Archivio articoli per la categoria ‘Rock'n'Pop’

STEFANO DYLAN – Ballads From Home

di Paolo Baiotti

7 marzo 2023

stefano

STEFANO DYLAN
BALLADS FROM HOME
EGN LABEL 2022

Stefano Dylan, cantautore torinese da qualche anno residente in Irlanda per motivi di famiglia e di lavoro, è stato accolto con interesse nella comunità musicale della zona di Limerick, dove è domiciliato e dove insegna musica e suona nei locali che, a differenza di quanto avviene nel nostro paese, non richiedono solo le cover band, ma sono aperti anche a musicisti folk e rock. Superato il periodo della pandemia che gli ha permesso di registrare il secondo album Ouroboros, in pochi mesi ha preparato il terzo, questo Ballads From Home che, a differenza del precedente, comprende 14 covers di brani tradizionali o di artisti di estrazione folk. Nel suo terzo cd si presenta in veste prettamente acustica, seppure coadiuvato da un folto gruppo di musicisti irlandesi tra i quali Alan Hogan al basso, Warren McStay alla batteria e synth e con il conforto di flauto, conrnamusa, violino, fisarmonica e bouzouki.
Si parte con i profumi d’Irlanda dello strumentale The Dawning di Mickey Dunne, seguito dal tradizionale delle isole britanniche Lily Of The West già interpretato, tra gli altri, da Joan Baez, Bob Dylan e The Chieftains. Stefano se la cava egregiamente sia dal punto di vista vocale che strumentale con un impasto riuscito di cornamusa, violino e sezione ritmica. Si alternano brani di cantautori di nicchia come David Munyon con la dolce Save The Whales in cui si notano anche i controcanti di Karla Segade, Eric Bogle con The Green Fields Of France, che fu un hit irlandese per The Furey Brothers ed è stata ripresa anche dai Dropkick Murphys e il neozelandese Paul Metsers con l’acustica Farewell To The Gold, a tradizionali come Canadee-i-o proposta in passato da Nic Jones e Bob Dylan e Fair Annie che richiama la versione del grande chitarrista folk Martin Simpson, autore di Fool Me Once posta in chiusura del disco. Ballads Form Home ha il pregio di scorrere fluido come un ruscello di acqua cristallina, irrorato dalla purezza di tracce come Shady Grove, il tradizionale irish Bonaparte’s Retreat, Sweet Sixteen e la splendida Only Our Rivers Run Free conosciuta nelle versioni di Christy Moore e dei Wolfe Tones, che valorizzano i progressi dell’artista sia come cantante che come chitarrista acustico.

Paolo Baiotti

ROSALBA GUASTELLA – Grace

di Paolo Baiotti

5 marzo 2023

grace

ROSALBA GUASTELLA
GRACE
Rubber Solul Records 2022

La Rubber Soul Records, emanazione dell’omonimo negozio torinese, pubblica il secondo album solista di Rosalba Guastella, già vocalist di una recente formazione dei No Strange, storica formazione psichedelica degli anni ottanta. Se l’esordio My Little Songs profumava di folk-blues impregnato di psichedelia morbida ed avvolgente, con atmosfere eteree, suoni minimali ed echi dei Pink Floyd di Syd Barrett, Grace sembra rivolgersi con maggiore attenzione verso la psichedelia americana dei tardi anni sessanta, flower power ed influenze orientali, con una varietà di suoni e di atmosfere lisergiche venate da un fondo di malinconia, nostalgia e romanticismo prodotti dalla voce dolce, a tratti sussurrata, mai sopra le righe di Rosalba. Prodotto con cura dal marito Claudio Belletti, Grace si avvale dei collaboratori dell’esordio con in primo piano la chitarra di Dario Lombardo, il piano di Michela Marassi e il basso di Stefano Lenardon, ma ospita anche nomi noti della psichedelia torinese come Alberto Ezzu (No Strange), Ludovico Ellena (Effervescent Elephants) e Fabrizio Cecchi (Trip Hill).
La psichedelia avvolgente di The Desert ammantata di echi orientaleggianti apre il disco, prodotto in un’edizione limitata e numerata di 200 copie curata con passione, che contiene all’interno i testi e il cd. La tromba di Stefano Chiappo caratterizza la lenta, quasi esasperata Cornflower Blues dalle atmosfere oniriche, una delle tracce più ammalianti dell’album che prosegue con l’elettrica e dissonante Now That You’re Here e con la sinuosa e insistente Krishna, frutto della collaborazione con Fabrizio Cecchi. Piano e chitarra si intrecciano in Blue Lies che precede l’affascinante e psichedelica San Francisco Bay. Le atmosfere orientali caratterizzano la notevole Kamala Song, composta da Rosalba con Alberto Ezzu e Beautiful Dreamer in cui la chitarra di Lombardo affianca la voce sognante della cantante. Yellow Shoes rappresenta un ritorno alle atmosfere bluesate dell’esordio con l’armonica di Andrea Scagliarini, traghettandoci alla parte finale del disco in cui spiccano l’eterea preghiera di I Can’t Breathe che si avvale del piano di Michela Marassi e dall’acustica di Lombardo e la bucolica Fly Away che chiude un intimo disco di indubbio interesse.

Paolo Baiotti

AA.VV. – Americana Railroad

di Paolo Crazy Carnevale

26 febbraio 2023

V.A. - Americana Railroad (1)

Various Artists – Americana Railroad (Renew/BMG 2021)

I treni, nell’immaginario musicale americano hanno sempre avuto un posto in primo piano: in un paese immenso con distanze enormi da coprire, la ferrovia è stata un progresso importante, peccato a discapito di due eccidi imperdonabili come quello dei nativi e quello dei bisonti che fecero le spese – gli uni e gli altri – dell’avanzare della cosiddetta civiltà.

I treni, i macchinisti e la ferrovia sono stati protagonisti di fior di canzoni, da Chattanooga Choo Choo a Midnight Special, passando per Kansas City Southern e i classici più tradizionali tipo Orange Blossom Special che l’incedere delle locomotive ce li hanno fin dal ritmo sferragliante su cui sono costruite. C’è gente come Johnny Cash che ha scritto e interpretato decine di canzoni ferroviarie, e ci sono gli eroi dell’epopea ferroviaria come Joe Hill e Casey John, sulle cui leggende si basano numerose canzoni.

Va da sé che qualcuno abbia avuto l’idea di fare un disco dedicato a questi temi: parliamo di Carla Olson, già leader dei Textones e sparring partner di Gene Clark a metà anni ottanta. La Olson, rockettara di razza, con conoscenza profonda della materia, ha chiamato a sé una serie di colleghi, talvolta molto blasonati, tal altra più di nicchia, ma comunque tutti all’altezza della situazione, per registrare i brani destinati al progetto. Qualcuno si è limitato a fornire qualcosa che aveva già pronto nel cassetto e magari già pubblicato, qualcun altro invece si è rimesso in gioco accettando la sfida ex novo. Quel che conta è che il doppio vinile uscito col titolo di Americana Railroad è un bel disco, con una serie di belle cover non sempre scontate, alcune davvero eccellenti, altre basate su brani poco noti o addirittura opera dell’interprete stesso, come è il caso della fantastica song d’apertura, Here Comes That Train Again scritta da Stephen McCarthy per i Long Ryders e qui da lui rifatta insieme alla Olson (con cui ha attivo un progetto come duo). Robert Rex Waller Jr., si mantiene sullo stesso livello qualitativo con una grintosa cover di The Conductor Wore Black, ripescata dal repertorio dei Rank & File, anche qui c’è la Olson ai cori. Rocky Burnette gioca facile con la classica Mistery Train e il risultato è anche in questo caso tra le cose più interessanti del doppio album, tra gli accompagnatori ci sono il mitico Barry Goldberg alle tastiere e Mickey Raphael all’armonica.

Peter Case gioca invece a fare le cose spartane e in quasi totale solitudine (c’è solo la seconda voce di Jesse DeNatale) rifà This Train nell’arrangiamento che fu di Sister Rosetta Thorpe. Chiude la prima facciata il leone di Berkeley, John Fogerty che offre al progetto la City of New Orleans di Steve Goodman apparsa nel suo album inciso coi figli durante i vari lockdown.
Marrakesh Express ripresa dai Dustbowl Revival apre il secondo lato senza entusiasmare, assolutamente meglio Kai Clark che omaggia la musica la musica del suo immenso padre con Train Leaves Here This Mornin’. Gene Clark era uno che aveva l’ossessione dei treni e questa ossessione tornava di tanto in tanto nelle sue composizioni, Kai offre la versione incisa per il suo disco solista che conta su begli intrecci di chitarra (Done Ian all’elettrica, Kevin Post alla pedal steel e lo stesso Kai all’acustica), il violino è una delle ultime cose incise dal vecchio Byron Berline prima di salutarci per sempre.

Grande energia per la versione di Train Kept A Rollin’ affidata alle cure del trio di Gary Myrick, poi Dave Alvin crea un’atmosfera molto western per Southern Chief, dal lui stesso scritta in coppia con Bill Morrissey, a quanto ci risulta appositamente per il progetto della Olson. Più stucchevole la 500 Miles di Alice Howe, meglio Deborah Poppink con una minimale rilettura della celeberrima People Get Ready di Curtis Mayfield.

Dom Flemons alfiere dell’old time music pedemontana di nuova generazione si cimenta con un brano di sua composizione intitolato Steel Pony Blues dal titolo molto eloquente, il risultato sembra provenire da un’epoca lontana, come si addice all’old time music. John York è uno che non frequenta molto gli ambienti discografici: negli anni sessanta è stato bassista del Sir Douglas Quintet e ha fatto parte della band d’accompagnamento dei Mamas & Papas, il suo nome è però rimasto indissolubilmente legato ai Byrds con cui ha inciso due dischi (tra cui il noto Ballad of Easy Rider). Poi è quasi sparito dalla circolazione, continuando a fare musica senza scopi commerciali, salvo tornare a far parlare di sé per progetti legati alla celebrazione dei Byrds o a livello di titolare per collaborazioni più sperimentali spesso condivise con Chris Darrow. Carla Olson, complice il comune legame con lo scomparso Gene Clark, lo ha voluto a bordo del suo treno e il risultato è una riuscitissima cover della Runaway Train di John Stewart, molto country rock.

Tra i musicisti ferrovieri più noti c’è sicuramente Jimmie Rodgers, i suoi blues yodel sono rimasti celeberrimi nella storia della musica americana delle origini: Paul Burch e Fats Kaplan ci regalano una perfetta ripresa della sua Waiting For A Train. Il terzo lato del disco si chiude con la Freight Train di Elizabeth Cotton eseguita da AJ Haynes degli Sheratones con estrema bravura e ispirazione.

Carla Olson e Brian Ray rockano alla grande su Whiskey Train dei Procol Harum, poi James Intveld è interprete dell’unico brano della raccolta proposto due volte, se la prima versione di Mistery Train era più filologicamente legata a quella di Elvis, qui l’arrangiamento vira più su uno shuffle blues ugualmente godibile.

Robert Rex Waller Jr. ci accompagna verso la fine del disco con una superba interpretazione di Midnight Rail del mai abbastanza rimpianto Steve Young, cantata con voce che profuma di Texas: le chitarre sono opera della Olson e di Todd Wolfe.

La chiusura rivede in pista McCarthy e la Olson con un altro brano di Gene Clark (pubblicato nel frattempo anche sul loro disco in duo) intitolato significativamente i Remember The Railroad, McCarthy ne è la voce principale e ci delizia con i suoi lavori di ricamo sia al mandolino che alle chitarre.

Paolo Crazy Carnevale

PETER ROWAN – Calling You From My Mountain

di Paolo Crazy Carnevale

24 febbraio 2023

peter rowan calling you from my mountain

Peter Rowan – Calling You From My Mountain (Rebel 2022)

Il nume tutelare della musica bluegrass (credo nessuno possa aspirare a questo titolo maggiormente di Peter) per festeggiare il suo ottantesimo compleanno ha voluto fare le cose in grande, ha partecipato a fior di raduni nel corso del 2022, suonato in autotributi insieme a giovani colleghi, si è esibito con vecchie glorie sulla breccia almeno quanto lui se non anche da più tempo, soprattutto però, ci ha voluto donare questo nuovo disco, poco più di tre quarti d’ora di bluegrass totale, con il suono della sua chitarra e una voce da far gridare “Chapeau!”.

Non che fossero mancati suoi dischi negli ultimi anni, anzi, la media è di una decina per decade tra ristampe d’archivio e cose del tutto nuovo, ma era almeno da otto anni che Peter non faceva un disco di questo livello, una bella raccolta di canzoni che pesca tra originali e riletture dal repertorio di altri colleghi.

Peter si è fatto aiutare da una classica formazione che oltre a lui vede sfilare il mandolino di Chris Henry, il banjo Max Wareham, il violino di Julian Pinelli e il basso acustico di Eric Thorin, nessuna star, tutti onesti lavoranti di un genere che difficilmente delude, perché il bluegrass è musica vera, genuina, senza trucchi. E Peter Rowan qui allinea una serie di composizioni che quando non sono bluegrass per nascita lo diventano grazie al suo tocco: si va dall’iniziale brano di Woody Guthrie New York Town a Veil Of The Deja Blue composta col fratello Lorin a Come Along Jody del vecchio compadre Tex Logan. Ottima la resa di Little Joe della Carter Family, poi arriva uno degli highlight, nonché singolo di lancio del disco, la composizione autografa The Song That Made Hank William Dance in cui Peter duetta con la voce di Shawn Camp: niente superstar nel gruppo si diceva, ma Peter che è uno sempre sul pezzo, che conosce la scena e ne è riconosciuto guida illuminante, nelle atmosfere irish di A Winning Hand si fa accompagnare dalla chitarra di Billy Strings, nome di punta del bluegrass virato jam degli ultimi anni. E a ruota, la title track ha la voce della fantastica Molly Tuttle a duettare con lui, come se Peter volesse indicare chi sono i nomi che contano nel futuro bluegrass. Lui però ha pure un background ben radicato nel bluegrass delle origini, negli anni sessanta è stato per un po’ il chitarrista dei Bluegrass Boys di Bill Monroe, ecco allora che una composizione del suo maestro ci sta come il cacio sui maccheroni, Frog on the Lilly Pad è uno strumentale dall’impostazione classica, con tutti i break dei solisti che si susseguono senza tirare mai il fiato, inutile dire che gli applausi dono di rigore.

The Red The White And The Blue è una composizione autografa che vede di nuovo la Tuttle, stavolta ai cori e al banjo e Shawn Camp alla chitarra, Light At the End of The World, sempre a firma Rowan risale addirittura al 1971, ci canta le parti basse Mark Howard, presente più avanti anche in Dream Of Heaven. Penitentiary Blues è invecel’adeguamento a la Rown di un vecchio blues di Lightnin’ Hopkins, assolutamente riuscito. Il finale è affidato al medley tutto autografo intitolato Freedon Trilogy formato da Eagle’s Nest, Panther In A Cage e da Freedom State of Mind, di nuovo con il prezioso contributo di Billy Strings, perfettamente amalgamato col gruppo.

Paolo Crazy Carnevale

THE LONG RYDERS – September November

di Paolo Crazy Carnevale

19 febbraio 2023

long ryders cover

The Long Ryders – September November (Cherry Red Records 2023)

Sono trascorsi quattro anni da quando la band di Sid Griffin e Stephen McCarthy è tornata a produrre nuovo materiale: dopo lo split del 1987 il gruppo si era ricostituito sporadicamente, unicamente per esibirsi dal vivo. Poi aveva provato con un singolo a presentarsi con materiale nuovo; da lì all’uscire con un ottimo nuovo disco di studio intitolato Psychedelic Country Soul il passo è stato breve, al disco sono seguiti apprezzamenti ovunque e i Long Ryders si sono ricreati una credibilità e un affetto da parte del pubblico sia negli Stati Uniti che in Europa.

Purtroppo nel 2021 è mancato improvvisamente il bassista Tom Stevens, il cui ruolo nella band era importante sia a livello vocale che compositivo; i tre soci però non si sono pianti addosso e lo scorso luglio si sono finalmente ritrovati in California, nello studio di Robbie Krieger per dare un eccellente seguito al disco del 2019.

Innanzitutto, nel disco c’è la bella canzone che avevano realizzato come singolo un anno fa, appena all’indomani della scomparsa di Stevens: il brano, che s’intitola Tom Tom è una composizione eccellente nata praticamente al telefono, vista l’impossibilità del trio a viaggiare a causa del Covid. Appena però la vita è tornata ad una certa normalità, Griffin, McCarthy e Sowders si sono trovati per registrare la canzone, una commovente ballata scritta da tutti e tre col produttore Ed Stasium e sorretta perfettamente dall’armonica e dal mandolino di Sid e parimenti dalla pedal steel di Stephen.

Inutile dire che questa composizione è andata a finire dritta dritta sul disco September November, previsto in uscita per il 10 marzo e che noi abbiamo avuto la fortuna di poter ascoltare in anteprima per intercessione di Griffin e McCarthy.

Si tratta di un disco solido, ben costruito tra brani di atmosfera acustica (prevalentemente opera di Sid, che nel suo eremo londinese tutte le settimane si trova in un pub per delle jam bluegrass insieme a gente del posto) e altri più legati alla natura rock, country rock ma anche psichedelica che è sempre stata il marchio di fabbrica di questo gruppo.

La title track, posta in apertura è una bella canzone con quegli evidenti richiami jingle jangle: Griffin che ne è l’autore ha pensato bene di fondere le atmosfere outlaw d’altri tempi con il tema del crimine informatico che vede qui come parente stretto del furto di cavalli del vecchio west. Seasons Change è invece un classico brano di Stephen, che vi suona delle grandi chitarre e si mostra in grande forma compositiva. Da parte sua il batterista Sowders sostiene energicamente ogni singola nota. Più lenta Flying Down, chitarre twang e la voce di Griffin in uno dei suoi momenti migliori.

Stephen risponde parimenti con una grintosa canzone intitolata Elmer Gantry Is Alive And Well, ispirata al predicatore ciarlatano interpretato da Burt Lancaster in un vecchio film di Hollywood: ritmica sostenuta, il testo cantato in parti uguali dai due chitarristi, giusto per ribadire che all’interno dei Long Ryders la collaborazione è sempre ben accetta e di casa. Hand Of Fate ha qualche reminiscenza di The Band, complice il suono acustico del mandolino di Sid, del violino di Krenza Peacock (che suonava già nei Coal Porters di Sid) e di un sottofondo d’organo alla Hudson.

A questo punto c’è una composizione strumentale di Sid, Song For Ukraine, che indica come il gruppo sia sempre sul pezzo anche a livello di temi affrontati: un quartetto d’archi accompagna chitarre acustiche e mandolino, Sowders ci mette una spolverata di percussioni. To The Manor Born vede di nuovo le incendiarie chitarre stendersi sul tappeto d’organo, bella la struttura che a tratti ricorda Neil Young, anche nel break di chitarra.

That’s What They About Live è un altro brano d’ispirazione acustica firmato da Sid, svisate swing rimandano direttamente a Django, la Peacock è di nuovo presente al violino.

Ancora chitarre acustiche e violino sono la base di Country Blues, stavolta l’autore è Stephen; segue il brano dedicato Tom Stevens e la breve e ancora acustica Until God Takes Me Away con la voce di Sid, poi il gran finale con il ripescaggio di una composizione del defunto bassista, già apparsa sul suo terzo disco come solista. Flying Out Of London era una bella canzone ispirata dallo scioglimento del gruppo all’indomani del tour di Two Fisted Tales. I Long Ryders l’hanno spogliata del suo abito originale, tenendo la voce e il basso dello scomparso compare e le voci femminili della figlia di lui, Katheryn: il risultato è un altro bell’omaggio a Tom Stevens, la ballata è una commovente dedica e l’arrangiamento è vincente, con il mandolino sempre suonato da Griffin e le chitarre (elettrica e pedal steel) di McCarthy che si srotolano sul tappetto dell’organo probabilmente suonato da Ed Stasium.

Una fine migliore per un signor disco non ci poteva essere: e a ben vedere anche se questo in definitiva è solo il quinto di studio del gruppo, viene da notare che non ce ne sia uno che non valga la pena di avere.

Paolo Crazy Carnevale

FABRIZIO POGGI – Basement Blues

di Paolo Crazy Carnevale

19 febbraio 2023

fabrizio poggi

FabrizioPoggi – Basement Blues (Appaloosa/IRD 2022)

Ci riesce sempre a sorprendere Fabrizio Poggi, sia che se ne salti fuori con un disco nuovo di zecca, che con un progetto tematico come gli ormai molti dischi usciti negli ultimi anni (pensiamo a Spaghetti Juke o il disco del 2021 condiviso con Enrico Pesce).

Stavolta, come fanno i musicisti di razza che ha frequentato nella sua lunga carriera (con i Chicken Mambo, da solo o con Guy Davis), Fabrizio ha ravanato nei suoi forzieri e messo insieme una brillante raccolta di brani che erano in qualche modo rimasti senza casa, o parafrasando il titolo, erano rimasti in cantina.

Il titolo di questo bel disco chiama però in casa anche un’altra cantina: non quella buia dove noi respiravamo piano, bensì quella di West Saugerties, stato superiore di New York, dove Bob Dylan, Robbie Robertson, Rick Danko, Richard Manuel e Garth Hudson si trovavano a jammare nei mesi successivi all’incidente motociclistico che tutti sanno. Levon Helm sarebbe arrivato, o quantomeno tornato, dopo.

La foto di copertina ci consegna addirittura Fabrizio e la sua armonica che sbucano fuori da un modellino ligneo della casa con la facciata rosa: il nostro armonicista è particolarmente legato a quelle atmosfere anche per via dell’amicizia di lunga data che lo lega a Hudson.

Venendo allo specifico del disco, la cosa che stupisce è la magia che si sprigiona da una traccia all’altra, la pulizia del suono, il fatto che ogni brano si sposi alla perfezione con quello che viene prima e con quello che lo segue, pur essendo stati incisi in contesti e tempi differenti. Tutto è stato registrato tra il 2010 ed il 2015, per lo più i brani vedono l’accompagnamento di Enrico Polverari alla chitarra, splendido sparring partner, sia che ci sia solo lui alla chitarra, sia in versione full band. A dominare ovviamente sono la voce intrisa di soul di Fabrizio e la sua inconfondibile armonica, a volte molto folkie, altre filologicamente blues (pensiamo alle due outtake di Spaghetti Juke Joint in cui al fianco di Fabrizio c’è nientemeno che la chitarra di Ronnie Earl). Ci sono ben tre brani con il bluesman Guy Davis, uno di studio e due tratti dai concerti americani che Fabrizio ha tenuto con lui nel 2014: la lunga Black Coffee, Little Red Rooster e See That My Grave Is Kept Clean, tutte particolarmente vibranti e belle testimonianze dell’affiatamento tra i due musicisti.

In John The Revelator, outtake di Mercy oltre band italiana c’è nientemeno che Garth Hudson col suo organo.

Nel disco però non ci sono solo classici riconosciuti e riconoscibili del genere, Poggi si conferma preparato anche in sede di composizione e le sue canzoni originali, Midnight Train, Your Light, Blues For Charlie, l’iconica Boogie For John Lee Hooker la dicono lunga su quanta strada e quanta dedizione ci siano nelle lamelle dell’armonica di questo musicista. Ascoltate come si approccia all’immortale The Soul Of A Man di Blind Willie Johnson, basterebbe questa da sola a fare di questo disco un superdisco, se poi contate tutto il resto…

Paolo Crazy Carnevale

THOSE BARREN LEAVES – W.I.A.B.R.

di Paolo Baiotti

16 febbraio 2023

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THOSE BARREN LEAVES
W.I.A.B.R.
Autoprodotto 2022

Those Barren Leaves prendono il nome da un racconto satirico di Aldous Huxley del 1925. Si tratta di un duo svedese formato da Marit e Martin Deybler Holmlund, coadiuvati in questa occasione dalle tastiere di Klas-Henrik Horngren e dalla batteria del produttore Kristoffer Ragnstam, aggiunte nel 2021 quando è stato possibile ritornare in studio. Infatti dopo l’esordio di Directions, superati i problemi della pandemia incorsi mentre stavano registrando il loro secondo disco, sono finalmente riusciti a terminarlo l’anno scorso. Sebbene la copertina evochi immagini drammatiche da disco di metal/doom, in realtà la coppia suona un rock melodico influenzato dal pop/rock degli anni novanta e ottanta con echi di U2 e altre band britanniche di quel periodo come nella traccia iniziale Feel cantata da Marit su tonalità alte, seguita dalla più robusta e grintosa Million Forever interpretata da Martin, che ha una voce meno caratteristica. In realtà pur suonando piacevole e scorrevole, il disco manca in alcuni momenti di personalità e di originalità nella costruzione dei brani. La lenta No Sides inserisce un pizzico di psichedelia nell’accompagnamento alla voce sognante di Marit, mentre la lunga Read Between the Lines ha un suono e un feeling da anni ottanta. Nel prosieguo si distinguono l’oscura e affascinante By Your Side che sembra mischiare Velvet Underground e Dead Can Dance, il mid-tempo After The Storm (in una nuova registrazione) venato di echi gotici in cui si fa notare positivamente anche la voce di Martin e la ballata rock Matters Of The Heart con una chitarra abrasiva.

Paolo Baiotti

MONSTER – Life Science

di Paolo Baiotti

2 febbraio 2023

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MONSTER
LIFE SCIENCE
Paraply 2022

Nella presentazione sul loro sito dell’esordio Life Science, gli svedesi Monster scrivono ironicamente che “si tratta probabilmente del debutto meno atteso della storia”, nonché di un rimedio contro l’assurdità dell’autotune e di una genuina raccolta di dieci brani old-school nella quale ogni canzone conta veramente, senza riempitivi e con nessuno spreco.
Monster è una formazione underground di Uppsala guidata da Olov Lundberg (voce, chitarra e tastiere) con Henrik Nilsson (batteria), Markus Wilkman (basso) e Mikael Hanstrom (chitarra). La loro musica ha evidenti riferimenti al classic rock con richiami alle tastiere e ai synth degli anni ottanta. Bridges Of Glass apre il disco incrociando echi prog e una batteria un po’ troppo monocorde, con un crescendo strumentale avvolgente nella seconda parte, When Winds Bent The Grass ha un feeling elettroacustico aprendosi in una riuscita coda strumentale, mentre la successiva On My Way ha una naturale musicalità dovuta ad una melodia accattivante e alla rilassata interpretazione vocale di Olov con qualche influenza dei Beatles e di David Bowie, che si ripete nella scorrevole Spacechild. A metà disco viene inserita l’unica traccia cantata in svedese, Skogens Man (l’uomo nella foresta), intensa e drammatica con una chitarra incisiva e una notevole prestazione di Olov che abbassa e indurisce la tonalità vocale.
Nella seconda parte dell’album, complessivamente meno convincente, spiccano la ritmata Save Me, la successiva Particle Arts che ricorda il suono dei Wilco con le tastiere in primo piano e la dissonante Into The Sea tra new wave e indie rock.

Paolo Baiotti

DAVID MASSEY – Darkness At Dawn

di Paolo Baiotti

27 gennaio 2023

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DAVID MASSEY
DARKNESS AT DAWN
Poetic Debris 2022

Impegnato nell’attività di avvocato fino al 2017 a Washington D.C., David ha lasciato un importante studio legale per dedicarsi negli anni della maturità alla musica, sua grande passione che prima lo occupava nel tempo libero. Il suo esordio risale al 2004 con Blissful Of Blue, seguito da altri tre album e dall’ep Island Creek del 2021. Anche Darkness At Dawn è un mini-album di sette canzoni per complessivi 25’ registrato con i consueti collaboratori Jay Byrd alla chitarra e mandolino (a sua volta cantautore solista), Jom Robeson al basso e alla produzione, Eric Selby alla batteria e Bill Starks alle tastiere.
Le coordinate sonore all’interno delle quali si muove Massey sono quelle dei dischi precedenti: un rock delle radici con influenze folk e pop, mosso e disinvolto, come nella briosa Watch Your Back in Hell, percorsa dal vibrante violino di Ron Stewart, nel mid-tempo Darkness At Dawn in cui la voce ricorda Willie Nile, nella melodica Nothing che sicuramente risente dell’influenza di Tom Petty nella scrittura e nel modo di cantare nonché nella ritmata Party Of Lies molto vicina alle sonorità chitarristiche dei Dire Straits. Anche sul versante delle ballate David ha una scrittura e un’interpretazione più che dignitosa; ne sono esempi significativi l’elettroacustica Players, il country From God We Come e l’intima e malinconica Daddy’s Wedding Dance con il violoncello di Kristen Jones in cui viene inserita una citazione del Canone di Pachelbel.

Paolo Baiotti

COURTNEY HALE REVIA – Growing Pains

di Paolo Baiotti

25 gennaio 2023

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COURTNEY HALE REVIA
GROWINGS PAINS
Autoprodotto 2022

Cantautrice del sud est del Texas, ha esordito nel 2015 con Simple Things seguito nel 2018 da Tattered e dal recente Growing Pains. Figlia del musicista e autore James T. Hale morto nel 2021 a causa del Covid, al quale è dedicato il disco, riesce a mixare country, alternative rock, folk e Americana con un certo gusto e buone capacità compositive e interpretative. Dopo avere aperto per artisti come Cindy Cashdollar e Bob Schneider, ha iniziato ad ospitare “house concerts” nel 2018, facendo diventare questa attività la sua professione in un luogo che ha preso il nome di 7 Oaks Event Garden LLC.
Contemporaneamente ha prodotto e registrato a Houston e Port Neches questo disco in cui è affiancata principalmente da Cody Edridge (chitarra solista), Walter Cross (batteria), Ellen Melissa Story (violino) Zachary Edd (basso) e Southpaw Smitty (mandolino).
La traccia d’apertura One Way Out, un rock melodico e un pizzico malinconico, è ispirato dalla sua vita che si è svolta quasi esclusivamente nella cittadina di 7 Oaks. Segue la title track, una ballata rootsy già scritta nel 2018, ma non inserita nell’album precedente, in cui si apprezzano il lavoro di Edridge e il modo di cantare disteso e rilassato di Courtney. Se Lavender Cowgirl è un valzer country d’impronta texana, They’ve Poisoned The Well è una ballata caratterizzata dall’inserimento del violino e del mandolino, mentre Cutting Lines è una traccia più mossa sempre con il violino in primo piano, strumento protagonista anche dell’introduzione del country melodico Rainbow At Night che cresce ritmicamente in modo convincente, preceduto dalla briosa e divertente Coffee Beans.
In chiusura Bloom Where You Are, scritta dal padre e registrata dal vivo nel locale sopra citato, è un doveroso omaggio eseguito con malinconia e rispetto.

Paolo Baiotti

TIP JAR – Songs About Love And Life On The Hippie Side Of The Country

di Paolo Baiotti

25 gennaio 2023

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TIP JAR
SONGS ABOUT LOVE AND LIFE ON THE HIPPIE SIDE OF COUNTRY
Shine a Light 2022

Abbiamo scritto sui Tip Jar nel 2021 in occasione del loro quinto album One Lifetime, registrato e pubblicato durante la pandemia. Si tratta di una band nata per iniziativa di una coppia olandese formata da Bart de Win e Arianne Knegt, che opera in ambito roots rock melodico con influenze pop e jazz. Dopo avere scoperto quanto naturalmente si fondevano le loro voci, hanno registrato un paio di duetti per un album di Bart e hanno deciso di proseguire su questa strada. De Win ha studiato piano-jazz e voce al conservatorio di Rotterdam dove attualmente insegna, ma ha sempre amato l’Americana inserendo elementi jazz e blues. Ha collaborato con artisti come l’olandese Gerard Van Maasakkers e la cantante greca Maria Markesini. Arianne è stata cantante solista di Marylou & The Good Old Boys, band di country e rockabilly e poi di The Simple Life tra il 2009 e il 2013.
Prodotto e registrato in parte ad Eindhoven da Eric Van De Lest che suona la batteria in alcune tracce e in parte ad Austin con la produzione di Ron Flynt e con la partecipazione alla voce e chitarra dell’amico cantautore Walt Wilkins, Songs About Love And Life è aperto dalla mossa Out Of The Blue in cui Bart suona le tastiere (piano e organo B3) e affianca come seconda voce Arianne, seguita dalla melodica e corale Garden Party in cui si nota l’affascinante presenza del violino di Joost Van Es. Never Saw It Coming ha un’atmosfera morbida e avvolgente, mentre Creaking of the Stairs è un intimo duetto tra le due voci con l’accompagnamento di piano e fisarmonica da parte di Bart. In un disco che rispecchia il titolo, confezionato con una dozzina di canzoni semplici e orecchiabili sulla vita e sull’amore, meritano una segnalazione anche la brillante Plough, la jazzata Love And Understanding, la malinconica Wondering Why, la ballata country Strong Enough e il mid-tempo rock Big Family posto in chiusura.

Paolo Baiotti

MICHAEL VEITCH – Wachtraum

di Paolo Baiotti

15 gennaio 2023

veitch

MICHAEL VEITCH
WACHTRAUM
Burt Street 2022

Il primo approccio di Michael con la musica è stato attraverso i canti gregoriani da bambino e il rock and roll da adolescente, attingendo alla collezione del fratello maggiore di singoli degli anni ’50. Poi sono arrivati i Beatles. A 23 anni ha preso lezioni di canto con un insegnante che aveva lavorato con Frank Sinatra e gli Aerosmith. Parallelamente è cresciuta la passione per l’ambientalismo, si è occupato di fotografia e di arte figurativa e si impegnato in politica collaborando con candidati progressisti del Vermont fino al ’94 quando ha partecipato alla corsa per il Senato come candidato dell’area di Bernie Saunders. Non è stato eletto e ha pensato di ripartire più seriamente con la musica, aiutato da Shawn Colvin, sempre cercando di conciliare questa passione con un messaggio pacifista e ambientalista. Ha vissuto in Germania, quindi nel ’99 si è stabilito a Woodstock dove risiede tuttora. La sua canzone più conosciuta è Veteran’s Day, composta nel 2011 e ripresa da Judy Collins.
Wachtraum, registrato nel corso di parecchi anni tra Monaco e Bearsville, si può considerare il lavoro più studiato, attento e appassionato del suo percorso, con canzoni di buon livello incentrate sullo svilupppo del calendario annuale a partire da First Day e arrangiamenti adeguati. Michael ha una voce naturalmente melodica, che si adatta alla perfezione a ballate folk elettroacustiche come il primo singolo Valentine’s Day, ovviamente collegato a febbraio o Moving Day in cui fa capolino l’armonica di Gary Schriener, ma anche a tracce più energiche come April Fools influenzata dal country-rock californiano o Sunday Afternoons. Nella sofferta Happy Fourth Of July, il brano più politico del disco, siamo in ambito roots-rock con la slide di Dan Whitley, mentre la sognante August Nights evoca il suono dei Beach Boys e la romantica ballata Always Vermont ha come tema inevitabile l’autunno, stagione ideale per il suo Stato. Da segnalare ancora One Wish, duetto con l’eterea cantante Kirsti Gholsen che chiude il disco, un’ottimistica canzone natalizia scritta con Julie Last, cantautrice e ingegnere del suono che in passato ha collaborato con Joni Mitchell e Rickie Lee Jones e che ha registrato e mixato l’album.

Paolo Baiotti

SKINNY DICK – Palace Waiting

di Paolo Baiotti

11 gennaio 2023

skinny

SKINNY DYCK
PALACE WAITING
Sound Asleep 2022

Cantautore canadese di Lethbridge nello stato dell’Alberta, Skinny ha le radici nella musica country degli anni ’60, con un suono che accoppia una chitarra twangy con arrangiamenti piuttosto minimali. Palace Waiting è il suo nuovo EP a due anni dall’album Get To Know Lonesome del 2020, comprendente otto brani tutti autografi ad eccezione di una briosa ripresa di Be a Little Quieter di Porter Wagoner. Registrato in parte nella sua città e in parte in Texas nei Fort Horton Studios con la produzione di Billy Horton (Charley Crockett) conferma le sue scelte musicali tra retro-country, western swing e country-folk più austero.
L’immagine di Skinny è più da camionista con il cappellino da baseball che da cantante country, ma la voce è perfetta per questo genere musicale, solida e profonda come si può evincere dalla melodica Hey Who’s Counting? che apre il dischetto. Se Cutting Off All Ties è una ballata malinconica di impronta tradizionale come Ripe There On The Vine, Jackson Hole incrocia country e pop mentre In On The Upswing (accompaganata da un video delizioso) alterna una pedal steel incantevole e una chitarra twangy con un pizzico di malinconia. Tv Blue, uscita anche come singolo insieme al brano precedente, ha una melodia accattivante che non se ne vuole andare, No Power Over Me che chiude il mini-album come bonus track sembra uscire da un archivio dei sixties, con un briciolo di modernità.
Con Palace Waiting questo cantautore si dimostre abile sia vocalmente che come chitarrista, con la consapevolezza di offrire un repertorio fortemente ancorato al glorioso passato di un genere che anche in Canada è ancora molto popolare.

Paolo Baiotti

REUTER MOTZER GROHOWSKY – Bleed

di Paolo Crazy Carnevale

11 gennaio 2023

cover reuter

Reuter Motzer Grohowski – Bleed (Moonjune Records 2022)

Confesso che quando trovo il nome di Markus Reuter sulla copertina di un disco parto un po’ prevenuto, sarà perché lo considero un vero e proprio prezzemolo, ho perso il conto di quante volte negli ultimi due /tre anni mi sia imbattuto nell’artista tedesco scorrendo le note dei dischi pubblicati dalla Moonjune, tra presenze da titolare e da comprimario direi una decina abbondante. E non mi piace troppo quella sua particolare chitarra, d’altra parte ognuno ha i suoi gusti e se non piace a me non è detto che non debba piacere a nessuno.

Dirò anche che in alcune situazioni dove non è titolare a tutto tondo (pensiamo agli Stickmen di Tony Levin) il suo contributo è apprezzabile, come tutto sommato lo è anche in parte questa recente uscita condivisa con il chitarrista Tim Motzer ed il batterista Kenny Grohowski, che però a lungo andare sembra non andare in alcuna direzione. I due jazzisti americani con Reuter avevano già condiviso un live nel 2020 e senza di lui fanno parte di un altro progetto legata alla medesima label, PAKT, protagonista di un paio di lavori usciti nei mesi della pandemia; Grohowski vanta una militanza in ambito jazz rock con vari gruppi, tra i quali i Brand X.

Il nuovo lavoro segue un po’ il filo conduttore della musica totale e senza barriere che scaturisce quando i tre musicisti si scatenano lanciandosi in interminabili e spaziali improvvisazioni, in questo caso catturate da Scott Petito negli studi NRS, sulle Catskill Mountains, nel nord dello stato di New York, da sempre buen retiro per musicisti in cerca d’ispirazione e intimità.

Otto in tutto le tracce incise nel corso di circa sei ore di quello che potremmo definire autentico brainstorming musicale, con i tre seduti uno di fronte all’altro con batteria e chitarre e poi, una volta terminata questa prima fase, ogni brano è stato arricchito da inserti di tastiere ( tutte suonate dal trio) che vanno dal piano Rhodes all’Hammond B3 al Mellotron, dando vita a excursus d’impronta chitarristica come in Causatum, ad autentiche e proprie suite che si dipanano come matasse creando varietà di suoni (pensiamo al quasi quarto d’ora di Monolith), a brani più cupi (Oracle Chamber e Impenetrable) o ripetitivi (la conclusiva Externalities In The Truest Universality).

Paolo Crazy Carnevale

STEPHAN THELEN – Fractal Guitar 2 Remixes/Fractal Guitar 3

di Paolo Crazy Carnevale

8 gennaio 2023

cover thelen

Stephan Thelen – Fractal Guitar 2 Remixes (Moonjune Records 2022)
Stephan Thelen – Fractal Guitar 3 (Moonjune Records 2022)

Dopo l’uscita del primo Fractal Guitar, probabilmente nessuno avrebbe potuto prevedere la serialità del progetto che negli ultimi due anni ha aggiunto ben tre nuovi volumi alla discografia del chitarrista e matematico californiano Stephan Thelen (da tempo di base in Svizzera).

Nel 2021 era arrivato il secondo volume e a meno di un anno di distanza una versione rielaborata del medesimo disco. Fractal Guitar 2 Remixes è stato pubblicato nei primi mesi dello scorso anno e mette sul piatto una serie di mix differenti dei brani assemblati da Thelen con l’aiuto di un titolato stuolo di colleghi che hanno dato la loro versione delle composizioni, in cui essi stessi suonavano o a cui si sono aggiunti in un secondo tempo.

Il disco risulta estremamente interessante perché ci dà l’opportunità di ascoltare lo space-rock (ma la definizione è assolutamente rivedibile) di Thelen filtrato attraverso differenti sensibilità musicali. Prendiamo ad esempio Point Of Inflection, nella cui versione originale suonava Barry Cleveland (veterano delle produzioni della label): la composizione nel Fractal Guitar 2 Remixes viene ripescata per ben tre volte, di cui la prima con un remix del titolare, la seconda con il punto d’ascolto del chitarrista David Torn (presente nell’incisione originale) e la terza ad opera del bassista Bill Laswell che invece nell’originale Fractal Guitar 2 non c’era, ma qui si è aggiunto con basso e diavolerie elettroniche, curioso che la sua versione sia indicata non come mix o remix, bensì come translation, come se si volesse puntare il dito sul fatto che il musicista dell’Illinois l’ha letteralmente tradotta secondo i propri canoni artistici.

Analogamente accade a Ladder To Stars, che ospita tra gli altri l’eclettica chitarra di Henry Kaiser e nella nuova veste adotta il basso e la “traduzione” dell’artista britannico Jah Wobble, dai trascorsi post-punk nei Public Image Ltd. di Johnny Lydon (ex Rotten).

Per Celestial Navigation è Thelen stesso a riprendere in mano il brano, mentre per Mercury Transit viene chiamato in causa di nuovo Barry Cleveland.

Per il terzo capitolo di Fractal Guitar, Thelen si fa accompagnare per lo più dagli stessi artisti di base che figuravano nel parterre dei dischi precedenti, dal batterista svizzero Manuel Pasquinelli a Mark Reuter con la sua touch guitar, al percussionista Andy Pupato, al tastierista Fabio Anile: a costoro si aggiunge uno stuolo di chitarristi, un po’ come era accaduto per le altre produzioni. Ci sono i meno noti Stephan Hut, il norvegese Eivind Aarset, Jon Durant, Bill Walker, in pratica un po’ meno superstar del genere e dello strumento, ma il risultato non cambia, e c’è il titolato Barry Cleveland che qui si occupa però di effettistica senza la sei corde. Il disco si sviluppa attraverso cinque composizioni su cui troneggia l’iniziale e chilometrica Through The Stargate il cui titolo descrive alla perfezione la sensazione suscitata dal brano, quella di effettuare un viaggio spaziale attraverso una porta che conduce in un’altra dimensione o in un altro universo, Thelen e Anile, con synth, tastiere varie e effetti stendono il tappetto di oltre un quarto d’ora su cui si sviluppano gli interventi delle varie chitarre effettate. Il tema della successiva Morning Star sembra essere figlio del brano precedente, ci sono meno musicisti coinvolti (quattro comunque le chitarre, oltre alla batteria di Pasquinelli).

Più nervoso il tema di Glitch con le cinque chitarre accompagnate dal basso di Tim Harries (già con Brian Eno) mentre Jan Peter Schwalm stende tappeti di tastiere su cui le chitarre impazzano nella successiva Ascension, altra lunga composizione che ci accompagna attraverso la continua ricerca sonora di questo genere musicale. In Black On Electric Blue (il brano con Cleveland) si sviluppano diversi temi e le chitarre sembrano entrare in contatto con voci aliene.

A questo punto il disco sarebbe finito, ma Thelen rilancia con una versione editata del brano iniziale affidata al remix di Jan Peter Schwalm.

Paolo Crazy Carnevale

DIANE PATTERSON – Satchel Of Songs

di Paolo Baiotti

8 gennaio 2023

diane

DIANE PATTERSON
SATCHEL OF SONGS
Creative Commons 2022

Diane ha una lunga e creativa storia alle spalle. Basata nel nord della California, attiva dall’89 con la sua “mystic acoustic americana music” nella scena indipendente, ha esordito discograficamente nel ’91 con la band reggae/latin The Heat, quattro anni dopo ha pubblicato Live At The Palms con il Diane Patterson Sextet, seguito nel 2005 da un disco folk di canzoni politiche e non, intitolato Hip The Hip. Negli anni successivi sono usciti tre CD-R casalinghi e quindi World Awake nel 2010, l’ep Holy Days Of Winter e nel 2013 Build a Bridge. Nel 2016 ha girato negli Stati Uniti e in Europa con molte tappe in Scandinavia dove è molto apprezzata, accompagnando l’uscita di Teach, Inspire, Be Real. Infine nel 2019 è stato il momento di Open Road registrato e prodotto da Mike Napolitano con l’aiuto ai cori della moglie Ani DiFranco, alla quale ha aperto nove concerti nel Midwest. In genere Diane suona in inverno nelle Hawaii e in estate in Europa e Scandinavia, sia in locali che nelle case con intimi “house concerts”. Ha una voce forte ed energica, suona la chitarra acustica e l’ukulele e scrive testi significativi da attivista di impatto sociale e politico, promuovendo il rispetto delle culture indigene.
La title track del nuovo album Satchel Of Songs, in cui Diane mette in luce diversi registri vocali, è stata scritta in Svezia nel 2019 ed è l’elemento dal quale è partita la costruzione del disco. Nuovamente registrato, mixato e prodotto da Napolitano (Squirrel Nut Zippers, Ani DiFranco) a New Orleans dove Diane si è trasferita, eccetto due brani, con l’aiuto di musicisti di qualità come Terence Higgins alla batteria (Ani DiFranco, Dirty Dozen Brass Band), Todd Sickafoose al basso (Ani DiFranco), Joe Craven al mandolino (Garcia & Grisman), Barbara Higbie al violino (Bonnie Raitt), Rick Nelson al contrabbasso e violino (Rickie Lee Jones) e Ani DiFranco alla voce, il disco è aperto dal reggae Roots Heart Rhythm, seguito da Silk And Honest Pay, ispirato da una canzone vichinga. La mossa ed inusuale Steady The Hand sul dramma dei bambini soldati in Siria, la solida e personale ballata jazzata Maybe Easy in ricordo di un’amica scomparsa, For Stage e l’eterea e sospesa One Part Corn caratterizzano la parte centrale dell’album, mentre nel finale spiccano Turn Toward The Sun che ricorda lo stile di Joni Mitchell, artista centrale nella formazione di Diane e la gioiosa Somewhere There’s a Song.
Satchel Of Songs è un album folk originale e coraggioso, che merita più di un ascolto.

Paolo Baiotti

CLINT BAHR – Puzzlebox

di Paolo Crazy Carnevale

7 gennaio 2023

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Clint Bahr – Puzzlebox (Moonjune Records 2022)

Clint Bahr, polistrumentista e leader del trio progressive TriPod, formatosi a New York a fine anni novanta, per questo suo nuovo lavoro ha messo insieme una formazione molto aperta che è in tutto e per tutto una sorta di enciclopedia suonante del genere, a cavallo tra avantgarde, jazz e prog storico.

Il disco, uscito nei primi mesi del 2022 si divide quasi equamente tra composizioni cantate e brani strumentali caratterizzati dall’essere più lunghi e sperimentali rispetto a quelli in cui Bahr fa uso della voce, sicuramente più immediati e interessanti.
Ma interessante soprattutto è il parterre di amici che fanno parte dei Puzzlebox, perché, come recitano le note di accompagnamento del disco, Puzzlebox è una band, indipendentemente dal fatto che in un brano ci siano una mezza dozzina di artisti, in un altro solo tre, in un altro ancora il solo Bahr: e si tratta sempre di artisti di prim’ordine.

L’introduzione è affidata allo strumentale Tabula Rasa, ripreso in versione differente anche per chiudere il disco: Bahr si occupa del tambura, al sitar c’è Dan Parkington degli Andromeda e i flauti sono ad appannaggio nientemeno che di David Jackson (Van Der Graaf Generator), tocca poi a New Design, forse il meno impressionante trai brani cantati, col bandleader impegnato a un’infinità di strumenti ci sono qui Dick Griffin al sax, di cui si percepisce perfettamente la militanza nei gruppi di Roland Kirk e Sun Ra, e il batterista Mike Hough.

Tra le cose cantate piace invece molto l’orientamento decisamente rock di Shelter, sempre con Griffin e la batteria di Billy Ficca, proprio quello dei Television.

I dieci minuti di As Tympani Melt In The Greel Heat sembrano un po’ eccessivi, ma è evidente che i Puzzlebox si devono essere divertiti parecchio a jammarci intorno: troviamo di nuovo Jackson, la pianista Marylin Crispell (Pharoah Sanders), e ci sono Griffin e Hough.

Fall From Grace ci riporta alla musica cantata, con Bahr che sta un po’ a metà tra la voce di Roger Waters e quella di Richard O’Brien (ricordate il Rocky Horror Show?), Colin Carter dei Flash gli dà una mano, e alla batteria c’è di nuovo Ficca. Belt And Braces è un breve interludio jazz con la Crispell e Griffin in prima linea. Triangle, Circles And Squares è un’altra breve composizione in cui il basso dialoga col violino dell’ex King Crimson David Cross. Oslo vede Bahr in quasi solitudine a divertirsi soprattutto col Theremin, la voce recitante è di Stephanie Feyne.

Kicking The Wasp Nest è un solido brano d’impronta più rock, Bahr canta, suona la chitarra acustica e ogni genere di basso, Jeff Schiller si occupa dei fiati, Ficca incalza alla batteria mentre alla chitarra elettrica c’è Peter Banks, il chitarrista che gli Yes cacciarono nel 1969 per arruolare Steve Howe e in seguito fondatore dei Flash! Piace anche l’interludio acustico di Lifeguard In The Rain, cantato con una strizzata d’occhio a David Bowie, a seguire la chiusura affidata ad una seconda versione del brano iniziale eseguito però con altra strumentazione.

Paolo Crazy Carnevale

MAHOGANY FROG – Faust

di Paolo Crazy Carnevale

3 gennaio 2023

cover frog

Mahogany Frog – Faust (Moonjune Records 2022)

Winnipeg è la città canadese che tutti gli amanti del più canadese dei cantautori canadesi sanno essere stata la città d’adozione del loro beniamino: dimenticate però tutte le suggestioni a cui vi riconduce il pensiero di Neil Young e di tutti i suoi conterranei, siano essi i maestri della canzone d’autore o i rocker che dopo aver accompagnato Ronnie Hawkins, via John Hammond Jr. sono arrivati ad essere la band di Bob Dylan perché i Mahogany Frog sono canadesi di Winnipeg, ma la loro musica batte una bandiera differente, quella di un rock strumentale strettamente imparentato col prog-rock (ne è la riprova questo nuovo album che è un concept album nella miglior tradizione di questo genere musicale).

Il progetto dietro quest’opera è decisamente ambizioso e vede il quartetto impegnato nel rimusicare un classico assoluto del cinema muto quale il “Faust” di Murnau.

Tra suoni classicamente elettrici ed effettistica, i quattro canadesi, tutti anche maghi dell’elettronica, si sono messi all’opera e il disco è il risultato della loro fatica, disco che arriva dopo che questa colonna sonora postuma è stata eseguita dal vivo con proiezione della pellicola, la prima ha avuto luogo in un cinema di Saskatoon, amena località del Canadà occidentale che, guarda caso, ha dato i natali alla mamma di tutte le cantautrici, non solo quelle canadesi.

I Mahogany Frog, dopo ulteriori repliche a Winnipeg, Calgary e Edmonton, appena possibile si sono chiusi in studio dove sotto la guida di Grant Trippel hanno registrato i brani della loro rimusicazione, usando probabilmente anche delle basi provenienti dalle esibizioni live, come fa intendere la scarna nota di copertina.

Tragicamente tutto questo è accaduto nel febbraio del 2020, e non crediamo sia necessario dire altro riguardo a quell’anno e a quel mese, così il disco col Faust del gruppo canadese ha finito per veder la luce solo quest’anno, divenendo anche una sorta di omaggio della band al loro angelo custode discografico che nel 2022 ha compiuto sessant’anni.

Il lavoro, ha il pregio di non essere strettamente collegato alle immagini filmate a suo tempo da Murnau, anche se sarebbe interessante provare ad ascoltare la musica guardando il film, per apprezzare a fondo lo sforzo artistico di Graham Epp (guitar/keyboards/electronics/trumpet), Jesse Warkentin (guitar/keyboards/electronics), Scott Ellenberger (bass/keyboards/electronics/trumpet) e Andy Rudolph (drums/keyboards/electronics).

Dall’ascolto emergono tutte le caratteristiche della poliedrica formazione, da quella più rumoristica ed elettronica, a quella più dichiaratamente prog rock: ascoltate Dirge I, dalla prima parte, e troverete echi dei primi King Crimson, mentre Stoned I e Flying Carpet ci riportano ad atmosfere più spaziali a cui non mancano riferimenti ai Pink Floyd ma anche al Canterbury Sound, Smoky Reflection che apre la seconda parte del lavoro suona poi come un outtake di Dark Side Of The Moon, ma come avrete capito alla base di tutto ci sono le idee targate Mohagany Frog, adeguatamente colorate dalle tinte dark richieste dal tema del film. Tra i brani più intimi e accattivanti non si può non citare A Decision of The Flower, abbinato alla sequenza in cui Gretchen sfoglia ii petali di un fiore per determinare il suo amore per Faust.

Il tutto con gli strumenti abbinabili ai vari protagonisti, il piano elettrico è Gretchen, il basso e la batteria sono la voce di Belzebù. Le svisate di chitarra elettrica si possono ricondurre invece a Faust come fa intendere la breve Faust II che chiude il primo dei due dischi.

Faust è stato pubblicato anche in versione doppia in vinile, andata in esaurimento in un batter d’occhio ed è dunque disponibile ora solo in versione CD oi download sul sito bandcamp della Moonjune Records!

Paolo Crazy Carnevale

MASK OF CONFIDENCE – Mask Of Confidence

di Paolo Crazy Carnevale

1 gennaio 2023

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Mask Of Confidence (Ritmo & Blu/Moonjune Records 2022)

Una produzione quasi tutta italiana per questo disco distribuito dalla Moonjune: come sempre l’occhio e soprattutto l’orecchio di Leonardo Pavkovic sono rivolti alle musiche provenienti da ogni parte del globo e stavolta la sua etichetta ha dato credito ad un trio di musicisti non nuovi a chi segue le produzioni della piccola label che Pavkovic conduce da oltre un quarto di seguito con professionalità e buon gusto.

Mask Of Confidence è il titolo del disco e il nome del gruppo che annovera i produttori, polistrumentisti e compositori Fabio Trentini e Stefano Castagna e si completa con le percussioni e la voce di Jeff Collier (autore anche delle liriche).

I due musicisti italiani hanno dei curricula di notevole rispetto e da tempo conducono anche le sorti dello studio Ritmo & Blu, dove ha avuto la sua genesi e il suo sviluppo il lavoro che abbiamo tra le mani.

In principio il progetto denominato Mask Of Confidence si è evoluto con la prospettiva di diventare un disco strumentale, ma i due vulcanici musicisti ad un certo punto si sono domandati che cosa ne sarebbe venuto fuori se i brani fossero stati cantati, così da un primo abbozzo all’indirizzo di un prog strumentale molto evoluto e dai suoni ispirati alla musica dei Japan; visto però che il lavoro è rimasto in stand by per tutto il periodo acuto della pandemia, Fabio Trentini ha ben pensato di proporre all’amico e collaboratore Jeff Collier, a sua volta estimatore del gruppo di David Sylvian, di provare a pensare a delle liriche con cui completare i brani e farli diventare vere e proprie canzoni.

Collier ha naturalmente raccolto il guanto di sfida e il Mask Of Confidence che ora abbiamo tra le mani è un progetto ben definito in cui l’eredità dei Japan è più che tangibile, voci molto profonde, basso rotondo (pensiamo al breve strumentale Costa e alla corale Tooth And Nail), tappeti di tastiere e, last but not least, un piccolo parterre di ospiti titolati messi a disposizione dall’agenda dell’etichetta (attorno alla quale orbitano nomi di prima grandezza del panorama jazz rock fusion mondiale).

Incontriamo così la batteria di Pat Mastellotto (King Crimson, Stickmen), la touch guiter di Markus Reuter, artista fin tropo presente nelle produzioni Moonjune, a cui si aggiungono i fiati di Angela Kinczly e Giovanni Forestan.

Paolo Crazy Carnevale

DUO ATANASOWSKI – Libertè Toujours

di Paolo Crazy Carnevale

30 dicembre 2022

duo atanasovski

Duo Atanasowski – Libertè Toujours (Moonjune Records 2022)

Eccoci al cospetto di un’altra bella produzione di casa Moonjune, che nella seconda metà del 2022 ha sfornato una cospicua messe di dischi; a cavallo della pandemia, l’etichetta condotta da Leonardo Pavkovich ha trasferito la sua sede dalla caotica New York alle lande sperdute della Spagna, dove tra l’altro vengono registrati diversi lavori degli artisti connessi all’etichetta, ed ora sembra aver ripreso l’attività a pieno regime.

Vasko Atanasovski è un sassofonista sloveno che già da tempo è noto a chi segue le produzioni Moonjune, stavolta si presenta in questa versione in duo dove al suo fianco c’è il giovane figlio Ariel Vei, valente chitarrista e, soprattutto in questa sede, compositore di tutte le tracce presenti nel disco.

Il giovane artista sloveno, dopo essersi diplomato a Maribor, ha proseguito gli studi musicali dedicandosi al violoncello presso l’Accademia di Graz, in Austria.

Papà Vasko è invece una vecchia volpe, ha suonato con artisti di fama (dai Living Colour a Marc Ribot, a Tommy Emmanuel, giusto se volete qualche nome), ha fatto tour e inciso una quindicina di album di musica sua.

Ariel Vei ha composto i sette brani durante le varie quarantene dello scorso biennio, poi col padre si è chiuso in studio, proprio a Maribor, sul finire del 2021 e, facendosi accompagnare anche dal pianista Marko Churnchetz, dal bassista Jost Drasler e dal batterista Marjan Stanic, ha messo nero su bianco Libertè Toujours.

Il risultato è un piacevolissimo e fantasioso collage sonoro che mescola il jazz e la fusion con elementi classici immancabili, visti gli studi del nostro, e influenze mai esagerate di musica balcanica legata alle origini dei due Atanasovki.

Oltre a padre e figlio ha molta parte nella creazione sonora anche il piano di Churnchetz: Drevored, Orehi, Barve Sena sono brani in cui la musica scorre senza intoppi di alcun genere, libera, come suggerisce il titolo del disco, sempre. Balasa Za Soncen Dan è una composizione delicata, sorretta da arpeggi di chitarra acustica su cui il sassofono di Atanasovski padre si adagia comodamente ed il basso di Drasler può ritagliarsi un adeguato spazio solista, forse, anche per via della sua lunga struttura, il brano più affascinante del prodotto. Più breve e più di routine la fusion d’impronta latina di Vrane Na Prepihu, U2 è di nuovo una composizione molto articolata e lunga, con Ariel Vei quasi protagonista assoluto con la chitarra ed il violoncello. Un altro brano fondamentale del disco, che si chiude poi con la title track, che parte in maniera molto intima, con la chitarra acustica dell’autore su cui poi s’immettono gli altri comprimari, il padre in primis e il pianista, dando corpo alla traccia che si certifica come il brano più jazz del disco.

Paolo Crazy Carnevale