Archivio di aprile 2018

BODINROCKER – Roller Coaster Ride

di Paolo Baiotti

29 aprile 2018

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BODINROCKER
ROLLER COASTER RIDE
Bearman Music 2017

Bodinrocker è l’attuale gruppo di Anders Bodin, esparto musicista svedese attivo dagli anni novanta. Cresciuto nel villaggio di Hallen nello Jantland nel centro della Svezia, Anders si è trasferito da adolescente a Uppsala, dove ha imparato a cantare e suonare la chitarra, ispirato principalmente dal rock inglese di Beatles, Slade, Faces e Status Quo (la sua band preferita). Nei primi anni del nuovo millennio, dopo essersi dedicato più seriamente ad altri lavori, Bodin ha ripreso ad occuparsi di musica, esordendo nel 2006 con Half Of Flames, un album di rock semplice ed essenziale realizzato con sessionmen esperti e la produzione di Lars Ekberg che continua ad affiancarlo ancora oggi. Nel 2010 è uscito Mysterious Man, un disco di rock melodico con impasti di chitarre e tastiere pubblicato con lo pseudonimo Bodinrocker, confermato per Rock It The Hard Way, uscito nel 2014 con le medesime coordinate sonore, ma con l’aiuto dell’olandese Jan Leentjes per i testi. Ed ora, in attesa del quarto album Eye To Eye, Bodinrocker pubblicano un Ep con quattro brani, i due nuovi singoli che faranno parte del disco e due traccie dall’album precedente. Roller Coaster Ride è un rock ritmato, allegro e scanzonato che ricorda gli Status Quo, con un assolo di chitarra tanto elementare quanto efficace, mentre Vacation è un boogie rilassato e ritmato, senza grandi ambizioni. Quanto ai due brani già noti Space ha un ritmo cadenzato, quasi marziale debitore del pop britannico degli anni sessanta e Long Way Round mantiene alto il ritmo con cadenze tipicamente inglesi, rinvigorite da un assolo ben costruito. Musica melodica tra pop e rock, scorrevole e ballabile.

THE DEEP DARK WOODS – Yarrow

di Paolo Crazy Carnevale

29 aprile 2018

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THE DEEP DARK WOODS – Yarrow (Six Shooter Records/Thirty Tigers/IRD 2017)

Nuovo disco per i canadesi Deep Dark Woods, a quattro anni dall’acclamato e irripetibile Jubilee che era stato pubblicato dalla Sugar Hill e prodotto con maestria da Jonathan Wilson.

Il nuovo disco, pur apprezzabile e godibile è senza dubbio un passo indietro rispetto a quel doppio LP, che era il quinto della discografia della formazione.

Un passo indietro un po’ per la produzione decisamente più povera e casalinga (sono il bassista Shuyler Janssen e il cantante chitarrista Ryan Boldt ad occuparsi della regia). Le registrazioni, ci indicano le poverissime indicazioni di copertina, sono state fatte in Canada, a Saskatoon (luogo natale di Joni Mitchell) e ci consegnano un collaudato folk rock molto intimista e, se vogliamo, molto canadese, pur non somigliando a nessuno direttamente, i Deep Dark Woods condensano nel loro suono decenni di musica canadese: c’è certa solennità tipica di The Band, ci sono sommesse atmosfere younghiane e c’è anche l’approccio strumentale che ricorda i Cowboy Junkees. Il sound ovviamente non dispiace, manca solo un po’ di ardimento in più nella produzione e qualche brano più coinvolgente che non difettava di certo a Jubilee.

Rispetto a quel disco, se ne è andato Chris Mason e il gruppo si è consolidato attorno a Boldt che è il leader a tutto tondo. I brani sono stati partoriti durante la convalescenza di Boldt dalla scarlattina e le sonorità sono tutte costruite su un largo uso di ogni tipo di chitarra, da parte del leader ma anche da parte di Clayton Linthicum che ci aggiunge pure una serie di tastiere ed effetti attorno a cui si cementa il risultato finale. Alla batteria siede Mike Silverman, Barrett Ross ci mette congas, vibrafono e flauto, e last but not least, c’è la voce di Kacy Lee Anderson che si lega perfettamente a quella dolente di Boldt (la Anderson e Lynthicum sono anche titolari di un duo a proprio nome, attivo nel medesimo Saskatchewan in cui si trova Saskatoon).

Buono, ma non eccelso, il brano d’inizio, Fallen Leaves, e buoni anche Up On The Mountaintop e Deep Flooding Waters, ma il disco decolla definitivamente con Roll Julia e con la lunga The Birds Will Stop Their Singing, un’elaborata composizione che parte in sordina e cresce corposamente e dipanandosi per quasi nove minuti tra break di chitarra che citano sia il country rock americano che il folk rock britannico, con le voci di Boldt e della Anderson ben amalgamate.

San Juan Hill è un’altra bella composizione che grazie all’uso di tastiere che replicano il suono della fisarmonica richiama particolarmente le composizioni di the Band, Drifting On A Summer Night ha ancorale voci in evidenza e dei gran bei suoni delle varie chitarre usate da Boldt e Lynthicum.

Teardrops Fell inizia con una chitarra in odor di Richard Thompson e sfocia in un arrangiamento tipico di the Band – c’è una certa, vaga somiglianza con Tears Of Rage –, le voci sono ben inserite e il brano si sviluppa per quasi cinque minuti ed è sicuramente tra le cose più riuscite del disco.

La conclusiva The Winter Has Passed è più intima, raccolta, quasi uno spiritual nordico.

THE MAGPIE SALUTE – The Magpie Salute

di Paolo Crazy Carnevale

28 aprile 2018

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THE MAGPIE SALUTE – The Magpie Salute (Eagle Rock/Cargo Records 2017)

Sarà anche pura nostalgia di un sound lontano e in parte perduto, ma questo doppio vinile d’esordio dei Magpie Salute, è uno dei migliori dischi che mi sia capitato di ascoltare negli ultimi tempi – rimanendo nel campo delle novità, senza andare a rimestare nello sguazzamento delle ristampe o del materiale d’archivio portato alla luce.

Che i fratelli Robinson, in seno ai Black Crowes o sotto altre vesti, fossero i più accreditati eredi e diffusori delle sonorità dei primi anni settanta non è certo una novità, come non è una novità che siano anche bravi a riproporre il buon classic rock senza risultare per questo datati. La bella novità è che dopo i buoni dischi della Chris Robinson Brotherhood, pare che anche Rich abbia trovato la formazione con cui continuare a diffondere il verbo.

Dirò di più, questi Magpie Salute mi piacciono forse più del gruppo dell’altro fratello Robinson, senza volergli togliere nulla: la band di Rich mi sembra più compatta, più diretta, concreta, ma in sostanza si tratta solo di differenti sfumature ottenute con gli stessi pastelli.

Anche Rich, per mettere insieme la sua numerosa compagine di accompagnatori ha ripescato nelle formazioni dei Black Crowes e con lui ci sono Marc Ford, Sven Pipen e Eddie Harsch , oltre ad altri amici, incluse un paio di coriste che danno una bella mano a sfoderare un robusto risultato che affonda le radici nel rock più tipico, un po’ sudista, un po’ hard: il tutto senza risultare datato.

Il disco, inciso dal vivo in quel di Woodstock, nel corso delle classiche session organizzate da Michael Birnbaum e Chris Bitner, può contare sulla ripresa di alcuni brani provenienti dal passato, sia cover d’autore che repertorio dei Black Crowes più amati.

Insomma è difficile sbagliare il colpo quando si hanno in scaletta canzoni come Comin’ Home, dal repertorio di Delaney & Bonnie (and Friends with Eric Clapton), Glad And Sorry di Ronnie Lane, Time Will Tell di Bob Marley.

Rich si divide le parti vocali con John Hogg e quelle chitarristiche con Ford e con Nico Bereciartua: si comincia con il brano originale Omission, tanto per far capire all’ascoltatore da che parte si vada a parare, poi è già leggenda col suddetto brano firmato dai Bramlett con Clapton, con un bell’arrangiamento molto solido, più in odor di Humble Pie e Small Faces rispetto all’errenbì originale, ma è proprio quanto ci si potesse aspettare da una formazione guidata da Rich, che è autore dell’apprezzabile What is Time con cui si chiude la prima facciata del doppio.

Il lato B si apre con una notevole ripresa di Wiser Time, cavallo di battaglia dei Black Crowes a cui il trattamento Magpie Salute giova totalmente, grazie anche ad un arrangiamento che lascia spazio ad improvvisazioni meno divaganti rispetto a quelle a cui ci ha abituato l’altro Robinson con la sua Brotherhood: gran lavoro di Ford ma anche delle doppie tastiere di Slocum e Harsch. Nove minuti di cavalcata sonora di grande efficacia, al pari della successiva Goin’ Down South, entusiasmante brano strumentale composto da Joe Sample e ripreso anche da Crusaders e da Bobby Hutcherson, che fu il primo ad inciderlo. La versione è notevole anche in questo caso, a riprova di quanto bene funzioni il gruppo. Il secondo dei due vinili parte alla grandissima con un ripescaggio eccellente dal repertorio dei War, un brano che i Magpie Salute affrontano con grande efficacia triplicandone la durata rispetto alla durata dell’originale: War Drums nella rilettura di Robinson, Ford e soci diventa una brillante cavalcata sudista che non può richiamare alla mente quelle ordite da Dickey Betts per i suoi grandi brani strumentali incisi in seno all’Allman Bothers Band, le chitarre sono fluidissime, la ritmica incalzante e l’esecuzione si candida subito come una delle cose migliori di questo doppio album che procede con in sette minuti di Ain’t No More Cane, passando così dal southern rock ad un suono più di frontiera e tradizionale. Il rimando è ovviamente al The Band che il brano l’aveva inciso per il doppio dylaniano The Basement Tapes, ma l’esecuzione dei Magpie Salute ci mette del proprio così che anche stavolta, trattandosi di un disco prevalentemente di cover, quello che emerge è la compattezza sonora di una formazione che pur non sapendo dove andrà a finire ha dei punti di partenza alquanto solidi. Da applausi le tastiere totalmente in odor di Garth Hudson, i passaggi delle chitarre nella parte centrale e la coda pianistica.
Il lato quattro porta il disco verso il gran finale e naturalmente lo fa alla grande con un ripescaggio della pinkfloydiana Fearless (stava su Meddle): l’approccio è ottimo, il brano è cantato con orecchio rivolto all’originale ma l’arrangiamento porta sonorità slide meno usuali nella musica della band inglese. Sempre inglese il brano successivo, stavolta firmato da Ronnie Lane (la menzionata Glad And Sorry) e coniugato ancora una volta a sonorità southern con un gran basso a tessere insospettabili linee melodiche.

Ultima composizione del disco è Time Will Tell che i Black Crowes avevano già ripreso nel loro secondo disco, la versione che Rich ordisce insieme ai Magpie Salute è più lunga, più corale, tutto il gruppo vi prende parte e la matrice reggae è più evidente che nella versione dei Corvi: anche qui le tastiere costruiscono un background ideale mentre la ritmica sembra emulare il rollare di un battello all’ormeggio, finalmente si sentono adeguatamente anche le coriste e il gruppo sembra davvero appagato da questa sua fatica.

Certo, rimane da vedere come saranno questi ragazzi se si cimenteranno con un disco di nuovo materiale autografo, ma le premesse per sperare bene ci sono tutte.

28 e 29 aprile, in arrivo tre Fiere del Disco

di admin

24 aprile 2018

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somma lombardo 28 aprile

Week-end ghiotto per gli amanti del vinile, ecco il calendario

SABATO 28 APRILE
Seconda edizione della Fiera del Disco di Somma Lombardo
appuntamento dalle 10 alle 18
in Via Marconi, 6, presso la Biblioteca Comunale
INGRESSO LIBERO

DOMENICA 29 APRILE/ 1
A San Vittore Olona, 7° edizione della Fiera del Disco
In Via Achille Grandi, 2
presso il Centro Sportivo G. Malerba
dalle 10 alle 18
INGRESSO LIBERO

DOMENICA 29 APRILE/ 2
9° Edizione della Fiera del Disco di Mariano Comense
Presso il Pub IL CIRCOLO
Via E. D’Adda, 13
dalle 10 alle 19
alle ore 11.00 presentazione del libro “RY COODER” di Aldo Pedron

PRONTI PER IL VINYL TOUR?

CHARLEY CROCKETT – Lonesome As A Shadow

di Paolo Crazy Carnevale

24 aprile 2018

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CHARLEY CROCKETT – Lonesome As A Shadow (Thirty Tigers/IRD 2018)

La prima cosa che viene in mente leggendo il nome di questo songwriter texano è ovviamente l’eroico fanfarone che fu persino deputato del Tennessee e che partecipò alla difesa di Fort Alamo: niente di più giusto a giudicare dalla biografia di Charley in cui il musicista si dichiara proprio discendente del mitico Davy.

Questo disco uscito per la Thirty Tigers non è il suo debutto ma è quasi come se lo fosse, nel senso che i suoi sforzi musicali precedenti erano autoproduzioni realizzate per il mercato indipendente: Lonesome As A Shadow è un disco che viaggia su differenti binari e inizia in maniera fuorviante. È chiaro da subito che la voce del nostro è la sua carta vincente, ma i primi due brani faccio fatica a mandarli giù, sembrano troppo Texas songwriting qualunque, nel senso che in Texas e dintorni di cantautori ce ne sono talmente tanti che noi possiamo giusto farci una pallida idea di quanto il panorama sia vasto: I Wanna Cry e The Sky’d Become Teardrops non sono brutti brani ma non aggiungono nulla a miriadi di ascolti a cui ci siamo sottoposti in tanti anni, sono davvero brani qualunque, non proprio entusiasmanti. Ma i dischi, è buona regola, vanno ascoltati dall’inizio alla fine e questo ha il pregio/difetto di durare davvero poco, mezz’ora, ascoltarlo nella sua interezza non ruba troppo tempo e si dimostra molto valido visto che dalla terza composizione in poi diventa una rivelazione.

Crockett più che un semplice cantautore è anche un soul man, un country soul man. Ed ha le idee molto chiare, per registrare si è recato a Memphis, in quelli che furono gli studi di Sam Phillips, accompagnato dai suoi fidi Blue Drifters, nel giro di quattro giorni ha messo nero su bianco una dozzina di canzoni, con poco o nulla di sovrainciso, quasi in presa diretta, costruendo un’architettura sonora davvero impeccabile, sorretta da un uso parsimonioso e mai sbagliato delle tastiere,dei fiati e soprattutto di quella sua voce entusiasmante.

Ain’t Gotta Worry Child, terza traccia del disco è già pienamente convincente, e il disco procede poi nella stessa direzione qualitativa: How Long Will I Last, If Not The Fool e la robusta Help Me Georgia hanno tutte quello che potremmo definire un marchio di fabbrica originale, con le sfumature della voce di Crockett che emozionano. La title track è più virata verso suoni acustici, ma sempre con una punta di blues.
Crockett è stato paragonato a molti autori, tra gli altri il mai abbastanza lodato Bill Withers, e in brani come Sad & Blue e Oh So Shaky i richiami vocali e sonori all’autore di Ain’t No Sunshine traspirano abbondantemente, più leggera Li’l Girl’s Name, all’insegna di atmosfere sixties.
Goin’ Back To Texas, vira verso il texas blues, con fiati, fisarmonica e doverosa chitarra elettrica, quasi in odor di Dave Alvin, prima della chiusura in chiave acustica e intima, affidata a Change Yo’ Mind, eccellente suggello per un disco per molti versi sorprendente.

Voglia di vinile, elogio delle Fiere del Disco.

di Roberto Anghinoni

18 aprile 2018

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Dopo la pausa (quasi) di gennaio sono tornate prepotentemente alla ribalta le Fiere del Disco, un appuntamento ormai quasi settimanale, sulla scia del consolidato e fortemente tradizionale mercato anglosassone, dove di fiere del disco ce n’è a bizzeffe, ogni week-end, un po’ ovunque.

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Pubblichiamo qualche foto, estremamente esemplificative, che testimoniano come il fenomeno stia attirando un sacco di gente, di tutte le età. La magia del vinile (ma anche del CD e dei DVD) è sempre viva, anzi di più, perché se è vero che molte persone le visitano per curiosità, è altrettanto vero che poi questa curiosità si trasforma in ricerca, e la ricerca in acquisti. Chi non ha più il giradischi, se lo compra (anche in queste fiere), i giovani girano fra gli stand con il telefonino in una mano e i dischi nell’altra, nel nome di una convivenza possibile, nonostante l’incubo del digitale.

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E con ormai frequente regolarità si annunciano nuove date, stanno partendo anche i week-end itineranti (per esempio , il 28 aprile a Somma Lombardo (VA) e il 29 aprile a S.Vittore Olona (MI), e sempre il 29 aprile c’è anche Mariano Comense.

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Il 14 e 15 aprile c’è stata la due giorni a Varese, una Fiera che possiamo considerare storica, visto che ha festeggiato la sua edizione numero 37. Cardano al Campo/ Malpensa (VA) sarà il 20 maggio. Questi ovviamente sono solo alcuni degli appuntamenti. Grandi città come Torino, Bologna, Genova e Verona, anche Bergamo, Brescia e Alessandria hanno le loro tradizionali Fiere del Disco, e poi chissà quante altre un po’ in tutta Italia.

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L’importante è che il vinile continui a girare, e un po’ di merito va anche alle Fiere del Disco. Le foto che vedete sono state scattate a Busto Arsizio e a Varese.

somma lombardo 28 aprile

MOJO MONKEYS – Swerve On

di Paolo Crazy Carnevale

17 aprile 2018

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MOJO MONKEYS – Swerve On (Medikull/Hemifran 2017)

Ecco qui un dischetto di rock ‘n’roll da terzo millennio, senza pretese ma godibile, nulla di nuovo, ma tanta voglia – da parte del trio titolare – di divertirsi suonando una musica che fa parte del suo DNA.

I Mojo Monkeys, di base a Los Angeles dove i tre componenti del gruppo hanno inanellato una serie di collaborazioni così altisonanti da mettere paura, hanno registrato questo loro terzo disco presso lo studio Honky Abbey, sotto la supervisione del batterista e cantante della formazione David Raven, il cui pedigree da paura include Lucinda Williams, Meat Puppets, Beth Hart, Bobby Womack e Delaney Bramlett (tanto per dire bruscolini).

È un disco, questo Swerve On, di rock’n’roll/blues notturno, a tratti punk, a tratti swingante (i brani d’apertura intitolato Tuscaloosa Maybe e Two Shots su tutti), musica per divertirsi in definitiva, sia suonandola che ascoltandola.

Con Raven ci sono il chitarrista Billy Watts che ha suonato con John Trudell e il bassista Taras Prodaniuk che ha lavorato molto con Lucinda Williams, Richard Thompson, Dwight Yoakam e (con Raven) ha fatto parte della house band di un bel tributo a Gram Parsons pubblicato in DVD una quindicina d’anni fa.

Sono undici le tracce che compongono il disco e, tralasciando le iniziali composizioni swing, la parte più divertente è quella rock’n’roll venata di blues che domina dalla terza traccia in poi, About To Get Gone ad esempio strizza l’occhio a John Hiatt ma anche a certe sonorità più sotterranee quali quelle di Tito Larriva, Beat Bus Driver ha una parte strumentale centrale assai contagiosa.

Music for fun, senza dubbio: come già osservato credo che nessuno di questi Mojo Monkeys abbia mai pensato di realizzare un capolavoro musicale, quanto al divertimento direi che l’obiettivo è raggiunto in pieno, sia con brani crepuscolari come If I Were Gone o Argyle & Selma, o con la cover della Ride Your Pony di Allen Toussaint, che con la robusta ballad che intitola il disco.

Come ospiti nel disco suonano Gregg Sutton (altro veterano della città degli angeli) e Marty Rifkin (che ha suonato con Springsteen, Tom Petty, Jewel…).

JOHN GORKA – True In Time

di Paolo Crazy Carnevale

12 aprile 2018

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JOHN GORKA – True In Time (Red House/IRD 2018)

C’è qualcosa di nuovo che ci si possa aspettare dal cantautorato americano classico? La risposta probabilmente è no. Certo, ci sono le eccezioni, e ci sono le varie scuole cantautorali: ci sono i rudi texani, ci sono i californiani, ci sono quelli del midwest e ci sono naturalmente quelli metropolitani, quasi tutti sono riconducibili ora a quel genere che viene definito “americana”.
John Gorka è uno dei pionieri, uno di quelli più legati a questa denominazione, uno dei primi, sono trent’anni che porta in giro le sue canzoni e da almeno venti è legato stabilmente (anche se vi aveva esordito nel 1987) alla Red House, la label che fa capo a Greg Brown, un altro della stessa scuola musicale.

Posto, come si diceva in apertura, che è difficile attendersi qualcosa di nuovo, questo recente CD di Gorka è un disco piacevole, magari non entusiasmante e senza vibrazioni particolari: una manciata di buone – non eccelse – composizioni, qualcuna più interessante, altre più sonnacchiose (complice anche la voce del titolare), o anche tediose (la title track, che non aiuta molto essendo posta in apertura del disco e ripresa anche in chiusura in versione più lunga).
Il disco è stato registrato in pochi giorni a Minneapolis, con un ristretto gruppo di amici fidati con cui Gorka ha messo insieme una base molto fluida per le proprie composizioni, il tutto sotto la produzione di Rob Genadek, altro frequentatore abituale del nostro.
Al lavoro poi sono state aggiunte varie parti vocali registrate da altri amici/amiche di Gorka in differenti studi e stati americani: c’è Lucy Kaplanski che canta in Nazarene Guitar mentre Don Richmond e Jim Bradley sono ospiti nella border ballad Arroyo Seco, una delle cose più riuscite del disco. Tattoed è un brano dalla bella amalgama sonora, con le tastiere di Tommy Barbarella in particolare evidenza. Crowded Heart è invece una delicata ballata acustica senza particolari picchi, come la dolente Fallen For You, contrappuntata dalla pedal steel di Joe Savage. Più briose la spiritosa The Body Parts Medley, piacevole canzoncina in controtempo, The Ballad Of Iris And Pearl con la voce ospite di Eliza Gilkynson, sicuramente tra le cose più riuscite del disco.

Gregg Stewart: un anno, due dischi.

di Paolo Baiotti

8 aprile 2018

Cresciuto nel New Jersey, Gregg si trasferisce in California a sedici anni per completare gli studi e cercare di emergere nel mondo dell’arte, ma si ritrova a lavorare in Ontario come manovratore di carrelli elevatori. In questo periodo inizia a suonare in una band di punk e a 22 anni firma un contratto come autore per la Emi, inserendosi nella scena di Los Angeles. Partecipa alla formazione di una band di pop/rock che firma per la Elektra, poi forma una label indipendente e incide nel ‘99 il primo disco della band Stewboss, Wanted A Girl nel quale compone, canta e suona la chitarra. Cinque brani sono inseriti in film e serie tv, compresa Let’s Go For A Ride nella colonna sonora di 3.000 Miles To Graceland (con Kevin Costner e Kurt Russell). Stewboss pubblicano altri tre dischi tra il 2002 e il 2006, senza ottenere visibilità in un ambiente competitivo come quello californiano. In seguito Gregg compone per numerosi film e documentari indipendenti, scrive per altri artisti e partecipa più recentemente al nuovo album dei Dead Rock West con tre canzoni. Finalmente a marzo pubblica il suo primo album solista, seguito sei mesi dopo da un disco di covers ispirato dagli artisti deceduti nel 2016.

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GREGG STEWART (Stewsongs 2017)
Ispirato dalla musica del 1978, che per Gregg non è l’anno della disco-music, ma quello di This Year’s Model, Powerage, One Nation Under A Groove, Some Girls, Easter e Darkness On The Edge Of Town, nonché dell’esordio di Tom Petty, Blondie, Cars e Van Halen, un anno pieno di diversità in campo musicale per merito di artisti di personalità, Gregg ha cercato di incidere un disco che traesse ispirazione da questa diversità e da questi musicisti, con un pizzico di modernità in più. Un’idea difficile da realizzare nel 2017 e che, in effetti, riesce in parte. Le intenzioni sono lodevoli, il risultato un po’ anonimo. Gregg ha una bella voce, è un cantautore pop-rock con influenze di Americana, è accompagnato da una band pregevole nella quale spiccano la batteria di Kevin Jarvis, il basso di Bob Glaub e le tastiere di Carl Byron, ma il materiale non ha la necessaria personalità e originalità per emergere. L’opener R Is For Rockstar è un pop-rock esuberante debitore dei Cars, Let’s Go Find A Night è un discreto up-tempo scanzonato, You’re The One è una canzone pop trascinante, ma You’re The One e Nobody Like You non brillano per originalità e Stone Cold Fox sembra una b-side di Joan Jett. In When The Work Is Done sembra aleggiare il fantasma di Johnny Cash, in Hey Doncha si respira un’aria da American Graffiti, mentre la conclusiva Mystery è un’intima ballata cantautorale interpretata con sentimento.

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TWENTYSIXTEEN (Stewsongs 2017)
La voglia di continuare a incidere e l’intenzione di ricordare gli artisti morti nel 2016 (o almeno alcuni di loro), hanno convinto Gregg a lavorare per mesi alla ricerca del materiale più adatto e vicino alla sua sensibilità, aiutato dal produttore e batterista Kevin Jarvis, dal tastierista Carl Byron e dal bassista Kurtis Keber che lo hanno coadiuvato nelle scelte e negli arrangiamenti. Il risultato è un disco tendenzialmente intimo, interpretato con essenzialità, da cantautore indie con influenze roots e pop. I brani scelti non sono scontati, anzi in alcuni casi sono spiazzanti, a partire da You Spin Me Round (Dead Or Alive), brano disco di Pete Burns rallentato e trasformato in un roots rock bluesato, proseguendo con A Different Corner di George Michael, ballata asciugata e ridotta al suo nucleo con piano e chitarra acustica in primo piano e con Rapsberry Beret, scatenato funky-soul di Prince che subisce lo stesso tipo di trattamento, diventando una ballata intima e delicata. Daisies è una ballata dei Viola Beach, sfortunata band indie scomparsa in un incidente stradale in Svezia, interpretata con delicatezza, come Sing A Song degli Earth Wind & Fire di Maurice White che, seppur meno impetuosa, mantiene un ritmo trascinante. Ogni brano è tendenzialmente arrangiato allo stesso modo da cantautore indie: rallentato, intimo, un po’ piatto e questo è un limite del disco, che però riesce in alcuni casi a far emergere la purezza delle canzoni, nascosta tra le righe. Come in One More Love Song di Leon Russell che diventa una ballata roots con un organo che ricorda The Band o in If I Could Only Fly di Blaze Foley, scelta per la versione di Merle Haggard o anche in High Flying Bird dei Jefferson Airplane, cantata dalla prima cantante Signe Anderson, mancata lo stesso giorno di Paul Kantner. Questi tre brani sono più vicini alla sensibilità di Stewart, ma anche la versione di Pure Imagination di Gene Wider, attore molto amato dall’artista, del quale interpreta questa sognante canzone tratta dalla colonna sonora di Willy Wonka, si lascia ascoltare. Nella parte finale emergono una rispettosa esecuzione di I Found Somebody di Glenn Frey, la sommessa Out In The Parking Lot del grande Guy Clark, una nostalgica Leaving The Table di Leonard Cohen dall’ultimo album dell’artista canadese e un’avvolgente Starman di David Bowie che chiude un album meno monocorde di quanto non appaia al primo ascolto.

A Varese la XXXVII edizione della Fiera del disco.

di admin

5 aprile 2018

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Si svolgerà nelle giornate del 14 e 15 aprile la 37° edizione della Fiera del Disco di Varese, un appuntamento più che storico per tutti gli appassionati vinilici.
come sempre, ingresso GRATUITO e parcheggio anche.
sabato e domenica dalle 10 alle 18
LATE PRESENTE!

per maggiori informazioni: darius.maffioli@gmail.com
cell.: 3461832254

MATTHEW O’NEILL – Trophic Cascade

di Paolo Crazy Carnevale

3 aprile 2018

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MATTHEW O’NEILL – Trophic Cascade (Underwater Panther Coalition/Hemifran 2017)

La copertina, bruttina, mi aveva fuorviato del tutto: pensavo di ritrovarmi ad ascoltare uno dei molti dischi di Americana o pseudo tale distribuiti dalla svedese Hemifran. E invece, sorpresa ( manco fosse pasqua!), Matthew O’Neill, canadese di stanza sulle Catskill Mountains, è un cantautore in bilico tra sonorità ardite e ritmi riconducibili alle tradizioni dei nativi americani.

Come a dire una sorta di Jonathan Wilson – con le debite proporzioni – che invece di fare riferimento a certo rock inglese (ma anche americano) degli anni settanta, prende un po’ dello space-rock byrdsiano (ascoltare, per credere, la traccia iniziale del disco, Bridge Builder) e del Neil Young (non sarà mica canadese per niente questo O’Neill) degli esordi (Buffalo Springfield e il primo disco), che fanno capolino in Golden Boy e Ain’t No Way, con cori femminili e voce grave.

Su tessuti musicali così fortemente dichiarati si innestano in parecchie composizioni percussioni e ritmi nativi che hanno come antenati di riferimento gli esperimenti di Robbie Robertson (non a caso un altro canadese?) o anche della Buffy Sainte-Marie meno datata.

In definitiva il risultato è abbastanza difficile da inquadrare, senza dubbio interessante, e a tratti entusiasmante, più rock in brani come Poisoning The Well, affascinante in composizioni come in Stand Tall (sarà un altro caso che qualche mese dopo l’uscita di questo disco, Neil Young abbia pubblicato un brano dal medesimo titolo?), nella torrenziale 1000 Years e in Louisiana, scelta come brano trainante del disco, fino alla particolare e fiatistica e nervosa Alzaheimer’s Blues.

Per mettere assieme il suo affresco sonoro, O’Neill non ha lesinato certo nelle collaborazioni, così oltre al produttore Diko Shoturma (Bjork, Nada Surf, Snarky Puppy e altri) ci sono le chitarre di Ryan Scott, il sax di Stuart Bogie (Arcade Fire, Iron & Wine, Paul Simon), il violoncello di David Egger (con Patti Smith) e il basso di Jacob Silver (Lauren Hill, Lucinda Williams).

AJAY MATHUR – Little Boat

di Paolo Crazy Carnevale

1 aprile 2018

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AJAY MATHUR – Little Boat (Yakketyyak Records/Hemifran 2018)

Curioso personaggio questo chitarrista nativo della lontana India, trapiantato in Svizzera e dedito alla produzione di una musica lontana anni luce dal suo paese natale quanto da quello adottivo.

Appassionato di musica americana ma con un rimando abbastanza vistoso anche ai Beatles, complice l’uso del sitar, strumento tipico del suo paese d’origine, Mathur è essenzialmente un chitarrista in bilico tra un pop aggraziato e godibile e riff di chitarra robusti che non nascondono il suo approccio zeppeliniano alla musica.

Al suo attivo ha ormai alcuni dischi e con quello che precede questo Little Boat, l’indiano si è persino guadagnato una nomination ai Grammy Awards del 2016.

Il nuovo disco, dalla grafica tutt’altro che appetitosa, è stato registrato e prodotto nella Confederazione Elvetica, con l’aiuto di musicisti del luogo, forse non particolarmente adatti – al di là della bravura – a conferire un po’ d’anima al disco… d’altronde si è sempre parlato di precisione svizzera, ma alla precisione non sempre corrisponde il sentimento.

Il disco è buono, per carità, forse un po’ indeciso sulla direzione da seguire: Ordinary Memory col sitar di Thomas Niggli è l’esempio calzante di quanto si diceva poc’anzi riguardo all’influenza harrisonaiana, se non proprio beatlesiana; My Wallet Is A House Of Cards invece è un robusto brano elettrico con chitarra arrabbiata, Who’s Sorry Now è forse il contributo in cui il rimando al paese natale di Mathur si fa più evidente grazie all’uso di strumenti come tabla, oud e sarangy, stavolta suonati da connazionali del titolare. All Your Thoughts è invece un country blues in cui armonica, pedal steel e slide sono gli strumenti principali. In Time For Deliverance viene giocata ila carta del soul blues con tanto di sax e cori, ma nel disco c’è ovviamente molto altro.

Godibile e curioso, non indispensabile.