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Pere Ubu 1995/20..: Verso l’infinito, ed oltre.

di Marco Tagliabue

19 novembre 2013

Fra gli scarsissimi video che un insolitamente così avaro YouTube dedica ai Pere Ubu, è abbastanza facile incappare nella puntata di un David Letterman Show di qualche anno fa con la band di David Thomas, per nulla a proprio agio sotto quei popolari riflettori televisivi, impegnata ad eseguire il proprio brano pop per eccellenza, quella Oh Caterine che, nel tentativo di sospingerlo verso le zone alte delle classifiche, stava trascinando il gruppo verso una nuova, salutare, autodistruzione. Si era più o meno intorno al 1991: l’epoca di “Worlds In Collision”, terzo album del periodo Fontana e secondo tentativo, per fortuna non riuscito, di diffondere il verbo Ubu alle masse. Forse saranno state anche le battute non sempre irreprensibili del sagace anchorman televisivo a far capire a David Thomas che quello non era il suo mondo ed a riportarlo sulla retta via: dopo un lavoro messo insieme alla bell’e meglio l’anno successivo, “Story Of My Life”, il processo di disgregazione della band giungeva a naturale compimento ed il corpulento cantante tornava a rifugiarsi in seno a quella carriera solista che, in quegli anni, costituiva probabilmente la naturale propagazione dell’originale spirito dei Pere Ubu. Un periodo da dimenticare, quindi, quello della seconda incarnazione degli Ubu? Tutt’altro: un grande disco (“The Tenement Year”, 1988), un paio d’album di “pop” di classe (“Cloudland”, 1989 e “Worlds In Collision”, 1991) e quello che rimane probabilmente il punto più basso, ma poi non così rasente il suolo, di una carriera fino a quel momento esemplare, il fiacco “Story Of My Life” (1992). Poi la naturale implosione ed il nulla, quello definitivo? Forse il Re questa volta era morto per davvero, ma per Thomas non si profilava certo la pensione. Titolare di una carriera solista semi clandestina che aveva generato cinque album fra il 1981 ed il 1987, in seguito raccolti nel cofanetto “Monster” (Cooking Vinyl, 1996), più un live addirittura fantasma, quel “Winter Comes Home” di cui il Nostro arriverà perfino a negare l’esistenza, David riscopre una vena più sperimentale con i Two Pale Boys, l’esperienza nata dall’incontro, avvenuto già agli inizi degli anni novanta, fra il leader dei Pere Ubu ed i due polistrumentisti Keith Molinè e Andy Diagram. Il primo album della nuova formazione, “Erewhon” (Cooking Vinyl, 1996), oltre ad essere un disco bellissimo, è il lavoro che definisce l’estetica che ispirerà la vicenda umana ed artistica di Thomas negli anni successivi e che, giusto dodici mesi prima, era anche stata alla base del ritorno in grande stile della più grande Araba Fenice che abbia attraversato i cieli della musica rock.

“Ray Gun Suitcase” (Tim Kerr/Cooking Vinyl, 1995) è il primo, quasi inconsapevole tassello, di quella geografia del “nessun luogo” le cui mappe immaginarie verranno districate da Pere Ubu e Two Pale Boys nel decennio successivo, alla ricerca delle coordinate di un suono speculare ma profondamente distante che ha pochi termini di paragone nella popular music degli ultimi due/tre lustri. “Erewhon è l’anagramma di Nowhere. Si tratta di un album ‘utopico’: erewhon, nowhere, un posto che non esiste. Amo i luoghi, soprattutto quelli che non esistono, ecco perché arriverò a ‘Pennsylvania’ dopo Erewhon. Tutto quanto ha a che fare con la geografia, il suono stesso ha a che fare con la geografia; in particolare i suoni moderni, i suoni dell’era magnetica, hanno a che fare con lo spazio, e lo spazio viene compreso da noi in termini di geografia. Dietro a tutto il rock’n’roll c’è la nozione del suono come geografia. Oggi però le persone vivono progressivamente in luoghi che non esistono, in città che non esistono. I luoghi, le culture del mondo stanno tutti scomparendo, sono tutti Erewhon. Oggi viviamo in un mondo in cui la cultura è stata ridotta alle scelte da fare dentro una boutique, la cultura oggi è comprare un paio di jeans, la cultura è ridotta ad un’unica boutique mondiale. E l’Italia non è più l’Italia, l’America non è più l’America, le persone considerate ‘di cultura’ , quelle che sanno usare bene le parole, sono mentitori. Lo scopo delle parole scritte è mentire alla gente normale, sono un’arma in mano agli ingegneri sociali. L’unica cosa che non può mentire è la geografia, la terra, la tua terra non mente mai. /…/ La mia generazione è l’ultima a potersi definire americana. I ragazzi che hanno meno di tredici anni in America non sono più americani, così come gli italiani che hanno meno di tredici anni non sono più italiani, sono tutti abitanti di un immaginario villaggio globale. Nel villaggio globale non si è più niente, e guarda che non è una critica, è una constatazione. Quindi l’unica cosa che ci collega al passato è la terra, dove ci sono le colline che ti osservano, dove ci sono le montagne che dominano, dove il vento soffia, dove ci sono gli alberi e i frutti, dove cresce l’erba. Tutte queste cose sono le uniche che non ti  mentiscono mai. Ecco perché Erewhon-Nowhere.” (David Thomas, da un’intervista a Blow Up, 1997).

La formazione dei nuovi Pere Ubu viene, una volta di più, completamente rivoluzionata: oltre al geniaccio al microfono, il solo Jim Jones, chitarra, proviene dall’esperienza precedente, per il resto una totale rifondazione affidata al basso di Michele Temple, al synth ed al theremin di Robert Wheeler, alle percussioni di Scott Benedict. Fra le comparse un altro ex, Scott Krauss, che suona la batteria in un paio di brani, oltre al violoncello di Garo Yellin ed al basso di Paul Hamann, produttore dell’album insieme a David Thomas. Una copertina che evoca immagini urbane con nome della band e titolo dell’album a caratteri cubitali, come a dire “credete pure ai vostri occhi: siamo tornati!”; qualche nota completamente svasata, a ributtare in primo piano quello spirito nonsense che del resto non aveva mai abbandonato il gruppo, come quella che recita testualmente: “Pubblicammo i testi sul retro copertina di “Song Of The Bailing Man” perché non sapevamo come altro fare per riempire quello spazio/…/Pubblicare i testi è un brutto affare”. Sotto un profilo più squisitamente musicale, “Ray Gun Suitcase” è il convincente compromesso fra la vena melodica degli album precedenti e lo sperimentalismo dei lavori storici della band: una sintesi perfetta, insomma, fra il Mark I ed il Mark II. Ma è soprattutto, come del resto gli altri tre dischi in studio che seguiranno, un album di grande musica. Folly Of Youth è un ottimo inizio: un’atmosfera torbida, cupa e opprimente con il martello di un basso claustrofobico, svisate di synth, la chitarra che mena fendenti, rumori ed effetti, e la voce di Thomas affogata in un ritornello spastico nel magma ribollente degli strumenti in libertà vigilata. La successiva Electricity è uno dei vertici dell’album e della produzione della band: un brano più intimista, protagonista la chitarra, perduta in struggenti crescendo percorsi dalla demoniaca presenza del synth, il basso sempre in primo piano, vero protagonista della base ritmica, ed il canto che raggiunge vette di liricità assoluta. Beach Boys ha invece una struttura più canonica, quella di un rock’n’roll senza particolari guizzi strumentali, eccezion fatta per l’assolo chitarristico centrale, ed un refrain orecchiabile ed accattivante. Turquoise Fins è forse il brano che meglio rappresenta lo spirito dell’album: una marcata componente melodica, pur distante anni luce da certe amenità pop del periodo Fontana, e parti strumentali assai poco convenzionali, quasi deviate, insieme ad una voce insolitamente sgraziata, assai poco accomodante. Vacuum In My Head è un blues lento e stralunato, con una lunga introduzione strumentale ed il canto di Thomas a lambire nuovi mezzi espressivi. Niente batteria, solo qualche percussione sfasata, con il basso a farsi strada ed una chitarra lamentosa in sottofondo. Memphis è un altro rock’n’roll diretto e lunatico mentre Three Things ha una struttura più complessa, aperta a molteplici cambi di atmosfera, in mezzo a frammenti elettronici, impennate ritmiche, piccole giungle strumentali e la voce di Thomas a legare le parti, come si addice ad un Grande Cerimoniere. La misteriosa Horse ha una lunghissima introduzione strumentale per basso e grilli notturni, poi la chitarra sale in un’unica, lunghissima nota tirata allo spasimo per tornare subito dietro le quinte. Avanti senza parole, fra arpeggi delicati e sinistri, in un’atmosfera opprimente che riesce a stemperarsi solo con la successiva Don’t Worry, un rock’n’roll chitarristico percorso da un synth poco rassicurante. Ray Gun Suitcase inizia come una litania perversa, con la voce perduta in un lamento su una base lenta e sconclusionata, per acquistare ritmo e vitalità nel finale, che sfocia in una curiosa cover acustica e ultra rallentata di un brano dei Beach Boys, quella Surfer Girl alla quale Thomas riesce a conferire un’intensità strana insieme alla sua pazza vitalità. Red Sky è una delle vette dell’album: un affascinante gioco di voci fra recitato e cantato, una melodia sottile e circolare che pervade l’intero brano fra continui cambi di tempo e preziose aperture chitarristiche che, nel finale, esplorano gli inediti territori di una psichedelia soffice e vellutata. Montana, primo fra i luoghi ufficiali e non da appuntare sulla cartina geografica, sprofonda in una bellissima atmosfera bucolica con un valzerone folk astratto e visionario, intenso e malinconico, condotto da fisarmonica e strumenti ad arco. My Friend Is A Stooge For The Media Priests è un nuovo rocckettone ironico e potente, mentre la splendida melodia di Down By The River II chiude l’album nella maniera migliore, con una ballata agrodolce di grande efficacia ed intensità.

“La Pennsylvania è uno Stato molto lungo, chiunque voglia andare a New York o sulla costa atlantica deve passare per la Pennsylvania, ma nessuno ci si ferma. Quindi l’album ha a che fare con cose che devi attraversare per andare da qualche parte, posti per cui devi viaggiare per arrivare in qualche altro posto. Questo è il concetto che sta dietro l’album. Pennsylvania è un po’ un altro posto che non esiste, un altro ‘nowhere’. Quando noi parliamo di Pennsylvania sappiamo cosa significa, significa solo un lungo viaggio per andare da qualche parte.”  (David Thomas, interv.citata).

E’ una metafora, quindi, di tutti i luoghi di passaggio e, perché no?, forse anche della vita stessa, il secondo atto dei nuovi Pere Ubu. Per “Pennsylvania” (Tim Kerr/Cooking Vinyl 1998), c’è però da registrare anche un’importante novità che riguarda la formazione, la quale, tolto l’avvicendamento dietro le pelli di Steve Mehlman al posto del dimissionario Scott Benedict, rimane praticamente immutata fatto salvo l’ingresso, o meglio il ritorno, di Tom Herman alla chitarra. Proprio lui, uno dei membri fondatori degli Ubu ed uno dei primi ad andarsene, all’indomani di “New Picnic Time”, terzo preistorico album del 1979. Le chitarre raddoppiano, quindi, e graffiano ancora di più, contribuendo a dare all’album una dimensione elettrica abbastanza inusuale, forse proprio a scapito del synth, il cui lavoro è puntuale e perfetto, ma non così centrale come nel lavoro precedente. Una grinta rock per nulla canonica, sia chiaro, ma sghemba e disarticolata come nella migliore tradizione del gruppo. Si può anzi dire che quella bilancia fra spirito melodico e tensione sperimentale i cui piatti erano perfettamente in linea in “Ray Gun Suitcase”, pende ora pericolosamente verso un sound ancora più torbido e claustrofobico, solo occasionalmente tentato dall’attitudine pop dei dischi del periodo Fontana. Ne è un ottimo compendio l’atmosfera perversa ed inquietante dell’iniziale Woolie Bullie: le chitarre stendono tappeti distorti su una base ritmica lenta ed oppressiva, i violenti stacchi dissonanti del theremin straziano il brano ad intervalli irregolari, il canto è un mesto recitativo per un testo che non lascia scampo. “La realtà è definita secondo i desideri dei media/La Storia viene riscritta prima ancora che avvenga/La cultura è un’arma usata contro di noi/La loro cultura è solo una palude di superstizioni, ignoranza e menzogne/La geografia è il linguaggio che loro non possono distruggere/La terra e quello che sappiamo aggiungerle non possono mentire”. Dopo il breve intermezzo acustico di Highwaterville, sono gli affascinanti contrappunti elettrico/acustici di Sad/Txt a destare meraviglia, il suo ritmo quasi in levare sporcato da effetti e rumori d’ogni tipo con la voce di Thomas filtrata in un sussurro. Con la wave disturbata di Urban Lifestyle le pulsioni salgono su un efficace tessuto chitarristico, che un synth scatenato tenta invano di scomporre ed aggrovigliare, mentre la successiva Silent Spring, lenta ed inquietante, costruita su un giro di basso ossessivo dal quale, come i tentacoli di una piovra, si dipanano gli altri strumenti in piccole fughe improvvisative, sprofonda in un’atmosfera oscura e sperimentale, con i toni perversi della voce di Thomas che non fanno altro che aumentare la tensione. Mr. Wheeler prosegue nella stessa scia densa e melmosa, in una dimensione che poco o nulla concede alla forma canzone, con i medesimi ingredienti opportunamente miscelati, mentre con Muddy Waters l’album riacquista una forma più umana, grazie ad una più canonica cavalcata elettrica che, seppur non esente dai soliti elementi di disturbo, vede le chitarre girare a mille e portarsi dietro tutti gli altri strumenti. Seguono Slow, un angosciante break strumentale fra tastiere ed inserti elettronici, e Drive, con le chitarre che sfrigolano e pungono su un fondale sintetico abbastanza inquietante e la voce di Thomas che si sforza di dare un senso lirico al tutto. Dopo il breve bozzetto strumentale di Indian Giver, tocca alla splendida Monday Morning scomodare ingombranti fantasmi del passato, forse addirittura quello di 30 Seconds Over Tokyo. Con Perfume la voce di Thomas recita, quasi spaurita, su una fragile base strumentale, fra tappeti sintetici, effetti ed interferenze varie, mentre in Fly’s Eye (che secondo una dichiarazione dello stesso Thomas sarebbe stata scritta per Kylie Minogue, ma sarà vero?) sceglie un refrain vincente in una scarica di genuino rock’n’roll. Con The Duke’s Saharan Ambitions, invece, il Narratore diventa muezzin e libera la sua litania per un’incredibile the nel deserto. Tocca a Wheelhouse dare l’illusione che il disco sia finito, con  un brano lungo e coinvolgente perfetto compendio di tutti gli elementi del suono Ubu, prima di liberare, dopo una manciata di secondi d’attesa, tutta la magnificenza della ghost track. Gli oltre quindici minuti di My Name Is…partono come un bluesaccio sporco alla Tom Waits per sfociare, dopo uno stacco netto, nelle atmosfere liquide ed ossessive di affascinanti strati di tastiere a mezza strada fra i Doors ed i Neu!.

“Se si va a nord sull’highway 61, l’Arkansas è dalla parte opposta. Il punto di vista di St. Arkansas è quello della testa voltata di lato, delle parole sussurrate all’orecchio, di posti visti mentre corri a testa bassa.”  (note di David Thomas dal sito internet del gruppo)

Ideale completamento di quel trittico ispirato alla geografia del “nessun luogo” iniziato nel 1995 con il grande ritorno di “Ray Gun Suitcase”, lo svincolo di “St. Arkansas” (Glitterhouse, 2002), perfetto crocevia per tutte le strade che conducono in un luogo immaginario, è anche la prima porta che i Pere Ubu aprono nel nuovo millennio. Ed è evidente al primo ascolto che, nonostante siano passati quasi trent’anni dal debutto, poche cose suonano fresche, eccitanti ed innovative come la musica di questa band; che nel duemila, come del resto probabilmente anche nel tremila, ci sarà ancora un dannato bisogno di loro. Formazione praticamente immutata rispetto a “Pennsylvania” con il solo Jim Jones un po’ defilato rispetto al resto del gruppo in cui compare solo come ospite, probabilmente a causa dei problemi di salute che si fanno sempre più pressanti e di quel cuore matto che se lo porterà via, nell’indifferenza generale, nei primi mesi del 2008. Copertina zeppa di segnali stradali, numeri di autostrade e indicazioni per raggiungere luoghi che non esistono, uno dei quali porta anche il nome della band. Nello smilzo package del CD trova anche posto, corredata da deliziose foto vintage, un’affascinante ma strampalata teoria secondo la quale il nostro cervello riceve le sollecitazioni acustiche da sinistra a destra, quindi, per un ascolto ideale, è necessario posizionarsi più vicini alla cassa destra. E la musica? Parafrasando i Rolling Stones si potrebbe dire che It’s Only Pere Ubu. Sarà pure rock’n’roll e basta, insomma, ma nulla suona come loro. Tocca a The Fevered Dream Of Hernando De Soto aprire l’album con un basso vorticoso che si porta dietro tutti gli strumenti, il synth che sbuffa, la chitarra che punge e sfrigola qua e là, la voce di Thomas insolitamente “sana” in una melodia che colpisce e spiazza al primo ascolto. Slow Walking Daddy è un bluesaccio tutto giocato sui tasti, con il synth come elemento di disturbo, che con il volgere dei minuti si arricchisce di campanelli e percussioni, echi e rifrazioni, di una melodia facile ma non banale. Michele mostra almeno due anime nel violento stacco di atmosfera fra le parti cantate, voce calda e carezzevole sommersa da una valanga di effetti, e le stordenti aperture strumentali, protagonista una chitarra con pochi freni inibitori. 333 rientra in canoni più tradizionalmente rock, mentre Hell sfodera un ritmo esasperatamente lento tutto giocato sui piatti, qualche battuta scoordinata sulle pelli, le tastiere a stendere tappeti disarmonici e la voce di Thomas, un recitativo su toni molto bassi, a coordinare il disordine. Lisbon inizia come un synth pop deviato, un ritmo lento con qualche impennata, tetri fondali di tastiere e intermittenze elettroniche a rendere l’atmosfera ancora più malsana: una spirale sempre più perversa che sembra convergere tutto a sé. Steve vede la chitarra tornare protagonista in un brano dalla forte impronta blues: un blues secondo il vangelo Pere Ubu, naturalmente, con qualche rifrazione industriale ed un costante inquinamento elettronico. Phone Home Jonah è un rock’n’roll tirato, mentre con Where’s The Truth il ritmo torna a rallentare, l’atmosfera ad intorbidirsi sulle pulsioni di un basso paludoso e di un synth che sbuffa e fa le linguacce dietro le spalle. I quasi dieci minuti della monumentale Dark chiudono l’album con uno dei capolavori degli Ubu di sempre: un lungo mantra circolare con una superba melodia che continua ad avvitarsi su se stessa, portandosi dietro tutti gli strumenti in un vortice che sembra non avere mai fondo, in una progressione convulsa che si vorrebbe, magicamente, prolungare oltre ogni limite.

“L’idea di ‘Why I Hate Women’ era quella di rendere in musica un romanzo di Jim Thompson che Thompson non ha mai scritto; è un disco ossessivo, ma la migliore musica rock è brutalmente ossessiva” (note di David Thomas dal sito internet del gruppo)

Altri quattro anni e l’ennesimo cambio nella formazione, che vede ora alla chitarra Keith Moliné, già accanto a Thomas nei Two Pale Boys, per avere fra le mani “Why I Hate Women” (Glitterhouse, 2006), quello che nel momento in cui scriviamo –agosto 2009- è l’ultimo lavoro a firma Pere Ubu (ma il sito del gruppo annuncia novità imminenti) e quello che, senza mezzi termini, è uno dei tre, massimo quattro, dischi più belli dell’ormai sterminata discografia della band. In un lavoro di cui l’ossessione è dichiaratamente il tema principale, gli ingredienti dell’Ubu sound sono più o meno sempre i medesimi, ma l’insieme, il corpo principale, raramente è stato così diretto, unitario ed efficace. Il loro avant-rock ormai più che trentennale, insomma, riesce tranquillamente a farsi beffe delle schiere di ragazzini che affollano i-pod e download illegali, che danno da mangiare a MTV, che riempiono del nulla tonnellate di carta stampata oltre, naturalmente, alle orecchie di tanti ascoltatori. Lo strumento principe di “Why I Hate Women” torna, incredibilmente, ad essere il synth/theremin di Robert Wheeler, la cui presenza, oltre ad essere costante ed ossessiva, è in molti casi davvero prioritaria nell’economia di un suono continuamente sfregiato, appesantito, cosparso di un bitume tossico e radioattivo da quei tasti che dai gloriosi tempi dello scienziato pazzo Allen Ravenstine non erano mai stati così “pesanti”. Two Girls (One Bar) è un’apertura squillante: un ritmo convulso sulle corde del basso, frange chitarristiche in sottofondo, un synth che sbuffa e freme, la voce di Thomas come sempre in gran spolvero in una melodia sottilmente malinconica. Babylonian Warehouses è già un attacco al cuore: un brano intenso, disturbato e disturbante su un ritmo lento e convulso, la chitarra che puntella, le evoluzioni del theremin in primissimo piano a dipingere pareti torbide ed evocative al tempo stesso, il canto filtrato in una melodia nostalgica. Blue Velvet è ancora più lenta, ancora più tossica, ancora più intensa, con Wheeler che cerca di strappare lacrime da una roccia e Thomas mai così vicino alla disperazione. Con Caroleen riesplodono ritmo ed energia in un punk rock percorso da una voce scorticata e da un theremin impazzito, mentre Flames Over Nebraska è un wave rock perverso inzuppato dal synth disturbato e malefico che sembra fagocitare, insieme a tutto il resto, anche una melodia gioiosa e accattivante. In Love Song il ritmo si placa, ma la tensione aumenta sulle ali del solito theremin, che si frappone fra musica e parole lasciando la sua maleodorante scia, creando un’atmosfera talmente carica da sembrare sempre sul punto di esplodere. Mona è un brano breve e veloce con il fantasma di Ravenstine mai così vivido e presente, e My Boyfriend’s Back concentra, in uno spazio ancor minore, rabbia ed energia che farebbero invidia a molti nipotini. Stolen Cadillac fa il paio con Babylonian Warehouses quanto a grigiore, intensità, pazzia e perversa bellezza, mentre in Synth Farm, che omaggia fin dal titolo il protagonista del disco, la presenza dello strumento è più discreta, quasi un supervisore occulto, ma ci pensano percussioni e rintocchi vari, disordinati sbuffi di sax e rifrazioni industriali a rendere l’atmosfera opprimente e malsana. Tocca a Texas Overture sancire un album da trionfo con un blues rock sporco e disarticolato alla maniera dei Nostri, una lunga disquisizione quasi rappata con le controverse ragnatele del synth a dare anima e spessore al brano, lasciando alzare la testa alla chitarra solo nei lunghi assoli in chiusura.

“Il giorno che comporrò un album di cui potrò dirmi pienamente felice sarà il giorno in cui deciderò di fermarmi.” (David Thomas, da un’intervista a Sentireascoltare.com)

Confidando nella proverbiale meticolosità, nel ricercato perfezionismo del leader dei Pere Ubu, pensiamo che quel giorno sia ancora lontano, appuntamento quindi fra quindici anni per la quarta parte della loro storia. Nel frattempo nessuno si scandalizzi se chi scrive è sempre più convinto che, per longevità artistica e qualità compositiva, i Pere Ubu siano la più grande rock band di tutti i tempi. Con tanti saluti a Beatles, Rolling Stones e chi volete voi…

da LFTS n.97

Pere Ubu 1988/1993: The Return Of The Avant-Garage

di Marco Tagliabue

29 ottobre 2013

Il nome dei Pere Ubu riappare, a sorpresa, sul finire del 1987. Il processo di disgregazione che aveva travolto la creatura di David Thomas nell’inverno del 1982, dopo la pubblicazione del pur valido Song Of The Bailing Man, oltre a chiudere in maniera piuttosto violenta il primo fondamentale ciclo di vita della band, si era dissolto nei rivoli, per la verità poco rigogliosi, delle carriere soliste degli ormai ex membri degli Ubu. Tom Herman prima da solo e poi con i suoi Tripod Jimmie, e Scott Krauss, Tony Maimone e Jim Jones con gli Home And Garden avrebbero dato alle stampe opere interessanti ma destinate all’oblio dall’ineluttabile destino che regola le umane vicende. Più complicato il discorso intorno al corpulento cantante fondatore dei Pere Ubu, che tra il 1981 ed il 1987 scodella ben cinque album (riuniti più o meno dieci anni dopo nel box set Monster dalla Cooking Vinyl), che mettono a nudo la sua anima di bluesman surrealista a mezza strada fra Captain Beefheart e Snakefinger, in una dimensione più intima e bucolica molto lontana dalle atmosfere sature del gruppo madre. Nel 1986 Allen Ravenstine e Tony Maimone si uniscono a David Thomas ed ai suoi Wooden Birds per incidere l’album Blame The Messenger. Il gruppo include anche un altro ex, Jim Jones e l’ex batterista degli Henry Cow Chris Cutler. Scott Krauss, dopo aver assistito ad un concerto della band a Cleveland, accetta di unirsi al progetto dei Wooden Birds. Di fatto, i Pere Ubu sono tornati sotto mentite spoglie…allora perché non riprendere in mano il vecchio giocattolo e chiamarlo con il suo vero nome? Nel 1987 si ricostituiscono i Pere Ubu con Thomas, Cutler, Jones, Krauss, Ravenstine, Maymone oltre al fisarmonicista John Kirkpatrick e intraprendono un tour a sorpresa in dodici città americane. La risposta del pubblico va al di là di ogni più rosea aspettativa e, per coronare il ritorno della band, manca soltanto il passo più importante.

 

The Tenement Year (Fontana, 1988) è, senza mezzi termini, un autentico capolavoro, un’opera seconda, forse, soltanto all’epocale debutto di dieci anni prima. The Tenement Year è la nuova danza moderna, il valzer dell’Apocalisse che muove i passi su un mondo in piena rivoluzione tecnologica, un universo che, con l’occhio disincantato della maturità, disegna nuovi contorni agli stessi fantasmi di un tempo ed al quale, lontani dai minacciosi eccessi di un furore giovanile ormai domato, i Pere Ubu rispondono con sarcastico distacco, con scherzosi esorcismi, con rassegnato disimpegno.  E, proprio come allora, grande protagonista –oltre alla voce di un David Thomas sempre più padrone dei propri mezzi- è il synth di Allen Ravenstine, una vera e propria macchina da guerra onnipresente con la sua opera di “disturbo”, con mille invenzioni che tracciano altrettanti sfregi su una tela già astratta e visionaria, che ospita liriche surreali e grottesche ma anche amarezza e disillusione, ritmiche irruenti e implacabili, un anarchismo sonoro che scopre, anche nelle jam più sfrenate, l’inedito filo rosso di una ricerca melodica mai così attenta e riuscita. Il sipario si apre esattamente come un tempo: sibili di synth, una chitarra distorta ed i nervi tesi nella voce di David Thomas. Dieci anni prima si chiamava Non Alignment Pack, ora è Something’s Gotta Give, ma i Pere Ubu sono sempre gli stessi. In George Had A Hat  sassofono e synth si rincorrono impazziti mentre Thomas ripete nel caos lo stesso demente ritornello, il furore si placa negli effluvi jazzistici di un breve intermezzo prima che ogni cosa venga trascinata in un vortice folle e visionario. Talk To Me rispolvera le chitarre insieme ad una grande performance vocale di Thomas: quella solista insegue temi quasi Morriconiani su un tessuto reso troppo sconnesso dagli echi distorti, meno rispettosi, delle altre sei corde e dai puntelli del synth. Più rilassata, nonostante qualche apertura ad un caos controllato, è Busman’s Honeymoon, melodia folk, quasi irlandese, e la bella frase melodica della fisarmonica di Kirkpatrick. Say Goodbye riporta in primo piano le chitarre in una sorta di tribalismo garage attraversato dal solito synth, mentre in Universal Vibration Jim Jones dipana il proprio tornado chitarristico lungo percorsi sempre più tortuosi in parallelo alle piallate di mastro Ravenstine. Miss You prova a fare ordine con una bella fisarmonica ed un tono generale più gentile e meno concitato, nonostante i soliti dispetti di synth e chitarra. Gli stessi strumenti che si rincorrono, giocando a rimpiattino, lungo la successiva Dream The Moon, che registra le solite interferenze sul tentativo di normalizzazione della voce di David Thomas. Con Rhythm King i Pere Ubu provano a dare la loro definizione di reggae music, con ritmi in levare sempre cangianti puntellati da chitarra e synth. In The Hollow Earth la voce di Thomas traccia i contorni di una delle sue melodie più memorabili, anche se l’idillio è rotto ben presto da un lungo intermezzo strumentale un po’ meno “controllato”… E mentre cala il sipario scorrono le note di We Have Technology, ballata dolente e sofferta che impone al disco una chiusura amara e malinconica, ma di grandissimo spessore, con la presa di coscienza dell’inutilità del folle armamentario che ci circonda: è questo il manifesto tenero e mesto dei nuovi Pere Ubu, vittime rassegnate dello stesso tragico destino di un tempo.

In “The Tenement Year” il sound era molto carico e grezzo. Cercare di ritrovarlo in un nuovo album sarebbe stato come fare la parodia di noi stessi. Al contrario, volevamo creare qualcosa che fosse esattamente agli antipodi, un album essenziale, dagli arrangiamenti ermetici e con un’immagine lineare. La Casa Discografica voleva che tornassimo alle nostre radici…qualsiasi esse fossero, e questo ci ha notevolmente preoccupato dal momento che non ne abbiamo! A meno che non intendessero il pop. E questo ci ha reso felici. Nessuno ci aveva mai chiesto di fare un album pop.

 

Ecco nelle parole dello stesso Thomas la pietra dello scandalo, quel Cloudland (Fontana, 1989) che avrebbe fatto arricciare il naso a più di un purista dell’Ubu sound. Via i panorami di degrado, urbano o mentale che fosse, a favore di canzoni estroverse prima di tutto d’amore; via i tessuti strumentali accidentati e tortuosi a favore di un manierismo pop che vuole dire soprattutto pulizia: nei suoni, nella voce, nella melodia. E via, soprattutto, il synth di Allen Ravenstine, ridotto a ruolo di pura comparsa. Ed ora ci si aspetterebbe una stroncatura, ma il “problema” è che Cloudland rimane un prodotto d’alta classe: impensabile, forse, per i folli eccentrici del lavoro precedente (qui coadiuvati da Stephen Hague, in passato con i Pet Shop Boys…) ma tutt’altro che disprezzabile a mente sgombra da preconcetti. Breath, in apertura, nella sua formale perfezione pop saccheggia l’andatura di Every Breath You Take dei Police, mentre in Cry, addirittura, gli Ubu provano –con ottimi risultati- a fare il verso agli U2, in un brano comunque di indubbio valore. Race The Sun è un rock’n’roll tirato e melodico e Why Go It Alone un bel pastiche con un ritornello accattivante. Waiting For Mary, il singolo estratto dall’album, è la quintessenza del pop secondo i Pere Ubu, ovvero quanto di più orecchiabile i Nostri abbiano mai messo su nastro: fa una certa tenerezza, o forse sarebbe meglio dire rabbia, sentire lo sbuffo anonimo del synth ad ogni ritornello…sembra che Ravenstine, rassegnato, stia per gettare la spugna. Ice Cream Truck, molto orecchiabile, è puntellata da una chitarrina deliziosamente retro’ ed anche per la successiva Bus Called Happiness c’è quasi da stropicciarsi gli occhi: strofa, ritornello, cori…ma sono i Pere Ubu? Love Love Love, un vecchio brano di Peter Laughner, si trasforma in un danzereccio synth pop anni ’80 salvo cedere, nel finale, alla voce di un David Thomas finalmente un po’ più arrabbiato. Anche Lost Nation Road ha poca voglia di graffiare, mentre Nevada!, una sorta di rockabilly un po’ demente punteggiato da una piacevole aria da non sense, riporta il fantasma dei vecchi Ubu che non ci abbandona nella successiva Flat e nel valzer chitarristico di The Waltz. Pushin’ rigioca la carta del rock’n’roll aspro e tirato, seppur canonizzato, e Monday Night, deliziosa ballata acustica puntellata dal synth, chiude in bellezza un album per il quale, non si fosse trattato dei Pere Ubu, avremmo sprecato termini certo più entusiasti.

 

Ma la band sembra invece averci preso gusto, visto che anche l’album successivo Worlds In Collision (Fontana, 1991) gioca esattamente la stessa carta. Persi per strada Cutler e Hague, quest’ultimo rimpiazzato dall’ex Captain Beefheart Eric Drew Feldman dietro ogni tipo di tastiera, con Allen Ravenstine ridotto a semplice turnista nei credits di quattro brani, i Pere Ubu tentano di ripetersi aumentando ulteriormente la dose di zuccheri con un disco ancora più docile del precedente. Ma la classe, si sa, non è acqua e tracce come Oh Caterine, una splendida ballata acustica lirica, intensa ed emozionale, come il singolo I Hear They Smoke The Barbecue, un bel rock’n’roll tirato in perfetto stile “alternativo da FM”, come Cry Cry Cry, con armonie vocali d’altri tempi che ricordano il blues cosmico di Janis Joplin & Co., sono lì a dimostrarlo. Lo spirito perduto dei tempi andati rivive negli episodi nei quali lo scienziato pazzo Ravenstine sembra comporre il proprio epitaffio, e specialmente in Life Of Riley, Turpentine e nella conclusiva Winter In Firelands. Altrove gli Ubu sembrano razziare un po’ qua e là: qualche accordo rubato a Mission Impossible in Goodnite Irene, qualche chitarrone preso in prestito al grunge in Mirror Man, un po’ di Wall Of Woodoo (e quindi di Morricone) nella title track, qualche particella Springsteeniana in Don’t Look Back. Pochi, per fortuna, i momenti di imbarazzo, come nelle melodie fin troppo compassate di Play Back e Nobody Knows, quest’ultima con tanto di controcori e velati accenti Rap. Con Worlds In Collision i Pere Ubu, pur riuscendo a confezionare, ancora una volta, un prodotto di classe, rinunciano ad una delle prerogative che avevano contribuito ad alimentare il loro mito, quella di continuare a stupire, di non offrire certezze, di infrangere le regole. Sembrano apparire all’orizzonte nuvoloni minacciosi, carichi di pioggia, che gettano ombre sul futuro della band: nessuno riesce ad immaginare come andrà a finire, mentre il saggio Ravenstine abbandona definitivamente le scene per accettare un lavoro con una aviolinea.

 

The Fontana Years, gli anni Fontana –dal nome della major che ha accompagnato la svolta pop del gruppo- si chiudono nel 1993 con la pubblicazione di Story Of My Life, album ambiguo costituito –dice il maligno- in buona parte da scarti di registrazione delle prove precedenti. Il tono generale è quello del pop zuccheroso di Kathleen e Sleep Walk, anche se non mancano i tentativi di riportare il sound alle atmosfere più torbide delle origini, come testimoniano Wasted, Heartbreak Garage e Louisiana Train Wreck. Ma il clima è di smobilitazione, e si sente, ed un altro ciclo sta per chiudersi. Questa volta, però, l’attesa sarà decisamente più breve e, soprattutto, ben ricompensata.

da LFTS n.84

Pere Ubu 1975/1982: Visioni dell’Apocalisse

di Marco Tagliabue

18 ottobre 2013

Il fatto di riuscire a vivere della nostra  musica non era quello che ci preoccupava. Noi eravamo sospinti dall’idea di avere una missione da compiere: rivoluzionare la musica. Eravamo persuasi del fatto di essere prossimi al compimento del nostro destino. Avevamo visto il rock uscire da una sorta di adolescenza per approdare ad una presunta maturità verso la fine degli anni ’60. Era divenuto più aggressivo, capace di affrontare in maniera più complessa la questione della condizione umana. Eravamo a quel punto preciso della storia ed ormai i riflettori erano puntati su di noi. Adesso toccava a noi raccogliere il testimone dai nostri fratelli maggiori e condurre il rock al suo destino glorioso: diventare una forma d’arte. La letteratura era morta, il jazz era morto, la scultura e la pittura erano morte dopo avere conosciuto il proprio apogeo. Una nuova forma d’arte era nata, inaudita e profondamente espressionista. Nonostante avessimo fiducia nelle nostre forze, eravamo altresì coscienti che nessuno se ne sarebbe accorto. Non ci facemmo alcuna illusione al nostro debutto: stavamo per cambiare  faccia alla musica, ma nessuno lo avrebbe saputo.

(David Thomas, da un’intervista al magazine francese Jade, 1997)

 

Cuyahoga. A dying river. This is where we walked. Swam. Hunted. Danced. Sang.

(R.E.M., da Lifes Rich Pageant, 1985)

 

Cleveland, Ohio, 1975.  Le acque del Cuyahoga scorrono placide nel loro letto millenario. Nulla sembra scalfire quel tranquillo moto ancestrale: non il loro aspetto, sempre più torbido ed oleoso, non il loro carico di rifiuti, di disperazione e sogni infranti. Lungo le sponde, come antichi guerrieri sopraffatti dal tempo, si stagliano i fantasmi di un passato che sembra ormai perduto: vecchie acciaierie, industrie manifatturiere, stabilimenti chimici e petroliferi della Rust Belt. Sembrano ricordare i bei tempi andati e, con la calma dei forti, attendono di rifiorire con la prossima età dell’oro. Ma difficilmente ce ne sarà un’altra. Il boom economico degli anni sessanta ha lasciato, soltanto qualche anno dopo, una città sull’orlo del baratro. Una civiltà urbana ricca ed industrializzata ha dovuto improvvisamente fare i conti con i giri di boa della Storia. Paura, disperazione, nevrosi, alienazione, soffocamento: sono i nuovi mali metropolitani e colpiscono soprattutto i più deboli e sensibili, i giovani. Chi non accetta lo status quo prova a scappare, a cercare una via di fuga reale o quella, più ingannevole e spesso letale, di qualche paradiso artificiale.  Ma c’è un rifugio più sicuro, la musica. Gli echi della rivoluzione in atto a New York giungono anche da queste parti con il loro alone di leggenda ma, accanto  a chi è pronto a sfogare il proprio furore nichilista, senza cercare risposte, nel punk più violento e autodistruttivo, c’è una gioventù che cerca di andare più a fondo, di penetrare il nulla che sembra avvolgere la vita reale dando sfogo alla stessa rabbia in maniera più costruttiva.

Vicino all’estuario del Cuyahoga, dalle parti di Old River Road, c’è un vecchio magazzino che apparteneva un tempo a John D. Rockfeller e che, secondo la leggenda, è stato la culla della sua immensa fortuna. Il nuovo proprietario, Jim Dowd, lo ha trasformato in un locale dall’aspetto un po’ tetro ribattezzandolo The Pirate’s Cove, il Covo dei Pirati.  Se vi capita di passare da quelle parti il giovedì sera, non meravigliatevi  se, accanto ai rumori della natura, mischiati al soffio della brezza serale, allo sciabordio dell’acqua contro le pareti delle imbarcazioni, ai lampi improvvisi che illuminano la facciata della vicina compagnia aeronautica Shot Penning, udirete dei suoni misteriosi che sembrano incendiare quelle visioni notturne. Provate a mettere il naso nel  Pirate’s Cove. Sul piccolo palco improvvisato al centro del locale la Storia del Rock sta descrivendo un nuovo ed appassionante capitolo.

Quando Jim Dowd  assoldò i Pere Ubu per il primo concerto non poteva certo immaginare quale mina sarebbe andato ad innescare, ma del resto non avrebbe avuto nulla da perdere: erano gli unici candidati! Quella sera la giovane band riunì una cinquantina di persone e tanto bastò per guadagnarsi il lasciapassare per il giovedì successivo. Ormai da quasi un anno sono l’attrattiva del Cove ed hanno diviso il palco con un sacco di band locali e di passaggio. Sono davvero giorni speciali, nell’aria si coglie tutto il peso di questa nuova onda che sembra voler travolgere ogni cosa: è emozionante vivere la Storia in diretta e sentirsene protagonisti.

David Thomas, il corpulento cantante, e Peter Laughner, allucinato chitarrista, sono due vecchie glorie della scena cittadina. Entrambi hanno militato nei Rocket From The Tombs, mitica band  locale dedita ad un garage-rock grezzo e rumoroso, ebbro di miasmi psichedelici e furore proto- punk, che ha chiuso i battenti prima di consegnare al mondo una sia pur sparuta testimonianza del proprio passaggio. E’  per rimediare a questa drammatica nefandezza che i due hanno deciso di dar vita ai Pere Ubu.

 David sembra essere la personificazione perfetta del protagonista della pièce teatrale Ubu Roi del drammaturgo francese Alfred Jarry (1873-1907) cui la band ha dedicato la propria epigrafe:  concentrato di nevrosi e  insofferenza per l’ordine costituito, anima grottesca e surreale, prodigioso interprete della malattia e delle paure del suo tempo; dopo trascorsi gloriosi come critico rock per il giornale locale (arriverà perfino a camuffarsi sotto pseudonimi diversi per non far trapelare che, in pratica, scrive tutto lui) si scoprirà cantante a mezza strada fra Tim Buckley e Captain Beefheart e, soprattutto, farà scoprire al mondo una delle voci più originali di sempre dell’universo rock.  Intellettuale e poeta lisergico, amante del verbo psichedelico e fedele adepto al culto dell’espansione mentale e della liberazione della coscienza, Peter è, di fatto, figlio di un’epoca diversa trapiantato, chissà come, nella depressione nichilista di quei giorni. Troverà un rifugio nella musica ma, allo stesso tempo,  una trappola mortale nei paradisi artificiali in cui sarà, sempre più spesso,  costretto a traghettare le proprie illusioni. 

Tim Wright, invece, era stato tecnico del suono per i Rocket From The Tombs. Quando gli è stato chiesto di imparare a suonare il basso non ha perso nemmeno un istante: si è comprato un vecchio Dan Electro a sei corde e in quattro e quattr’otto si è messo a disposizione. E’ stato ancora più facile sistemare qualcuno sulla seggiola della batteria: Scott Krauss, già meteora in diversi gruppi locali ed al momento disoccupato, proprio non aspettava altro.  Tim e Scott vivono al Plaza, un vecchio residence alle porte della città.  Da un appartamento non distante dalle loro camere giungono spesso rumori assordanti ed insopportabili. Del loro artefice essi conoscono solo il nome, Allen Ravenstime, e sanno che è un tipo strano che passa tutto il giorno, e ahimè anche qualche notte, a manipolare strane diavolerie elettroniche. Non potendolo eliminare decidono che è meglio farselo amico.  Sempre al Plaza vive un certo Tom Herman, operaio metalmeccanico di giorno e chitarrista fallito di notte in giro per i locali della città: è proprio lui l’anello mancante per il varo della crociera inaugurale.

Per raggiungere l’obiettivo che si sono prefissi, quello di cambiare il volto della musica rock, i Pere Ubu hanno perfino elaborato una metodologia in sette punti ben definiti:

  • Non fare mai prove 
  • Non cercare nessuno
  • Non inseguire il successo
  • Scegliere la prima persona con cui si viene in contatto
  • Prendere sempre per buona la prima idea
  • Riunire persone uniche. Le persone uniche suoneranno musica unica, magari senza nemmeno esserne capaci
  • Ritardare il più possibile i Fattori di Distruzione Centrifuga, poi schiacciare il bottone.

Ora sono davvero pronti per conquistare il mondo, ma il mondo si accorgerà di loro?

 

Mi alzo in volo presto nella nebbia del primo mattino/in un drago di metallo imprigionato nel tempo/Accarezzo  le onde di un mare sotterraneo/nella strana fantasia di un mondo da sogno. Il sole descrive un cerchio di fuoco come una volta nel cielo/il 25 è un’ombra velocissima sul verde mare lucente/Oltre la macchia pallida di una terra aliena/abbiamo solo tempo di rifugiarci nelle mani di qualche strano dio. I ragni neri della contraerea esplodono nel cielo/raggiunti su ogni lato da strani artigli contorti/Non c’è tempo per scappare, non c’è modo di nascondersi/Non si può fermare questa corsa suicida. Le strade di una città giocattolo si moltiplicano sotto i miei occhi/germogliano come grappoli di funghi in un mondo surreale/Questo incubo sembra proprio non finire/e il tempo scorre lento come se non fosse mai cominciato. 30 secondi in una corsa a senso unico/30 secondi e nessuna possibilità di nascondersi/30 secondi per Tokyo.

(30 Seconds Over Tokyo, 1975)

Un riff di chitarra asciutto e circolare di barrettiana memoria, una linea di basso che incalza su un frusciante tappeto sintetico, la voce di Thomas che narra dal profondo. Una tensione che sale attimo dopo attimo e che trova solo una piccola valvola di sfogo nelle aperture strumentali che spezzano il brano, piccole esplosioni di psichedelia free form con  gli strumenti in caduta libera. Ma il solito riff ipnotico reintroduce nel vortice ed una nuova strofa  getta altra benzina sul fuoco. Disperazione, angoscia e claustrofobia aumentano la loro pressione, diventano quasi palpabili; la tensione emotiva giunge a livelli insostenibili fino alla liberazione finale, con la voce allucinata di Thomas che ripete all’infinito il suo tragico refrain  mentre gli strumenti esplodono ed il synth di Ravenstime sfregia la tela a colpi di lametta. Nessuno è mai andato oltre, nessuno è riuscito a rappresentare il senso apocalittico della fine e della sua ineluttabilità, a dargli un impatto visivo oltre che strumentale, come i Pere Ubu attraverso la tragica epopea del pilota che conduce se stesso ed il proprio carico di morte verso il centro del mirino. 30 Seconds Over Tokyo/Heart Of Darkness, primo singolo autoprodotto per la minuscola Hearthan Records  vede la luce nel settembre del 1975 e per passare alla Storia, proprio quella con la esse maiuscola, davvero non sarebbe servito altro.  Più lineare, ma non meno interessante, il retro: una danza macabra con percussioni tribali, base ritmica incalzante, chitarra sferragliante in secondo piano,  progressione emozionale ed esplosione finale. 

Dopo la pubblicazione del disco Ravenstime esce dalla porta senza un motivo particolare per rientrare dalla finestra nel giro di qualche mese. Viene rimpiazzato, nel frangente, da tal Dave Taylor,  commesso in un negozio di dischi che ha il non indifferente pregio di essere l’unico a possedere, al pari del dimissionario, un sintetizzatore analogico EML, un modello ormai introvabile in quanto la società costruttrice ha da tempo orientato la sua produzione verso il mercato più remunerativo dei satelliti militari.

Alla fine del 1975 i Pere Ubu debuttano dal vivo al concerto di Capodanno  del Viking Saloon di Cleveland con uno show zeppo di cover di Velvet, Stooges e misconosciuti gruppi garage. E’ un piccolo successo.

Sembra che io sia la vittima di una selezione naturale/o forse sono solamente scivolato nella direzione sbagliata. Non ho bisogno di una cura/ho bisogno della risoluzione finale.

(da Final Solution, 1976)

Il secondo singolo Final Solution/Cloud 149 esce nel marzo del 1976 per la medesima label che nel frattempo ha mutato il proprio nome in Hearpen. Final Solution, debitrice alla lontana della Summertime Blues dei Blue Cheer, è un garage rock dalla struttura più classica, con le consuete venature sintetiche ed una chitarra vera protagonista: sono la voce isterica di Thomas ed un lancinante assolo di Laughner nel finale, che cercano di bucare il vuoto di una generazione che giudica ormai irreversibile la propria malattia. Anche in Cloud 149 la chitarra tagliente e allucinata di Laughner recita da protagonista, in una progressione ritmica incalzante dalle tinte quasi funky. Alla luce dei fatti successivi si tratterà anche di un tragico testamento: Peter Laughner, sempre più affossato nella propria opera di auto distruzione, arriverà ad essere una palla al piede costringendo i soci a dimetterlo nel giro di pochi mesi. Morirà di overdose l’anno successivo. Entro la fine dell’estate se ne andrà, per controversie organizzative sulla struttura da dare al gruppo, anche il bassista Tim Wright, prontamente sostituito da un  altro inquilino del Plaza, Tony Maimone. E’ anche il momento della prima trasferta nella Grande Mela, con alcune date nella culla del Max’s Kansas City, luogo di culto del rock newyorkese.

Prima del debutto sulla lunga distanza faranno in tempo ad essere pubblicati altri due singoli per Hearpen Records, Street Waves/My Dark Ages (11/1976) e The Modern Dance/Heaven (8/1977).  Se le facciate A troveranno posto sull’album d’esordio, curiosa è l’antitesi fra gli altri due pezzi. My Dark Ages prosegue nello stile della band: un brano cupo ed opprimente che inizia lentamente per esplodere nel refrain, una voce filtrata più ubriaca del solito, che tenta svogliatamente di abbozzare qualche melodia, una chitarra che diventa acidissima quando riesce a  ritagliarsi un po’ di spazio. Heaven, invece, è forse il brano più solare mai inciso dai Pere Ubu: un reggae irresistibile, scandito dalle chitarre e dai rigurgiti del synth,  con una linea di basso quasi dub ed un uso delle voci nel ritornello che ricorda a posteriori i Talking Heads.

E’ proprio Street Waves che finisce nelle mani di Cliff Burnstein, boss illuminato della Mercury con l’hobby della ricerca di sangue nuovo fra gli scaffali impolverati dei negozietti alternativi. Contatterà immediatamente David Thomas, bruciando sullo scatto la concorrenza della rinomata Chrysalis, ed appositamente per i Pere Ubu  arriverà a creare la sussidiaria Blank Records, al cui numero 001 di catalogo verrà finalmente pubblicato nel febbraio 1978 uno dei capisaldi dell’arte non solo rock del novecento.

The Modern Dance rimane ancora oggi, ad oltre venticinque anni dalla sua pubblicazione, l’affresco più lucido e spietato sulla decadenza della società industriale, la rappresentazione implacabile dei suoi effetti più nefasti: i sensi di alienazione, frustrazione, disagio, sconfitta che sembrano attanagliare in special modo le giovani generazioni, prigioniere di un destino che appare loro drammaticamente irreversibile. La danza moderna è quella dei superstiti di un drammatico day after sulle rovine della nostra civiltà: il bombardiere che lottava contro la sua coscienza in 30 Seconds Over Tokyo non è riuscito ad impadronirsi del proprio tragico destino ed ha vomitato il suo macabro fardello sopra la X tracciata sulla cartina. In un panorama di morte e desolazione, fra le macerie morali e materiali di una società il cui epilogo, comunque incontrovertibile, è stato soltanto accelerato dal precipitare degli eventi, si aggirano, come fantasmi, le anime dei sopravvissuti. Sembrano cullate dal vento, insieme alla polvere ed ai miasmi che si porta dietro la fine,  ed il loro incedere ha qualche cosa di ritmico, di armonico: pare seguire un pentagramma che qualcuno ha tracciato nel cielo proprio accanto alle colonne di fumo. Una danza che è insieme rimpianto, speranza, liberazione, rinascita.

Musicalmente l’album prende le mosse dalla tradizione garage dei sixties, proprio da quelle officine nelle quali si era cominciato a plasmare il più puro spirito punk, per passare attraverso le radiazioni di quasi due decenni  di modernizzazione del rock, arrivando, come tutte le grandi opere, a sopravanzare il suo tempo per stendere un ponte direttamente con il futuro. Ecco allora l’elettronica innanzitutto, ovvero il compendio della tecnologia applicata alla musica, con le tessiture folli del synth di Allen Ravenstime, vero protagonista dell’opera; la psichedelia, soprattutto nella sua forma più libera, quella che discende direttamente da Red Crayola, Deviants, Twink e dalle loro disordinate alchimie; l’avanguardia, figlia del blues del Capitano Cuore di Bue come dei maestri più colti della musica concreta  del novecento; il rumorismo, sinfonia sinistra di una società in disfacimento, ma anche scampoli di free jazz, funky, punk, tribalismo.  E la voce di David Thomas, sguaiata, sgraziata, atonale: l’urlo isterico di una vittima predestinata decisa fina all’ultimo a dire la sua.

E’ proprio il sibilo del synth ad aprire l’album, in Non Alignment Pack, per introdurre un riff di chitarra vicino alla tradizione rock and roll e sporcarlo ripetutamente con le sue folli frequenze. Sono il nuovo ed il vecchio che si incontrano e dimostrano che possono andare tranquillamente a braccetto. The Modern Dance è una cantilena alienante a ritmo di catena di montaggio, sporcata dai rumori delle macchine, dal vociare della folla, da disturbi indistinti e scandita dai rigurgiti del synth.  Laughing si sviluppa fra tessiture free jazz ed introduce Street Waves, potenti linee di basso e riff garage di una chitarra secca ed abrasiva, che si libera in un bell’assolo prolungato mentre il synth tiene il tempo con le sue folate putride e perverse.  Chinese Radiation inizia lenta, intimista, con un bel fraseggio di chitarra ed una voce gentile e rassicurante, poi degenera in un caos primordiale che restituisce, nel finale, l’innocenza perduta.  Tocca a Life Stinks, ultimo dono della penna di Laughner, ricordare che fuori si respira ancora il punk, anche se un punk diverso da questo, allucinato, esasperato, misto ad aperture free jazz. Real World è un blues screziato dai mugugni del synth che va verso un finale in completa libertà per trovare pace nell’intimismo di Over My Head, danza lenta ed avvolgente, scandita da un lento arpeggio di chitarra e dai contrappunti del synth. Sentimental Journey è una disperata cacofonia per voce, fiati, synth, chitarra e stoviglie che vanno in frantumi, una preghiera inascoltata che sfocia nel caos annunciato dell’ennesimo esaurimento nervoso per trovare, in Humor Me, una chiusura leggera, dalla sensibilità quasi pop malgrado i soliti elementi di disturbo: almeno fino a che tengono gli schemi, prima che tutto volga nel caotico finale.

The Modern Dance vende (solo?) quindicimila copie, ma vale comunque ai nostri un tour in Europa e Stati Uniti che coincide con la pubblicazione di Datapanik In The Year Zero, prima parziale raccolta dei preziosissimi singoli del gruppo. L’influenza di questa opera prima sugli sviluppi della musica rock sarà comunque determinante: intere generazioni si forgeranno sulle sue nevrosi.

Nel novembre del 1978, ad appena nove mesi di distanza dal predecessore, viene pubblicato su etichetta Chrysalis Dub Housing,  seconda prova sulla lunga distanza dei Pere Ubu. Il suono perde quasi completamente quella giocosa componente schizofrenica che aveva caratterizzato il debutto per farsi, se possibile, ancora più cupo: una discesa del maelstrom della disperazione, risucchiati nel vortice della follia in un viaggio senza ritorno verso gli abissi psichici dell’auto distruzione. E’ l’iniziale Navvy l’anello di congiunzione con The Modern Dance, uno sfrenato brano chitarristico sfregiato dalle pernacchie del synth e dalla voce ubriaca di Thomas, ma poi, come suol dirsi, la musica cambia. On The Surface, retta da un irresistibile giro del synth mostra, insieme a qualche elemento di disturbo, una sensibilità aliena quasi pop; Dub Housing è un blues spettrale lento ed avvolgente con splendidi contrappunti di sax e chitarra, mentre la succesiva Caligari’s Mirror, lenta, chitarristica, pennellata dal synth, alterna stati di trance a momenti più strutturati di strofa e ritornello. Con Thriller l’angoscia tocca un punto di non ritorno: una cacofonia post industriale condita con voci e passi sempre più vicini, rumori, percussioni, inserimenti strumentali completamente liberi ed allucinati in uno stato di anarchia crescente che culmina nel finale deturpato dal synth.  I Will Wait  e Drinking Wine Spodyody, sfrenate e sguaiate, introducono alla celebrazione per eccellenza del maestro di cerimonia di Ubu Dance Party, una danza surreale condotta sul libero fluire di tutti gli strumenti, con contrappunti corali quasi melodici alla voce impazzita di Thomas e le consuete intermittenze fuori frequenza del synth. Il finale è affidato a Blow Daddy-O, strumentale di impatto lisergico con vociare indistinto in sottofondo, e all’intimismo disperato di Codex, lenta, rarefatta, con armonie chitarristiche quasi Morriconiane, ultimo timido anelito di vita nel deserto pietrificato dell’anima.

Si parte subito per un tour in Inghilterra e nell’Europa continentale con supporter del calibro di Human League, Soft Boys, Nico e Red Crayola: un incontro, quest’ultimo, che si rivelerà di estrema importanza per gli sviluppi futuri della band. Nelle date di Londra l’ignaro pubblico del Magical Mistery Ubu Tour viene caricato su un pullman e trasportato, a sua insaputa, nelle cave di  Chislehurts,  dove il gruppo si esibisce in un suggestivo scenario naturale di grotte e pareti di gesso.

Il 1979 si apre con una curiosa performance alla 1st International Garage Exhibition in occasione della quale, giusto per gettare un po’ di fumo negli occhi della critica, sempre alla ricerca di un’etichetta e di un’agevole catalogazione, i Pere Ubu coniano per celia l’insignificante definizione di Avant-Garage (e la critica, senza rendersene  conto, sentitamente ringrazia…).

Ma, bravate a parte, il periodo non è dei migliori. Le tensioni all’interno del gruppo sono lì lì per esplodere, nessuno sembra avere più voglia di lottare o di fare il più piccolo sforzo nella direzione dei compagni: il titolo provvisorio dell’album in lavorazione, Goodbye, non nasconde il suo probabile destino di epitaffio. Come sempre in questi casi, c’è anche la classica goccia che fa traboccare il vaso e, nella fattispecie, è un concerto a San Diego davanti alla bellezza di cinque spettatori. Per la chitarra di Tom Herman è davvero troppo ed il suo abbandono rischia di sfaldare definitivamente la band.

Nel frattempo, comunque, e per fortuna con un titolo diverso da quello previsto, esce, primo tassello del trittico per Rough Trade, New Picnic Time,  terzo album ufficiale nella discografia dei Pere Ubu.  Dopo il periodo garage e quello industriale, il lavoro segna l’avanzata nei territori della psichedelia free form, complice anche il sempre più consolidato rapporto di amicizia con il chitarrista dei Red Crayola Mayo Thompson, che ancora prima di rilevare ufficialmente il neo dimissionario, potrà vantare un ruolo di presenza attiva nell’orbita del gruppo. Le parole d’ordine sono destrutturazione, disarticolazione, astrazione, destabilizzazione, sperimentazione: in un solo termine, anarchia. New Picnic Time è il Trout Mask Replica della new wave  e David Thomas  è il nuovo capitano Cuore di Bue. La sua voce raggiunge agevolmente le vette più impervie ed i suoi grandi modelli, Beefheart e Buckley, sono proprio ad un tiro di schioppo; i suoi testi, complice anche la recente conversione al culto di Geova, appaiono sempre più surreali e  visionari. Largo all’avanguardia quindi: accanto ai brani più classici (Have Shoes Will Walk, Small Was fast, One Less Worry, Make Hay, Jehova’s Kingdom Come), quelli che si dipanano da una potentissima sezione ritmica e da una  comunque solida matrice funky/blues deturpata dalla voce sempre più ubriaca di Thomas e dagli irriguardosi sfregi elettronici  del poliedrico Ravenstime, ecco le prolungate masturbazioni per synth e chitarra di 49 Guitars And One Girl, i cinguettii sintetici e le dissonanze di A Small Dark Cloud, la nenia impazzita di All Dogs Are Barking, il  blues catartico di Goodbye, le violenze inflitte al synth in The  Voice Of The Sand: chiamatela, se volete, musica da camera dell’era post industriale…

Con l’ingresso ufficiale di Mayo Thompson nella formazione, l’anno successivo tocca a The Art Of Walking, l’album che spaccherà in due la critica, da una parte chi lo considera un capolavoro e dall’altra coloro che ritengono sia solo un esperimento mal riuscito, e che, comunque, rimarrà il best seller nella discografia dei Pere Ubu classici. Il lavoro prosegue sulla  scia psichedelica del predecessore, ma ne lima decisamente le asperità: brani dalla struttura più solida e con schemi ben definiti; più controllo, più pulizia anche negli episodi, e non sono pochi, in cui è più evidente la componente sperimentale; più ragione e meno schizofrenia. Non mancano i brani più tradizionali, quelli che si sviluppano da una matrice funky sovente plagiata da un synth sempre più primadonna (l’iniziale Go, Misery Goats, Rounder), ma più riconoscibile è la chiara radice psichedelica di episodi quali Birdies e la straordinaria Horses. Accanto a  strumentali  più canonici quali l’orientaleggiante Arabia ed a veri e propri incubi a due voci (Loop), si fanno strada i capitoli più sperimentali, segnati comunque da una costruzione molto più concettuale riguardo alle astrazioni passate. Stiamo parlando di Rhapsody In Pink, liquida, dilatata, con un recitativo di Thomas sopra incompiuti fraseggi di chitarra, timide pulsazioni del synth e solitarie note di un piano sgraziato; di Miles, cacofonia  per voce, percussioni, organo, synth e tappeto ritmico elettronico ad intermittenza; di Lost In Art, lugubre strumentale per vocalizzi in libertà, colpi secchi alla grancassa ed efferatezze tastieristiche; di Crush This Horn, che chiude l’album con i disturbi di un synth in libertà, onde radio disturbate alla ricerca di una frequenza che, in lontananza, sembra rivelare a tratti una timida melodia.

Stranamente le esibizioni live del periodo, fra le quali alcune date con i Gang Of Four, procedono su binari del tutto opposti rispetto alle sperimentazioni dell’album, mostrando agli increduli fans un lato inedito quasi pop e goliardico. Un binomio, quello fra Arte e Pop, che non andrà a genio a tutti: anche nel gruppo, già teso per il riaffiorare di quei problemi che avevano portato non molto tempo prima ad un passo dallo scioglimento, cominciano a saltare un po’ di nervi. Il primo a farne le spese è il batterista originale Scott Krauss, che se ne andrà sbattendo la porta, sostituito dall’ex Feelies Anton Fier.

Preceduto da un singolo inedito, Not Happy/Lonesome Cowboy Dave, e dal bootleg ufficiale dal vivo 390° Of Simulated Stereo, esce nel 1982 l’ultimo atto Song Of The Bailing Man. Non un capolavoro, ma nemmeno un brutto disco per un gruppo ormai allo sbando, l’album si presenta come il lavoro più accessibile nella discografia dei Pere Ubu, quello più strutturato e marcato dalle influenze jazz del nuovo arrivato, che non fatica ad imporre il proprio punto di vista nel bailamme generale. Ne faranno le spese le individualità artistiche degli altri quattro Ubu, meno spiccate che in passato, quasi completamente risucchiate nell’amalgama generale e, soprattutto, i marchingegni elettronici dello scienziato pazzo Ravenstime, fino ad allora protagonisti assoluti delle sonorità della band. Le strutture dei brani, le linee ritmiche e strumentali sono quasi sempre vicine al jazz (The Long Walk Home, Pietrified, West Side Story), c’è posto per ritornelli accattivanti (Use Of A Dog), per qualche filastrocca allucinata (Big Ed’s Used Farms, The Vulgar Boatman Bird, My Hat). Qualche fragile ponte con il passato è ravvisabile nelle sperimentazioni di Stormy Weather, nelle divagazioni percussive e nelle aperture strumentali di A Day Such As This, nei fraseggi disarticolati di Thoughts That Go By Steam,  nella conclusiva Horns Are A Dilemma, percorsa da splendidi fraseggi di tromba.

Ma il passato non torna più e, alla luce di un’ultima disastrosa tournee negli Stati Uniti, anche il presente si tinge inesorabilmente dei colori sbiaditi dei ricordi. Nel bel mezzo del 1982, anche se nessuno si cerca,  nessuno si parla e nessuno prende decisioni,  tutti nel gruppo hanno capito che i Pere Ubu non esistono più.

Per noi solo il tempo di una doverosa citazione: è per l’essenziale Terminal Tower, splendida raccolta dei singoli pubblicata nel 1985 da Rough  Trade e recentemente ristampata, insieme agli altri album del periodo storico, dalla nostrana Get Back. E’ la rampa di lancio ideale per la vostra missione interstellare verso il pianeta Ubu.

da LFTS n.64

Verso il centro del mirino…

di Marco Tagliabue

20 luglio 2010

Mi alzo in volo presto nella nebbia del primo mattino/in un drago di metallo imprigionato nel tempo/Accarezzo le onde di un mare sotterraneo/nella strana fantasia di un mondo da sogno. Il sole descrive un cerchio di fuoco come una volta nel cielo/il 25 è un’ombra velocissima sul verde mare lucente/Oltre la macchia pallida di una terra aliena/abbiamo solo tempo di rifugiarci nelle mani di qualche strano dio. I ragni neri della contraerea esplodono nel cielo/raggiunti su ogni lato da strani artigli contorti/Non c’è tempo per scappare, non c’è modo di nascondersi/Non si può fermare questa corsa suicida. Le strade di una città giocattolo si moltiplicano sotto i miei occhi/germogliano come grappoli di funghi in un mondo surreale/Questo incubo sembra proprio non finire/e il tempo scorre lento come se non fosse mai cominciato. 30 secondi in una corsa a senso unico/30 secondi e nessuna possibilità di nascondersi/30 secondi per Tokyo.

Un riff di chitarra asciutto e circolare, una linea di basso che incalza su un frusciante tappeto sintetico, la voce di Thomas che narra dal profondo. Una tensione che sale attimo dopo attimo e che trova solo una piccola valvola di sfogo nelle aperture strumentali che spezzano il brano, piccole esplosioni di psichedelia free form con gli strumenti in caduta libera. Ma il solito riff ipnotico reintroduce nel vortice ed una nuova strofa getta altra benzina sul fuoco. Disperazione, angoscia e claustrofobia aumentano la loro pressione, diventano quasi palpabili; la tensione emotiva giunge a livelli insostenibili fino alla liberazione finale, con la voce allucinata di Thomas che ripete all’infinito il suo tragico refrain mentre gli strumenti esplodono ed il synth di Ravenstime sfregia la tela a colpi di lametta. Nessuno è mai andato oltre, nessuno è riuscito a rappresentare il senso apocalittico della fine e della sua ineluttabilità, a dargli un impatto visivo oltre che strumentale, come i Pere Ubu attraverso la tragica epopea del pilota che conduce se stesso ed il proprio carico di morte verso il centro del mirino. 30 Seconds Over Tokyo/Heart Of Darkness, primo singolo della band autoprodotto per la minuscola Hearthan Records vede la luce nel settembre del 1975 e per passare alla Storia, proprio quella con la esse maiuscola, David Thomas e soci davvero non avrebbero avuto bisogno di altro.

Pere Ubu “Long Live Père Ubu!”

di Marco Tagliabue

27 ottobre 2009

…in appendice alla retrospettiva pubblicata sul n.97 di Late For The Sky…

 

Long Live Père Ubu!

 

Pere Ubu: LONG LIVE PERE UBU!  2009 Cooking Vinyl  CD   

Lo avevamo preannunciato che qualcosa stava bollendo in pentola e, puntuale, pochi giorni dopo aver chiuso l’articolo, arriva la notizia che il 15 settembre uscirà il nuovo album dei Pere Ubu. “Long Live Père Ubu!” presenta gli Ubu nella stessa formazione di “Why I Hate Women” con un paio d’ospiti d’eccezione: la celebre cantante soul-jazz Sarah Jane Morris, che affianca David Thomas alla voce, ed il manipolatore elettronico Gagarin in un ruolo piuttosto difficile da inquadrare, ma certo non di primissimo piano. Cominciamo subito con il dire che “Long Live Père Ubu!” non è il “solito” disco dei Pere Ubu. Purtroppo.

Trentacinque anni fa David Thomas battezzò la propria band Pere Ubu ispirandosi al personaggio principale della pièce teatrale “Ubu Roi” di Alfred Jarry, padre della Patafisica e fra i precursori del Teatro dell’Assurdo. Il legame fra le astrazioni musicali intorno alle quali il cantante andava modellando la propria creatura, e quelle di cui si serviva il teatro-non teatro di Jarry per prendere a pugni lo spettatore, era evidentemente tale da giustificare una delle ragioni sociali più bizzarre ed anti-comunicative di sempre per una rock band. Una vera e propria corrispondenza di amorosi sensi sulla cui natura Thomas ha scantonato per molti anni, senza mai dare una spiegazione esatta riguardo al suo vero significato. Fino a quando, il 24 e 25 aprile 2008 alla Queen Elizabeth Hall di Londra, ha finalmente deciso di confrontarsi con la propria storia, e fors’anche con il proprio destino, portando in scena “Bring Me The Head Of Ubu Roi”, un adattamento teatrale del testo di Alfred Jarry che aveva ispirato il nome della band. Più che un adattamento si tratta, in effetti, di una vera e propria riscrittura dell’opera, che è stata “attualizzata” ed in un certo senso anche proiettata nel futuro dalla vigorosa penna di Thomas. Sul palco tocca al corpulento leader, naturalmente, il ruolo di Père Ubu, personaggio abbietto e meschino costretto dall’odiosissima moglie (Mere Ubu, Sarah Jane Morris), manovrata da un’assurda volontà di riscatto, ad uccidere il proprio re per dare a tutti dimostrazione di forza e di potere. Non ce la farà, naturalmente, e passerà il resto dei suoi giorni nascosto in una squallida caverna a rimuginare sugli errori commessi.

Più musical che opera rock, “Long Live Père Ubu!” è un album che deve necessariamente allineare alla propria dimensione musicale quella più prettamente teatrale, in un legame per forza di cose indissolubile, così come la voce di Thomas è costantemente affiancata a quella della Jane-Morris, formando un’accoppiata strana all’idea della quale, quantomeno, non siamo mai stati abituati dalle produzioni precedenti dei Pere Ubu. Ma, oltre che l’ispirazione, sono anche i contenuti che fanno di “Long Live Père Ubu!” un album diverso dai “soliti” album dei Pere Ubu e, considerando che negli ultimi anni/lustri lo standard era rappresentato da capolavori o poco meno, il lettore accorto forse ha già capito dove vogliamo andare a parare. Siamo probabilmente alle prese con un’opera di transizione, con un album che viaggia parallelo rispetto alla discografia principale degli Ubu, anche se le dichiarazioni di Thomas il quale, forse per la prima volta, si dichiara completamente soddisfatto del proprio lavoro, lasciano presagire il peggio o, nella migliore delle ipotesi, un’accorta strategia promozionale. Diciamo che, quasi sicuramente, “Long Live Père Ubu!” chiude un ciclo, o allo stesso modo ne apre un altro, tracciando comunque, se non la quadratura del cerchio, un punto di approdo abbastanza importante nella storia degli Ubu. E, speriamo, di (veloce) ripartenza. Il suo referente più diretto, almeno in termini musicali, potrebbe essere il Tom Waits di “Frank’s Wild Years”, anche se in quel progetto le canzoni avevano un autonomia maggiore rispetto alla loro dimensione teatrale. “Long Live Père Ubu!”, invece, non può essere letto disgiuntamente da essa e, questo, a parere di chi scrive, più ancora della qualità non sempre ispirata delle tracce che lo compongono, ne rappresenta il limite maggiore. E’ altrettanto chiaro poi che dai Pere Ubu ci si aspetta sempre il meglio, complici le meraviglie a cui hanno abituato i propri ascoltatori, e anche una piccola sensazione di amaro in bocca ha lo stesso effetto di un semplice cerchio al capo per chi non sa nemmeno cosa sia il mal di testa.

Eppure l’inizio, nel segno di una Ubu Overture tutta chitarre e grugniti, ritmi meccanici e furiose folate di theremin, è in perfetto stile Ubu, ma già con Song Of The Grocery Police, Banquet Of The Butchers e March Of Greed siamo in una nefasta atmosfera da musical con brani semplici e diretti cantati a due voci. Less Said The Better, tutta rutti ed elettronica scarnificata, è francamente imbarazzante, mentre Big Sombrero (Love Theme), Bring Me The Head e Slowly I Turn sembrano rivisitare un po’ troppo da vicino l’universo di Tom Waits. Road To Reason e Watching The Pigeons sono gli unici due brani dalla struttura più marcatamente rock, mentre The Story So Far è un lungo jazz noir recitato a due voci su una base molto lenta e scarna tormentata da una selva di effetti. Snowy Livonia dura poco più di un minuto ma è perfetta sul piano strumentale, e l’altro minuto e mezzo di Elsinore & Beyond altro non è che uno smilzo dialogo di chiusura, magari già da dietro il sipario. Che, speriamo, si rialzi in fretta e bene, perché quando anche le certezze cominciano a scricchiolare…non rimane che buttarsi in politica.

Marco Tagliabue