Archivio articoli per la categoria ‘Rock'n'Pop’

CHRIS ZEK BAND – Agarthi

di Marco Tagliabue

30 dicembre 2024

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CHRIS ZEK BAND
AGARTHI
Autoprodotto 2024

La Chris Zek Band (o C. Zek Band) è attiva dall’ultimo trimestre del 2015 quando, sulle ceneri del trio blues Almost Blue il cantante, compositore e chitarrista veronese Christian Zecchin ha deciso di formare una band rock-blues con venature soul, funky e hard. Set You Free è l’esordio del 2017 con la voce femminile di Roberta Della Valle, Samsara il secondo album del 2020 con l’entrata alla batteria di Enea, fratello di Christian, che completa la sezione ritmica insieme al bassista Nicola Rossin, mentre le tastiere (principalmente organo Hammond e Wurlitzer) sono affidate alle capaci mani di Matteo Bertaiola. Samsara amplia i riferimenti del quartetto aggiungendo venature jazz, un gusto per la jam e dando maggiore spazio della voce solista maschile. Dopo quattro anni è il momento di Agarthi, definito “un viaggio nel passato, come una sorta di macchina del tempo che ti riporta in quelle terre di oltre Oceano dove le lunghe cavalcate chitarristiche, infarcite di sognanti jam, erano la costante per viaggi sonori rimasti vivi nel tempo, contaminati dal blues e dall’hard rock britannico degli albori, in lunghe e ammalianti atmosfere”. Insieme a Christian e a Matteo che disegnano le coordinate sonore del gruppo, è rimasto Enea mentre il basso è stato affidato a Elia Pasqualin. Il disco è composto da sette brani di Christian, unica voce solista, tra i quali lo strumentale Agarthi è il più significativo, una traccia scorrevole e onirica destinata ad espandersi in concerto, influenzata dal latin-rock di Santana dei primi anni Settanta, dagli Allman Brothers e dal jazz-rock, soprattutto nel suono delle tastiere che fanno da contrappunto alla liquida chitarra solista. Una slide insinuante e il synth caratterizzano il groove accattivante dell’apertura bluesata di Feel Like In Mississippi, indurita nel break chitarristico, mentre nella scanzonata Way Back Home si notano influenze southern tra Little Feat e Allman Brothers e nel sognante soul-blues Baby Blue accenti psichedelici e tastiere doorsiane. Anche laddove dal punto di vista composivo si possono evidenziare delle lacune, sono compensate dalle parti strumentali di ottimo livello. In chiusura il raffinato e notturno slow Whispering Blues impreziosito da una morbida slide, riafferma le doti del quartetto veronese.

Paolo Baiotti

QUARTET DIMINISHED – Deerand

di Paolo Crazy Carnevale

26 dicembre 2024

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QUARTET DIMINISHED – Deerand (Moonjune Records 2024)

Questa nuova proposta della Moonjune Records viene da lontano, come spesso è accaduto anche in passato per le produzioni di questa etichetta, la cui caratteristica, è di pescare non solo tra i talenti europei ed americani di quello che un tempo si definiva come jazz-rock, bensì di esplorare sonorità provenienti da paesi meno avvezzi a questi territori musicali. Dal Sudamerica all’estremo oriente, alla più vicina Turchia. Stavolta, con il cosiddetto quartetto diminuito del chitarrista Ehsan Sadigh, la Moonjune approda in Iran, o meglio, nell’antica Persia, visto che il titolo dell’album (doppio LP o singolo CD), Deerand, proviene da un termine persiano riferito alla durata dei toni di uno strumento musicale.
Il disco si compone di quattro brani, il cui fulcro è la lunga suite in quattro parti da cui il disco prende il titolo e che si snoda per ben venticinque minuti: Shadig è accompagnato dal pianista Mazyar Younesi, Soheil Peghambari si occupa dei fiati e alla batteria c’è Rouzbeh Fadavi.
Quattro sono i movimenti della suite in questione e si snodano tra parti introspettive, come l’inizio pianistico, e altri momenti più corali e ritmati in cui la fusione tra sonorità moderne ed elementi vagamente tradizionali diventa un autentico punto di forza, con la chitarra del leader che guida con sicurezza il quartetto verso un finale che suona come una sorta di bolero. Indubbiamente, con la composizione finale il brano più importante del disco.
Segue il brano Tehran II, seguito di una composizione apparsa altrove nella discografia del gruppo, qui la struttura è più dadaista, con la presenza dei paesaggi sonori orditi da Markus Reuter, artista fin troppo presente nelle pubblicazioni della Moonjune e forse sopravvalutato.
In Mirror Side, il brano più breve – comunque oltre i sei minuti – c’è il contrabbasso di Tony Levin, ospite che ritroviamo poi nella composizione finale, Allegro per il re: l’introduzione è anche qui giocata sul pianoforte, poi gli strumenti si alternano, Levin usa qui lo stick, e la struttura si evolve con un crescendo in cui fanno più volte capolino i richiami alla musica mediorientale e persiana.

Paolo Crazy Carnevale

MARK WINGFIELD – The Gathering

di Paolo Crazy Carnevale

26 dicembre 2024

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MARK WINGFIELD – The Gathering (Moonjune Records 2024)

Tra le pubblicazioni recenti di casa Moonjune, spicca questo nuovo disco del chitarrista inglese Mark Wingfield, da lungo tempo affiliato dell’etichetta ispanica (ma già newyorchese). Wingfield ha sempre mantenuto una qualità costante nei suoi lavori, sia in quelli solisti che in quelli come co-titolare di progetti, inclusi i moltissimi in coppia con Kevin Kastning su label Grey Disc.
Anche in questa nuova produzione, firmata da Leonardo Pavkovic, viene ripetuta la ricetta collaudata di una prog-fusion efficace, scorrevole, fluida.
Ad accompagnare il chitarrista dal ricco pedigree, troviamo alcuni dei nomi più in voga nelle produzioni Moonjune: tutto il disco è eseguito in trio con Asaf Sirkis alla batteria e Gary Husband alle tastiere e ad un rinforzo di percussioni in tre brani. Per completare la formazione due autentici assi del basso si dividono a metà il lavoro: Tony Levin e Percy Jones che insieme possono sfoggiare un who is who di amicizie musicali di rara ricchezza nel panorama jazz-rock internazionale.
Dieci sono le composizioni messe in fila per quest’album che traspira di atmosfere collaudatissime dovute al fatto che questi artisti si sono già incontrati (spesso talvolta) in altri progetti (pensiamo a Husband e Levin che condividono l’esperienza degli Stickmen, il cui Owari è uno dei fiori all’occhiello delle produzioni di Pavkovic).
Dall’inizio quasi pastorale di The Corkscrew Tower alla similare Cinnamon Bird che chiude il disco, le composizioni scorrono convincenti senza mai durare eccessivamente, passando dal prog jazzato di Stormlight alle dissonanze di A Fleeting Glance costruite sul dialogo tra Wingfield e Jones, fino ai suoni struggenti della sei corde che dominano Pursued In The Snow e ai ritmi vagamente latin jazz di The Listening Trees.

Paolo Crazy Carnevale

LUCA CALABRESE – I Shin Den Shin

di Paolo Crazy Carnevale

26 dicembre 2024

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LUCA CALABRESE – I Shin Den Shin (Moonjune Records 2024)

Nonostante la lunga gavetta e le numerose esperienze del titolare nell’ambito della musica che conta, questo suo lavoro per la Moonjune Records non riesce davvero a convincere.
Calabrese, il cui approccio alla musica risale addirittura agli anni Settanta, dapprima in formazioni bandistiche della zona del Piemonte di cui è originario, poi frequentando il conservatorio, ha maturato esperienza suonando con big band mainstream che lavoravano in ambito televisivo.
Di pari passo ha però coltivato una passione per il jazz e l’improvvisazione, venendo a mano a mano in contatto con musicisti importanti con cui ha calcato plachi e frequentato sale d’incisione, parliamo di Keith Tippett, Peter Hammill, Pat Mastellotto, Cecil Taylor, Richard Barbieri.
Proprio con Barbieri (Japan, Porcupine Tree) e con l’ensemble svedese Isildurs Bane ha avuto modo di lavorare molto negli ultimi anni: col gruppo svedese ha messo in cantiere dischi che hanno coinvolto anche Steve Hogarth (Marillion) e Peter Hammill (Van Der Graaf Generator).
Per questo suo lavoro solista, Calabrese si è affidato alla produzione e alla direzione artistica del sopravvalutato Markus Reuter, coniugatore di sound elettronici e paesaggi sonori, sempre molto noiosi e ripetitivi, molto ambient e sterili. D’altronde uno che in venticinque anni se ne esce con quasi novanta dischi – tra quelli condivisi e quelli a proprio nome – è un genio o è uno che si ripete. E Reuter non è un genio.
L’ascolto del disco, come quello di altre produzioni su cui Reuter mette mano, è un po’ come la visione di un film in cui non accade mai nulla: peccato, perché l’elettronica ammazza il suono della piccola tromba suonata da Calabrese (a tratti sulle orme di Mark Isham) e soprattutto sopraffà le chitarre elettriche di Mark Wingfield e del vietnamita Nguyen Le.
Dalla noia quasi assoluta si salvano alcuni momenti dei brani A New Reality e Heart To Heart, il cui titolo è un po’ la traduzione del titolo giapponese dato all’intero album (uscito sia in CD che in vinile), le cui radici stanno nel confucianesimo e nel buddhismo, e nei concetti di empatia e sentimenti condivisi. Peccato, perché in questo disco di empatico sembra non esserci nulla.

Paolo Crazy Carnevale

BELEDO – Flotando En El Vacio

di Paolo Crazy Carnevale

22 dicembre 2024

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BELEDO – Flotando en el vacio (Moonjune 2024)

Il chitarrista uruguayano Beledo è indubbiamente una delle teste di serie della label guidata da Leonardo Pavcocich, Flotando en el vacio è il suo terzo disco su Moonjune Records e anche stavolta l’artista non delude.
Contando sulla magica e familiare atmosfera della Casa Murada, l’edificio a ovest di Barcellona, costruito nel XIX secolo e trasformato da Pavcovich in un moderno e attrezzato studio di registrazione in cui nascono molte delle produzioni di casa Moonjune.
Beledo, ugualmente abile sia quando imbraccia la chitarra, sia quando siede al piano, si fa qui accompagnare da un trio di esperti musicisti composto da Asaf Sirkis (a sua volta titolare di dischi a proprio nome per la medesima etichetta, nonché batterista dell’attuale versione dei Soft Machine), dal bassista Charles Benavent e dal flautista Jorge Pardo. Questi ultimi due già impegnati in passato al seguito di Paco De Lucia e di Chick Corea.
Il risultato è un disco di quel che una volta si definiva jazz-rock, ma che da parecchi anni è appellato fusion: un disco ispirato e fluido in cui le composizioni si liberano e scorrono senza intoppi, all’insegna dell’affiatamento che evidentemente lega i quattro artisti.
La stoffa di Beledo e del disco si percepiscono fin dall’inizio, quando il brano Djelem Djelem, dopo una lenta introduzione decolla districandosi in un tema che mescola influenze balcaniche e ispaniche, comunque all’insegna di un’influenza moresca dettata dalla musica mediorientale che ha influenzato entrambe le culture. Si prosegue con Rauleando, poi arriva l’esplosione di De tardecita, lunga ed elaborata composizione in cui Beledo si scatena alla chitarra lasciando il piano elettrico all’ospite di riguardo Gary Husband, il cui pedigree che va da Allan Holdsworth a Billy Cobham parla da sé.
Non sono da meno i dieci minuti della title track, qui il piano è suonato dal titolare che sfoggia uno stile differente, mentre Pardo è protagonista di molti interventi al flauto. Es Prohibeix Blasfemar gioca sui dialoghi tra Beledo e il bassista e vede di nuovo ospite Husband. Candombesque sfoggia antenati prog, Pardo passa dal flauto al sax e ci sono le percussioni di Ramon Echegaray, From Within’ a dispetto dell’essere l’unico brano dal titolo in inglese naviga sulle note di un latin jazz piacevole prima che il disco si concluda con la lunga cavalcata improvvisata di Rodeados, il brano più complesso della raccolta.

Paolo Crazy Carnevale

BLUES FACTORY – III

di Paolo Baiotti

22 dicembre 2024

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BLUES FACTORY (feat. Fabio Drusin)
III
Artesuono 2024

Registrato in presa diretta a Udine nello studio Artesuono di Stefano Amerio, il terzo album del power trio Blues Factory guidato dal cantante e chitarrista Cristian Oitzinger accompagnato dalla batteria di Daniele Clauderotti si avvale della preziosa collaborazione al basso, voce e armonica nonché agli arrangiamenti di Fabio Drusin, uno dei migliori musicisti italiani di rock-blues, già anima del trio friulano dei W.I.N.D., dal 2008 bassista di Alvin Youngblood Hart e più recentemente anche di Gwyn Ashton. Fabio è salito più volte sul palco con i Gov’t Mule, Billy Gibbons, i Supersonic Blues Machine e ha collaborato con il compianto Johnny Neel (Allman Brothers Band). In questa occasione partecipa con la sua esperienza a un disco potente, ruvido e grintoso di rock-blues che indubbiamente si posiziona sulla scia di gruppi storici come Free e Cream e più recenti come i Gov’t Mule o gli stessi W.I.N.D., avvalendosi della voce solida e sporca di Cristian e delle sue notevoli doti di chitarrista che gli hanno consentito in passato di aprire concerti di musicisti del calibro di Ian Paice, Billy Gibbons ed Eric Sardinas.
Gli otto brani del disco sono tutti scritti da Oitzinger che dimostra di saperci fare a partire dalla ruvida Mountain Man, il brano più personale dedicato al padre Giovanni, definito come un uomo di montagna che sembrava difficile da capire e burbero per alcuni, ma che nascondeva nel profondo una sensibilità e un amore per la sua terra e la famiglia, come spesso succede ai montanari. Tra le altre tracce segnalerei la gagliarda e cadenzata apertura di Unhappy Girl, introdotta da un basso pulsante che richiama i Gov’t Mule, il rock ritmato di Rolling Man influenzato dai Free, la ballata Time To Make Mistake profumata di oriente e la pulsante What You Wanna Do cantata da Fabio con interventi puntuali dell’armonica e della slide di Cristian nella jammata coda strumentale. Il disco è chiuso dalla briosa Music Satisfy My Soul con intro gospel e uno sviluppo bluesato in cui si inseriscono le voci del Nuvoices Project arrangiate e dirette da Rudy Fantin che suona Hammond e Wurlitzer, mentre la chitarra solista richiama gli ZZ Top e i Mule.
III non è un disco innovativo, questo è evidente, ma merita di essere ascoltato e sicuramente non deluderà gli appassionati di un genere che continua ad avere un seguito non irrilevante, soprattutto in Germania e Scandinavia.

Paolo Baiotti

THOM CHACON – Lonely Songs For Wounded Souls

di Paolo Baiotti

8 dicembre 2024

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THOM CHACON
LONELY SONGS FOR WOUNDED SOULS
New Shot Records 2024

Cantautore di Durango, Colorado, nella grande tradizione americana di Bob Dylan, Townes Van Zandt e Bruce Springsteen, Thom è un artista di frontiera. Non è il primo e non sarà l’ultimo a cantarla; di sicuro è influenzato dai drammi di confine tra Stati Uniti e Messico e dal problema dell’immigrazione che lo riguarda da vicino, avendo un padre messicano cugino di un famoso pugile e una madre libanese. Qualche anno fa, quando era sconosciuto al di fuori di una ristretta cerchia di appassionati locali, Paolo Carù e il Buscadero lo hanno promosso in Italia come ricorda con affetto Thom nelle note che accompagnano questo disco, inciso dal vivo a Castel Roncolo (BZ) nel 2021 con Tony Garnier (Bob Dylan) al contrabbasso e Paolo Ercoli al dobro e pedal steel e pubblicato dalla nostrana New Shot Records. Chacon ha esordito nel 2003, ma il suo nome ha iniziato a circolare nel 2012 con l’album omonimo per la Pie Records, ottenendo maggiori attenzioni con Blood In The Usa pubblicato anche in Italia dalla Appaloosa nel 2018 e con Marigolds And Ghosts del 2021. Da questi tra album sono tratte le “canzoni solitarie per anime ferite” del disco: tracce semplici, essenziali, arrangiate in modo minimale senza grandi aggiunte strumentali, come da scelta stilistica dell’autore che vuole focalizzare l’attenzione sulla scrittura e sui testi. Come ha dichiarato Mary Gauthier “la musica di Thom è semplice, ma non scambiate questo per una mancanza di profondità. Scrivere in modo semplice è la cosa più difficile. E sempre la migliore”. La voce rauca ma allo stesso tempo melodica in certi momenti assomiglia a quella di Ryan Bingham, cresciuto tra New Mexico e Texas, accomunato a Chacon dalla barba e dalla partecipazione a film e serie tv.
Tra i brani suonati a Castel Roncolo emergono nella prima parte l’apertura drammatica di Borderland, la mossa Church Of The Great Outdoors che racconta la sensazione di pace che la natura (fiume e boschi) danno all’autore, la riflessiva ballata Sorrow che descrive il suo rapporto con la religione, Grant Country Side in cui viene ricordata la figura del nonno, sceriffo a Culver City in New Mexico nell’800 ai tempi di Billy The Kid e la poetica Something My Heart Can Only Knows. Nella seconda parte spiccano la dylaniana Marigolds And Ghosts, la dolente Empty Pockets sulle sofferenze di un contadino ostaggio di una terra ostile in cui è coinvolto anche il violino di Michele Gazich, la ballata Juarez, Mexico e I Am An Immigrant sulle speranze di un immigrato clandestino messicano che ha lasciato la famiglia nel suo paese, che precede la chiusura della springsteeniana Union Town. Con Chacon alla chitarra acustica e armonica, Paolo Ercoli e Tony Garnier svolgono egregiamente il loro compito fornendo un apporto tanto discreto quanto essenziale alla riuscita del disco. Complimenti alla New Shot Records anche per la qualità del suono e per l’accurata grafica.

Paolo Baiotti

PAUL DI’ANNO (1958-2024): Death Of A Metal Fighter

di Paolo Baiotti

22 ottobre 2024

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Nato nel 1958 a Chingford nell’Essex a pochi chilometri da Londra da un padre brasiliano e una madre inglese, Paul Andrews ha trascorso l’adolescenza suonando in gruppi rock e lavorando come cuoco e macellaio. Nel novembre del ’78 il batterista Doug Sampson lo segnala a Steve Harris; i due stanno cercando un cantante per gli Iron Maiden, una band di hard rock ancora sconosciuta e senza contratto. Paul, che aveva adottato il nome d’arte Di’Anno, viene assunto e completa il gruppo che aveva alla chitarra Dave Murray. Il sorprendente successo dell’Ep The Soundhouse Tapes, stampato originariamente in 5.000 copie e venduto quasi esclusivamente per corrispondenza nel periodo di maggiore successo del punk, li espone a una notevole pubblicità sulla rivista Sounds e attira l’attenzione di Rod Smallwood, già manager di Steve Harley che li contatta, diventa il loro manager e ottiene un contratto con la EMI nel decembre del ’79. Alla band si unisce il secondo chitarrista Dennis Stratton, mentre Clive Burr sostituisce Sampson per motivi di salute. Questo quintetto incide due brani per la seminale raccolta Metal For Muthas e il 14 aprile pubblica l’omonimo storico esordio. La voce di Paul, rauca e ruvida e il suo atteggiamento punk sono uno dei motivi del successo del disco, oltre alla notevole capacità strumentale dei colleghi e al livello elevato di scrittura. Prodotto da Will Malone, che la band ha criticato per la scarsa partecipazione alle incisioni durate un paio di settimane, il disco è accolto con favore dalla critica e con entusiasmo dal pubblico salendo al quarto posto in Gran Bretagna e nella top ten in Francia. Brani aspri e diretti come la title track, Charlotte The Harlot e Prowler si alternano alle ballate sulfuree Remember Tomorrow e Strangeworld e alla struttura complessa dell’epica Phantom Of The Opera e dello strumentale Transylvanya. Il timbro granuloso di Paul di adatta in modo sorprendente alle ballate e convince anche dal vivo come dimostra l’Ep Maiden Japan registrato a Nagoya nel maggio ’81 durante il tour del secondo album Killers che, pubblicato nel febbraio ’81, ottiene un successo inferiore in patria, ma amplia notevolmente la popolarità della band in Europa e negli Stati Uniti. Paul se la cava egregiamente anche in questo caso, specialmente nella dura Wratchild, nell’oscura title track e in Drifters, ma qualcosa si rompe nei rapporti personali con Harris, leader incontrastato del quintetto, durante l’interminabile tour di presentazione del disco; alla fine il cantante viene licenziato e sostituito da Bruce Dickinson, proveniente dai Samson. Ci sono diverse versioni sulla fine del rapporto: l’abuso di alcool e droga ammesso dallo stesso cantante, la sua incapacità di reggere la pressione dei tour, l’atteggiamento sul palco e l’immagine troppo punk.

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La storia di successo di Paul sostanziamente finisce qui; si brucia in tre anni determinanti per la rinascità del metal inglese e per la creazione della base del successo planetario degli Iron Maiden, che esploderà con The Number Of The Beast, primo disco con Dickinson. Non che Paul si ritiri, ma i suoi progetti solisti o di gruppo non riescono mai ad emergere. Ci prova con la band Di’Anno che pubblica un album, con il supergruppo Gosmagog organizzato da Jonathan King senza esito nell’85, con i Battlezone e i Killers; la mancanza di un management solido, l’incapacità di gestione, un’assenza di continuità e i problemi di dipendenza danneggiano ogni progetto. Il disordine della sua vita è confermato dai cinque matrimoni e dai sei figli.

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Nel nuovo millennio si trasferisce per qualche anno in Brasile dove forma una band con musicisti locali; nel 2008 invece si unisce a musicisti norvegesi girando parecchio in Scandinavia. Il pubblico lo segue soprattutto quando suona i brani dei due dischi degli Iron Maiden…c’è poco da fare, il materiale solista passa sempre in secondo piano. Nel 2010 pubblica l’autobiografia The Beast, aspra e sincera, l’anno dopo passa un paio di mesi in carcere in Gran Bretagna per truffa, poi riprende a suonare dal vivo con regolarità, anche perché è l’unica fonte di sostentamente non avendo un solido contratto discografico. Nel 2015 si aggravano vari problemi fisici e deve interrompere l’attività per qualche mese. Nel 2020 annuncia il ritiro dalle scene, tuttavia, dopo il periodo della pandemia, torna a cantare sporadicamente in sedia a rotelle; grazie a una raccolta di fondi e all’aiuto degli Iron Maiden viene operato a un ginocchio in Croazia, ma problematiche di vario genere (anca, diabete, ernia ombelicale) lo costringono al ritiro definitivo. Conquest Records, l’attuale casa discografica che ha appena pubblicato il cd/dvd The Book Of The Beast, un riassunto della sua turbolenta carriera, ha annunciato il 21 ottobre il decesso del cantante a Salisbury, per motivi non precisati.

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Pur essendo passati più di quarant’anni dall’esordio con gli Iron Maiden, gli appassionati non hanno dimenticato la voce aspra e l’immagine potente e ruvida del cantante che ha caratterizzato due dischi storici che molti considerano i migliori della leggendaria band britannica.

IRON KILLERSPaolo Baiotti

DAVID GILMOUR – Luck And Strange

di Paolo Baiotti

1 ottobre 2024

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DAVID GILMOUR
LUCK AND STRANGE
Sony Music 2024

David Gilmour non è mai stato un autore prolifico, nè con i Pink Floyd post-Waters, né come solista. Gli ultimi tre album sono usciti a distanza di nove anni: On An Island nel 2006, Rattle That Lock nel 2015 e Luck And Strange nel 2024. Tra gli ultimi due c’è stato il Live At Pompeii nel 2017 in audio/video e poi la pandemia che ha sicuramente condizionato l’atmosfera e i testi del nuovo album, insieme a pensieri e riflessioni sul passaggio del tempo dovute all’inesorabile invecchiamento dell’artista che affronta a 78 anni il palco in questi giorni con sei date a Roma seguite da altre sei alla Royal Albert Hall, quattro a Los Angeles e cinque a New York. David non nasconde i suoi anni, basta guardare le foto del disco e quelle promozionali, così come non la nascondono i testi e la voce, indubbiamente invecchiata e un po’ stanca, ma il suono della chitarra è sempre distinguibile tra mille e anche da un punto di vista compositivo Luck And Strange regge piuttosto bene, anche se definirlo il miglior lavoro dopo Dark Side Of The Moon (parole di Gilmour) è un’evidente esagerazione. Per dare una rinfrescata ai suoni e avere un punto di vista non condizionato dall’ascolto dei Floyd, l’artista ha scelto il produttore Charlie Andrew (Alt J.) e ha rinnovato la band, affiancando al basso del fedelissimo Guy Pratt la strepitosa batteria di Steve Gadd, le tastiere di Rob Gentry e le percussioni di Adam Betts (che suona la batteria in tour) oltre all’orchestra guidata da Will Gardner, già collaboratore degli Alt-J, con qualche intervento al piano di Roger Eno. Ma la novità maggiore è il coinvolgimento non solo della moglie Polly, autrice dei testi, ma anche dei figli, iniziato durante il covid, soprattutto di Romany che è la sorpresa più positiva del disco.
Partiamo dalla title track posta in apertura dopo la breve introduzione strumentale di Black Cat: il brano (e il disco) nascono dalla bonus track del cd, la “original barn jam” suonata nel gennaio 2007 da David con Richard Wright alle tastiere, Guy Pratt al basso e Steve DiStanislao alla batteria, che si ritrovano qualche mese dopo il tour di On An Island chiuso a Gdansk il 26 agosto (concerto ripreso dall’eccellente Live In Gdansk). Questa jam strumentale di 14’ caratterizzata dal quieto dialogo tra le tastiere e la chitarra è la base di Luck And Strange, un rock bluesato e melodico con un testo sulle speranze tradite della generazione di David, chiuso da un assolo tanto efficace quanto essenziale. The Piper’s Call ha un inizio acustico, una parte cantata melodica e un finale indurito con un suono che ricorda i Floyd dell’ultimo periodo. Da notare la presenza non invadente dell’orchestra, del coro degli Angel Studios e i controcanti dei figli Romany e Gabriel. Si prosegue con A Single Spark, ballata sognante con un testo dal sapore mistico, dei suoni inconsueti per Gilmour (qui si sente la mano di Andrew) e un break di chitarra emozionante. Lo strumentale Vita Brevis introduce l’arpa di Romany Gilmour, protagonista alla voce solista di Between Two Points, cover di un brano del duo dei Montgolfier Brothers intepretata splendidamente dalla ragazza, dotata di una voce dolce e accattivante. L’oscura, orchestrale e poderosa Dark And Velvet Nights richiama i Floyd di The Division Bell senza convincere fino in fondo, a differenza della nostalgica e malinconica Signs sull’amore e sulla difficoltà di affrontare il distacco e della conclusiva Scattered, scritta con il figlio Charlie e Polly, che ha un inizio lento quasi sospeso, un break drammatico pianistico e orchestrale, una ripresa del cantato che sfuma in un assolo di chitarra dapprima acustico, poi elettrico, maestoso e floydiano fino al midollo, prevedibile e irresistibile allo stesso tempo. Il cd aggiunge una seconda bonus track, la tenue ballata folk Yes, I Have Ghosts, già pubblicata in streaming durante la pandemia, cantata in coppia con Romany.
Luck And Strange non è un capolavoro, ma un disco affascinante con alcune tracce di notevole livello.

Paolo Baiotti

ANDY ALEDORT – In A Dream

di Paolo Baiotti

11 settembre 2024

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ANDY ALEDORT
IN A DREAM
Long Song Records 2024

Andy Aledort è uno di quei musicisti molto apprezzati dai colleghi, ma poco conosciuti al di fuori di una nicchia. Nel 2009 ha pubblicato Put A Sock On It, l’esordio solista con The Groove Kings, ristampato recentemente dalla Long Song Records, seguito da un disco dal vivo e qualche anno dopo dal doppio Light Of Love, dischi autoprodotti difficilmente reperibili. Dal 2005 al 2014 è stato al fianco di Dickey Betts nei riformati Great Southern dopo il suo allontamento dalla Allman Brothers Band, spalleggiando il fumantino chitarrista e il figlio Duane in un trio di solisti di primo piano, come si può rilevare ascoltando ad esempio il doppio The Official Bootleg (Evangeline 2007) o l’altro doppio The Canyon Club Agoura Hills (Dickey Betts 2016). Ha anche partecipato a parecchi tour in tributo a Jimi Hendrix, ma la sua attività principale è quella didattica, avendo pubblicato numerosi dvd di istruzioni per chitarristi. Inoltre ha scritto per anni su Guitar World, dove ha intervistato colleghi come Stevie Ray Vaughan (è anche coautore di un libro su di lui con Alan Paul), Jeff Beck, Leslie West e Johnny Winter. Fortunatamente si è accorta di lui la nostrana Long Song Records del produttore Fabrizio Perissinotto che gli ha proposto di incidere un nuovo album solista con musicisti del giro della J & F Band: il bassista Joe Fonda, il batterista Tiziano Tononi, il sassofonista Jon Irabagon e il tastierista Pee Wee Durante, mettendogli a disposizione per due giorni lo studio Firehouse 12 a New Haven. Il risultato è un disco per amanti della chitarra, ma non solo, perché Andy se la cava anche dal punto di vista vocale e compositivo ed è riuscito a inserire tutte le sue principali influenze (J. Hendrix, Beatles, F. Zappa, J. Scofield, E. Clapton, S.R. Vaughan) destreggiandosi con personalità e in scioltezza tra blues, rock e jazz.
Il titolo si riferisce all’affermazione dell’artista che tre brani strumentali gli siano arrivati in sogno: Hymn che gli è comparso come una canzone suonata dalla Allman Brothers Band, una ballata romantica con echi indubbi del suono della grande band della Georgia in cui spiccano i momenti solisti di Andy, Jon e Pee Wee all’Hammond, Cotton Sham Melodies invece durante un’immaginaria jam con Sam The Sham dei Pharaos che può ricordare il jazz-rock dei Weather Report e In A Dream, come recita il titolo, morbido e raffinato. Oltre a questi strumentali Andy ha scelto tre cover e due brani autografi. Lawdy Mama è un tradizionale blues degli anni trenta riproposto seguendo la versione dei Cream con una chitarra potente e un intenso inserimento del sax, Can’t You See What You Are Doing To Me di Albert King è un funky-blues eseguito in modo esuberante con un primo assolo deflagrante e distorto di Andy, uno spazio solista per le tastiere di Durante, un secondo assolo bluesato dell’ospite David Grissom (Joe Ely, John Mellencamp) seguito dall’entrata del sax e dal ritorno della chitarra di Andy in una girandola di improvvisazioni prorompenti, Pali Gap una travolgente esecuzione jammata del brano di Jimi Hendrix, suggerito da Perissinotto, con una lunga introduzione e inserimenti ben dosati di un sax jazzato e dell’organo, con la batteria di Tononi spesso in controtempo. Le ultime due tracce strumentali composte dal chitarrista sono la robusta Passengers, la meno significativa del disco e Moonwaves che si muove tra rock e jazz con richiami zappiani.
Complimenti all’etichetta milanese per la produzione attenta e per il coraggio di proporre un musicista e uno stile che non sono sicuramente di moda, come d’altronde le altre pubblicazioni della label, contraddistinte dall’amore per l’improvvisazione.

Paolo Baiotti

ALICE HOWE – Circumstance

di Paolo Crazy Carnevale

25 agosto 2024

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Alice Howe – Circumstance (Knowhowe 2023)

Gran disco per questa giovane singersongwriter che si accompagna (e si fa accompagnare) nei suoi tour da un veterano del calibro di Freebo, leggendario bassista di Bonnie Raitt. Dotata di una bella voce, di un talento compositivo interessante che si rifà alla miglior scuola della canzone d’autore americana degli anni settanta, portando in dote una freschezza tutta sua.

A farla elevare sulla moltitudine (da anni abbiamo smesso di tenere il conto dei giovani autori sfornati dalla scena americana) è in questo caso, e senza dubbio alcuno, la produzione di Freebo che per la sua pupilla estrae dalla manica le sue entrature in uno degli studi più storici del mondo, quel FAME recording Studio in cui l’acronimo sta per Florence Alabama Music Enterprises, con annessi e connessi musicisti che vi orbitano attorno.

Ecco così le convincenti canzoni della Howe vestite del giusto e meritato abito che la suddetta location può garantire, senza effetti speciali, senza strafare: va da sé, chi bazzica oggi i FAME non sono gli stessi che vi suonavano nella seconda metà degli anni sessanta, ma il risultato è quello, perché oltre ai musicisti, il segreto di quei posti sta nel pigro scorrere del fiume Tennessee tra le particolari anse, un pigro scorrere che crea l’atmosfera, lo spirito inconfondibile che ha dato lustro a dischi di gente come Aretha Franklin, Wilson Pickett, Boz Scaggs, Cher, persino dei Rolling Stones e di Bob Dylan, passando per Rod Stewart, Bob Seger, Paul Simon.

Uno spirito che ci viene riconsegnato intatto dal disco di Alice Howe, a partire dall’iniziale You Been Away So Long, un brano che ci precipita subito nel mood giusto ordito da Freebo (che è coautore di buona parte del materiale) per questo disco; Somebody’New Lover Now è ancora meglio, col suo sound sospeso, ben studiato ed eseguito a puntino. La lezione dei cantautori che Alice ama, da Jackson Browne a Joni Mitchell è tutta qui, mandata a memoria come si deve e ben messa a frutto.

Il basso del producer/godfather è sempre immenso, uno dei bassi elettrici col suono più bello che si possa desiderare, a suonare le chitarre ci sono Will McFarlane, un altro veterano che come Feebo è stato una delle colonne portanti della band di Bonnie Raitt negli anni d’oro, e il più giovane Jeff Fielder, ex accompagnatore di Mark Lanegan.

Le tastiere sono ben affidate alle dita di Clayton Ivey, vecchia gloria degli studi dell’Alabama (era negli Alabama State Troopers con Don Nix e Jeannie Greene nei primi anni settanta, in un live indimenticabile.

Le canzoni si susseguono senza calo di tensione, Let Go e Love Has No Rules, l’acustica e lenta Things I’m Not Saying a cui fa seguito l’energia di What About You con i cori ad opera di Freebo in un refrain contagioso attraversato dalla sapienza del tastierista che sorregge tutta la composizione, una delle migliori del disco. Chitarre acustiche, cori da piantagione di cotone, elettriche dal suono paludoso sono alla base delle atmosfere southern indotte da Something Calls To Me in cui dal sottofondo emerge la slide suonata da Fielder. Una robusta sezione fiati e cori rhythm’n’blues sono invece il biglietto da visita della contagiosa With You By My Side, sorretta dal preciso drumming di Justin Holder, nativo di Florence che tra i molti dischi a cui ha preso parte annovera almeno la perla di quello di Jon Langford (Waco Brothers) col progetto Four Lost Souls.

Line By Line è un brano lento, tutto supportato dalla voce di Alice, poi le atmosfere paludose fanno di nuovo capolino in Travelin’ Soul, facendosi strada tra slide e Wurlitzer. Chiude il disco la riflessiva It’s How You Hold Me, con attacco acustico, giusto chitarra e voce e gli strumenti che arrivano un po’ alla volta, a cominciare dallo splendido basso di Freebo e con le chitarre di McFarlane e Fielder che giocano sui due canali (come avviene anche in altri brani del CD).

Paolo Crazy Carnevale

JOE ELY AND BAND – Fighting The Rain

di Paolo Baiotti

5 agosto 2024

ely

JOE ELY AND BAND
FIGHTING THE RAIN
New Shot Records 2024

In una piovosa e tempestosa giornata di ottobre del 1993 Joe Ely arriva in Italia per l’esordio nel nostro paese. Il concerto, organizzato dal compianto Carlo Carlini, previsto originariamente nella Sala Marna di Sesto Calende, viene spostato all’ultimo momento a causa dell’esondazione del Ticino. In breve, si trova un’alternativa nel disco pub Sinatra’s di Vergiate a pochi km. di distanza. In un’epoca pre-internet il pubblico viene indirizzato da un cartello a spostarsi nel pub e comunque il problema viene risolto. Così Joe si presenta con una delle sue migliori band per quello che verrà ricordato come uno degli esordi più brillanti di un musicista roots nel nostro paese. L’esplosiva chitarra elettrica di David Grissom, che in quel momento si divideva tra Ely e John Mellencamp, il basso di Glen Fukunaga e la batteria di Davis McLarty accompagnano come meglio non si potrebbe il cantautore texano che, dopo l’eccellente Live At Liberty Lunch, aveva pubblicato nel ’92 Love And Danger per la MCA ed è al meglio delle sue potenzialità vocali. Da questo disco provengono il poderoso rock Settle For Love e il trascinante country-rock The Road Goes On Forever (Robert Earl Keen) ripreso anche dagli Highwaymen due anni dopo. Da Lord On The Highway dell’87 sono estratte tre canzoni: la splendida ballata western Raw Of Dominoes dell’amico Butch Hancock con impasti elettroacustici e Grissom protagonista di un paio di assoli esemplari, l’epico romanzo texano di Me and Billy The Kid e la ballata Letter To L.A. che quasi si ferma prima che la chitarra di Grissom, raramente così incisiva, la trasformi letteralmente nella sezione strumentale. Dall’omonimo esordio del ’77 provengono due altre gemme di Butch Hancock: She Never Spoke Spanish To Me e la morbida If You Were a Bluebird (preceduta dal saluto di Ely, emozionato per la sua prima data italiana) in una versione molto ispirata. E come non citare la bluesata Dallas di Jimmy Dale Gilmore, già suonata nel ’72 con i Flatlanders, il gruppo di Ely, Gilmore e Hancock, autore anche della ruvida Boxcars dove le chitarre di Ely e Grissom suonano all’unisono prima del crescendo irresistibile guidato da David.
Questo disco ha un unico difetto: dura poco più di 50’ e quindi ripropone solo una metà del concerto, in parte per motivi tecnici, in parte per richiesta di Ely che, entusiasta dell’ascolto del nastro, ne ha autorizzato la pubblicazione con l’eccezione di un brano giudicato di argomento troppo delicato. La qualità sonora è eccellente per cui non possiamo che ringraziare la label italiana New Shot Records che sta riproponendo prezioso materiale d’archivio di cantatutori rock e folk americani, quei “beautiful losers” amati da una nicchia di fedelissimi.
Quanto a Joe, tre anni dopo l’esordio italiano, primo di numerosi tour nel nostro paese, pubblicherà il suo capolavoro Letter To Laredo seguito da Twistin’ in The Wind, chiudendo il suo decennio probabilmente più ispirato.

Paolo Baiotti

WILLIE NILE – Live At Daryl’s House Club

di Paolo Baiotti

5 agosto 2024

album wn

WILLIE NILE
LIVE AT DARYL’S HOUSE CLUB
River House Records 2024

I dischi dal vivo più recenti del cantautore di Buffalo sono l’eccellente Live From The Streets Of New York del 2008 e l’autoprodotto Hard Times In The UK del 2010. Dopo più di 10 anni è il turno di un nuovo live registrato al Daryl’s House Club di Pawling, NY che non ha brani in comune con il primo citato e solo due con il secondo. Una scelta intelligente, che privilegia gli album in studio pubblicati successivamente, con l’eccezione di un paio di tracce ripescate dallo scorso millennio. Come qualità di scrittura il disco del 2008 è superiore e anche la band sembra avere qualcosina in più, ma Willie rimane un cantante vivo ed entusiasta, una persona positiva che trascina il pubblico con la sua carica punk-rock mischiata alla penna cantautorale.
La carriera di Nile è stata molto particolare e poco fortunata nei primi anni: dopo l’omonimo brillante esordio dell’80 e il seguente Golden Dawn, pubblicati dalla Arista mentre frequentava assiduamente il CBGB a New York apprezzando Patti Smith, Television e Ramones, sembrava uno degli astri nascenti del cantautorato folk-rock, invece problemi legali con la casa discografica lo hanno bloccato per un decennio. E’ tornato nel ’91 con Places I Have Never Been per la Columbia, ma anche questo contratto è sfumato rapidamente e ha ripreso a pubblicare dal ‘99, questa volta con regolarità e in modo indipendente, con Beautiful Wreck Of The World, riconquistando una posizione di rispetto almeno per un pubblico di nicchia che ha continuato a seguirlo con passione, ricambiata dall’artista che nel nuovo millennio ha inciso una decina di dischi in studio, alcuni ottimi come Streets Of New York, The Innocent Ones e American Ride.
L’attuale formazione del suo quartetto comprende il fedelissimo bassista Johnny Pisano, il chitarrista Jimi K. Bones e il batterista Jon Weber. L’epica Places I Have Never Been apre la serata, seguita da una bruciante This Is Our Time dove si sente l’influenza punk, dall’intenso rock di Black Magic And White Lies dal terzo album e dalla cadenzata Earth Blues sul cambiamento climatico. Il mid-tempo Lost And Lonely World è il primo di tre brani tratti da New York At Night del 2020; gli altri due sono la punkeggiante title track e la trascinante Run Free, posta quasi in chiusura. A metà disco Willie piazza l’unica ballata pianistica, la commovente Shoulders da Golden Dawn in cui spiccano la sua solida voce e la chitarra solista di Bones. Tra gli altri brani segnalerei la recente Wake Up America, singolo del 2022 (con ospite Steve Earle), un accorato invito a risvegliarsi, a votare e a trattarsi con rispetto e due inni rock che non mancano mai nei suoi spettacoli: House Of A Thousand Guitar e la travolgente One Guitar che chiude un concerto che conferma la forza e la caparbietà di questo artista che all’anagrafe segna 76 primavere, ma sul palco ne dimostra parecchie in meno.

Paolo Baiotti

JJ GREY & MOFRO – Olustee

di Paolo Baiotti

16 luglio 2024

olustee

JJ GREY & MOFRO
OLUSTEE
Alligator 2024

John Higginbotham, meglio conosciuto come ‘JJ Grey’ ha formato i Mofro a metà degli anni novanta con il chitarrista Daryl Hance. Entrambi domiciliati a Jacksonville in Florida hanno firmato il primo contratto nel 2001 con la Fog City esordendo con Blackwater. Sin dal titolo di questo disco è evidente l’ispirazione dei luoghi vissuti dal cantante (il Blackwater River e lo State Park che lo circondano), un tema che ritorna spesso nelle sue canzoni, come Lochloosa (un lago nel cuore della Florida) e On Palastine. Nel 2010 Hance viene sostituito da Andrew Trube, senza scossoni. Dopo cinque dischi con la Appaloosa JJ passa alla Provogue per Ol’ Glory del 2015, mantenendo lo stile che lo caratterizza tra rhythm and blues, southern soul e blues con un pizzico di southern rock, ideale per la sua voce soul potente, espressiva e modulata. Poi è seguita una lunga pausa finalmente interrotta da Olustee, titolo riferito al luogo della più grande battaglia della guerra civile americana in Florida a 80 km. da Jacksonville.
Che cosa è cambiato in questi nove anni in cui comunque la formazione ha continuato a suonare percorrendo gli Stati Uniti, soprattutto il sud, con qualche puntata in Giappone ed Europa (Italia esclusa ovviamente)? Parecchio nella band in cui rimane solo Todd Smallie al basso oltre ai due trombettisti, mentre alla batteria siede Craig Barnett, la chitarra passa a Pete Winders e le tastiere a Eric Brigmond, con nuovi membri anche al sax, trombone e cori, poco nella musica che segue le coordinate preferite da Grey, sempre più leader e per la prima volta anche produttore dell’album inciso come al solito nello studio Retrophonics di Saint Augustine dell’ingegnere del suono Jim Devito e pubblicato nuovamente dalla Alligator dopo la parentesi con la Provogue. Il cantante continua a raccontare storie della sua regione, di mitici personaggi locali, delle foreste e dei fiumi che lo circondano e che ama profondamente, nonché storie personali di successi e sconfitte, speranze e desideri, con l’intenzione di trasmettere un messaggio di rispetto per la natura e per le persone. Da anni impegnato in una fondazione che si occupa di proteggere l’habitat ittico delle coste della Florida, Grey riesce a dare con la sua musica un’impressione di sincerità e autenticità, anche per merito di una voce che è sicuramente tra le migliori del Sud.
L’iniziale ballata The Sea inserisce la novità di un avvolgente arrangiamento orchestrale della Budapest Symphony Orchestra che ritorna nella chiusura di Deeper Than Belief, ma con Top Of The World si passa a un nervoso funky-soul con le coriste che si contrappongono alla voce di JJ e i fiati protagonisti del break solista, seguito dalla notevole ballata On A Breeze profumata di gospel e dal rock incalzante della title track che ricorda nel testo gli incendi che nel ’98 danneggiarono l’est della Florida, irrobustita da una chitarra incisiva e dall’armonica di JJ. L’unica cover è una sontuosa ripresa della ballata Seminole Wind del cantante country John Anderson che la pubblicò sull’omonimo album del ’92, una canzone che critica la distruzione della natura per fini economici, arrangiata con le trombe in primo piano nel break solista. Il continuo saliscendi dovuto all’alternanza di tracce ritmate e lente prosegue con il trascinante errebi Wonderland seguito dalla morbida e raffinata Starry Night, con la pressante Free High che ricorda Sly & The Family Stone seguita dalla sofferta ballata soul Waiting in cui la voce è veramente al top, per terminare con il funky fiatistico di Rooster irrorato dalla chitarra solista e l’orchestrale Deeper Than Belief, traccia sofferta con il sorprendente flauto di Kenny Hamilton.
A questo punto l’importante è che non passino altri nove anni prima del prossimo album!

Paolo Baiotti

SLASH – Orgy Of The Damned

di Paolo Baiotti

5 giugno 2024

slash

SLASH
ORGY OF THE DAMNED
Snakepit/Gibson 2024

Non lasciatevi fuorviare dall’immagine da teppistello di Slash, dal suo percorso con i Guns N’ Roses, dal titolo o dalla copertina più appropriati per un disco di trash metal! Orgy Of The Damned è un eccellente disco di rock-blues come ne ascolterete pochi quest’anno. Nato a Londra, ma residente da sempre a Los Angeles, Saul Hudson non è più un ragazzino (classe 1965). Dopo gli anni turbolenti e di successo planetario con i Guns N’ Roses, il periodo con i Velvet Revolver, la carriera solista con i Conspirators e il ritorno con i Guns nel 2016, è riuscito a trovare lo spazio per un progetto che aveva da tempo voglia di completare, un disco di blues e rhythm and blues con ospiti cantanti di diversa provenienza. Già nel ’96 aveva formato gli Slash’s Blues Ball, attivi per un paio di anni, che comprendevano il bassista Johnny Griparic e il tastierista Teddy Andreadis, recuperati per le incisioni di questo album. D’altronde nella sua carriera Slash ha collaborato con artisti come Michael Jackson, Bob Dylan, Lenny Kravitz, Carole King, Alice Cooper e Rihanna, per citare i più famosi ed è molto più versatile di quanto si possa pensare. Con l’amico Mile Clink alla produzione, il batterista Michael Jerome (Richard Thompson, John Cale, Charlie Musselwhite) e il cantante/chitarrista Tash Neal a completare il gruppo in studio, il chitarrista ha scelto una decina di brani storici di blues e soul incidendo principalmente a Los Angeles nel suo studio e negli East West Studios. Il suono è in equilibrio tra rock e blues, senza esagerazioni a parte un paio di occasioni e le voci sono state scelte con cura. Partiamo con le presenze inevitabili o quasi: Paul Rodgers fa il suo dovere in scioltezza in Born Under A Bad Sign e non c’erano dubbi al riguardo, come Beth Hart in una sofferta e potente Stormy Monday e Gary Clark Jr. in una Crossroads esplosiva e rallentata nel break strumentale in cui oltre alla voce aggiunge la sua chitarra. Nulla da dire sulla voce rugosa e sulla chitarra del maestro Billy Gibbons in una ruvida Hoochie Coochie Man e su Chris Robison che interpreta alla grande The Pusher di Hoyt Axton, una canzone sulla droga famosa nella versione degli Steppenwolf datata 1968. Le sorprese positive iniziano con Chris Stapleton che mette la sua voce potente e ruvida al servizio di Oh Well di Peter Green, proseguono con la giovane cantante Dorothy Martin alla quale viene affidata Key To The Highway, con Iggy Pop in veste di crooner nella morbida ed elettroacustica Awful Dream di Lightnin’ Hopkins scelta dall’iguana, con Demi Lovato in un’indiavolata Papa Was A Rolling Stone (The Temptations) e Brian Johnson che dimentica gli sforzi vocali ai quali è costretto con gli Ac/Dc, rilassandosi in una notevole Killing Floor in cui spunta anche l’armonica di Steven Tyler. Mancano all’appello Living For The City (Stevie Wonder) affidata alla voce soul di Tash Neal e lo strumentale Metal Chestnut scritto dal chitarrista, che chiude egregiamente un disco decisamente riuscito.
Slash ha organizzato anche il S.E.R.P.E.N.T. Blues Festival che girerà negli Stati Uniti questa estate con fini benefici; parteciperanno tra gli altri la Warren Haynes Band, Keb’ ‘Mo, Kingfish Ingram, Robert Randolph, Samantha Fish e le Larkin’ Poe.

Paolo Baiotti

SAFARI SEASON – Forevermoor

di Paolo Baiotti

12 maggio 2024

forevermmor

SAFARI SEASON
FOREVERMOOR
Paraply Records 2023

Anders Lindgren (chitarra, tastiere, pecussioni, cori) ha iniziato la sua carriera come musicista punk a Karlstad nell’ovest della Svezia, militando in una band di culto. Poi si è spostato a Stoccolma formando il gruppo 99th Floor che ha ottenuto buoni riscontri in patria, suonando nei festival più importanti e pubblicando due singoli. Lars Ryen (voce solista, tastiere) ha vissuto da giovane a Torsby, una cittadina nell’ovest della Svezia. Dopo avere militato nei The Productions, ha formato i Touch, complesso pop che è stato trasmesso da numerose radio locali, quindi ha raggiunto gli Staten, formazione di musica e teatro e contemporaneamente ha aggregato The High Life. In seguito ha aperto un negozio di dischi, The Beat Goes On, dove ha conosciuto Lindgren, con il quale ha creato il duo Lynden-Rye che successivamente ha cambiato nome in Shaved e infine di Safari Season a metà degli anni novanta. Dopo parecchi anni, hanno esordito con The Sounds Of the Sun nel 2002, seguito da parecchi EP e singoli e da un secondo album.
Forevermoor è il loro terzo disco, pubblicato in vinile e cd, nel quale sono aiutati da un altro musicista che si può considerare come un membro esterno della formazione, il polistrumentista e produttore esecutivo Daniel Gullo (basso, batteria, tastiere e chitarra) e da numerosi session-men. I dieci brani scritti da Ryen e Lindgren e arrangiati con Gullo sono riconducibili ad un pop-rock melodico con qualche traccia glam e psichedelica, parti vocali molto curate e avvolgenti.
L’apertura Running Free è un rock intenso che viene ripreso in una seconda versione più breve, quella del singolo, in chiusura della scaletta. Quindi si passa dalla sognante e corale Silver Stream, Golden Dream profumata di sixties alla maestosa Nowhere On The Run indurita dalla chitarra, dalla rilassata Peaceful che ricorda i Beach Boys, arrangiata con la tromba di Magnus Berg e gli archi come l’orchestrale Listen To The Wind alla riflessiva This Gentle Night, con una preferenza per impressioni e sensazioni quiete e malinconiche. Darkness Queen alza il ritmo, ma l’elettroacustica A New Future lo riabbassa con le sue atmosfere che sfiorano il prog nella prima parte che precede un’accelerazione più grintosa. Da segnalare anche la title track, up-tempo brillante e trascinante che conferma la preferenza del duo per un pop confezionato con cura.

Paolo Baiotti

AA.VV. – Live From The Archives Vol. 3: Music Is Love

di Paolo Baiotti

12 maggio 2024

music is love

AUTORI VARI
LIVE FROM THE ARCHIVES VOL. 3: MUSIC IS LOVE
Route 61 Music 2024

Nel 2012 la label romana ha pubblicato il pregevole doppio Music Is Love “a singer-songwriters tribute to the music of CSN&Y”. A dodici anni di distanza questo terzo volume proveniente dagli archivi si può considerare collegato al precedente, trattandosi di un concerto/tributo a David Crosby, il grande cantautore californiano che ci ha lasciato nel gennaio del 2023.
Nell’ambiente intimo del Mammut Live Club di Roma si sono ritrovati il 7 ottobre del 2023 colleghi e amici di David guidati da Jeff Pevar, co-fondatore del trio CPR (Crosby, Pevar, Raymond) nonché collaboratore di CSN e dalla moglie Inger Nova Jorgensen. Tra gli altri partecipanti il cantautore americano Marcus Eaton, considerato da Crosby uno degli autori emergenti del nuovo millennio, la Deja Vu Band di Stefano Frollano e Claudio Maffei, i Rawstars di Francesco Lucarelli (che conosce e collabora con Pevar dal ’93) e il cantante soul-jazz romano Joe Slomp. Nei 13 brani scelti per il cd si alternano tracce soliste, delle collaborazioni in varie forme con Nash, Stills e Young e dei CPR, formando un ritratto in musica che comprende tutte le sfaccetture dell’arte di Crosby tra elettrico e acustico, rock, folk e jazz, con testi poetici e intimi intrisi di spiritualità.
L’apertura elettrica d’impatto di Long Time Gone con Pevar alla voce e chitarra solista insieme a Frollano è sfumata da The Lee Shore interpretata con sapienza da Maffei e dagli strumentisti e dalla bluesata Little Big Fish tratta dal repertorio dei CPR. Marcus Eaton esegue da solo l’eterea Slice Of Time, che ha composto con Crosby per l’album Croz e l’impegnativa Find A Heart dallo stesso album, mentre a Joe Slomp con i Rawstars è affidata la scorrevole ballata River Rise, il brano più recente proveniendo da For Free del 2021, dove era stata interpretata con Michael McDonald (ex Doobie Brothers). Marcus presenta Tracks In The Dust definendola una delle sue preferite e la suona con il prezioso aiuto di Jeff all’acustica. Le armonie vocali sono molto curate come è doveroso trattandosi di Crosby: lo confermano Triad che David presentò ai Byrds ma che fu pubblicata per primi dai Jefferson Airplane, eterea nella parte cantata e velocizzata nella parte centrale da una jam jazzata e la ballata corale Delta resa con cura da Maffei alla voce solista con un intenso finale chitarristico. In chiusura la pianistica Bittersweet con Marcus alla voce e una notevole sezione strumentale, l’inno Almost Cut My Hair da Deja Vu e l’energica It’s All Coming Back To Me Now scritta da Pevar e Crosby, affidata al suo coautore con l’accompagnamento dei Rawstars, completano un tributo decisamente riuscito.

Paolo Baiotti

STEVE YANEK – September

di Paolo Baiotti

23 aprile 2024

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STEVE YANEK
SEPTEMBER
Primitive Records 2023

Emergere nel mondo della musica non è facile, questo lo sappiamo tutti. Spesso ci vogliono molta pazienza, fiducia e forza…e magari si resta lo stesso delusi! Steve Yanek, originario di Youngstown in Ohio anche se da tempo residente nelle campagne della Pennsylvania, aveva esordito positivamente nel 2005 con Across The Landscape e sembrava destinato ad un futuro di un certo interesse. Invece, nonostante buone recensioni e l’aiuto di nomi illustri (Jeff Pevar, Rod Morgenstein, T. Lavitz) il disco è stato rapidamente dimenticato. Tuttavia Steve, dotato delle caratteristiche sopra citate, non ha mollato: dapprima ha fondato la Primitive Records, ha lavorato come manager, formato una band e organizzato uno studio di registazione. Dopo parecchi anni di pausa è tornato con Long Overdue nel 2022, inciso durante la pandemia e prodotto da Jeff Pevar (CPR) che ha anche collaborato strumentalmente, riunendo tracce vecchie e nuove tra rock e country, Tom Petty e Jackson Browne, Eagles e Merle Haggard.
Con September invece, confortato dalla positiva accoglienza di Long Overdue che ha ottenuto buoni piazzamenti nelle classifiche indipendenti di settore, Steve ha deciso di fare tutto da solo: ha inciso dieci canzoni nuove presso il suo studio, suonando ogni strumento e ispirandosi ad Emmitt Rhodes, cantautore e polistrumentista considerato da molti “the One Man Beatle” per le sue incisioni in solitaria debitrici dei Fab Four, morto nel 2020. In realtà questo disco era già pronto quando è uscito il precedente, ma giustamente Steve ha atteso qualche mese separando i due progetti.
September è un album molto melodico come dimostrano la scorrevolezza pop di Summer Days, il country-pop di I Could Use A Little Rain che ricorda gli Eagles, il rock addolcito di Catch My Fall, l’incedere leggero e un pizzico malinconico di Count Every Moment, la tenerezza dell’autobiografica Carousel che racconta il primo incontro con la moglie, la dolcezza di You Know It’s Right, la brillantezza dell’apertura rock di Begin Again e l’ottimismo del testo della title track posta in chiusura.
September ondeggia con grazia e leggerezza tra pop, rock e Americana, dimostrando le qualità di un autore, cantante e valido polistrumentista meritevole di essere ascoltato.

Paolo Baiotti

WENDY WEBB – Silver Lining

di Paolo Baiotti

18 aprile 2024

wendy

WENDY WEBB
SILVER LINING
Spooky Moon Records 2023

Abbiamo già scritto di Wendy Webb nel 2016 recensendo il suo quarto album This Is The Moment. Cantautrice dell’Iowa residente a Sanibel Island in Florida, ha iniziato la sua carriera discografica nel 2004 con Morning In New York, seguito da Moon On Havana (ispirato da un viaggio a Cuba) e da Edge Of Town nel 2012. Nel 2017 ha pubblicato Step Out Of Line che ha ottenuto recensioni positive confermando l’impressione di una cantante dalla voce folk/pop calda, morbida e melodica, accompagnata da una musica che si muove con eleganza tra pop, jazz e blues, avvicinabile nello stile a grandi artiste come Carole King, Laura Nyro, Joni Mitchell, Carly Simon e Norah Jones. Valente cantante e sensibile pianista, afficancata come sempre da John McLane (fiati, archi, batteria, basso, tastiere, chitarre) e Danny Morgan (bongo, chitarra, percussioni) che hanno anche prodotto il disco registrato da McLane, Wendy torna dopo qualche anno di pausa con Silver Lining, un album molto orecchiabile e sosfisticato che sembra destinato a un pubblico più maturo, pur confermando le coordinate musicali del passato tra folk, jazz, pop e blues. La registrazione è stata rallentata e complicata dalla pandemia e da un uragano che ha colpito l’isola di Sanibel, distruggendo anche la casa che condivide con il marito, lo scrittore Randy Wayne White, ma risparmiando lo studio di registrazione.
Seppure composto da brani in parte un po’ troppo leggeri per le nostre orecchie, Silver Lining si lascia ascoltare senza sbalzi, a partire dalla sognante ballata pianistica This Is Love, proseguendo con la latineggiante e rilassata Old Blue Panama, alzando un po’ il ritmo con il soft-rock di Gonna Treat You Right e rallentandolo di nuovo per una cover pianistica di I’ve Grown Accustomed To Your Face da My Fair Lady, interpretata con classe e sensibilità dalla Webb sia vocalmente che al piano. Tra i brani successivi si apprezzano la notturna Timeless Love che ricorda vocalmente Carole King, la mossa I’ve Never Been To Argentina, la romantica Rhythm Of Your Love con il sax di McLane e un’altra interpretazione vocale notevole e la suadente Children On The Blue dedicata al padre, per finire con la ritmata Silver Lining.

Paolo Baiotti

I SHOT A MAN – Dues

di Paolo Baiotti

11 aprile 2024

dues

I SHOT A MAN
DUES
Bloos Records 2024

Ho ascoltato per caso questo trio torinese come spalla di Dany Franchi e Alberto Marsico al Festival del Blues del Magazzino di Gilgamesh e ne sono rimasto favorevolmente colpito. Appena è uscito il loro secondo album me lo sono procurato, non avendo potuto assistere al concerto di presentazione del disco. Sul loro sito scrivono: “gli I Shot A Man nascono nel 2014, dall’ostinazione di riprendere il blues delle origini e di suonarlo come fosse nato oggi. Le materie prime sono di prima scelta: chitarre elettriche, acustiche, resofoniche, batteria degli anni ’40, impreziosita da cucchiai e assi per lavare i panni, voce a metà tra il crooner e il musicista di strada. Il risultato è un suono essenziale, incompleto, che pensa al mondo in cui il blues è nato, quando gli strumenti erano pochi e arruginiti”.
Può sembrare un’ambizione esagerata, invece i ragazzi suonano proprio così! Nel 2022 hanno partecipato all’International Blues Challenge a Memphis, tre anni dopo avere pubblicato l’esordio Gunbender grazie ad un crowfunding. Poi hanno iniziato a pensare a Dues, molto più ragionato del precedente, prodotto e registrato da Manuel Volpe nel suo studio Rubedo a Torino.
Manuel Peluso (voce e chitarra), Domenico De Fazio (chitarra solista e voce) e Simone Pozzi (batteria e voce) compongono il trio che non ha un bassista e sono anche gli autori di nove dei dieci brani dell’album. Ovviamente il loro nome è un riferimento a un famoso brano di Johnny Cash (Folsom Prison Blues) e già questo denota una scelta di campo. Ma è soprattutto la musica che colpisce: il suono è antico e contemporaneo nello stesso tempo, parte dalla tradizione, ma la rielabora tenendo conto dello stile essenziale dell’Hill Country Blues del Mississippi, dell’approccio dei Black Keys o di certe cose di Jack White, senza dimenticare accennni di world music.
La spigolosa e cadenzata Arnold Wolf, uscita anche come singolo, richiama proprio i Black Keys con una chitarra ficcante e riusciti intrecci vocali, seguita da un’incisiva cover di Moaning At Midnight di Howlin’ Wolf con l’armonica di Tom Newton, dall’old style raffinato di Contemplation Blues e dal profumo d’Africa della notevole Desert Room. Toccando ogni aspetto ricollegato al blues senza essere degli integralisti, si prosegue con il boogie Left Eye in cui spicca una slide sofferta, con la morbida Annie Goodheart che si apre ad un sorprendente finale corale e con Thieves, quasi sospesa con il suo ritmo lento e una coralità gospel dovuta anche all’aggiunta delle voci di Alice Costa e Ilaria Audino. Nel finale la deliziosa Roll And Flow, la notturna Spazio 50 in cui dialogano il piano di Simone Scifone e la slide e la nostalgica ballata soul-blues Billboard in cui il piano è affidato a Manuel Volpe confermano le impressioni positive su Dues, un album che soddisfa in ogni aspetto e che meriterebbe una distribuzione più vasta a livello internazionale.

Paolo Baiotti