Archivio di agosto 2017

GEORGE THOROGOOD – Party Of One

di Paolo Baiotti

31 agosto 2017

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GEORGE THOROGOOD
PARTY OF ONE
Rounder 2017

Che si lo sarebbe immaginato che dopo 40 anni di onorata carriera nel blues elettrico George Thorogood si sarebbe rimesso in discussione con un disco solista acustico? Nato il 24 febbraio del ’50 a Wilmington nel Delaware, da sempre associato alla sua band dei Delaware Destroyers (poi solo Destroyers), esploso nel ’77 con l’omonimo album per la Rounder, seguito da Move It On Over e da More George Thorogood & The Destroyers, il chitarrista, cantante e autore di boogie-blues-rock ha vissuto a mille all’ora questi primi anni di popolarità collezionando parecchi successi e dischi d’oro, culminati negli anni ottanta con Bad To The Bone (primo disco per la EMI). In seguito George ha proseguito mantenendo uno zoccolo duro piuttosto consistente di fans e dedicandosi soprattutto a tour americani, realizzando dischi di routine meno freschi dei primi.

Ma la sua passione per Elmore James e John Lee Hooker lo ha mantenuto fedele al blues senza particolari deviazioni e guizzi di fantasia. Nel 2011 ha inciso il valido 2120 South Michigan Ave. per la Capitol, un omaggio alla Chess Records e ai suoi artisti, un concentrato di blues e rock and roll fresco e brillante, molto apprezzato anche dalla critica. E adesso, sei anni dopo, proseguendo in qualche modo in questo ritorno alle origini, Thorogood ha deciso di tornare alla Rounder e di incidere il suo primo disco solista…e acustico! Party Of One comprende 14 tracce (una in più il cd) e non è esclusivamente un disco di blues, come vedremo parlando dei brani registrati e prodotti da Jim Gaines (già in passato al fianco di Thorogood).

L’artista ha suonato prevalentemente una Gibson acustica e slide, poca elettrica, dobro e armonica in modo fresco ed essenziale senza overdubs e in pochi giorni, ritornando ai primi anni settanta quando iniziò come chitarrista acustico ispirato da Elmore James e Robert Johnson. Se le riprese di One Bourbon One Scotch One Beer e Boogie Chillen (John Lee Hooker), di I’m A Steady Rollin’ Man (Robert Johnson) o di The Sky Is Crying (Elmore James) da sempre nel repertorio dei Destroyers non deludono (e questo in fondo era prevedibile), sorprendono altri brani che denotano le influenze folk e country come la ripresa venata di malinconia di Bad News (Johnny Cash), il country-blues No Expectations (Rolling Stones) nel quale George dimostra una raffinatezza inusuale, il dolente talkin’ country-blues Pictures From Life’s Other Side (un tradizionale associato ad Hank Williams), il blues Down The Highway (Bob Dylan, tratto da The Freewheelin’) e la melodica Born With The Blues (Brownie McGhee)

Un disco semplice, intimo, emozionante, fresco, sorprendentemente vario, interpretato con calore e convinzione, suonato con passione e gusto.

Appuntamento il 3 settembre a Castelletto Ticino (NO)

di admin

30 agosto 2017

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Si svolgerà il prossimo 3 settembre, domenica, a Castelletto Ticino, la prima edizione della fiera del disco e del cd.
Come sempre, ingresso gratuito, e migliaia di LP, CD e DVD fra i quali avidamente rovistare.
Late for the sky presente.

ecco le coordinate:
c/o Palaeolo, Via del Lago, 2
Castelletto Ticino (NO)

SAVE THE DATE!

BOB CHEEVERS – 50 Years

di Paolo Baiotti

28 agosto 2017

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BOB CHEEVERS
50 YEARS
Howlin’ Dog Records 2017

Bob Cheevers è un cantautore originario di Memphis da anni operativo a Austin, con una lunga carriera alle spalle, seppur vissuta sempre ai margini della notorietà. Ha iniziato negli anni sessanta con il pop dei Peppermint Trolley Company, lavorato a Nashville, Memphis, California e anche in Europa prima di inserirsi nella comunità dei cantautori di Austin che lo ha premiato nel 2011 come Singer-Songwriter Of The Year. La voce assomiglia non poco a quella di Willie Nelson, mentre musicalmente è più leggero, vicino a un country-pop con venature rock moderate e qualche influenza caraibica, tex-mex e jazzata, specializzato in ballate talora un po’ sdolcinate. Amico di Ray Wylie Hubbard, stimato da Guy Clark (altra importante fonte d’ispirazione) e Butch Hancock, si può definire un cantautore texano minore, ma degno di attenzione.

Per celebrare i cinquant’anni di carriera, Bob ha pubblicato un poderoso cofanetto, 50 Years che riassume in cinque dischi le canzoni più significative scelte personalmente dall’artista, in tutto 83, tratte dai 10 cd pubblicati a suo nome, con l’inevitabile inserimento di inediti e rarità raccolti nel periodo. C’è un po’ di tutto, dal pop al country, dal jazz alla ballata confidenziale, dal roots al blues, sebbene i suoi dischi migliori siano quelli texani come Tall Texas Tales del 2009, On Earth As It Is In Austin (un disco di duetti con altri artisti locali tra i quali Will Sexton, Charlie White, Walt Wilkins e Stephen Doster) e Smoke And Mirrors del 2012. Non manca un corposo booklet nel quale Bob racconta la sua storia musicale, arricchito dai disegni dell’artista e cantautrice Emily Shirley. Progetto ambizioso, forse anche eccessivo, al quale contribuiscono musicisti come Bob Glaub e Byron House (basso), Spooner Oldham e Larry Knechtal (tastiere), Fats Kaplan (violino), Chris Gage e Charlie White (chitarra).

Tra i brani citerei almeno la deliziosa ballata roots Fifty Years che apre il primo disco, la jazzata In The Early Stages, la mossa The Unknown Soldier, il demo di Forty Acres And A Mule, l’intensa bluesata Old Soul, l’acustica Popsicle Man (incredibile la somiglianza con la voce di Willie Nelson!), il roots-rock Texas Is An Only Child, la sofferta The Sound Of A Door e la ballata western The Legend Of Sleepy Hollow. Ottimo il lavoro della label Howlin’ Dog che ha pubblicato il cofanetto con cura e passione.

GANG – Calibro 77

di Paolo Crazy Carnevale

20 agosto 2017

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GANG – Calibro 77 (Rumble Beat/Sony 2017)

Ah, che bel disco questo! Ho sempre amato i Gang, pur non avendo seguito tutta la loro carriera ho sempre pensato che si trattasse di un gruppo con la giusta onestà intellettuale e musicale.

I fratelli Severini, che di fatto sono i Gang almeno da un po’ d’anni in qua, anche se poi dal vivo sono sempre accompagnati da bravi e solidi musicisti, non si sono mai piegati alle mode e al mercato, sono sempre andati avanti diritti, a muso duro – come avrebbe detto Pierangelo Bertoli.

Se devo essere sincero, quando un paio di anni fa era uscito Sangue e cenere – prodotto come questo Calibro 77 dall’incomparabile Jono Manson – l’avevo ascoltato a scatola chiusa, sulla fiducia, ed ero rimasto un po’ deluso: non che fosse un disco brutto, per carità, ma troppo incensato e osannato, descritto come diretto discendente di dischi come Storie d’Italia. Secondo me non lo era, per quanto la produzione fosse ottima forse le canzoni non erano tutte all’altezza del capolavoro a cui veniva comparato.

Calibro 77 è un disco di cover. Cosa che di solito denota una crisi compositiva o mancanza d’ispirazione che dir si voglia, almeno nella maggior parte dei casi (pensiamo a Moondog Matinee di The Band). Non è certo il caso dei Gang, le cover – tutt’altro che casuali – sono tutte rilette in stile Gang, come se a scriverle fossero stati Marino e Sandro Severini! Scusate se è poco!

Ogni brano viene pescato dal repertorio della canzone d’autore italiana degli anni settanta, quella impegnata, quella legata alle tematiche del post sessantotto, agli anni di piombo, ai movimenti operai e a quelli studenteschi.

Stavolta, la produzione di Manson mette insieme un gruppo tutto americano per suonare queste canzoni tipicamente italiane per quanto riguarda le tematiche, apparentemente un azzardo, ma l’esperimento è riuscito, in pieno. D’altra parte la canzone d’autore del Bel Paese deve non poco a quella d’Oltreoceano e quindi l’accostamento musicale tramite strumentazioni country o comunque folk/rock non poteva che dimostrarsi vincente. Se Manson in questo genere di cose è un genio, i Severini non sono da meno e Marino con la sua voce unica riesce a dare una continuità a brani che provengono dagli autori più disparati, dai classicissimi Guccini e De André al giovane De Gregori, a Bennato, Della Mea, Manfredi.

Con le chitarre elettriche sempre ruggenti di Manson e di Sandro Severini, troviamo tra le tracce del disco le percussioni di Wally Ingram, le splendide tastiere di Jason Crosby, rinomatissimo e richiestissimo turnista, che passa con facilità estrema dal piano rockabilly di Uguaglianza, scatenato brano denso di ironia composto da Paolo Pietrangeli nel 1970, al suono hammond che fa da sostegno ad una bella versione della deandreiana Canzone del maggio, rubata a Storia di un impiegato, imprescindibile capolavoro del 1973.

Azzeccatissimo il brano d’apertura, la bella Sulla strada di Eugenio Finardi, uno che con la musica americana ci è sempre andato a nozze come testimonia l’arrangiamento qui sfoderato da Manson e soci. Io ti racconto è di Claudio Lolli, lo si capirebbe anche se non ci fosse scritto nel booklet, intrisa di tristezza e pessimismo, come sempre, in Lolli. eccessivi ed irreversibili.

Molto meglio – la colpa non è certo dei Gang – il brano successivo, omaggio a Francesco De Gregori con una poco conosciuta ma sempre bella Cercando un altro Egitto. Con Questa casa non la mollerò di Ricky Gianco è America a tutto tondo, i Severini, Manson e soci riportano tutto a casa – come direbbe Dylan – visto e considerato che la musica su cui Gianco e Gianfranco Manfredi hanno scritto il testo non è altro che Six Days On The Road un classico country-rock.

Sebastiano proviene invece dal repertorio di Ivan Della Mea, uno dei patriarchi del cantautorato impegnato e proletario mentre Venderò è una ballata di Bennato che credo tutti abbiano ascoltato almeno una volta, l’arrangiamento è molto rispettoso dell’originale, ballata era e ballata rimane, con Jason Crosby che alle tastiere aggiunge un pregevole intervento al violino. Per l’accostamento a Guccini, di cui si ripesca la vecchia Un altro giorno è andato, viene eliminato l’andamento folkie alla Dylan prima maniera ed il brano viene rallentato e cantato da Marino con ispirazione, il crescendo creato da Crosby con piano e hammond fa da sfondo all’innesto di una serie di chitarre elettriche molto azzeccate suonate da Sandro, Jono, Scott Rednor e dalla slide di Jay Boy Adams.

La chiusura del disco è affidata alla conosciuta Ma non è una malattia, registrata nel 1976 da Gianfranco Manfredi e qui rivestita di swing con tanto di fiati, e ad un brano poco noto di Giorgio Gaber,I reduci, del medesimo anno, molto intensa, bella, ancora con le tastiere di Jason Crosby a fare da protagoniste con la voce di Marino che pare fatta apposta per cantare queste cose. Una conclusione azzeccatissima per un disco da ascoltare e riascoltare, prodotto in casa grazie al supporto di un considerevole crowdfunding dei numerosi fan sparsi per la penisola. Una menzione comunque credo vada anche alla Sony italiana che si è comunque accollata la distribuzione di un disco così lontano dagli obiettivi abituali della major multinazionali interessate solo al soldo.

SCOTT SMITH – Down To Memphis

di Paolo Baiotti

13 agosto 2017

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SCOTT SMITH
DOWN TO MEMPHIS
Scott Smith 2016

Originario della Bay Area, Scott Smith è cresciuto ascoltando Grateful Dead, Jefferson Airplane, Byrds, prima di scoprire Bob Dylan e i Rolling Stones. Il suo primo insegnante di chitarra è stato David Nelson dei New Riders Of Purple Sage, ma il suo strumento preferito è il violino che suona in un gruppo di Old Time Music.

Esordisce come cantautore con questo mini album di cinque brani che anticipa l’album The Sum Of Life, pubblicato recentemente. Down To Memphis, che è anche il singolo tratto dall’Ep, è stato inciso nello studio di Jeff Martin, che ha avuto anche il ruolo di produttore e di bassista. La title track è un omaggio alla nascita del rock and roll e al ruolo avuto da Memphis (da Elvis a Jerry Lee Lewis, da Johnny Cash alla stazione radio WDIA), una traccia ritmata con chitarra twangy, Just Another Saturday Night un mid tempo con l’hammond di Spencer Burrows che accompagna la voce melodica di Scott, Hour Glass una traccia pianistica tra jazz e blues molto accattivante.

Il titolo Skeleton & Roses richiama i Grateful Dead…non a caso, perché l’omonimo brano è un tributo alla band di Jerry Garcia, con l’azzeccato intervento del mandolino di David Grisman (coinvolto mentre stava registrando nello stesso studio), che richiama nel suo break strumentale melodie dei Dead (soprattutto Uncle John’s Band). In chiusura Top Of The World rallenta il ritmo aggiungendo un tocco di intimità a un ep di indubbio interesse.

THE FURIOUS SEASONS – Look West

di Paolo Baiotti

13 agosto 2017

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THE FURIOUS SEASONS
LOOK WEST
Stonegarded Records 2017

David Steinhart è un autore, cantante e chitarrista di Los Angeles con alle spalle una carrriera trentennale di un certo spessore nell’area indie. Nell’84 ha fondato i Pop Art con i fratelli Jeff e Richard, incidendo cinque albums in sei anni. Successivamente ha realizzato due dischi solisti, ha formato gli Smart Brown Handbag sempre con Jeff, attivi per più di dieci anni nei quali hanno pubblicato altrettanti albums.

Nel 2008 ha creato i Furious Seasons realizzandone altri quattro elettrici prima di decidere di sfrondare la formazione rimanendo in trio con Jeff al basso e contrabbasso e P.A. Nelson alla chitarra acustica ed elettrica e seconda voce, sterzando verso un folk prevalentemente acustico.

Look West è il risultato di questa svolta, un disco acustico, raffinato, a tratti etereo, suonato con gusto da musicisti esperti, cresciuti ascoltando i grandi cantautori come Bob Dylan, Cat Stevens e Paul Simon, avvicinabili anche a nomi più recenti come i Milk Carton Kids o David Gray. Non a caso dopo Look West il trio ha suonato come supporto di John Hiatt, Donovan e A.J. Croce.

David è un autore che conosce bene la materia, scrive melodie dolci di matrice folk nelle quali affiora talvolta il gusto pop che lo ha sempre caratterizzato, forse un po’ monocordi e prevedibili, adatte alla sua voce ben impostata e naturalmente gradevole, con dei testi personali e riflessivi e arrangiamenti spartani basati sugli intrecci tra le due chitarre.

Nel singolo Long Shot che apre il disco spunta il violino di Ray Chang, in The Tape e So Glad It’s Mine si inserisce il piano di Tim Boland (che ha inciso e mixato il disco nei White Light Studios di North Hollywood), ma oltre alle melodie di David spicca il grande lavoro di Nelson specialmente in A Thing To Behold, nell’intensa Best Plans e in Simple And Clean.

Un disco autunnale, sereno e nostalgico, sulle perdite e sull’invecchiare, senza sbalzi e quindi, almeno a tratti, eccessivamente uniforme.

BARTOLINO’S – I sigari fanno male

di Paolo Crazy Carnevale

13 agosto 2017

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BARTOLINO’S – I sigari fanno male (Cromo Music/ Best-U 2017)

Avevamo perso le tracce dei Bartolino’s dopo la pubblicazione di Arthemisia Absitium, godibile album risalente ormai al 2008 che era però accreditato al cantante Alessandro Ducoli con i Bartolino’s alla stregua di backing band. Con questa nuova uscita risalente alla scorsa primavera i Bartolino’s sono invece una banda a tutto tondo.

Nella fattispecie si è ricomposto l’asse autorale Ducoli/Stivala, col secondo personaggio impegnato insieme al cantautore camuno nella scrittura di tutte le canzoni qui incluse, co-titolare a tutti gli effetti.

Il risultato è un disco altrettanto godibile, un disco in cui il Ducoli può lasciarsi andare a quelle vocazioni istrioniche che la presenza di uno sparring partner come Stivala (impegnato tra chitarra e piano elettrico Rhodes) gli concede di lasciar libere e galoppanti.

Una decina di composizioni suonate come si deve da un quintetto base che oltre ai suddetti soggetti vede la presenza della fisarmonica di Roberto Angelico, la batteria di Arcangelo “Arki” Buelli e il basso di Max Saviola (questi ultimi due già apprezzatissima sezione ritmica della Banda del Ducoli all’inizio del terzo millennio) a cui si aggiungono piano e tastiere. Il disco ondeggia così fra canzoni solide e divagazioni malinconiche a base di milonghe, tanghi e similsambe.

Con la title track fatta di autoironie e doppi sensi è già trionfo, Ducoli e Stivala conducono il gruppo attraverso una composizione senza dubbio vincente e la successiva Frivola non è da meno; segue poi Prunella modularis che al pari del brano che aveva titolato il disco precedente rispolvera gli studi botanici del Ducoli presso l’ateneo patavino, ma, soprattutto è un altro brano che conquista.

Il disco si snoda quindi tra Le donne sono fatte per giocare, la riuscita Piccoli furti estivi e la samba di Recidivo inframmezzata da un break strumentale quasi acidjazz. Ingenuo è una soffusa composizione che ricorda da vicino altre composizioni del Ducoli e lascia spazio a Stivala a funamboliche escursioni chitarristiche.

Stella di fiume è una robusta canzone d’amore, resa particolarmente solida da un gran lavoro di basso e batteria dominata ancora le inflessioni “tanguere” inferte dalla fisarmonica. Il lato più istrionico del Ducoli emerge poi con l’irrinunciabile Quante passerine che prelude alla conclusiva (autocensurata nel booklet per quanto riguarda il testo) e colossale Adorata, quasi una rock ballad irriverente che nella struttura musicale richiama l’indimenticata Amico fragile di Fabrizio De Andrè, ma nel testo si viaggia verso altri lidi, è quasi un brano recitato con Alessandro Ducoli impegnato a far uscire tutte le tinte e le sfumature di cui è capace, passando da tonalità profonde a passaggi lirici: il tutto mentre la chitarra di Stivala, sorretta da basso e batteria si divincola su un tappetto ordito da un organo insinuante.

TOM MANK AND SERA SMOLEN – Unlock The Sky

di Paolo Baiotti

6 agosto 2017

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TOM MANK AND SERA SMOLEN
UNLOCK THE SKY
Ithaca Records 2017

Tom Mank e Sera Smolen, compagni anche nella vita, collaborano dal ’94. Un cantautore e una violoncellista diplomata al conservatorio, hanno cercato di miscelare i reciproci stili usando principalmente la voce di Tom, chitarra acustica e violoncello, con un aiuto piuttosto ridotto e minimale di altri strumenti e di voci femminili. Questo è il settimo cd del duo, inciso quasi interamente a Bearsville, NY con qualche aggiunta a Ithaca e in Belgio, con notevoli difficoltà dipendenti dai problemi cardiaci di Tom che lo hanno costretto ad operarsi durante le registrazioni. Mank è in pista da venticinque anni come cantautore indipendente, ha collaborato con altri compositori, congruppi di folk e bluegrass, mentre Sera si è cimentata con la musica classica, ha insegnato all’università di Mansfield e all’Ithaca College e ha contribuito all’organizzazione di alcuni festivals di violoncello. Unlock The Sky non è un disco di facile assimilazione: la malinconia naturale del violoncello (che ha maggiore spazio rispetto al passato) e la voce piuttosto monocorde di Tom lasciano un’impressione di uniformità di fondo che non favorisce l’ascolto, pur riconoscendo le doti non comuni di Sera, manifestate pienamente nella title track strumentale nella quale è unica protagonista. Il folk è la base, alimentato da suggestioni classiche con qualche incursione in atmosfere jazzate. Alcune tracce hanno una certa complessità, come l’eterea Amsterdam con l’inserimento del violino di Amy Merrill, My Thunder And Lightning con l’armonica dell’olandese Gait Klein Kromhof (il duo suona spesso in Europa, specialmente in Germania, Belgio e Olanda) e la jazzata Harpers Ferry nella quale si registrano il felice inserimento del piano honky tonk di Ron Kristy e della voce di Jenny Burns. Un disco originale e sofisticato che richiede un’attenzione non comune e che cresce con gli ascolti.

J. HARDIN – The Piasa Bird

di Paolo Baiotti

6 agosto 2017

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J.HARDIN
THE PIASA BIRD
Piasa Recordings 2016

E’ una strana storia quella di John Everett Hardin, ragazzo di Alton, Illinois, situata sulla riva del fiume Mississippi. Nel primo decennio del nuovo millennio ha inciso due dischi come Everett Thomas che sembravano aprirgli le porte a una discreta carriera, avendo anche supportato dal vivo nomi come Over The Rhine e Sara Watkins. Invece intorno al 2011 John molla tutto, cambia vita, diventa portiere di notte e si dedica alla famiglia, incapace di reggere le tensioni dell’ambiente musicale, con il fisico e la mente danneggiati da un uso esagerato di droghe e alcool. Per quattro anni resta ai margini, ma forse proprio la mancanza di pressioni lo aiuta a comporre una manciata di canzoni. Alla fine gli ritorna la voglia di incidere, ma è disposto a farlo solo con l’aiuto di Hayward Williams, cantautore e polistrumentista di Milwaukee oltreché bassista della band di Jeffrey Foucault. I due registrano a Rockford, Illinois con una band ridotta comprendente Hayward al basso, Daniel McMahon (proprietario dello studio Midwest Sound) alla chitarra e tastiere e Darren Garvey alla batteria il disco del ritorno, The Piasa Bird, comprendente otto canzoni per una mezz’ora di musica quieta e raffinata, dolce e melodica, con un tocco di atmosfere gotiche in alcune tracce come la dolente ballata Shot My Baby Down. Talvolta le melodie e la voce sono un po’ impersonali, richiamando il passato come in Oh Sophia pt.1 e 2 clonate da Paul Simon o nell’opener Drifter che richiama Townes Van Zandt, mentre risultano meno prevedibili il piano ritmato di Run Jackie Run o la mossa Calypso con una chitarra incisiva. Disco rilassante, ma un po’ esile e derivativo, di un musicista che sembra ancora incerto sul proprio futuro.