamente di violoncello, violino e flauto, oltre alla batteria in poche tracce. Blomqvist ha una voce aggraziata, calda e armoniosa, adatta per questi brani avvolgenti e sensibili che riecheggiano un rapporto mistico e di attaccamento alla natura tipico della cultura nordica, rispecchiato anche dalle foto di copertina e dell’interno.
Suoni rarefatti, bucolici e mistici registrati a Falun tra il 2017 e il 2020 che compongono un quadro tenue e rilassante. Echi di Nick Drake nella rigorosa opener For You, l’atmosfera avvolgente in Lord Give Me Light e di Mountain Song, il folk-rock di matrice britannica dell’eccellente Tiger Island e la title track nella quale viene inserito un testo poetico di Ezra Pound (In a Station of the Metro del 1913) mi sembrano i brani più riusciti di un disco intimo, austero ed omogeneo dai sapori autunnali.

Paolo Baiotti

THE GOTHIC COWBOY – Melvin Litton

di Paolo Baiotti

4 aprile 2021

The-Gothic-Cowboy-Bare-Bones

THE GOTHIC COWBOY – MELVIN LITTON
BARE BONES
Autoprodotto 2020

E’ un ascolto impegnativo quello di Bare Bones, un quadruplo cd in cui Melvin Litton ha raccolto 56 brani acustici registrati tra il ’78 e l’84 in un registratore a cassetta portatile quando l’artista era in quella fase della carriera in cui si stata rendendo conto che avrebbe dovuto cercare un vero mestiere per nutrire la propria famiglia. Sono divisi per affinità e argomento in quattro parti: Chance, Folly, Desire e Dream. Il digipack aperto in quattro parti è illustrato da disegni del musicista, nato nel 1950 in una fattoria sulla riva di un torrente in una cittadina del Kansas. Entrato nell’accademia aeronautica americana nel ’68, ma fuggito poco dopo quando ha capito che l’amore per la musica superava quello per il volo, ha iniziato a suonare nei bar con il soprannome di The Gothic Cowboy proseguendo in questo modo per un ventennio girando vari stati americani e il Canada, finchè è tornato in Kansas dove ha formato The Border Band con il chitarrista Randy Holden e il batterista Dave Melody. Hanno suonato insieme per molti anni incidendo cinque album, ma nel 2016 ha deciso di chiudere con il gruppo tornando ad esibirsi come The Gothic Cowboy oppure in duo con Mando Dan Hermreck. Insieme hanno pubblicato il doppio Berween The Wars nel 2019, un disco di Americana secco ed essenziale con testi e musiche riferite alla tradizione folk, di cui ci siamo occupati alcuni mesi fa (Late For The Sky » Blog Archive » THE GOTHIC COWBOY – Between The Wars), seguito da questa raccolta con la quale l’artista guarda al passato, ripescando del materiale che giaceva in cantina o in soffitta. Non bisogna dimenticare che Melvin è anche uno scrittore: ha pubblicato tre romanzi e due raccolte di poesie, oltre a racconti su riviste e giornali e ha lavorato per anni come falegname.
Bare Bones non può che essere un disco scarno e minimale, una sorta di biografia musicale che richiede pazienza e disponibilità all’ascolto, di folk classico come Jaloeb Corley o Whistle Bird, influenzato dal blues come Victrola Blues o dal country tradizionale come l’ironica Dry County Yodel, quattro brani estratti dal primo disco. Melvin ha una voce da artista folk discretamente estesa e uno stile chitarristico che non concede spazio ai virtuosismi. I riferimenti sono quelli di ogni folksinger: da Leadbelly a Dylan, da Jimmie Rodgers ad Hank Williams. Sul secondo cd spiccano Forsake Me Not influenzata dalla scrittura di Eric Andersen e la drammatica Prairie Ballad, sul terzo Red Rose Blues e My Lady Been Gone, mentre sul quarto l’apertura di Gypsy Fire, la delicata Ode To Red Rover e Blue Sky’n Roses sembrano avere qualcosa in più.
Sul sito www.borderband.com ci sono i testi di ogni canzone di questo quadruplo, come del doppio Between The Wars.

Paolo Baiotti