Posts Tagged ‘Tinsley Ellis’

TINSLEY ELLIS – Devil May Care

di Paolo Crazy Carnevale

10 marzo 2022

tinsley ellis

Tinsley Ellis – Devil May Care (Alligator 2022)

Cadenza quasi regolare per le uscite di questo bluesman georgiano accasato presso la blues label per eccellenza, per la quale aveva registrato anche i suoi primi dischi prima di passare alla Capricorn e poi alla Telarc con una carriera discografica di lunghissimo corso iniziata negli anni ottanta.

I suoi dischi sono sempre stati apprezzati anche se negli ultimi anni sembravano un po’ la fotocopia uno dell’altro, gran blues chitarristico ma senza troppa motivazione e impegno. Per questa nuova produzione – realizzata con la produzione di Kevin McKendree, qui anche in veste di tastierista, artefice di parecchie produzioni Alligator – Ellis sembra ricordarsi di essere non solo un bluesman ma anche un sudista, georgiano per di più, lo stato dell’Allman Brothers Band.

Devil May Care, disco molto infernale (oltre al titolo dell’album ci sono altri due brani che nel titolo fanno riferimento al diavolo e agli inferi e a ben vedere anche il disco precedente, Ice Cream In Hell, aveva l’inferno nel titolo) e soprattutto un disco di bel southern rock che oltre che pagar dazio a gente come Allmans e soci riprende altre sonorità tipiche del sud rockettaro.

Il risultato è che tra le mani abbiamo indubbiamente il miglior disco inciso da Ellis negli ultimi anni. Se l’iniziale One Less Reason è una buona composizione guidata dall’incedere dell’organo di McKendree sviluppandosi sull’incalzante ritmo sostenuto da Steve Mackey e Lynn Williams, con la seguente Right Down The Drain è un autentico brano sudista classico, di quelli con i botta e risposta tra una chitarra e l’altra che sfocia nel classico finale a chitarre gemelle, solo che a fare tutto è Ellis da solo. I bollori si placano con la splendida soul ballad Just Like Rain, con il titolare meno impegnato a fare il guitar hero cimentandosi piuttosto come vocalist lasciando posto a McKendree e al suo strumento: a Gregg Allman sarebbe piaciuta molto.

Beat The Devil è un po’ meno sudista, nell’accezione classica del termine, ma funziona bene, grazie anche ai fiati, presenti per altro anche nella composizione precedente. Le atmosfere southern tornano nella lenta Don’t Bury Our Love e in Juju che si snoda tra organo e slide con stacchi mutuati da casa Allman che colpiscono dritto al cuore; atmosfere funky dettate da organo e chitarra in Step Up che vede anche il ritorno della sezione fiati (Jim Hoke e Andrew Carney), poi la lunga One Last Ride ci riporta alla soul ballad e alla voce in stile Gregg Allman, con la slide che ricorda molto Dickey Betts e le sue indimenticabili cavalcate sonore.

Per 28 Days Ellis lascia le origini sudiste lanciandosi in un brano dal sapore molto hendrixiano, con tanto di wah wah, poi per il finale da applausi viene sfoderato di nuovo il rock blues sudista, ma non quello dello stato d’origine, qui Ellis fa un bel tuffo nel Texas blues: Slow Train To Hell (ecco l’inferno che torna) sembra battere la stessa bandiera dei vecchi ZZ Top e della loro Blue Jeans Blues, con grande efficacia, soprattutto nelle parti di chitarra.

Paolo Crazy Carnevale

TINSLEY ELLIS – Ice Cream In Hell

di Paolo Crazy Carnevale

20 marzo 2020

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TINSLEY ELLIS – Ice Cream In Hell (Alligator/IRD 2020)

A due anni dal precedente Winning Hand, il bluesman Tinsley Ellis sforna un nuovo convincente disco di robusto rock blues chitarristico, il secondo dopo il suo ritorno in seno all’Alligator, la casa discografica che lo aveva tenuto a battesimo negli anni ottanta e presso cui era ritornato una prima volta tra il 2005 ed il 2009.

Sotto la produzione di Kevin McKendree, all’insegna di un rapporto professionale consolidato, e con l’accompagnamento della band che aveva suonato nel lavoro precedente, Ellis conferma il suo stato di grazia: il suo stile musicale è di matrice sudista come è naturale aspettarsi da un musicista che proviene dalla Georgia, ma non disdegna di occhieggiare al sound di Chicago (sede della label presso cui è accasato), mescolandolo con adeguate influenze soul che ben si addicono alla sonorità sudiste della band.

Ed è proprio nella title track che questo connubio emerge perfettamente, Ice Cream In Hell è un corposo blues in cui il cantato roccioso di Ellis e la sua chitarra spadroneggiano insieme alle tastiere dell’ottimo McKendree, che oltre a produrre suona piano e organo.

Già col brano d’apertura si era percepito l’humus del disco, Last One To Know è infatti una composizione molto riuscita – arricchita dalla presenza di una ridotta sezione fiati in stile Stax – più della seconda traccia, la nervosa Don’t Know Beans.
Dopo la title track Foolin’ Yourself si presenta come un brano dalle forti influenze chicagoane, poi tornano i fiati nella sofferta e chitarristicamente lancinante Hole In My Heart, di sicuro uno dei pezzi forti del disco: McKendree tiene al tempo stesso il sottofondo d’organo e ricama col piano, mentre la voce di Ellis si dispera e la sua chitarra lancia strali devastanti con tanto di citazione di una marcia funebre.

Meno interessante, anche se indubbiamente accattivante col suo ritmo che incalza, la veloce Sit Tight Mama, con Ellis impegnato alla slide, molto meglio No Stroll in The Park con un lungo intervento d’organo del produttore, che è protagonista anche nel funk energico di Evil Till Sunrise; in Everything And Everyone sembra che Ellis voglia omaggiare Peter Green, con una composizione vagamente latin che non piò far venire la classica Black Magic Woman, indubbiamente piacevole ma la sfida è impossibile. Unlock My Heart viaggia sui binari di Sit Tight Mama, senza la slide e col tempo appena meno ritmato. Il finalone è all’insegna dei quasi sette minuti della struggente Your Love’s Like Heroin, introdotta da un organo chiesastico su cui la chitarra piange come si deve, indubbiamente una composizione di facile presa, con l’andatura che ricorda qualcosa di Roy Buchanan.

TINSLEY ELLIS – Winning Hand

di Paolo Crazy Carnevale

2 marzo 2018

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TINSLEY ELLIS – Winning Hand (Alligator/IRD 2018)

Strumentazione essenziale, pochi fronzoli, il segreto di questo nuovo disco uscito da pochissimo dalle stamperie di casa Alligator è tutto nel sound compatto e torridamente chitarristico snocciolato da Tinsley Ellis. C’è tutto quello che deve esserci per avere un buon disco di blues elettrico moderno: sezione ritmica solida (Steve Mackey e Lynn Williams), un tappeto di tastiere indovinate ad opera del coproduttore Kevin McKendree e naturalmente la voce e la chitarra del titolare, un bluesman del sud che riesce a fondere la sua origine (è Georgiano di nascita) con il blues torrenziale della “Windy City” dove ha sede la casa discografica, con cui, a fasi alterne, ha un rapporto ormai trentennale.

Ellis, che ha collaborato o diviso il palco con la crema del blues contemporaneo, da Stevie Ray Vaughn a Derek Trucks, inizia questa sua nuova fatica con un solido brano intitolato Sound Of A Broken Man, un incipit da antologia che mette subito le carte in tavola riguardo al contenuto.

Meno interessante la traccia successiva, Nothing But Fine, mentre la lenta e struggente Gamblin’ Man si candida subito come una delle cose più belle del disco. Curiosa e simpatica l’idea di indicare per ogni brano il modello di chitarra usata da Ellis, che nel suo parco a sei corde annovera vari modelli, dalla Gibson Les Paul del 2000 fino alla quasi omonima Deluxe del 1973, passando per una Stratocaster del 1959, una Telecaster del 1996 e altro ancora.

I Got Mine è un altro brano molto riuscito, meno lento del precedente, Hiss The World è invece una sorta di boogie con l’organo di McKendree che imperversa splendidamente mentre Ellis ricama misuratamente interventi lancinanti eseguiti con la Stratocaster del ’59.

Stessa chitarra, ma risultato diverso per Autumn Run, bella composizione dall’incedere lento con spunti vagamente hendrixiani nella prima parte e organo superlativo. La breve Satisfied sembra invece un blues per palati poco raffinati, pianoforte e ritmo in odor di rock’n’roll (come diceva qualcuno “il blues ha avuto un figlio e lo hanno chiamato rock’n’roll”) che non impressiona più di tanto; il disco ripiglia leggermente quota con la lenta Don’t Turn Off The Light (mi ricorda qualcosa di Roy Buchanan ma è funestata da una tastiera fuori luogo) a cui segue l’unica cover del disco, il ripescaggio di una classica composizione del Leon Russell dei tempi d’oro, Dixie Lullaby, qui affrontata con l’uso di una bella serie di interventi della chitarra (la Gibson ES 345 del 1967).

Gran finale con la pirotecnica e lunghissima Saving Grace, rasenta quasi i nove minuti, con Ellis e il gruppo lanciati in una bella galoppata elettrica.

TINSLEY ELLIS – Midnight Blue

di Paolo Baiotti

22 giugno 2014

Tinsley Ellis Midnight Blue Front Cover Square

 

TINSLEY ELLIS

MIDNIGHT BLUE

2014 Heartfixer Music   

 

Nato il 4 giugno del ’57 ad Atlanta e cresciuto nel sud della Florida, Tinsley è da anni uno dei musicisti di rock blues sudisti più apprezzati e considerati. Ispirato in gioventù da Cream, Yardbirds e Animals, è stato poi conquistato dai grandi del blues nero a partire da B.B.King. Nell’81 forma gli Heartfixers che incidono tre dischi per la Landslide, prima di firmare come solista per la Alligator.

Georgia Blue esce nell’88 seguito da Fanning The Flames e da altri tre albums, prima del passaggio alla Capricorn e alla Telarc. Dopo un ritorno alla Alligator pubblica lo strumentale Get It! per la sua label personale, seguito da questo Midnight Blue. Ellis è uno che non tradisce: i suoi dischi hanno una consistenza e una solidità notevole, mantenendo un equibrio tra rock e blues con forti venature sudiste. Non a caso ha diviso il palco con Warren Haynes, Allman Brothers, Gov’t Mule, Widespread Panic, Otis Rush, Buddy Guy e Stevie Ray Vaughan ed è molto stimato dai colleghi con i quali ha spesso collaborato.

E anche Midnight Blue prosegue nella stessa direzione, confermando i soliti pregi (solidità, grandi qualità di chitarrista, voce potente e grintosa) e difetti (una certa ripetitività, inevitabile in questo genere). Gli arpeggi acustici di If The River Keeps Rising fanno pensare ad un inizio morbido, ma lo sviluppo del brano ci riporta al classico blues duro di Ellis, con una slide aspra e penetrante. Mouth Turn Dry segue le medesime coordinate, con una chitarra che ricorda il suono di Stevie Ray Vaughan ed una voce bella piena e solo superficialmente sporca. Tinsley non è un grezzo e lo dimostra con la melodica Surrender nella quale spiccano le tastiere dell’esperto Kevin McKendree, già con Delbert McClinton e da anni collaboratore di Ellis, che ha registrato l’album nel suo studio a Franklin, Tennessee. Se è vero che le undici tracce sono autografe, in alcuni casi richiamano in modo evidente brani altrui: It’s Not Funny è un brano trascinante che profuma di New Orleans riprendendo la ritmica di Iko Iko con il basso di Ted Pecchio e la batteria di Lynn Williams in primo piano e una slide profumata di sud, That’s My Story ha una chitarra che potrebbe confondersi con quella di Billy Gibbons e un riff troppo somigliante a Sharp Dressed Man degli ZZ Top, così come il conclusivo slow Kiss Of Death è un rifacimento della gloriosa Blue Jean Blues (sempre ZZ Top), ma è comunque un brano splendido con un assolo esemplare. D’altra parte See No Harm è un blues lento interpretato con adeguata sofferenza, illuminato da un piano gospel e da una chitarra espressiva e Harder To Find ha un andamento drammatico punteggiato dall’organo e illuminato da una chitarra lancinante. Tinsley Ellis in alcuni casi è derivativo, ma è un ottimo interprete sia alla voce che alla chitarra e i suoi dischi, pur non innovando, meritano sempre di essere ascoltati.

Rock & Pop, le recensioni di LFTS/3

di admin

30 marzo 2010

Dalla redazione, una nuova infornata di recensioni

CHARLIE MUSSELWHITE BAND
Rough Dried – Live At The Triple Door
2008 Henrietta Records CD
rough_dried

Per gli appassionati di blues Charlie Musselwhite è una leggenda. La sua carriera si è sviluppata per più di quarant’anni, a partire da Stand Back (Vanguard, 1967) ed è passata attraverso successi, collaborazioni prestigiose, dischi per le migliori etichette specializzate (Vanguard, Arhoolie, Alligator, Telarc) e anche un paio per la Virgin. Armonicista straordinario e cantante dalle qualità non indifferenti che gli hanno consentito di aprirsi ad altri generi come il jazz e la world music, ha superato momenti difficili per i soliti vizi di troppi artisti, trovando una stabilità solo nell’età matura. Gli album più recenti Sanctuary e Delta Hardware hanno ampliato il suo consenso in ambito world music; questo Rough Dried, un live registrato a Seattle nel 2007 e pubblicato per la sua etichetta personale (reperibile sul sito www.charliemusselwhite.com) invece presenta il lato più tradizionale, trattandosi di un concerto di classico e incontaminato blues di Chicago. Accompagnato dall’ottimo chitarrista Kid Anderson e da una sezione ritmica formata da Randy Bermudes (basso) e June Core (batteria), Charlie dà il meglio sia nei brani più ritmati come i boogie River Hip Mama e Strange Land, sia in un paio di slow da applausi, Wild Wild Woman e la splendida She May Be Your Woman. Le influenze jazz sono evidenti nella lunga ed improvvisata Movin’ And Groovin’ e nel classico blues Overtook Me. La voce di Musselwhite esprime passione ed anima, mentre l’armonica ha una varietà di toni e di volumi raggiunta forse dal solo Paul Butterfield tra gli armonicisti bianchi. Per capirlo basta ascoltare l’ultimo brano del dischetto, lo strumentale Christo Redemptor, la “signature song” di Charlie, composta dal pianista e produttore jazz Duke Pearson per Donald Byrd, uno slow dolente e sofferto, espressivo e raffinato, pubblicato originariamente sul primo disco di Musselwhite, ma trasformato nella versione definitiva in Tennessee Woman (Vanguard ‘69). Questa esecuzione live non è da meno e chiude in modo splendido un disco che meriterebbe una più ampia distribuzione.

Paolo Baiotti

 

TINSLEY ELLIS
Speak No Evil
2009 Alligator CD
tinsley

Nato nel 1957 ad Atlanta, Tinsley Ellis è da anni una sicurezza per gli appassionati di rock-blues. Dopo l’apprendistato con gli Heartfixers negli anni ‘80, ha intrapreso con Fanning The Flames (Alligator 1989) una carriera solista che attraverso una dozzina di album e migliaia di concerti lo ha visto scalare le posizioni, diventando uno dei musicisti roots americani più in vista. Dal blues delle origini (influenzato dal soul) si è gradualmente spostato verso un rock permeato di sapori sudisti, sempre rispettoso delle tradizioni soul e blues. E se il suono della sua chitarra è rimasto fedele alle distorsioni dei Cream o di Stevie Ray Vaughan, la voce è migliorata, pur conservando dei limiti di espressività e dinamicità. Speak No Evil è il suo album più recente, inciso con i fedelissimi The Evil One (basso) e Jeff Burch (batteria), una sezione ritmica potente al punto giusto e con un paio di ospiti alle tastiere. Dopo una partenza fin troppo tirata con Sunlight Of Love e Slip And Fall, il dischetto trova un equilibrio con il mid-tempo Speak No Evil e con la morbida It Takes What It Takes. Il gusto per la melodia è evidente nel riff insinuante di Cold Love, Hot Night e nell’ottima ballata Loving For Today, mentre The Night Is Easy e la psichedelica Amanda profumano di Cream. Lo strumentale Rockslide chiude il disco ricordandoci che Tinsley è un eccellente chitarrista anche alla slide.

Paolo Baiotti

 

 

THE DICTATORS
Every Day Is Saturday
2007 Norton Records CD
DICTATORS

Definiti l’anello di congiunzione tra i New York Dolls e i Ramones, i Dictators hanno rappresentato alla perfezione l’anima del rock stradaiolo newyorkese a cavallo tra la durezza dell’hard rock e l’essenzialità del punk, con una buona dose di umorismo e spruzzi di surf music. Se amate il suono di Lou Reed, Blue Oyster Cult, Patti Smith, Flaming Groovies o Television, oltre alle band sopra indicate, non potete non apprezzarli. Sono nati nei primi anni ‘70, hanno pubblicato tre dischi in studio senza raccogliere il meritato riconoscimento e si sono sciolti nel 1979, ma qualche anno dopo si sono ritrovati e sono ancora saltuariamente attivi. A sorpresa la indie Norton ha pubblicato una splendida raccolta di brani inediti (demos, versioni alternate, un paio di b-sides) all’altezza della fama della band. Eccellente il primo demo registrato negli studi della Columbia nel 1973, con il rock energetico di Weekend, l’inedita Backstreet Boogie, il garage rock di Master Race Rock e Fireman’s Friend, la brillante cover di California Sun. Divertente la versione del tradizionale America The Beautiful del 1976, seguita dal potenziale hit Sleeping With The TV On, una melodia meritevole di maggior fortuna. Notevoli i demo di Bloodbrothers (terzo ed ultimo album per la Elektra) con brani potenti come Minnesota Strip e I Stand Tall, l’intensa Faster And Louder, il rock n’roll Borneo Jimmy e la trascinante Stay With Me. Non sfigurano neppure i brani degli anni ‘90 come Loyola e la piacevole What’s Up With That? Una raccolta molto curata anche nelle annotazioni dei musicisti, il chitarrista Scott Kempner (poi leader dei Del-Lords), il bassista e principale compositore Andy Shernoff e il mitico cantante Handsome Dick Manitoba, un personaggio dell’underground newyorkese da tempo proprietario di uno dei migliori bar musicali di Brooklyn, che raccontano con dovizia di particolari ed aneddoti divertenti non solo le sessions del disco, ma anche un’epoca del rock americano.

Paolo Baiotti

 

 

MARSHALL TUCKER BAND
Way Out West! Live From San Francisco 1973
2010 Shout/Ramblin’ CD
mtb

Dagli archivi della MTB spunta un live registrato a San Francisco durante il tour dell’album d’esordio, quando la gloriosa formazione della Carolina del Sud fece da supporto agli Allman Brothers. Una band affamata, ancora grezza, a tratti imprecisa (specialmente il cantante Doug Gray), ma a proprio agio sul palcoscenico, con un Toy Caldwell protagonista assoluto alla chitarra. Cinque brani dall’omonimo primo album, due dall’ancora inedito A New Life e una cover che sarà pubblicata sul doppio Where We All Belong. Senso della melodia innnato con una fusione cristallina di country, rock, blues e un po’ di jazz, queste sono le caratteristiche della band che esegue futuri classici come Take The Highway e la fluida Can’t You See e brani meno noti come la grintosa Hillibilly Band, il delizioso country-rock See You Later, I’m Gone e il piacevole up- tempo Another Cruel Love. Spiccano una torrenziale Everyday I Have The Blues, con un suono più duro rispetto a versioni successive, continui cambi di ritmo e un formidabile assolo slow di Caldwell e la conclusiva 24 Hours At A Time con chitarra, flauto e sax che si alternano negli assoli, guidando i compagni in un’ardita cavalcata sudista. Un’aggiunta gradita e per nulla superflua al prestigioso catalogo di una band storica.

Paolo Baiotti

 

 

JOE PITTS BAND
One More Day
2009 Kijam Records CD pitts

Secondo album in studio per il chitarrista dell’Arkansas, già leader dei Liquid Groove Mojo. Dopo l’esordio solista di Just A Matter Of Time, seguito dal live One Night Only, il nuovo album mostra dei progressi evidenti sia nella scrittura che negli arrangiamenti. Il punto debole resta la voce, anonima e poco incisiva, a differenza della chitarra suonata in scioltezza e con la sicurezza dettata dalla conoscenza di più generi musicali. Se è vero che Pitts resta fedele al rock blues dei primi anni ‘70, influenzato da Jeff Beck e dai Cream, tuttavia non mancano in One More Day tracce più melodiche, anzi sono la maggioranza come Soul Satisfying, la riflessiva title track con un bell’assolo di slide, la ballata Multicolored Memories (avvolgente tappeto di tastiere ed eccellente assolo), la ritmata Boulevard Of Dreams con venature pop molto piacevoli, il raffinato slow blues You Said You Loved Me e la swingata Lie To Ya’ Mama. L’opener Lowdown, Mean And Dirty, la potente Voodoo Trane dalle cadenze hendrixiane e la conlcusiva Hellhounds On Rose Hill ricordano maggiormente gli album precedenti, ma forse sono i brani meno convincenti di un compact soddisfacente, chiuso da una traccia nascosta, una cover di Down Along the Cove di Bob Dylan eseguita con pertinenti accenti sudisti.

Paolo Baiotti

 

 

SHANGAI NOODLE FACTORY
The Second Nature Of Shanghai Noodle Factory
2009 Autoprodotto CD
second nature

Chiusa l’esperienza con i southern rockers Voodoo Lake, il chitarrista e cantante Max Arrigo ha formato i Shanghai Noodle Factory (titolo di un brano dei Traffic) con Diego Tuscano (voce), Alessandro Picciuolo (basso) e Roberto Tassone (batteria). L’esordio della formazione è un disco molto promettente, arricchito dalle partecipazioni di Jono Manson, Joe Pitts e Dave Moretti. Influenzato da band storiche come Cream e Free e più recenti come Gov’t Mule e Black Crowes, il quartetto è sulla buona strada per raggiungere ottimi livelli qualitativi. Le grintose covers di Come Into My Kitchen con un puntuale lavoro di slide di Max (molto migliorato come chitarrista) e di Good Morning Little Schoolgirl con l’armonica di Moretti e un ottimo assolo di chitarra confermano le influenze sopra indicate, ma i brani originali non sono da meno. L’opener Mama’s Pride ha evidenti venature sudiste, mentre Hard Times Are Coming ha un riff accattivante e una sezione strumentale psichedelica degna dei migliori Black Crowes. Long Way From Home è un mid-tempo blues con la slide in primo piano e una sapiente improvvisazione, mentre Never Know è una ballata piacevole con accenti psichedelici che ricordano i Gov’t Mule. Si chiude con l’acustica The Moon Is Knocking, preceduta dalla grintosa Second Nature, cantata da Jono Manson e dal rock blues di Son Of The Witch. Un esordio apprezzabile che, per le caratteristiche del suono proposto, è destinato a ottenere maggiori riconscimenti fuori dai nostri confini, dove la band ha già ricevuto positive recensioni.

Paolo Baiotti

 

 

KEB’ MO’
Live & Mo
2009 Yolabelle CD
keb

Giunto al nono album, il musicista californiano ha lasciato la Sony e pubblicato il primo disco autoprodotto, composto da quattro brani inediti in studio e da sei brani registrati dal vivo Forse era più logico pubblicare un live, magari con qualche traccia in più (visto lo spazio a disposizione), ma evidentemente l’artista voleva amalgamare le diverse origini dei brani che si distinguono solo per qualche applauso sfumato. Partito come bluesman, Keb’Mo’ ha ampliato il suo raggio d’azione già negli anni ‘90 e si può considerare con Eric Bibb e Guy Davis il principale esponente di un genere a cavallo tra folk, blues e soul con qualche venatura pop, maggiormente evidente nei dischi del chitarrista di Los Angeles. Proprio l’eccessiva leggerezza, l’estrema pulizia del suono e un’unifomità ritmica (con netta prevalenza di mid-tempo) sono i difetti che i detrattori di Keb’Mo’ evidenziano a ogni nuova uscita. In realtà, era naturale che un’artista dotato di una voce calda e melanconica e con un innato senso per la melodia cercasse una strada in qualche modo più commerciale rispetto al blues o al folk. Il rischio è di esagerare e di smarrire le proprie radici; talvolta Keb’Mo’ non riesce a evitarlo, ma i suoi dischi sono molto gradevoli e raffinati. Nel nostro caso non mancano un paio di tracce un po’ inconsistente come il soft pop Victims Of Comfort e l’ottimistica Brand New America ed in qualche momento la perfezione formale prende il sopravvento come in The Action, ma prevalgono i brani di sostanza, tra i quali preferisco Perpetual Blues, la melanconica ballata One Friend, l’errebi di Government Cheese con una discreta presenza di fiati e la riflessiva e intensa Shave Yo’ Legs.

Paolo Baiotti

 

 

LUTHER DICKINSON & THE SONS OF MUDBOY
Onward And Upward
2009 Memphis International CD
dickinson

Jim Dickinson, noto musicista e produttore (ha collaborato con Rolling Stones, Bob Dylan, Flamin’ Groovies, Green On Red, Mudhoney e tanti altri) ci ha lasciato il 15 agosto del 2009 a Memphis. Non è stato un artista compiacente, ha sempre cercato di superare gli steccati e di creare o produrre musica non convenzionale. E ha cresciuto due figli anch’essi musicisti di ottimo livello, Cody e Luther, ovvero due terzi dei North Mississippi Allstars. Luther da un po’ gira anche con i Black Crowes, mentre Cody ha formato i tostissimi Hill Country Revue. Tre giorni dopo la morte del padre, Luther ha raccolto qualche suo amico (Jimbo Mathus e Shannon Mcnally) e un paio di ex compari del padre (Sid Selvidge e Jimmy Crosthwait membri con Jim di Mudboy & The Neutrons) e ha improvvisato una session in suo onore negli studi di famiglia, i Zebra Ranch. Il tutto è stato registrato e pubblicato su compact dalla famiglia Dickinson. Dodici brani, due composti da Luther, gli altri classici della tradizione gospel e spiritual, ascoltati in chiesa o nei vecchi dischi di Fred Mc Dowell. Brani già eseguiti dai grandi della musica americana (Joan Baez, Johnny Cash, Elvis Presley, Hank Williams, Merle Haggard, Willie Nelson, Mahalia Jackson), in versioni scarne e minimali, tra country, bluesgrass, blues in stile Fat Possum, con la voce a tratti incerta, la slide di Luther e pochi strumenti di accompagnamento. Una dolente Keep Your Lamp Trimmed & Burning, una sussurrata Angel Band, l’autografa Up Over Yonder e lo spiritual Back Back Train sono le tracce che mi hanno colpito di più. Un disco da centellinare con attenzione e pazienza quando si ha la disposizione d’animo adeguata.

Paolo Baiotti

 

 

LUTHER ALLISON
Songs From The Road
2009 Ruf CD+DVDluther allison


Tra i grandi chitarristi della seconda generazione del blues di Chicago con Buddy Guy, Otis Rush e Magic Sam, Luther Allison (nato nel 1939) ha avuto una carriera non facile. Dopo l’esordio su Delmark è stato uno dei pochi bluesman a incidere per la Motown negli anni ‘70, ma i suoi dischi sono passati inosservati. A tratti pià vicino alle sonorità di chitarristi rock come Hendrix, è stato molto apprezzato in Europa e si è stabilito per anni in Francia. Solo negli anni ‘90 ha firmato per la Alligator e ha trovato il giusto riconoscimento in patria. Nel luglio del 1997 gli fu diagnosticato un tumore incurabile che lo uccise un mese dopo. Alcuni dei suoi dischi migliori sono stati pubblicati postumi, lo strepitoso doppio Live In Chicago (Alligator ‘99), la ristampa di Luther’s Blues con bonus tracks (Motown 2001) e questo Songs From The Road registrato al Festival del Jazz di Montreal il 4 luglio del 1997, uno dei suoi ultimi concerti. Una voce tosta, grintosa e ben modulata, un registro di chitarra esplosivo a cavallo tra rock e blues, un suono con influenze multiformi (soul, funky, reggae, rhythm and blues), una band nella quale spicca la seconda chitarra di James Solberg (che affianca Luther anche nella scrittura di molti brani), un repertorio che alterna tracce più o meno veloci, con venature rock e funky compongono il mosaico di un dischetto eccellente che raggiunge vertici assoluti nello slow da antologia Cherry Red Wine e nella potente cover di It Hurts Me Too. Da non trascurare la visione del DVD, che comprende sei brani presenti anche sul CD e l’inedita Move From The Hood, ma ci consente soprattutto di vedere in azione un musicista che sul palco non si risparmiava ed era dotato di un felling incredibile con il suo pubblico. Oltre a una lunga intervista, il DVD contiene un tributo ad Allison, l’estratto di un documentario in preparazione sul musicista con testimonianze e immagini inedite molto interessanti.
 

Paolo Baiotti

ALESSANDRO DUCOLI
Piccoli animaletti
2010 RNRCW CD
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Alessandro Ducoli e Ligabue, il pittore. Alessandro Ducoli inesauribile e alle prese con un nuovo disco in italiano dopo il recente live in duo con Kutov e il disco in inglese dello scorso anno realizzato sotto il nickname di Cletus Cobb. Una delle cose che entusiasmano ascoltando questo artista e che spiazzano anche quando si crede di conoscerlo abbastanza, è la sua capacità di fare un disco che non ha nulla a che vedere col precedente (Artemisia Absinthium, la sua penultima fatica in italiano) per quanto riguarda le sonorità. Questo Piccoli animaletti arriva in una scintillante confezione cartonata con ben due booklet (uno con le note e i testi e l’altro con dei raccontini legati ai brani), impreziosita dalle riproduzioni di dipinti di Ligabue messi gentilmente a disposizione gratuitamente dalla fondazione che si occupa del pittore padano. Ma non facciamoci ingannare, non è la bella confezione a fare bello il disco. Il vero tesoro di questo CD è il suo contenuto musicale, come dovrebbe essere per tutti i dischi. Una manciata di composizioni firmate per lo più col chitarrista Mario Stivala, ma anche col pianista Andrei Kutov (abituale sparring partner del Ducoli nelle serate live), entrambi presenti in studio, insieme a Ellade Bandini, Michele Gazich, Max Gabanizza, Mirko Spreafico e altri più o meno abituali compagni d’avventura. Qualcuno, forse Ducoli stesso, sostiene che il Ducoli dovrebbe centellinare maggiormente la propria arte, pubblicare meno dischi, non inflazionare il sottobosco indipendente con i suoi molti dischi, ma questo lo snaturerebbe, sarebbe come imbrigliare un fiume un piena continua. Ecco dunque una serie di canzoni, alcune fatte e finite, altre semplici raccordi tra un brano più lungo e l’altro, dedicate ad animali reali e ad altri invece di fantasia. Con la voce del Ducoli al servizio di brani d’ispirazione rock come l’iniziale La malura (ottima) e altri dall’andamento magnificamente spezzato come I miei cento difetti e Il carro, per non dire della title track e di Rattus in cui il nostro si fa accompagnare da un coro di bambini. Tra le perle del disco ci sono poi Il mulo impreziosita da un bel solo di chitarra finale, Una nuova città, la jazzata Il Laccabue (con espliciti riferimenti a Ligabue) e il conclusivo brano fantasma cantato in dialetto camuno. Per informazioni e reperibilità del disco: http://www.merendinemusica.com.

Paolo Crazy Carnevale

 

 

BARNETTI BROS. BAND
Chupadero
2010 Eccher Music CD
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Probabilmente la mia recensione sarà un’eccezione nel mare di lodi e di entusiasmi che l’uscita di questo disco ha suscitato, ma in tutta sincerità, pur contenendo alcune pregevoli canzoni, trovo che questo Chupadero sia un disco riuscito a metà. Certo, il suono è impeccabile, sia nelle ballate più tipiche della frontiera che in altri brani di differente ispirazione (mi viene in mente il grande tappeto di organo nella Ballata di Hannah Snell), ci sono alcune composizioni di grande spessore, ma non tutto funziona a dovere. Certo la produzione di Jono Manson e la presenza di Andrew Hardin, Tom Russell, Terry Allen hanno gran parte nel risultato sonoro, ma con certi “sidemen” sarebbe quasi impossibile fare un brutto disco. Mi spiego: il problema che mi rende perplesso è legato alle voci di questo disco, da una parte c’è quella di Manson, non sfruttata al meglio, chi conosce la sua carriera solista può capire cosa mi riferisco, e c’è quella di Massimiliano Larocca, non male, dall’altra ci sono quella più flebile di Andrea Parodi e quella davvero priva di estensione di Massimo Bubola. Un peccato, perché Bubola è uno dei massimi autori nel panorama italiano, capace di comporre brani intensi e grandiosi, ma la voce proprio non c’è. E cantando in prima persona rende un cattivo servizio a quanto scrive e al disco che ha inciso insieme ai compadres che qui lo acompagnano. La prova lampante è nell’inizio di questo disco, una versione in inglese della sua Camice rosse, qui ribattezzata Cops And Mosquitos (gran titolo) e affidata alle corde vocali di Manson e Terry Allen. Una canzone che non avrebbe sfigurato nel canzoniere di De Andrè (che con Bubola non a caso ha lavorato molto). Così come Son passator cortese sarebbe stata bene nelle corde vocali di Marino Severini (Gang). Le canzoni di Bubola sono senza dubbio le migliori del disco, ma solo Cops And Mosquitos riesce a brillare grazie al fatto di essere cantata da altri. Larocca dal canto suo propone un bel brano dedicato al brigante Tiburzi e duetta con Parodi nella grande versione in italiano del classico di Townes Van Zant Pancho And Lefty. I fratelli Barnetti affidano alla gran voce di Tom Russell la versione in inglese del brano di Luigi Grechi Il bandito e il campione, che qui diventa Sante y Girardengo ma se dal punto di vista dell’interpretazione canora non c’è nulla da eccepire, non ho trovato convincente l’arrangiamento. Una menzione al brano dedicato a Dion, L’angelo del Bronx, anche se Jono Manson che canta in italiano (con buona pronuncia peraltro) è un po’ difficile da mandare giù.

Paolo Crazy Carnevale

 

 

DANNY JOE BROWN
Danny Joe Brown & The Danny Joe Brown Band
1981 Epic LP– 2009 Rock Candy CD
djbrown

Nato nell’agosto del 1951 a Jacksonville, Danny Joe è stato il cantante della formazione originale dei Molly Hatchet. Con la band sudista ha inciso i primi due album, l’omonimo esordio e il brillante Flirtin’ With Disaster, che catapultò nel 1979 il gruppo nella top twenty americana vendendo oltre due milioni di copie. Pochi mesi dopo Brown lasciò la band, ufficialmente per innegabili motivi di salute (soffriva di diabete), ma probabilmente anche per dissidi con il manager Pat Armstrong. A questo punto il cantante contattò il chitarrista Bobby Ingram con il quale aveva suonato in gioventù nei Rum Creek e insieme scelsero gli altri componenti della nuova band, Steve Wheeler e Kenny McVay alla chitarra, John Galvin alle tastiere, Buzzy Meekins al basso e Jimmy Glenn alla batteria. Dopo un intenso periodo di prove la formazione riuscì a ottenere un contratto con la Epic e un produttore di prestigio come Glyn Johns (Rolling Stones, Who, Eric Clapton). Registrato nei Compass Studios di Nassau, Bahamas, il primo e unico album della Danny Joe Brown Band fu inciso come ai vecchi tempi, in venti giorni senza troppe sovraincisioni e con tutti i musicisti contemporaneamente in studio. Un disco simile al suono dei primi Molly Hatchet, ma di gran lunga superiore a Beatin’ The Odds, il grezzo e pesante terzo album della band e al successivo Take No Prisoners, entrambi con il monocorde Jimmy Farrar alla voce. La grintosa Sundance apre la prima facciata, un mid-tempo caratterizzato dalla slide di Ingram e dalla tipica voce roca di Danny Joe, quasi un ringhio a suo modo scorrevole ed armonioso. Nobody Walks On Me ha un’intro skynyrdiana e il suono dei migliori Hatchet, The Alamo è un up-tempo orgoglioso con le chitarre in evidenza (la voce è mixata un po’ bassa come in altri brani), mentre Two Days Home è un po’ scontata. Il fulcro del disco è la poderosa Edge Of Sundown, un epico brano classicamente sudista con un’introduzione pianistica, un bel riff di chitarra, cambi di ritmo, cori alla Outlaws, senso della melodia e chitarre che impazzano nel finale. Beggar Man apre alla grande il secondo lato, seguita dalla trascinante Run For Your Life e dalla prevedibile Hear My Song, salvata dal piano e dalla slide. Anche Gambler’s Dream non mi convince, troppo vicina a un hard rock di maniera, meglio la conclusiva Hit The Road, con cambi di ritmo e assoli di chitarra incisivi. Il disco non ottenne un successo folgorante, vendendo circa duecentomila copie, ma la band fece da supporto a Blackfoot, Henry Paul e Foghat, creando un discreto interesse. Tuttavia, la Epic convinse Brown a tornare con i Molly Hatchet, che nel frattempo avevano perso molti consensi e il secondo album, in parte già pronto, non fu mai completato. In seguito anche Ingram e Galvin entrarono negli Hatchet (e ne fanno ancora parte), mentre Danny Joe si è ritirato dalle scene alla fine degli anni ‘90 a causa di un infarto ed è morto il 10 marzo del 2005. Un plauso alla Rock Candy che ha recentemente ristampato l’album in compact disc, con un’attenta rimasterizzazione e un booklet molto curato.

Paolo Baiotti