Archivio articoli per la categoria ‘Rock'n'Pop’

STEVE YANEK – September

di Paolo Baiotti

23 aprile 2024

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STEVE YANEK
SEPTEMBER
Primitive Records 2023

Emergere nel mondo della musica non è facile, questo lo sappiamo tutti. Spesso ci vogliono molta pazienza, fiducia e forza…e magari si resta lo stesso delusi! Steve Yanek, originario di Youngstown in Ohio anche se da tempo residente nelle campagne della Pennsylvania, aveva esordito positivamente nel 2005 con Across The Landscape e sembrava destinato ad un futuro di un certo interesse. Invece, nonostante buone recensioni e l’aiuto di nomi illustri (Jeff Pevar, Rod Morgenstein, T. Lavitz) il disco è stato rapidamente dimenticato. Tuttavia Steve, dotato delle caratteristiche sopra citate, non ha mollato: dapprima ha fondato la Primitive Records, ha lavorato come manager, formato una band e organizzato uno studio di registazione. Dopo parecchi anni di pausa è tornato con Long Overdue nel 2022, inciso durante la pandemia e prodotto da Jeff Pevar (CPR) che ha anche collaborato strumentalmente, riunendo tracce vecchie e nuove tra rock e country, Tom Petty e Jackson Browne, Eagles e Merle Haggard.
Con September invece, confortato dalla positiva accoglienza di Long Overdue che ha ottenuto buoni piazzamenti nelle classifiche indipendenti di settore, Steve ha deciso di fare tutto da solo: ha inciso dieci canzoni nuove presso il suo studio, suonando ogni strumento e ispirandosi ad Emmitt Rhodes, cantautore e polistrumentista considerato da molti “the One Man Beatle” per le sue incisioni in solitaria debitrici dei Fab Four, morto nel 2020. In realtà questo disco era già pronto quando è uscito il precedente, ma giustamente Steve ha atteso qualche mese separando i due progetti.
September è un album molto melodico come dimostrano la scorrevolezza pop di Summer Days, il country-pop di I Could Use A Little Rain che ricorda gli Eagles, il rock addolcito di Catch My Fall, l’incedere leggero e un pizzico malinconico di Count Every Moment, la tenerezza dell’autobiografica Carousel che racconta il primo incontro con la moglie, la dolcezza di You Know It’s Right, la brillantezza dell’apertura rock di Begin Again e l’ottimismo del testo della title track posta in chiusura.
September ondeggia con grazia e leggerezza tra pop, rock e Americana, dimostrando le qualità di un autore, cantante e valido polistrumentista meritevole di essere ascoltato.

Paolo Baiotti

WENDY WEBB – Silver Lining

di Paolo Baiotti

18 aprile 2024

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WENDY WEBB
SILVER LINING
Spooky Moon Records 2023

Abbiamo già scritto di Wendy Webb nel 2016 recensendo il suo quarto album This Is The Moment. Cantautrice dell’Iowa residente a Sanibel Island in Florida, ha iniziato la sua carriera discografica nel 2004 con Morning In New York, seguito da Moon On Havana (ispirato da un viaggio a Cuba) e da Edge Of Town nel 2012. Nel 2017 ha pubblicato Step Out Of Line che ha ottenuto recensioni positive confermando l’impressione di una cantante dalla voce folk/pop calda, morbida e melodica, accompagnata da una musica che si muove con eleganza tra pop, jazz e blues, avvicinabile nello stile a grandi artiste come Carole King, Laura Nyro, Joni Mitchell, Carly Simon e Norah Jones. Valente cantante e sensibile pianista, afficancata come sempre da John McLane (fiati, archi, batteria, basso, tastiere, chitarre) e Danny Morgan (bongo, chitarra, percussioni) che hanno anche prodotto il disco registrato da McLane, Wendy torna dopo qualche anno di pausa con Silver Lining, un album molto orecchiabile e sosfisticato che sembra destinato a un pubblico più maturo, pur confermando le coordinate musicali del passato tra folk, jazz, pop e blues. La registrazione è stata rallentata e complicata dalla pandemia e da un uragano che ha colpito l’isola di Sanibel, distruggendo anche la casa che condivide con il marito, lo scrittore Randy Wayne White, ma risparmiando lo studio di registrazione.
Seppure composto da brani in parte un po’ troppo leggeri per le nostre orecchie, Silver Lining si lascia ascoltare senza sbalzi, a partire dalla sognante ballata pianistica This Is Love, proseguendo con la latineggiante e rilassata Old Blue Panama, alzando un po’ il ritmo con il soft-rock di Gonna Treat You Right e rallentandolo di nuovo per una cover pianistica di I’ve Grown Accustomed To Your Face da My Fair Lady, interpretata con classe e sensibilità dalla Webb sia vocalmente che al piano. Tra i brani successivi si apprezzano la notturna Timeless Love che ricorda vocalmente Carole King, la mossa I’ve Never Been To Argentina, la romantica Rhythm Of Your Love con il sax di McLane e un’altra interpretazione vocale notevole e la suadente Children On The Blue dedicata al padre, per finire con la ritmata Silver Lining.

Paolo Baiotti

I SHOT A MAN – Dues

di Paolo Baiotti

11 aprile 2024

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I SHOT A MAN
DUES
Bloos Records 2024

Ho ascoltato per caso questo trio torinese come spalla di Dany Franchi e Alberto Marsico al Festival del Blues del Magazzino di Gilgamesh e ne sono rimasto favorevolmente colpito. Appena è uscito il loro secondo album me lo sono procurato, non avendo potuto assistere al concerto di presentazione del disco. Sul loro sito scrivono: “gli I Shot A Man nascono nel 2014, dall’ostinazione di riprendere il blues delle origini e di suonarlo come fosse nato oggi. Le materie prime sono di prima scelta: chitarre elettriche, acustiche, resofoniche, batteria degli anni ’40, impreziosita da cucchiai e assi per lavare i panni, voce a metà tra il crooner e il musicista di strada. Il risultato è un suono essenziale, incompleto, che pensa al mondo in cui il blues è nato, quando gli strumenti erano pochi e arruginiti”.
Può sembrare un’ambizione esagerata, invece i ragazzi suonano proprio così! Nel 2022 hanno partecipato all’International Blues Challenge a Memphis, tre anni dopo avere pubblicato l’esordio Gunbender grazie ad un crowfunding. Poi hanno iniziato a pensare a Dues, molto più ragionato del precedente, prodotto e registrato da Manuel Volpe nel suo studio Rubedo a Torino.
Manuel Peluso (voce e chitarra), Domenico De Fazio (chitarra solista e voce) e Simone Pozzi (batteria e voce) compongono il trio che non ha un bassista e sono anche gli autori di nove dei dieci brani dell’album. Ovviamente il loro nome è un riferimento a un famoso brano di Johnny Cash (Folsom Prison Blues) e già questo denota una scelta di campo. Ma è soprattutto la musica che colpisce: il suono è antico e contemporaneo nello stesso tempo, parte dalla tradizione, ma la rielabora tenendo conto dello stile essenziale dell’Hill Country Blues del Mississippi, dell’approccio dei Black Keys o di certe cose di Jack White, senza dimenticare accennni di world music.
La spigolosa e cadenzata Arnold Wolf, uscita anche come singolo, richiama proprio i Black Keys con una chitarra ficcante e riusciti intrecci vocali, seguita da un’incisiva cover di Moaning At Midnight di Howlin’ Wolf con l’armonica di Tom Newton, dall’old style raffinato di Contemplation Blues e dal profumo d’Africa della notevole Desert Room. Toccando ogni aspetto ricollegato al blues senza essere degli integralisti, si prosegue con il boogie Left Eye in cui spicca una slide sofferta, con la morbida Annie Goodheart che si apre ad un sorprendente finale corale e con Thieves, quasi sospesa con il suo ritmo lento e una coralità gospel dovuta anche all’aggiunta delle voci di Alice Costa e Ilaria Audino. Nel finale la deliziosa Roll And Flow, la notturna Spazio 50 in cui dialogano il piano di Simone Scifone e la slide e la nostalgica ballata soul-blues Billboard in cui il piano è affidato a Manuel Volpe confermano le impressioni positive su Dues, un album che soddisfa in ogni aspetto e che meriterebbe una distribuzione più vasta a livello internazionale.

Paolo Baiotti

JAMES J TURNER – Future Meets The Past

di Paolo Baiotti

1 aprile 2024

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JAMES J TURNER
FUTURE MEETS THE PAST
Touch The Moon 2023

Originario di Liverpool, James ha imparato a suonare la chitarra da bambino appassionandosi al rhythm and blues, iniziando da adolescente a scrivere canzoni. Ha lasciato la scuola a 15 anni per lavorare di giorno sulle banchine portuali della città e per suonare di sera. A ventidue anni ha fatto la scelta di lasciare il lavoro e di dedicarsi alla musica come cantante di alcuni gruppi, tra i quali i Lies All Lies e The Electric Morning che hanno anche supportato Rain Parade e True West in Europa. In seguito ha aperto i Liverpool Hard City Studios dove ha inciso nel 2002 il suo esordio da solista The Believer ristampato nel 2017, ottenendo un certo interesse non solo in Gran Bretagna. Nel 2012, dopo quattro anni di lavoro, è uscito How Could We Be Wrong? più vicino al folk-rock di gruppi che lo hanno influenzato come i Fairport Convention e la Incredible String Band. Essendo un grande appassionato e studioso di storia antica (è membro dell’OBOD, Order of Bards, Ovates and Druids), gli approfondimenti in questo campo hanno influenzato Spirit, Soul & a Handful Of Mud, pubblicato nel 2016. Più recentemente, superata la pandemia, James ha ottenuto il supporto del Arts Council England che lo ha aiutato a registrare Future Meets The Past, un album che ruota intorno al tema del Druido Bardico che riconnette le persone sia allla natura che alle radici storiche del passato. Questo tema influenza soprattutto i testi, ma anche musicalmente ci sono dei collegamenti al folk acustico con i violini di Amy Chalmers, Neil McCartney e Chris Haigh e il violoncello di Vicky Mutch, mentre Turner suona chitarra acustica ed elettrica, mandolino e flauto a fischietto. Un suono orgoglioso prevalentemente acustico con una voce all’altezza, ma con una base ritmica che può richiamare alla lontana gruppi come gli Alarm, i Waterboys e i Big Country con un tocco di Americana.
La trascinante Future Meets The Past con inserimenti continui del violino, l’aggressiva Kalahari Rain, l’orientalegginte Breaking Of The Ties, il rock cadenzato e robusto di Heaven’s Inside You, la drammatica Same Old Story, il singolo folk-rock Hey Brother e l’epica Move Up To The Light sull’importanza della consapevolezza ecologica per combattere la politica delle corporazioni, sembrano emergere in un disco pieno di vitalità e di energia.

Paolo Baiotti

HANK WOJI – Highways, Gamblers, Devils And Dreams

di Paolo Baiotti

20 marzo 2024

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HANK WOJI
HIGHWAYS, GAMBLERS, DEVILS AND DREAMS
Autoprodotto 2023

Hank Woji ha fatto la gavetta come bassista nell’ambiente musicale di Asbury Park nei tardi anni ottanta e nei primi anni novanta, suonando blues, errebi, reggae e rock and roll in diverse band locali sia nei club che in festival e arene. Nel 2001 si è trasferito a Houston in Texas, entrando a far parte della vivace comunità locale di cantautori, ma nel 2009 si è nuovamente spostato nell’ovest dello stato a Terlingua proseguendo a scrivere e a incidere. Considerato un musicista di Americana nella tradizione di artisti come Guy Clark, Townes Van Zandt e Butch Hancock, ma anche fortemente influenzato dal folk di Woody Guthrie e Pete Seeger, ha pubblicato sei album a partire dal 2005 con Medallion fino a The Working Life del 2014 per giungere, dopo una lunga pausa, a questo ambizioso doppio cd Highways, Gamblers, Devils And Dreams di 23 tracce (di cui 5 cover) per quasi due ore di musica, che si può leggere come una riflessione sulle tematiche del mito americano. Se generalmente Hank si muove in tour come solista, in duo, in trio o con la sua Conspiracy Band, per l’incisione del recente album avvenuta in diversi studi (ben 15 in 8 stati) ha utilizzato numerosi turnisti.
Dotato di una voce che è stata definita come “resa granulosa dai venti e dalle sabbie del deserto” è sicuramente un folk singer della vecchia scuola che preferisce strumenti come la pedal steel, il violino, la chitarra acustica, l’armonica e il banjo, pur avendo questo disco una struttura elettrica.
L’apertura di Don’t Look Back ricorda Neil Young, mentre Chasin’ My Headlights Again è addolcita dalla seconda voce di Jaimee Harris. Nel primo disco ci sono quattro cover significative: I Ain’t Got No Home di Woody Guthrie con violino, fisarmonica e mandolino, cantata in trio con i colleghi e amici Jimmie Dale Gilmore e Butch Hancock, una dolente e acustica I’ll Be Here In The Morning di Townes Van Zandt in duetto con Jaimee Harris, Sitting In Limbo di Jimmy Cliff e Land Of Hope And Dreams di Bruce Springsteen più country dell’originale con l’inserimento del violino di Jeff Duncan e della pedal steel di Rob Pastore. Tra gli altri brani spiccano la rilassata I’m Gonna Hit The Number tra blues e JJ Cale, il riflessivo gospel Saving Grace e la delicata ballata Sunny Days.
Il secondo disco parte con il bluegrass Runnin’ With The Devil, proseguendo con brani autografi tra i quali la jazzata Man In A Cave con il sax di Tommy LaBella, l’Hammond di Radoslav Lorvic e delle percussioni sudamericane, El Sonador (The Dreamer) profumata di influenze latine e cantata in parte in spagnolo, mentre Start Building Bridges ondeggia tra People Get Ready e The Band con un messaggio importante di unità e umanità, ribadito da Corporations Are People dove Hank ci ricorda che anche le grandi aziende dovrebbero seguire le leggi. Dopo il gospel/blues The Devil’s At The Door è posta quasi in chiusura l’unica cover, Take Your Burden To The Lord, un gospel degli anni venti di Charle A. Tindley in cui si ascolta l’elettrica di Bill Kirchen (Commander Cody).

Paolo Baiotti

C. DANIEL BOLING – New Old Friends

di Paolo Baiotti

18 marzo 2024

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C. DANIEL BOLING
NEW OLD FRIENDS
Berkalin Records 2023

Paragonato ad artisti del calibro di Steve Goodman, Tom Paxton e John Prine, già vincitore del Grassy Hill Kerrville New Folk Contest e del Woody Guthrie Folk Festival, Daniel ha una lunga carriera alle spalle. Già membro del trio The Limeliters, ha lavorato come Ranger nei parchi nazionali e per altri uffici statali, diventando musicista a tempo pieno a cinquant’anni. New Old Friend è il suo nono album, prodotto da Jono Manson come il precedente e registrato nello studio del produttore The Kitchen Sink a Santa Fe. Quanto ai dischi precedenti, nel 2016 These Houses è stato nominato per i Grammy come migliore album folk.
Boling è amico da tempo del grande cantautore Tom Paxton, nato a Chicago nel ’37, che ha scritto brani coverizzati da Bob Dylan, Pete Seeger, Willie Nelson, Joan Baez e tanti altri. I due si sono ritrovati casualmente in Colorado nel 2022 per un raduno di autori e hanno iniziato a comporre insieme lavorando online sulla piattafoma Zoom, completando il disco non casualmente intitolato New Old Friends. Per Daniel è stato ovviamente un grande onore ed il risultato una sorpresa positiva per molti, cosicchè i due stanno anche suonando insieme dal vivo e preparando un secondo album in coppia.
Oltre alla collaborazione nella scrittura, Tom Paxton canta in cinque canzoni. Manson ha chiamato validi session men come Jason Crosby al piano, Jeff Scroggins al banjo e Char Rothschild per i brani arrangiati in modo più complesso che con la sola presenza di chitarra e voce, contribuendo a rendere il disco più vario e interessante.
Si parte con la scanzonata Get a Life! un duetto tra Daniel e Tom accompagnati da chitarra e banjo che profuma di Appalachi, seguita dalla prima canzone scritta dai due, la nostalgica Old Friends con il mandolino di Kelly Mulhollan. Gli altri pezzi cantati insieme sono il bluegrass This Town Has No Cafè, Red White And Blue caratterizzata dal piano di Crosby e Turn The Corner, una ballata deliziosa percorsa dall’armonica di Michael Handler in cui la voce di Paxton doppia quella di Boling.
Tra gli altri brani spiccano la delicata How Did You Know? e Of You And Me dedicata alla moglie Ellen, la disinvolta Bear Spray And Barbwire sulle disavventure che possono capitare camminando sulle montagne che circondano la città di Albuquerque in New Mexico dove Daniel vive, la bluesata The Keys sull’inesorabile trascorrere del tempo, Leaving Afghanistan che tratta delle problematiche dell’intervento americano e The Missing Years, una riflessione sulla pandemia e sulle sue conseguenze.

Paolo Baiotti

NOLAN MCKELVEY – Forward

di Paolo Baiotti

8 marzo 2024

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NOLAN MCKELVEY
FORWARD
Autoprodotto 2023

Attivo da oltre 25 anni nell’area di Boston, Nolan ha suonato in ogni angolo degli Stati Uniti toccando diversi generi musicali che possono essere racchiusi nel termine Americana: alternative country, roots, bluegrass, country e rock. In questo lungo periodo ha ricevuto apprezzamenti non indifferenti, aprendo per artisti ben più conosciuti tra i quali Greg Brown, Odetta, Leon Russell, Los Lobos, Jerry Douglas, Cowboy Junkies, Son Volt e Josh Ritter. Tuttavia, non è riuscito ad emergere né nell’attività da solista che conta cinque album, né come componente di diverse formazioni tra le quali The Benders con i quali ha inciso altri cinque dischi e The Resophonics. Ha trascorso un periodo in California dove ha suonato nella band di Joel Rafael, ha registrato con Levon Helm, poi si è trasferito in Arizona dove ha inciso con i Muskellunge (sei album) che sono la sua band attuale di bluegrass insieme ai Tramps And Thieves, ma alterna anche l’attività da solista e in trio. Nel 2020 ha pubblicato Songs Of Hope, un mini-album di sei canzoni in associazione con la fondazione “cure the kids” e Into The Silence, registrato dal vivo senza pubblico a Flagstaff in trio.
Ora torna da solista con Forward, registrato con un nutrito gruppo di musicisti in parte già utilizzati in passato, in cui conferma pregi e difetti della sua musica, gradevole e di discreto livello pur risultando indubbiamente derivativa e senza grandi picchi nella scrittura. Un artigiano della musica roots come ce ne sono tanti negli Stati Uniti, per cui è difficile pensare che riesca ad emergere ulteriormente.
Forward alterna tracce di matrice rock, country e folk disegnando un ritratto credibile della musica di McKelvey. Ballate intime e dolenti di impronta folk come Mother, la title track già uscita come singolo che si impone con un crescendo notevole e la springsteeniana Pretending (contro la guerra) si alternano al soul ritmato di Tir Na Nog con il sax di Dana Colley (Morphine), al rock di Phoenix Rising e Other Side e al country di Tears In The Dell e di Sweetest Dreams scritta per la figlia, con la chiusura di New House in cui spicca il violino dell’amica Megyn Neff.

Paolo Baiotti

STEFANO DYLAN: Torino, Cafè Neruda, 29/2/2024

di Paolo Baiotti

8 marzo 2024

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STEFANO DYLAN: TORINO, CAFE’ NERUDA, 29/2/2024.

Dopo diversi tentativi andati a vuoto in Italia, il percorso musicale di Stefano Dylan si è sviluppato quando si è trasferito a Malta con la famiglia nel 2012, dove ha formato una band e suonato anche da solista. Ma il vero cambio di passo è avvenuto dopo il trasferimento in Irlanda, nella zona di Limerick. Per sua fortuna nell’isola di smeraldo la musica è radicata nella cultura locale, si trovano con maggiore facilità ingaggi nei locali (soprattutto nei pub) e anche suonare per strada è molto apprezzato. Per farla breve Stefano è riuscito a diventare un musicista professionista in Irlanda e ha pubblicato tre dischi: Rough Diamonds nel 2019, Ouroboros nel 2022 e Ballads From Home nel 2023, i primi due con una prevalenza di brani autografi, il terzo di cover di brani tradizionali e di altri cantautori anglosassoni.
Nella sua prima apparizione italiana da solista a Torino dove è nato e ha vissuto a lungo, il cantautore ha suonato da solo dimostrando una certa sicurezza e dimestichezza sul palco, alternando cover a brani autografi tratti dai tre dischi citati, ma non solo.

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Dall’esordio sono state scelte l’eccellente ballata folk Not A Day Goes By, la deliziosa No Key Blues e The Road To Waterloo ispirata dai Miserabili di Victor Hugo, che perde qualcosa senza la chitarra elettrica dell’originale in studio. Da Ouroboros sono stati estratti i primi tre brani dell’album: la sofferta Endless Road, la nostalgica The Life Before e Fool’s Gold, mentre dal recente Ballads From Home il musicista ha eseguito Canadee-i-o del folksinger inglese Nic Jones, il tradizionale Fair Annie nell’arrangiamento di Martin Simpson, la malinconica The Green Fields Of France del cantautore australiano Eric Bogle, una canzone contro la guerra ripresa anche dai Dropkick Murphys e da The Men They Coudn’t Hang e il tradizionale Shady Grove. Non sono mancate un paio di tracce in italiano, Malinverno con la quale ha aperto la serata e Filastrocca, con la quale ha vinto un concorso per cantautori indipendenti a Biella nel 2001 e alcune cover, tra le quali Icarus di Anne Lister (conosciuta nella versione di Martin Simpson), The Fields Of Athenry di Pete St. John sulla grande carestia irlandese (ripresa tra gli altri dai Dubliners e dai Dropkick Murphys), la dolente ballata western Tumbleweed di Peter Rowan e nei bis, a chiusura del concerto, una toccante Rainy Night In Soho dei Pogues, dedicata ovviamente alla memoria di Shane McGowan, l’unico brano in cui, oltre alla chitarra acustica, il musicista ha suonato anche l’armonica.
Un esordio promettente doppiato la sera dopo a Novara, sperando che in futuro ci siano altre occasioni per ascoltarlo dalle nostre parti.

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Paolo Baiotti

BRIAN KALINEC – The Beauty Of It All

di Paolo Baiotti

3 marzo 2024

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BRIAN KALINEC
THE BEAUTY OF IT ALL
Berkalin 2023

Cantautore folk di Beaumont, da tempo residente a Houston, sempre in Texas, Brian è stato paragonato a grandi artisti come Woody Guthrie, James Tayor, Jim Croce e Rodney Crowell. Già presidente della Houston Songwriters Association, ha condotto per anni un festival di cantautori piuttosto conosciuto e ha partecipato come autore a numerose manifestazioni locali, ottenendo riconoscimenti in eventi tra i quali la Songwriter Serenade Competition e The Big Top Chautauqua Song Contest. Molto attivo nel sociale e nella promozione della scena locale, nel 2012 è stato premiato con il “My Texan” Award ai Texas Music Awards per il suo supporto alla musica e agli artisti dello stato. Con la moglie Pam gestisce la Berkalin Records che pubblica parecchi artisti folk e di Americana.
Ha esordito come solista nel 2007 con Last Man Standing, seguito nel 2012 da The Fence, che ha suscitato notevole interesse nelle radio specializzate europee e americane. Dopo un progetto in coppia con la cantautrice folk Kj Reimensnyder-Wagner (un tour americano, qualche data europea e un album nel 2021) torna da solo con The Beauty Of It All prodotto da Merel Bregante, esperto produttore, ingegnere del suono e batterista (Loggins & Messina, The Dirt Band), nonché proprietario dello studio Cribworks Digital Audio di Liberty Hill in Texas dove è stato registrato l’album. Merel ha radunato una pattuglia di session men tra i quali la moglie Sarah Pierce ai cori, Mark Epstein e Rankin Peters al basso, Dave Pearlman alla pedal steel e Pete Wasner alle tastiere che hanno accompagnano Brian (voce, chitarra acustica ed elettrica) in 14 canzoni in cui prevalgono melodie dolci e carezzevoli e tempi medi o lenti che riflettono nella loro quiete e pacatezza i paesaggi delle foto della copertina e del booklet.
La scrittura di Kalinec è semplice, folk con qualche venatura country negli arrangiamenti, adatta alla sua voce calda e melodica, a tratti un po’ troppo vicina a quello che gli americani chiamano “adult contemporary”, tanto che qualche sforbiciatura avrebbe giovato all’ascolto complessivo dell’album. Non ci sono grandi picchi né cadute fragorose, tuttavia la ballata Next Door Stranger con una fisarmonica dolente, la dolce Redwood Fence, Fix-It Man con l’armonica e il mandolino di Cody Braun e The Wind scritta con Mando Saenz, musicista di Nashville e autore di parecchi brani di successo per artisti come Miranda Lambert, The Oak Ridge Boys, Jim Lauderdale, Eli Young Band e Whiskey Myers, sembrano avere qualcosa in più.

Paolo Baiotti

LADY PSYCHIATRIST’S BOOTH – Four Research Porpoises Only

di Paolo Baiotti

1 marzo 2024

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LADY PSYCHIATRIST’S BOOTH
FOUR RESEARCH PORPOISES ONLY
Autoprodotto 2023

Ashley E. Norton (voce e chitarra acustica) è stata coinvolta lo scorso decennio nel progetto Whitheward, un duo indie/folk formato con Edward A. Williams che si è esibito anche in trio con Stephanie Groot (violino, mandolino e voce). A seguito della pandemia che ha interrrotto l’attività del duo, le ragazze hanno deciso di formare una nuova formazione incidendo a Los Angeles nello studio di Laura Hall (pianista e tastierista, nonché direttrice musicale di uno show televisivo) un mini-abum, dandosi il nome di Lady Psychiatrist’s Booth, mischiando elementi folk, dark e pop con ironia e un po’ di eccentricità. Il passo successivo è stato la registrazione di questo album, un concept che intende raccontare la storia di quattro pazienti donne che negli anni cinquanta, intrappolate in un mondo dominato dagli uomini, dopo che i mariti le hanno lasciate per diversi motivi vengono accolte in un ospedale psichiatrico per scopi di ricerca (da qui il titolo del disco), con l’intenzione di scoprire perché sono state lasciate. Un medico, lo psichiatra Garf Lunkel interpretato da Bruce Blied, dovrebbe diagnosticare e trattare le loro problematiche o quelle dei mariti. Attraverso dialoghi e canzoni, ogni paziente racconta la sua storia; Ashley, Stephanie, la batterista Amanda Albini e la bassista Marcia Claire interpretano le quattro pazienti, la pianista Laura Hall un’ospite, il produttore del disco Johnny Garcia interpreta sé stesso. Un progetto satirico di impianto teatrale che è disponibile in digitale su Bandcamp comprensivo dei dialoghi che si alternano alle canzoni, che a loro volta sono invece raccolte senza dialoghi nel cd oggetto di questa recensione.
In generale spiccano la voce solida di Ashley e le curate armonie vocali, come si evince da Hell in Michelle che apre il disco a cappella, senza accompagnamento musicale. Il violino della Groot contraddistingue l’animata Joelle, il mandolino e una melodia pop la deliziosa When I Grow Up, mentre nell’ironica Cold Dead Body emergono cori anni cinquanta e la fisarmonica di Laura Hall. Spanish Cafè è una ballata morbida, Slow Train To Memphis una piacevole traccia bluesata, Money That Makes You A Man un mid-tempo country, per chiudere con il ruspante honky tonk di Dancing In The Dirt che cita nel testo la springsteeniana Dancing In The Dark.

Paolo Baiotti

BONEFISH – Where Do We Belong

di Paolo Baiotti

1 marzo 2024

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BONEFISH
WHERE DO WE BELONG
FMB 2023

I Bonefish sono un quartetto svedese formato da musicisti esperti che si sono uniti nel 2010, pubblicando tre anni dopo l’omonimo l’album d’esordio. La formazione originale comprendeva Bie Karlsson (voce e chitarra), Lasse Nilsen (chitarra), Rasmus Rasmusson (batteria) e Anders Nylle Thoor (voce e basso). La presenza di quattro voci di buon livello ha garantito da subito delle armonie puntuali e una varietà di tonalità vocali che si sono sposate con una musica influenzata da rock-blues e Americana. Alla fine del 2015 Nilsen ha lasciato la band sostituito da Matte Norberg, chitarrista votato ad un solismo più energico, con il quale è stato scritto e inciso il secondo album Atoms, registrato negli Rockfield Studios in Galles con la produzione di Max Lorents. Apprezzato dalla critica locale e trasmesso parecchio dalla radio nazionale tedesca, il disco ha consentito un lungo tour in nord Europa tra Germania, Olanda, Belgio e Svezia. La pandemia ha bloccato l’attività nel 2020 quando era in preparazione Where Do We Belong, che è stato rimandato fino al 2023, nuovamente prodotto da Lorentz che suona anche le tastiere.
Abbiamo di fronte 11 canzoni rock con melodie pop e un tocco di Americana con dei riff e dei cori che restano in testa, scritti in prevalenza da Karlsson o Rasmusson. Se l’opener New Orleans ha un riff di impronta rock-blues, Modern Day Attraction ricorda nell’attacco i primi U2 e profuma di anni ottanta, Always Right ha una cadenza più lenta e intima con incisivi interventi della solista di Norberg e Dance On The Ceiling mischia rock e pop con una ritmica dance. Nel rock ipnotico di Sad la voce solista è di Nylle Thoor, mentre la soffusa e avvolgente Friend Of Mine è scritta e cantata dal batterista Rasmusson. Meritano una citazione anche la riflessiva Home e la melodica Just Like A Warrior posta in chiusura.

Paolo Baiotti

MANNISH BOY – Down Until Dawn

di Paolo Baiotti

19 febbraio 2024

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MANNISH BOY
DOWN UNTIL DAWN
Paraply 2023

I Mannish Boy sono un quartetto svedese attivo da più di vent’anni. Sebbene il loro nome derivi da un brano di Muddy Waters, sono cresciuti con la passione per il rock di matrice britannica di Slade, Mott The Hoople, Rolling Stones, David Bowie e Thin Lizzy. Nati come cover band, hanno sviluppato gradatemente un suono più personale con l’inserimento di materiale autografo. Hanno due cantanti solisti: il chitarrista ritmico Erik Sjogren e il bassista Anders Ekblad. La formazione è completata dal chitarrista e produttore Par Englund e dal batterista Emil Olin.
Nel 2020 hanno pubblicato l’album Last Ticket To Rock’n’Roll Land. Down Until Dawn è un EP con quattro tracce recenti che dovrebbero anticipare il secondo album: l’inedito rock energico e appassionato di Break Down And Cry, un nuovo missaggio della scorrevole Blessed With Passion tra rock e pop, la robusta When We Were The Squad debitrice del “dual guitar sound” dei Thin Lizzy e All Of Those Lies, già pubblicata come singolo, una traccia più morbida con un testo che critica in modo pungente e ironico il potere dei social media.

Paolo Baiotti

SKYE WALLACE – Terribly Good

di Paolo Crazy Carnevale

8 gennaio 2024

Skye Wallace - Terribly Good (1)

SKYE WALLACE – Terribly Good (Six Shooter Records)

È uscito poco più di un anno fa questo disco della canadese Skye Wallace. Definire Skye è difficile, è una cantautrice? Sì, anche. È una rockettara? Indubbiamente. È folk? A modo suo. Ed è anche punk, sempre a modo suo. Nulla a che vedere però con la commistione di folk e punk di gruppi come Pogues o Dropkick Murphys.

Skye Wallace è soprattutto Skye Wallace e la sua magia è identica sia che stia guidando la sua band in una forsennata performance dal vivo, sia che stia imbracciando la chitarra acustica per cantare una delle sue canzoni o per snocciolare una cover davanti al monitor in modalità selfie dello smartphone (o i-phone se preferite).

La sua forza è la naturalezza in entrambi i casi, così come l’energia, l’originalità, la spontaneità.

Tutte qualità che ritroviamo in questo LP di otto canzoni che ci consegna una Skye Wallace al top della forma, accompagnata da un gruppo elettrico di straordinaria potenza, non lo stesso che l’accompagna dal vivo, fatta eccezione per la bassista J Strautman, irrinunciabile sparring partner sul palco sia per i cori che per la presenza scenica, e della tastierista Gina Kennedy.

Non è dunque un caso se la musicista sia stata premiata dalle stazioni radio canadesi che ne hanno trasmesso i lavori con continuità e convinzione.

Il disco è il risultato di una serie di produzioni differenti, non dimentichiamo che i brani sono stati scritti e registrati nel periodo pandemico e quindi con la difficoltà di avere sempre gli stessi musicisti in studio: così in cabina di regia troviamo sia Gus Van Go che Devon Lougheed, impegnati entrambi anche come strumentisti nei brani di cui sono produttori.

Il titolo del disco, che sia voluto o meno, è davvero esplicativo perché ci troviamo davvero al cospetto di un LP terribilmente buono!

La prima facciata si apre con tre brani bomba, un’infilata del genere non la ascoltavo da un sacco di tempo, l’incedere lento di Tooth And Nail prende dal primo ascolto, poi quando entra la voce duttile della Wallace a dominare il brano, il gioco è fatto.

The Doubt, in un’epoca in cui i singoli erano solidi e non aerei, avrebbe spopolato nelle charts, quelle vere: è un brano contagioso dalla prima nota al refrain, cantato con la Strautman, roba da surclassare le Runaways, con un riff degno di questo nome. Tocca poi a Everything Is Fine, che era stato il primo brano del disco ad uscire alla luce, un brano costruito a sua volta molto bene, accompagnato da un video un po’ inquietante, con un testo come il precedente che sembrerebbe fare riferimento ad una relazione finita in modo sbagliato.

La prima facciata si conclude con Truth Be Told, introdotto dalla la voce modulata che si muove su una base ipnotica, il primo verso sembrerebbe ricondurre all’anima cantautorale della Wallace, ma poi il refrain esplode in un tripudio di suoni, per ricondursi infine al tappeto sonoro iniziale.

La seconda facciata inizia con una chitarra acustica, ma non facciamoci ingannare, l’elettrica segue a ruota e parte Phantom Limb, una di quelle canzoni in cui la voce di Skye sembra inseguire i fasti vocali della miglior Joni Mitchell, entrambe canadesi, entrambe bionde, entrambe (soprattutto) brave. Molto efficaci i cori (di nuovo la Strautman, con la Kennedy e Lougheed), bello il solo di chitarra in bilico tra metal e seventies.

The Keeper è un’altra delle perle del disco, un brano eseguito in solitudine, chitarra elettrica e voce, la voce è uno spettacolo, i cori sono in punta di piedi e a cura degli stessi tre soggetti che se ne occupavano nel brano precedente, sembra di essere distanti anni luce da quanto ascoltato fin qui, ma in realtà è la stessa farina a fornirne la pasta, solo lavorata in altro modo, a testimonianza della versatilità dell’artista.

Partenza lenta e poi esplosione per You Left, con le tastiere della Kennedy in sottofondo e col tema ricorrente della relazione finita; il disco si conclude con la breve Tear A Piece (Bite Me), di nuovo caratterizzata da un refrain molto orecchiabile, lontanamente echi di Runaways e Bangles si fanno largo, grazie anche alla parte cantata in modo ossessivo, con un testo che sembrerebbe indicare una riscossa rispetto alle liriche dei brani precedenti.

Paolo Crazy Carnevale

THE 99TH FLOOR – Resurrection

di Paolo Baiotti

25 dicembre 2023

copertina A-1

THE 99TH FLOOR
RESURRECTION
Onde Italiane 2023

Nel ’93 la label tedesca Music Maniac lancia una collana di garage rock/punk denominata Teen Trash che vuole promuovere gruppi di diversi paesi dedicati al garage di derivazione sixties. Tra le band interessate ci sono i torinesi 99th Floor, protagonisti del Volume 9, che erano stati formati una manciata di anni prima da Paolo Messina (chitarra) e Marco Rambaud (batteria) e si erano assestati con l’inserimento di Luca Re alla voce, proveniente dai Sick Rose, Simona Ghigo alle tastiere e Walter Bruno al basso. L’esordio di questo quintetto, che rende omaggio nel nome ai texani Moving Sidewalks di Billy Gibbons, futuro chitarrista degli ZZ Top, si guadagna pareri positivi e un discreto interesse in ambito garage e viene seguito tre anni dopo da Electric Ragoo per la label romana Misty Lane, in cui Max Tinozzi entra al basso e Alberto Bruno alle tastiere.

copertina B

Il nuovo vinile di Onde Italiane, stampato in 300 copie numerate, intende recuperare le tracce non facenti parte dei due dischi ufficiali. Si parte con i quattro brani dalla raccolta Mind Expanding Vol.2 (Misty Lane ’94) tra i quali When The Morning Comes Around e Long Haired Blues, sempre caratterizzati dal suono delle tastiere (specialmente il Farfisa) e dalla voce solida, aspra e grintosa di Luca Re, si prosegue con i due tratti da Tales Form The Boot (Misty Lane ’95) di qualità sonora inferiore, con la chitarra di Messina protagonista in One Night Stand e con l’inedita Happyville in cui si inseguono armonica e chitarra. Infine si approda alle prime registrazioni del demo tape del ’92 The Primitive Sound Of, pubblicato solo su cassetta, che evidenziano una band già compiuta che privilegia brani di propria scrittura influenzati dal garage rock di gruppi come la Chocolate Watchband o i più recenti Chesterfield Kings e Fuzztones. Spiccano Writing On The Wall, l’incalzante Baby e Be A Caveman dominata dall’organo. Ultima traccia del vinile è l’inedita Quelli del ’95, cantata in italiano.
Quanto al cd allegato al vinile e non venduto separatamente, oltre ai 14 brani in studio aggiunge 16 tracce dal vivo inedite di qualità sonora più che accettabile, tratte da un concerto a Monaco del maggio ’95, escluse le ultime due provenienti da una data torinese (con Paolo alla voce al posto di Luca). Il concerto tedesco è un buon riassunto della loro storia: tracce brevi, intense, energiche, senza un attimo di pausa, tra le quali la coinvolgente I Couldn’t Care Less, Mr Nobody, la bluesata The One I’m Looking For, la cover di Around & Around, l’anthem Tomorrow Is The Day e la travolgente Hey Little Bird.
Un altro recupero prezioso di Onde Italiane, sempre attenta al materiale influenzato dal rock dei sixties.

Paolo Baiotti

MATTHEW CHECK – Without A Throne

di Paolo Baiotti

24 dicembre 2023

check

MATTHEW CHECK
WITHOUT A THRONE
Autoprodotto 2022

Cresciuto con la passione del pianoforte a Newtown nell’area di Philadelphia, ha abbandonato lo strumento nell’adolescenza. Si è trasferito a New York, ha studiato testi religiosi ebraici, ma ha anche suonato nel tempo libero banjo e chitarra incidendo un album. Nel 2018 a 36 anni è tornato da un viaggio di quattro mesi in India e improvvisamente ha deciso di comprare una tastiera, si è applicato con intensità imparando a suonare professionalmente lo strumento e a comporre, incidendo una serie di Ep a partire dal 2020, compresi due dal vivo (The Bridgeford Sessions e Live At Rockwood Music Hall). Recentemente si è trasferito con la compagna a Cincinnati dove ha registrato dei singoli e sta preparando un album.
Without A Throne comprende sette canzoni incise nel corso del 2022 allo Stable Studios di Nashville con il produttore e ingegnere del suono Thomas Bryan Eaton alla chitarra, dobro e mandolino, Miss Tess alla voce, John Pahmer al piano, Eric Frey al basso e Glenn Grossman alle percussioni. La scrittura e il suono di Matthew ci riportano ai cantautori degli anni settanta, tra Jackson Browne, Warren Zevon e Elton John. Musica melodica, scorrevole ed energica allo stesso tempo. The Very Beginning lascia un’impressione di scrittura distesa, con un piano rilassato che si inserisce nel cantato disinvolto e melodico. Old Wooden Floor è una ballata sulle problematiche dell’alcolismo, un problema vissuto in passato da Check, con un testo che inizia così: “I woke up this morning with a bottle next to my head upon an old wooden floor”. Musicalmente ha venature country date dagli interventi della pedal steel, confermando l’importanza dei controcanti di Miss Tess. L’impronta country/bluegrass è evidente nella disimpegnata Pretty Mama, mentre The Way That You Are è più aderente ad una scrittura cantautorale ed è stata composta dal fratello Jonathan come il valzer country The Shape It Appears. Se What A Father Would Do ha richiami biblici nel testo e una struttura rock con una chitarra incisiva, nella chiusura ritmata di Because You Can il piano ritorna protagonista.
Without A Throne scorre veloce, ma non lascia grandi tracce del suo passaggio.

Paolo Baiotti

BOBBO BYRNES – October

di Paolo Baiotti

9 dicembre 2023

Bobbo-Byrnes-October

BOBBO BYRNES
OCTOBER
Autoprodotto 2023

Ci siamo occupati più volte in passato di questo artista, più recentemente nel 2021 in occasione della pubblicazione del quarto album SeaGreenNumber5 nel quale si avvertiva un approccio più intimo e morbido rispetto al precedente The Red Wheelbarrow in cui Bobbo era stato aiutato da ospiti come Ken Coomer, Phil Manzanera e Remi Jaffee. Se nel disco più recente la formazione elettroacustica si limitava a batteria, violino, pedal steel, basso della moglie Tracy con un paio di coriste, questa volta Byrnes ha fatto tutto da solo, avendo la possibilità durante un tour europeo nell’autunno del 2022 di registrare in due luoghi leggendari: Hansa Studios a Berlino e Windmill Lane Studios a Dublino. Armato di chitarra acustica, mandolino, e-bow e voce, Bobbo ha mixato canzoni eseguite nel corso del tour con altre scritte sul momento scegliendo come titolo October in riferimento al momento della registrazione.
Nelle note l’artista descrive di essere rimasto quasi intimidito di registrare in questi ambienti pieni di storia, rendendo omaggio a David Bowie con una cover intima e minimale di Heroes con qualche effetto di e-bow che non sfigura affatto. Pur essendo considerato un artista vicino all’Americana anche pensando ai suoi trascorsi nella band The Fallen Stars, in questo disco Byrnes si avvicina maggiormente alle tematiche del british folk/pop, evidenti nell’apertura di The Cold War, profumata di brit-pop con inserimenti di elettronica sulla base acustica, nonché nella successiva The Sea provvista di un gradevole sapore folk con gli interventi aggraziati del mandolino. October è uno strumentale bucolico dall’atmosfera sognante, mantenuta nella quieta e melodica Untitled, in parziale contrasto con House Of Cards dal tono maggiormente cantautorale. Prima di Heroes spicca la versione del brano folk irlandese marinaresco Crooked Jack, ripreso tra gli altri da Dick Gaughan, mentre nella ballata Too Many Miles che chiude il disco Byrnes esibisce le sue capacità strumentali.

Paolo Baiotti

TODD PARTRIDGE – Autumn Never Knows

di Paolo Baiotti

28 novembre 2023

todd

TODD PARTRIDGE
AUTUMN NEVER KNOWS
Autoprodotto 2023

Todd ha preso in mano seriamente la chitarra a 18 anni, iniziando a comporre. The Black Light Syndrome è stata la sua prima band, seguita da Salamagundi e infine da King Of The Tramps, coi in quali ha pubblicato 5 album e suonato centinaia di concerti ottenendo una discreta fama specialmente nel Midwest. Dopo la pandemia ha preferito dedicarsi all’attività solista da “one man band” mischiando il materiale delle band citate con brani nuovi e covers. La sua musica miscela blues, roots rock, classic rock, country, gospel e folk cantautorale, con un gusto naturale per la melodia che viene mantenuto anche in studio. Cresciuto in Iowa in un ambiente rurale circondato da campi di grano e vecchi fienili, ha apprezzato il rock di Dylan, Beatles e Santana dai dischi della madre e si è appassionato al country vedendo gli spettacoli televisivi della Grand Old Opry. Il padre suonava la tromba in un’orchestra ed era appassionato di jazz. Dopo un periodo di infatuazione per l’hard rock e uno per la black music, è tornato al blues e all’Americana. Abituato dalla sua famiglia a spostarsi per motivi di lavoro, nella sua esperienza da solista si è dedicato a spettacoli in cui alterna canzoni, racconti e poesie (ha anche scritto un libro in versi). Inoltre ha creato uno studio di registrazione chiamato Old School Studios perché occupa gli edifici di una vecchia scuola degli anni venti.
Autumn Never Knows è stato registrato principalmente in questo studio a Auburn in Iowa e a Des Moines con l’aiuto del produttore e batterista Bryan Vanderpool, del bassista Jay Foote, delle tastiere e voce di Sarah Vanderpool e del violino di Kathryn Severing Fox. Todd, oltre ad avere composto e cantato tutti i brani, suona chitarra e mandolino.
Il disco comprende otto tracce per poco più di 30’ che scorrono veloci. Il country/folk cantautorale di Postcards From The Sea funge da apertura con qualche rimando a Harry Nilsson e John Prine, che torna nella gradevole ballata Where The Highway Meets The Sky sulla necessità di aiutarsi nei momenti difficili. Nella ballata Sioux Falls il suono risulta ammorbidito dall’interpretazione vocale e dalla lap-steel che contrastano un’elettrica più robusta, mentre Wood ha un sapore campestre dato dalla presenza importante del violino e del banjo. Si prosegue con la malinconica Lucy Brown bilanciata da Junk Train tra country e John Mellencamp. Confermando la preferenza alla moderazione e ai tempi medi o lenti, Blessing e la pianistica Sorrow avvolta dagli archi chiudono un disco che non inventa nulla, ma si ascolta senza intoppi, una considerazione che può essere un pregio o un difetto a seconda dei gusti.

Paolo Baiotti

MICHAEL JOHNATHON – Garden Of Silence

di Paolo Baiotti

22 novembre 2023

Michael-Johnathon

MICHAEL JOHNATHON
GARDEN OF SILENCE
Poetman Records 2022

Non ci sono dubbi sul fatto che il newyorkese Michael Johnathon sia un artista eclettico ed estremamente prolifico come dimostra il fatto che Garden Of Silence sia il suo ventesimo album. Oltre ad essere uno stimato folksinger e chitarrista Michael è drammaturgo, scrittore (la serie Woodsongs di cinque libri e una per bambini sugli strumenti musicali), compositore di opere teatrali (Walden: The Ballad of Thoreau), fondatore dell’organizzazione di artisti SongFarmers, animatore di un conosciuto programma radiofonico (The Woodsongs Old-Time Radio Hour) che da poco ha anche una versione per i bambini (Woodsongs Kids). Nel 2020 ha ricevuto il prestigioso Milner Award per meriti artistici dal governatore del Kentucky.
Garden Of Silence è composto da dieci tracce originali e da una cover di Pete Seeger ed è un disco morbido e melodico in cui il cantante e polistrumentista (chitarra, mandolino, banjo, organo) è accompagnato da un nutrito gruppo di collaboratori compresa una sezione di fiati e di archi in alcune tracce. Ci sono riferimenti alle sue passioni e attività passate e presenti: la title track ha come tema il giorno della morte del pittore Van Gogh al quale era stato interamente dedicato il disco The Painter, Winter Song si riferisce al filosofo e scrittore Henry David Thoreau, Front Porch Symphony parla dello spirito della sua organizzazione di artisti, Seeger Mashup è un tributo al grande folksinger che è stato un suo mentore introducendolo nel mondo della musica cantautorale, mentre la conclusiva Folksinger è un ringraziamento alla passione che anima i cantanti folk di ogni epoca. Non mancano un blues acustico (Narcissistic Blues), un pregevole strumentale con il banjo in primo piano (Petrichor) e riferimenti a temi più generali come la rabbia e il dolore in Hurricane e l’amore in September Eve.
Echi di Don McLean e Gordon Lightfoot attraversano un disco semplice, quieto e dalle atmosfere bucoliche.

Paolo Baiotti

LUCA & THE TAUTOLOGISTS – Paris Airport 77

di Paolo Baiotti

13 novembre 2023

luca

LUCA & THE TAUTOLOGISTS
PARIS AIRPORT ‘77
RecLab/Ird 2023

Nelle sue sette vite musicali (o forse sono di più) Luca Andrea Crippa ha collaborato con artisti internazionali (Don DiLego, Damon Fowler, Baby Gramps, Jonny Kaplan), ha fatto per cinque anni il promoter con lo pseudonimo Curtis Loew (scelto non a caso…), ha inciso una manciata di dischi come chitarrista, arrangiatore e produttore con Ruben Minuto e suonato per anni nella piu longeva tribute band italiana dei Lynyrd Skynyrd (Mr Saturday Night Special) e in una band di alternative country (No Rolling Back). Alla fine è giunto finalmente il momento dell’esordio come solista avendo già pronti più di 40 brani per completare una tetralogia (!). Per questa occasione speciale Luca (voce e chitarre di ogni tipo) si è appoggiato a dei veri amici oltre che valenti colleghi: Ruben Minuto che stavolta si disimpegna prevalentemente al basso lasciando il ruolo di chitarrista a Leandro Diana e Daneb Bucella alla batteria sono i Tautologists, con la valente assistenza di Riccardo Maccabruni alle tastiere.
Registrato in pochi caldi giorni di luglio nei RecLab Studios di Larsen Premoli e prodotto da Crippa, Paris Airport’77 è un disco corposo di 14 tracce (compresa una mini suite in tre parti) in cui viene riassunto il percorso musicale dell’autore, da sempre vicino a un suono rock di matrice americana qui riproposto in un modo particolare, senza ricalcare schemi prevedibili o prefissati che si ricolleghino alle sue passioni (southern e country rock), con una certa fantasia e arrangiamenti molto curati anche nei particolari.
La title track posta in apertura si distende scorrevole grazie a una melodia ben definita, con la voce che richiama Mike Scott dei Waterboys e una ritmica in cui è accentuato il ruolo della batteria, prima dello spazio per gli assoli di Ruben (di stampo southern), Riccardo e Luca (più intimista). Il melodico tempo medio Dreams Become Promises ha una sorprendente accelerazione finale che precede la prima parte di Things Get Their Name From A Spell con la voce bassa narrante di Luca che si apre nel finale ad un’altra accelerazione, mentre solo nella terza parte le chitarre si lasceranno andare. Nel prosieguo spiccano l’immediata e nostalgica There’s A Time That Never Ends, primo singolo dell’album, la raffinata Undelivering con il piano in evidenza, la ballata intima Is It All That I Learnt e la grintosa The Man In The Wool Overcoat, mentre non mi convince l’oscura e anomala Winter Heights And My Falldowns ammantata dai suoni programmati di Zowa.
Nella parte finale che forse si sarebbe giovata di qualche taglio emerge From Dawn Till Late, un soave inno alla musica e alle buone vibrazioni.

Paolo Baiotti

MARTY STUART & HIS FABULOUS SUPERLATIVES – Altitude

di Paolo Crazy Carnevale

7 novembre 2023

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Marty Stuart & His Fabulous Superlatives – Altitude (Snakefarm 2023)

C’è voluto qualche anno per avere il seguito dell’ottimo Way Out West, inciso da Stuart e soci sotto la guida di Mike Campbell: finalmente però il nuovo disco può girare nei nostri apparecchi stereofonici, giradischi o lettori CD che siano, ed è un degno seguito del disco prodotto dall’ex Heartbreaker.

Nel frattempo, Stuart i Superlativi favolosi non hanno certo dormito, hanno suonato molto in giro, Europa (ma non Italia) inclusa, hanno fatto un tour insieme a Roger McGuinn e Chris Hillman per celebrare i 50 anni del byrdsiano Sweeteheart Of The Rodeo e altrove hanno anche ospitato sul palco Gene Parsons, costruttore del primo prototipo di Stringbender, posseduto ora proprio da Marty Stuart.

E proprio attorno alla storica Fender Telecaster già di Clarence White ed ora di Stuart gira il nuovo disco, attorno a quella chitarra e alla musica dei Byrds che Marty ascoltava da ragazzo e che fondamentale è stata per la sua formazione musicale a cavallo tra rock e country.

Marty è un chitarrista e mandolinista straordinario, ma nel suo gruppo c’è anche un altro chitarrista ancor più straordinario, Kenny Vaughn, e i due insieme riescono a far uscire scintille e lampi dai loro amplificatori. Aggiungiamoci poi un batterista essenziale e preciso come Harry Stinson e un bassista con un pedigree da favola come Chris Scruggs, senza dimenticare che sono tutti abili armonizzatori in fase cantata…

Altitude, come dicevamo, gira intorno ai suoni del country spaziale basato sugli intrecci delle chitarre, Scruggs è qui anche in veste di chitarrista di pedal steel e provoca nell’ascoltatore un’autentica sbornia sonora irrinunciabile.

Fin dalla copertina è evidente la volontà di omaggiare i Byrds, il titolo del disco sembra poi un richiamo alle mitiche otto miglia di altezza: Lost Byrd Space Train (Scene 1). lo strumentale che apre il disco è da solo un capolavoro, un paio di minuti di pura poesia chitarristica in cui lo stile, il sound, la tecnica, la creatività fanno quasi pensare che ci sia ancora Clarence White a toccare le corde di quella Telecaster “truccata”. Si sfocia poi in Country Star, quasi una prosecuzione del brano strumentale in cui Stuart canta le sue aspirazioni ispirate dalla musica dei Byrds, e non da meno è la solida Sittin’ Alone con un bel lavoro di dodici corde elettrica (guarda caso). A Friend of Mine ha un’andatura sixties, molto surf con chitarra e tamburi come si deve e echi che riportano alla mente i temi principali dei Bond Movies, come curiosamente avevamo riscontrato anche nel recente album di Rhiannon Giddens; Space dice tutto fin dal titolo, Stuart è impegnato al sitar, il cui suono si intreccia con le chitarre di Vaughn e sembra di ritrovarsi in un disco dei Byrds del 1966 (non sarà un caso che in occasione del tour del 2022, Stuart e soci si fossero fatti ritrarre su sfondo nero a bordo di un tappeto volante!).
La bellezza del disco sta però nel fatto che al di là di tutte le volute citazioni sonore e iconografiche, si tratta di un disco originale in tutto e per tutto, probabilmente da tenere presente nel fare le classifiche del meglio a fine anno: la title track è country rock del più classico, uno dei pochi brani con ospiti, vale a dire Gary Carter alla pedal steel, Pig Robbins al piano e Aubrey Hayne al violino. Per il resto il quartetto fa quasi tutto da solo, con i risultati che vi abbiamo detto.

Ancora country rock nella seguente Vegas con un interessante stacco nel bridge e assolo di chitarra micidiale; la breve The Sun Is Quietly Sleeping sembra far riferimento alla psichedelia colta di scuola britannica, armonie vocali accurate e quartetto d’archi ad accompagnare un arrangiamento in punta di piedi, segue a ruota lo strumentale che riprende il titolo del brano iniziale, in versione virata leggermente verso la latin music, con le percussioni in primo piano e gli archi usati in coda in maniera sperimentale.

La ritmica di Nightridin’ sembra quasi un boogie blues di John Lee Hooker, le chitarre fanno però la differenza con sonorità quasi garage e echi surf. Tomahawk ha il testo concepito come un talking blues adattato ad un ritmo veloce sorretto da Stinson e Scruggs su cui le chitarre, ritmiche e soliste, si rincorrono. Rock duro e puro è invece, fin dal riff, la successiva Time To Dance, forse il brano che si stacca maggiormente a livello musicale dal concept byrdsiano: le parti di chitarra sono comunque sempre a livello strepitoso, l’affiatamento tra il leader e Vaughn è davvero fantastico, la loro bravura non è virtuosismo fine a sé stesso, in ogni nota che suonano ci sono anima e cuore, come direbbero a Napoli.

The Angels Came Down ha qualcosa del tardo Johnny Cash (non dimentichiamo che Stuart è stato per anni al servizio dell’uomo in nero): sicuramente molto è dovuto allo scarno arrangiamento tutto costruito su un arpeggio di chitarra acustica, solo sull’ultimo minuto si innestano le fantastiche armonie vocali dei Superlatives; poi i trenta secondi di Lost Byrd Space Traine (Epilogue) chiudono elegiacamente il disco.

Paolo Crazy Carnevale