Archivio articoli per la categoria ‘Rock'n'Pop’

DAVID GILMOUR – Luck And Strange

di Paolo Baiotti

1 ottobre 2024

david

DAVID GILMOUR
LUCK AND STRANGE
Sony Music 2024

David Gilmour non è mai stato un autore prolifico, nè con i Pink Floyd post-Waters, né come solista. Gli ultimi tre album sono usciti a distanza di nove anni: On An Island nel 2006, Rattle That Lock nel 2015 e Luck And Strange nel 2024. Tra gli ultimi due c’è stato il Live At Pompeii nel 2017 in audio/video e poi la pandemia che ha sicuramente condizionato l’atmosfera e i testi del nuovo album, insieme a pensieri e riflessioni sul passaggio del tempo dovute all’inesorabile invecchiamento dell’artista che affronta a 78 anni il palco in questi giorni con sei date a Roma seguite da altre sei alla Royal Albert Hall, quattro a Los Angeles e cinque a New York. David non nasconde i suoi anni, basta guardare le foto del disco e quelle promozionali, così come non la nascondono i testi e la voce, indubbiamente invecchiata e un po’ stanca, ma il suono della chitarra è sempre distinguibile tra mille e anche da un punto di vista compositivo Luck And Strange regge piuttosto bene, anche se definirlo il miglior lavoro dopo Dark Side Of The Moon (parole di Gilmour) è un’evidente esagerazione. Per dare una rinfrescata ai suoni e avere un punto di vista non condizionato dall’ascolto dei Floyd, l’artista ha scelto il produttore Charlie Andrew (Alt J.) e ha rinnovato la band, affiancando al basso del fedelissimo Guy Pratt la strepitosa batteria di Steve Gadd, le tastiere di Rob Gentry e le percussioni di Adam Betts (che suona la batteria in tour) oltre all’orchestra guidata da Will Gardner, già collaboratore degli Alt-J, con qualche intervento al piano di Roger Eno. Ma la novità maggiore è il coinvolgimento non solo della moglie Polly, autrice dei testi, ma anche dei figli, iniziato durante il covid, soprattutto di Romany che è la sorpresa più positiva del disco.
Partiamo dalla title track posta in apertura dopo la breve introduzione strumentale di Black Cat: il brano (e il disco) nascono dalla bonus track del cd, la “original barn jam” suonata nel gennaio 2007 da David con Richard Wright alle tastiere, Guy Pratt al basso e Steve DiStanislao alla batteria, che si ritrovano qualche mese dopo il tour di On An Island chiuso a Gdansk il 26 agosto (concerto ripreso dall’eccellente Live In Gdansk). Questa jam strumentale di 14’ caratterizzata dal quieto dialogo tra le tastiere e la chitarra è la base di Luck And Strange, un rock bluesato e melodico con un testo sulle speranze tradite della generazione di David, chiuso da un assolo tanto efficace quanto essenziale. The Piper’s Call ha un inizio acustico, una parte cantata melodica e un finale indurito con un suono che ricorda i Floyd dell’ultimo periodo. Da notare la presenza non invadente dell’orchestra, del coro degli Angel Studios e i controcanti dei figli Romany e Gabriel. Si prosegue con A Single Spark, ballata sognante con un testo dal sapore mistico, dei suoni inconsueti per Gilmour (qui si sente la mano di Andrew) e un break di chitarra emozionante. Lo strumentale Vita Brevis introduce l’arpa di Romany Gilmour, protagonista alla voce solista di Between Two Points, cover di un brano del duo dei Montgolfier Brothers intepretata splendidamente dalla ragazza, dotata di una voce dolce e accattivante. L’oscura, orchestrale e poderosa Dark And Velvet Nights richiama i Floyd di The Division Bell senza convincere fino in fondo, a differenza della nostalgica e malinconica Signs sull’amore e sulla difficoltà di affrontare il distacco e della conclusiva Scattered, scritta con il figlio Charlie e Polly, che ha un inizio lento quasi sospeso, un break drammatico pianistico e orchestrale, una ripresa del cantato che sfuma in un assolo di chitarra dapprima acustico, poi elettrico, maestoso e floydiano fino al midollo, prevedibile e irresistibile allo stesso tempo. Il cd aggiunge una seconda bonus track, la tenue ballata folk Yes, I Have Ghosts, già pubblicata in streaming durante la pandemia, cantata in coppia con Romany.
Luck And Strange non è un capolavoro, ma un disco affascinante con alcune tracce di notevole livello.

Paolo Baiotti

ANDY ALEDORT – In A Dream

di Paolo Baiotti

11 settembre 2024

andy

ANDY ALEDORT
IN A DREAM
Long Song Records 2024

Andy Aledort è uno di quei musicisti molto apprezzati dai colleghi, ma poco conosciuti al di fuori di una nicchia. Nel 2009 ha pubblicato Put A Sock On It, l’esordio solista con The Groove Kings, ristampato recentemente dalla Long Song Records, seguito da un disco dal vivo e qualche anno dopo dal doppio Light Of Love, dischi autoprodotti difficilmente reperibili. Dal 2005 al 2014 è stato al fianco di Dickey Betts nei riformati Great Southern dopo il suo allontamento dalla Allman Brothers Band, spalleggiando il fumantino chitarrista e il figlio Duane in un trio di solisti di primo piano, come si può rilevare ascoltando ad esempio il doppio The Official Bootleg (Evangeline 2007) o l’altro doppio The Canyon Club Agoura Hills (Dickey Betts 2016). Ha anche partecipato a parecchi tour in tributo a Jimi Hendrix, ma la sua attività principale è quella didattica, avendo pubblicato numerosi dvd di istruzioni per chitarristi. Inoltre ha scritto per anni su Guitar World, dove ha intervistato colleghi come Stevie Ray Vaughan (è anche coautore di un libro su di lui con Alan Paul), Jeff Beck, Leslie West e Johnny Winter. Fortunatamente si è accorta di lui la nostrana Long Song Records del produttore Fabrizio Perissinotto che gli ha proposto di incidere un nuovo album solista con musicisti del giro della J & F Band: il bassista Joe Fonda, il batterista Tiziano Tononi, il sassofonista Jon Irabagon e il tastierista Pee Wee Durante, mettendogli a disposizione per due giorni lo studio Firehouse 12 a New Haven. Il risultato è un disco per amanti della chitarra, ma non solo, perché Andy se la cava anche dal punto di vista vocale e compositivo ed è riuscito a inserire tutte le sue principali influenze (J. Hendrix, Beatles, F. Zappa, J. Scofield, E. Clapton, S.R. Vaughan) destreggiandosi con personalità e in scioltezza tra blues, rock e jazz.
Il titolo si riferisce all’affermazione dell’artista che tre brani strumentali gli siano arrivati in sogno: Hymn che gli è comparso come una canzone suonata dalla Allman Brothers Band, una ballata romantica con echi indubbi del suono della grande band della Georgia in cui spiccano i momenti solisti di Andy, Jon e Pee Wee all’Hammond, Cotton Sham Melodies invece durante un’immaginaria jam con Sam The Sham dei Pharaos che può ricordare il jazz-rock dei Weather Report e In A Dream, come recita il titolo, morbido e raffinato. Oltre a questi strumentali Andy ha scelto tre cover e due brani autografi. Lawdy Mama è un tradizionale blues degli anni trenta riproposto seguendo la versione dei Cream con una chitarra potente e un intenso inserimento del sax, Can’t You See What You Are Doing To Me di Albert King è un funky-blues eseguito in modo esuberante con un primo assolo deflagrante e distorto di Andy, uno spazio solista per le tastiere di Durante, un secondo assolo bluesato dell’ospite David Grissom (Joe Ely, John Mellencamp) seguito dall’entrata del sax e dal ritorno della chitarra di Andy in una girandola di improvvisazioni prorompenti, Pali Gap una travolgente esecuzione jammata del brano di Jimi Hendrix, suggerito da Perissinotto, con una lunga introduzione e inserimenti ben dosati di un sax jazzato e dell’organo, con la batteria di Tononi spesso in controtempo. Le ultime due tracce strumentali composte dal chitarrista sono la robusta Passengers, la meno significativa del disco e Moonwaves che si muove tra rock e jazz con richiami zappiani.
Complimenti all’etichetta milanese per la produzione attenta e per il coraggio di proporre un musicista e uno stile che non sono sicuramente di moda, come d’altronde le altre pubblicazioni della label, contraddistinte dall’amore per l’improvvisazione.

Paolo Baiotti

ALICE HOWE – Circumstance

di Paolo Crazy Carnevale

25 agosto 2024

alice howe

Alice Howe – Circumstance (Knowhowe 2023)

Gran disco per questa giovane singersongwriter che si accompagna (e si fa accompagnare) nei suoi tour da un veterano del calibro di Freebo, leggendario bassista di Bonnie Raitt. Dotata di una bella voce, di un talento compositivo interessante che si rifà alla miglior scuola della canzone d’autore americana degli anni settanta, portando in dote una freschezza tutta sua.

A farla elevare sulla moltitudine (da anni abbiamo smesso di tenere il conto dei giovani autori sfornati dalla scena americana) è in questo caso, e senza dubbio alcuno, la produzione di Freebo che per la sua pupilla estrae dalla manica le sue entrature in uno degli studi più storici del mondo, quel FAME recording Studio in cui l’acronimo sta per Florence Alabama Music Enterprises, con annessi e connessi musicisti che vi orbitano attorno.

Ecco così le convincenti canzoni della Howe vestite del giusto e meritato abito che la suddetta location può garantire, senza effetti speciali, senza strafare: va da sé, chi bazzica oggi i FAME non sono gli stessi che vi suonavano nella seconda metà degli anni sessanta, ma il risultato è quello, perché oltre ai musicisti, il segreto di quei posti sta nel pigro scorrere del fiume Tennessee tra le particolari anse, un pigro scorrere che crea l’atmosfera, lo spirito inconfondibile che ha dato lustro a dischi di gente come Aretha Franklin, Wilson Pickett, Boz Scaggs, Cher, persino dei Rolling Stones e di Bob Dylan, passando per Rod Stewart, Bob Seger, Paul Simon.

Uno spirito che ci viene riconsegnato intatto dal disco di Alice Howe, a partire dall’iniziale You Been Away So Long, un brano che ci precipita subito nel mood giusto ordito da Freebo (che è coautore di buona parte del materiale) per questo disco; Somebody’New Lover Now è ancora meglio, col suo sound sospeso, ben studiato ed eseguito a puntino. La lezione dei cantautori che Alice ama, da Jackson Browne a Joni Mitchell è tutta qui, mandata a memoria come si deve e ben messa a frutto.

Il basso del producer/godfather è sempre immenso, uno dei bassi elettrici col suono più bello che si possa desiderare, a suonare le chitarre ci sono Will McFarlane, un altro veterano che come Feebo è stato una delle colonne portanti della band di Bonnie Raitt negli anni d’oro, e il più giovane Jeff Fielder, ex accompagnatore di Mark Lanegan.

Le tastiere sono ben affidate alle dita di Clayton Ivey, vecchia gloria degli studi dell’Alabama (era negli Alabama State Troopers con Don Nix e Jeannie Greene nei primi anni settanta, in un live indimenticabile.

Le canzoni si susseguono senza calo di tensione, Let Go e Love Has No Rules, l’acustica e lenta Things I’m Not Saying a cui fa seguito l’energia di What About You con i cori ad opera di Freebo in un refrain contagioso attraversato dalla sapienza del tastierista che sorregge tutta la composizione, una delle migliori del disco. Chitarre acustiche, cori da piantagione di cotone, elettriche dal suono paludoso sono alla base delle atmosfere southern indotte da Something Calls To Me in cui dal sottofondo emerge la slide suonata da Fielder. Una robusta sezione fiati e cori rhythm’n’blues sono invece il biglietto da visita della contagiosa With You By My Side, sorretta dal preciso drumming di Justin Holder, nativo di Florence che tra i molti dischi a cui ha preso parte annovera almeno la perla di quello di Jon Langford (Waco Brothers) col progetto Four Lost Souls.

Line By Line è un brano lento, tutto supportato dalla voce di Alice, poi le atmosfere paludose fanno di nuovo capolino in Travelin’ Soul, facendosi strada tra slide e Wurlitzer. Chiude il disco la riflessiva It’s How You Hold Me, con attacco acustico, giusto chitarra e voce e gli strumenti che arrivano un po’ alla volta, a cominciare dallo splendido basso di Freebo e con le chitarre di McFarlane e Fielder che giocano sui due canali (come avviene anche in altri brani del CD).

Paolo Crazy Carnevale

JOE ELY AND BAND – Fighting The Rain

di Paolo Baiotti

5 agosto 2024

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JOE ELY AND BAND
FIGHTING THE RAIN
New Shot Records 2024

In una piovosa e tempestosa giornata di ottobre del 1993 Joe Ely arriva in Italia per l’esordio nel nostro paese. Il concerto, organizzato dal compianto Carlo Carlini, previsto originariamente nella Sala Marna di Sesto Calende, viene spostato all’ultimo momento a causa dell’esondazione del Ticino. In breve, si trova un’alternativa nel disco pub Sinatra’s di Vergiate a pochi km. di distanza. In un’epoca pre-internet il pubblico viene indirizzato da un cartello a spostarsi nel pub e comunque il problema viene risolto. Così Joe si presenta con una delle sue migliori band per quello che verrà ricordato come uno degli esordi più brillanti di un musicista roots nel nostro paese. L’esplosiva chitarra elettrica di David Grissom, che in quel momento si divideva tra Ely e John Mellencamp, il basso di Glen Fukunaga e la batteria di Davis McLarty accompagnano come meglio non si potrebbe il cantautore texano che, dopo l’eccellente Live At Liberty Lunch, aveva pubblicato nel ’92 Love And Danger per la MCA ed è al meglio delle sue potenzialità vocali. Da questo disco provengono il poderoso rock Settle For Love e il trascinante country-rock The Road Goes On Forever (Robert Earl Keen) ripreso anche dagli Highwaymen due anni dopo. Da Lord On The Highway dell’87 sono estratte tre canzoni: la splendida ballata western Raw Of Dominoes dell’amico Butch Hancock con impasti elettroacustici e Grissom protagonista di un paio di assoli esemplari, l’epico romanzo texano di Me and Billy The Kid e la ballata Letter To L.A. che quasi si ferma prima che la chitarra di Grissom, raramente così incisiva, la trasformi letteralmente nella sezione strumentale. Dall’omonimo esordio del ’77 provengono due altre gemme di Butch Hancock: She Never Spoke Spanish To Me e la morbida If You Were a Bluebird (preceduta dal saluto di Ely, emozionato per la sua prima data italiana) in una versione molto ispirata. E come non citare la bluesata Dallas di Jimmy Dale Gilmore, già suonata nel ’72 con i Flatlanders, il gruppo di Ely, Gilmore e Hancock, autore anche della ruvida Boxcars dove le chitarre di Ely e Grissom suonano all’unisono prima del crescendo irresistibile guidato da David.
Questo disco ha un unico difetto: dura poco più di 50’ e quindi ripropone solo una metà del concerto, in parte per motivi tecnici, in parte per richiesta di Ely che, entusiasta dell’ascolto del nastro, ne ha autorizzato la pubblicazione con l’eccezione di un brano giudicato di argomento troppo delicato. La qualità sonora è eccellente per cui non possiamo che ringraziare la label italiana New Shot Records che sta riproponendo prezioso materiale d’archivio di cantatutori rock e folk americani, quei “beautiful losers” amati da una nicchia di fedelissimi.
Quanto a Joe, tre anni dopo l’esordio italiano, primo di numerosi tour nel nostro paese, pubblicherà il suo capolavoro Letter To Laredo seguito da Twistin’ in The Wind, chiudendo il suo decennio probabilmente più ispirato.

Paolo Baiotti

WILLIE NILE – Live At Daryl’s House Club

di Paolo Baiotti

5 agosto 2024

album wn

WILLIE NILE
LIVE AT DARYL’S HOUSE CLUB
River House Records 2024

I dischi dal vivo più recenti del cantautore di Buffalo sono l’eccellente Live From The Streets Of New York del 2008 e l’autoprodotto Hard Times In The UK del 2010. Dopo più di 10 anni è il turno di un nuovo live registrato al Daryl’s House Club di Pawling, NY che non ha brani in comune con il primo citato e solo due con il secondo. Una scelta intelligente, che privilegia gli album in studio pubblicati successivamente, con l’eccezione di un paio di tracce ripescate dallo scorso millennio. Come qualità di scrittura il disco del 2008 è superiore e anche la band sembra avere qualcosina in più, ma Willie rimane un cantante vivo ed entusiasta, una persona positiva che trascina il pubblico con la sua carica punk-rock mischiata alla penna cantautorale.
La carriera di Nile è stata molto particolare e poco fortunata nei primi anni: dopo l’omonimo brillante esordio dell’80 e il seguente Golden Dawn, pubblicati dalla Arista mentre frequentava assiduamente il CBGB a New York apprezzando Patti Smith, Television e Ramones, sembrava uno degli astri nascenti del cantautorato folk-rock, invece problemi legali con la casa discografica lo hanno bloccato per un decennio. E’ tornato nel ’91 con Places I Have Never Been per la Columbia, ma anche questo contratto è sfumato rapidamente e ha ripreso a pubblicare dal ‘99, questa volta con regolarità e in modo indipendente, con Beautiful Wreck Of The World, riconquistando una posizione di rispetto almeno per un pubblico di nicchia che ha continuato a seguirlo con passione, ricambiata dall’artista che nel nuovo millennio ha inciso una decina di dischi in studio, alcuni ottimi come Streets Of New York, The Innocent Ones e American Ride.
L’attuale formazione del suo quartetto comprende il fedelissimo bassista Johnny Pisano, il chitarrista Jimi K. Bones e il batterista Jon Weber. L’epica Places I Have Never Been apre la serata, seguita da una bruciante This Is Our Time dove si sente l’influenza punk, dall’intenso rock di Black Magic And White Lies dal terzo album e dalla cadenzata Earth Blues sul cambiamento climatico. Il mid-tempo Lost And Lonely World è il primo di tre brani tratti da New York At Night del 2020; gli altri due sono la punkeggiante title track e la trascinante Run Free, posta quasi in chiusura. A metà disco Willie piazza l’unica ballata pianistica, la commovente Shoulders da Golden Dawn in cui spiccano la sua solida voce e la chitarra solista di Bones. Tra gli altri brani segnalerei la recente Wake Up America, singolo del 2022 (con ospite Steve Earle), un accorato invito a risvegliarsi, a votare e a trattarsi con rispetto e due inni rock che non mancano mai nei suoi spettacoli: House Of A Thousand Guitar e la travolgente One Guitar che chiude un concerto che conferma la forza e la caparbietà di questo artista che all’anagrafe segna 76 primavere, ma sul palco ne dimostra parecchie in meno.

Paolo Baiotti

JJ GREY & MOFRO – Olustee

di Paolo Baiotti

16 luglio 2024

olustee

JJ GREY & MOFRO
OLUSTEE
Alligator 2024

John Higginbotham, meglio conosciuto come ‘JJ Grey’ ha formato i Mofro a metà degli anni novanta con il chitarrista Daryl Hance. Entrambi domiciliati a Jacksonville in Florida hanno firmato il primo contratto nel 2001 con la Fog City esordendo con Blackwater. Sin dal titolo di questo disco è evidente l’ispirazione dei luoghi vissuti dal cantante (il Blackwater River e lo State Park che lo circondano), un tema che ritorna spesso nelle sue canzoni, come Lochloosa (un lago nel cuore della Florida) e On Palastine. Nel 2010 Hance viene sostituito da Andrew Trube, senza scossoni. Dopo cinque dischi con la Appaloosa JJ passa alla Provogue per Ol’ Glory del 2015, mantenendo lo stile che lo caratterizza tra rhythm and blues, southern soul e blues con un pizzico di southern rock, ideale per la sua voce soul potente, espressiva e modulata. Poi è seguita una lunga pausa finalmente interrotta da Olustee, titolo riferito al luogo della più grande battaglia della guerra civile americana in Florida a 80 km. da Jacksonville.
Che cosa è cambiato in questi nove anni in cui comunque la formazione ha continuato a suonare percorrendo gli Stati Uniti, soprattutto il sud, con qualche puntata in Giappone ed Europa (Italia esclusa ovviamente)? Parecchio nella band in cui rimane solo Todd Smallie al basso oltre ai due trombettisti, mentre alla batteria siede Craig Barnett, la chitarra passa a Pete Winders e le tastiere a Eric Brigmond, con nuovi membri anche al sax, trombone e cori, poco nella musica che segue le coordinate preferite da Grey, sempre più leader e per la prima volta anche produttore dell’album inciso come al solito nello studio Retrophonics di Saint Augustine dell’ingegnere del suono Jim Devito e pubblicato nuovamente dalla Alligator dopo la parentesi con la Provogue. Il cantante continua a raccontare storie della sua regione, di mitici personaggi locali, delle foreste e dei fiumi che lo circondano e che ama profondamente, nonché storie personali di successi e sconfitte, speranze e desideri, con l’intenzione di trasmettere un messaggio di rispetto per la natura e per le persone. Da anni impegnato in una fondazione che si occupa di proteggere l’habitat ittico delle coste della Florida, Grey riesce a dare con la sua musica un’impressione di sincerità e autenticità, anche per merito di una voce che è sicuramente tra le migliori del Sud.
L’iniziale ballata The Sea inserisce la novità di un avvolgente arrangiamento orchestrale della Budapest Symphony Orchestra che ritorna nella chiusura di Deeper Than Belief, ma con Top Of The World si passa a un nervoso funky-soul con le coriste che si contrappongono alla voce di JJ e i fiati protagonisti del break solista, seguito dalla notevole ballata On A Breeze profumata di gospel e dal rock incalzante della title track che ricorda nel testo gli incendi che nel ’98 danneggiarono l’est della Florida, irrobustita da una chitarra incisiva e dall’armonica di JJ. L’unica cover è una sontuosa ripresa della ballata Seminole Wind del cantante country John Anderson che la pubblicò sull’omonimo album del ’92, una canzone che critica la distruzione della natura per fini economici, arrangiata con le trombe in primo piano nel break solista. Il continuo saliscendi dovuto all’alternanza di tracce ritmate e lente prosegue con il trascinante errebi Wonderland seguito dalla morbida e raffinata Starry Night, con la pressante Free High che ricorda Sly & The Family Stone seguita dalla sofferta ballata soul Waiting in cui la voce è veramente al top, per terminare con il funky fiatistico di Rooster irrorato dalla chitarra solista e l’orchestrale Deeper Than Belief, traccia sofferta con il sorprendente flauto di Kenny Hamilton.
A questo punto l’importante è che non passino altri nove anni prima del prossimo album!

Paolo Baiotti

SLASH – Orgy Of The Damned

di Paolo Baiotti

5 giugno 2024

slash

SLASH
ORGY OF THE DAMNED
Snakepit/Gibson 2024

Non lasciatevi fuorviare dall’immagine da teppistello di Slash, dal suo percorso con i Guns N’ Roses, dal titolo o dalla copertina più appropriati per un disco di trash metal! Orgy Of The Damned è un eccellente disco di rock-blues come ne ascolterete pochi quest’anno. Nato a Londra, ma residente da sempre a Los Angeles, Saul Hudson non è più un ragazzino (classe 1965). Dopo gli anni turbolenti e di successo planetario con i Guns N’ Roses, il periodo con i Velvet Revolver, la carriera solista con i Conspirators e il ritorno con i Guns nel 2016, è riuscito a trovare lo spazio per un progetto che aveva da tempo voglia di completare, un disco di blues e rhythm and blues con ospiti cantanti di diversa provenienza. Già nel ’96 aveva formato gli Slash’s Blues Ball, attivi per un paio di anni, che comprendevano il bassista Johnny Griparic e il tastierista Teddy Andreadis, recuperati per le incisioni di questo album. D’altronde nella sua carriera Slash ha collaborato con artisti come Michael Jackson, Bob Dylan, Lenny Kravitz, Carole King, Alice Cooper e Rihanna, per citare i più famosi ed è molto più versatile di quanto si possa pensare. Con l’amico Mile Clink alla produzione, il batterista Michael Jerome (Richard Thompson, John Cale, Charlie Musselwhite) e il cantante/chitarrista Tash Neal a completare il gruppo in studio, il chitarrista ha scelto una decina di brani storici di blues e soul incidendo principalmente a Los Angeles nel suo studio e negli East West Studios. Il suono è in equilibrio tra rock e blues, senza esagerazioni a parte un paio di occasioni e le voci sono state scelte con cura. Partiamo con le presenze inevitabili o quasi: Paul Rodgers fa il suo dovere in scioltezza in Born Under A Bad Sign e non c’erano dubbi al riguardo, come Beth Hart in una sofferta e potente Stormy Monday e Gary Clark Jr. in una Crossroads esplosiva e rallentata nel break strumentale in cui oltre alla voce aggiunge la sua chitarra. Nulla da dire sulla voce rugosa e sulla chitarra del maestro Billy Gibbons in una ruvida Hoochie Coochie Man e su Chris Robison che interpreta alla grande The Pusher di Hoyt Axton, una canzone sulla droga famosa nella versione degli Steppenwolf datata 1968. Le sorprese positive iniziano con Chris Stapleton che mette la sua voce potente e ruvida al servizio di Oh Well di Peter Green, proseguono con la giovane cantante Dorothy Martin alla quale viene affidata Key To The Highway, con Iggy Pop in veste di crooner nella morbida ed elettroacustica Awful Dream di Lightnin’ Hopkins scelta dall’iguana, con Demi Lovato in un’indiavolata Papa Was A Rolling Stone (The Temptations) e Brian Johnson che dimentica gli sforzi vocali ai quali è costretto con gli Ac/Dc, rilassandosi in una notevole Killing Floor in cui spunta anche l’armonica di Steven Tyler. Mancano all’appello Living For The City (Stevie Wonder) affidata alla voce soul di Tash Neal e lo strumentale Metal Chestnut scritto dal chitarrista, che chiude egregiamente un disco decisamente riuscito.
Slash ha organizzato anche il S.E.R.P.E.N.T. Blues Festival che girerà negli Stati Uniti questa estate con fini benefici; parteciperanno tra gli altri la Warren Haynes Band, Keb’ ‘Mo, Kingfish Ingram, Robert Randolph, Samantha Fish e le Larkin’ Poe.

Paolo Baiotti

SAFARI SEASON – Forevermoor

di Paolo Baiotti

12 maggio 2024

forevermmor

SAFARI SEASON
FOREVERMOOR
Paraply Records 2023

Anders Lindgren (chitarra, tastiere, pecussioni, cori) ha iniziato la sua carriera come musicista punk a Karlstad nell’ovest della Svezia, militando in una band di culto. Poi si è spostato a Stoccolma formando il gruppo 99th Floor che ha ottenuto buoni riscontri in patria, suonando nei festival più importanti e pubblicando due singoli. Lars Ryen (voce solista, tastiere) ha vissuto da giovane a Torsby, una cittadina nell’ovest della Svezia. Dopo avere militato nei The Productions, ha formato i Touch, complesso pop che è stato trasmesso da numerose radio locali, quindi ha raggiunto gli Staten, formazione di musica e teatro e contemporaneamente ha aggregato The High Life. In seguito ha aperto un negozio di dischi, The Beat Goes On, dove ha conosciuto Lindgren, con il quale ha creato il duo Lynden-Rye che successivamente ha cambiato nome in Shaved e infine di Safari Season a metà degli anni novanta. Dopo parecchi anni, hanno esordito con The Sounds Of the Sun nel 2002, seguito da parecchi EP e singoli e da un secondo album.
Forevermoor è il loro terzo disco, pubblicato in vinile e cd, nel quale sono aiutati da un altro musicista che si può considerare come un membro esterno della formazione, il polistrumentista e produttore esecutivo Daniel Gullo (basso, batteria, tastiere e chitarra) e da numerosi session-men. I dieci brani scritti da Ryen e Lindgren e arrangiati con Gullo sono riconducibili ad un pop-rock melodico con qualche traccia glam e psichedelica, parti vocali molto curate e avvolgenti.
L’apertura Running Free è un rock intenso che viene ripreso in una seconda versione più breve, quella del singolo, in chiusura della scaletta. Quindi si passa dalla sognante e corale Silver Stream, Golden Dream profumata di sixties alla maestosa Nowhere On The Run indurita dalla chitarra, dalla rilassata Peaceful che ricorda i Beach Boys, arrangiata con la tromba di Magnus Berg e gli archi come l’orchestrale Listen To The Wind alla riflessiva This Gentle Night, con una preferenza per impressioni e sensazioni quiete e malinconiche. Darkness Queen alza il ritmo, ma l’elettroacustica A New Future lo riabbassa con le sue atmosfere che sfiorano il prog nella prima parte che precede un’accelerazione più grintosa. Da segnalare anche la title track, up-tempo brillante e trascinante che conferma la preferenza del duo per un pop confezionato con cura.

Paolo Baiotti

AA.VV. – Live From The Archives Vol. 3: Music Is Love

di Paolo Baiotti

12 maggio 2024

music is love

AUTORI VARI
LIVE FROM THE ARCHIVES VOL. 3: MUSIC IS LOVE
Route 61 Music 2024

Nel 2012 la label romana ha pubblicato il pregevole doppio Music Is Love “a singer-songwriters tribute to the music of CSN&Y”. A dodici anni di distanza questo terzo volume proveniente dagli archivi si può considerare collegato al precedente, trattandosi di un concerto/tributo a David Crosby, il grande cantautore californiano che ci ha lasciato nel gennaio del 2023.
Nell’ambiente intimo del Mammut Live Club di Roma si sono ritrovati il 7 ottobre del 2023 colleghi e amici di David guidati da Jeff Pevar, co-fondatore del trio CPR (Crosby, Pevar, Raymond) nonché collaboratore di CSN e dalla moglie Inger Nova Jorgensen. Tra gli altri partecipanti il cantautore americano Marcus Eaton, considerato da Crosby uno degli autori emergenti del nuovo millennio, la Deja Vu Band di Stefano Frollano e Claudio Maffei, i Rawstars di Francesco Lucarelli (che conosce e collabora con Pevar dal ’93) e il cantante soul-jazz romano Joe Slomp. Nei 13 brani scelti per il cd si alternano tracce soliste, delle collaborazioni in varie forme con Nash, Stills e Young e dei CPR, formando un ritratto in musica che comprende tutte le sfaccetture dell’arte di Crosby tra elettrico e acustico, rock, folk e jazz, con testi poetici e intimi intrisi di spiritualità.
L’apertura elettrica d’impatto di Long Time Gone con Pevar alla voce e chitarra solista insieme a Frollano è sfumata da The Lee Shore interpretata con sapienza da Maffei e dagli strumentisti e dalla bluesata Little Big Fish tratta dal repertorio dei CPR. Marcus Eaton esegue da solo l’eterea Slice Of Time, che ha composto con Crosby per l’album Croz e l’impegnativa Find A Heart dallo stesso album, mentre a Joe Slomp con i Rawstars è affidata la scorrevole ballata River Rise, il brano più recente proveniendo da For Free del 2021, dove era stata interpretata con Michael McDonald (ex Doobie Brothers). Marcus presenta Tracks In The Dust definendola una delle sue preferite e la suona con il prezioso aiuto di Jeff all’acustica. Le armonie vocali sono molto curate come è doveroso trattandosi di Crosby: lo confermano Triad che David presentò ai Byrds ma che fu pubblicata per primi dai Jefferson Airplane, eterea nella parte cantata e velocizzata nella parte centrale da una jam jazzata e la ballata corale Delta resa con cura da Maffei alla voce solista con un intenso finale chitarristico. In chiusura la pianistica Bittersweet con Marcus alla voce e una notevole sezione strumentale, l’inno Almost Cut My Hair da Deja Vu e l’energica It’s All Coming Back To Me Now scritta da Pevar e Crosby, affidata al suo coautore con l’accompagnamento dei Rawstars, completano un tributo decisamente riuscito.

Paolo Baiotti

STEVE YANEK – September

di Paolo Baiotti

23 aprile 2024

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STEVE YANEK
SEPTEMBER
Primitive Records 2023

Emergere nel mondo della musica non è facile, questo lo sappiamo tutti. Spesso ci vogliono molta pazienza, fiducia e forza…e magari si resta lo stesso delusi! Steve Yanek, originario di Youngstown in Ohio anche se da tempo residente nelle campagne della Pennsylvania, aveva esordito positivamente nel 2005 con Across The Landscape e sembrava destinato ad un futuro di un certo interesse. Invece, nonostante buone recensioni e l’aiuto di nomi illustri (Jeff Pevar, Rod Morgenstein, T. Lavitz) il disco è stato rapidamente dimenticato. Tuttavia Steve, dotato delle caratteristiche sopra citate, non ha mollato: dapprima ha fondato la Primitive Records, ha lavorato come manager, formato una band e organizzato uno studio di registazione. Dopo parecchi anni di pausa è tornato con Long Overdue nel 2022, inciso durante la pandemia e prodotto da Jeff Pevar (CPR) che ha anche collaborato strumentalmente, riunendo tracce vecchie e nuove tra rock e country, Tom Petty e Jackson Browne, Eagles e Merle Haggard.
Con September invece, confortato dalla positiva accoglienza di Long Overdue che ha ottenuto buoni piazzamenti nelle classifiche indipendenti di settore, Steve ha deciso di fare tutto da solo: ha inciso dieci canzoni nuove presso il suo studio, suonando ogni strumento e ispirandosi ad Emmitt Rhodes, cantautore e polistrumentista considerato da molti “the One Man Beatle” per le sue incisioni in solitaria debitrici dei Fab Four, morto nel 2020. In realtà questo disco era già pronto quando è uscito il precedente, ma giustamente Steve ha atteso qualche mese separando i due progetti.
September è un album molto melodico come dimostrano la scorrevolezza pop di Summer Days, il country-pop di I Could Use A Little Rain che ricorda gli Eagles, il rock addolcito di Catch My Fall, l’incedere leggero e un pizzico malinconico di Count Every Moment, la tenerezza dell’autobiografica Carousel che racconta il primo incontro con la moglie, la dolcezza di You Know It’s Right, la brillantezza dell’apertura rock di Begin Again e l’ottimismo del testo della title track posta in chiusura.
September ondeggia con grazia e leggerezza tra pop, rock e Americana, dimostrando le qualità di un autore, cantante e valido polistrumentista meritevole di essere ascoltato.

Paolo Baiotti

WENDY WEBB – Silver Lining

di Paolo Baiotti

18 aprile 2024

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WENDY WEBB
SILVER LINING
Spooky Moon Records 2023

Abbiamo già scritto di Wendy Webb nel 2016 recensendo il suo quarto album This Is The Moment. Cantautrice dell’Iowa residente a Sanibel Island in Florida, ha iniziato la sua carriera discografica nel 2004 con Morning In New York, seguito da Moon On Havana (ispirato da un viaggio a Cuba) e da Edge Of Town nel 2012. Nel 2017 ha pubblicato Step Out Of Line che ha ottenuto recensioni positive confermando l’impressione di una cantante dalla voce folk/pop calda, morbida e melodica, accompagnata da una musica che si muove con eleganza tra pop, jazz e blues, avvicinabile nello stile a grandi artiste come Carole King, Laura Nyro, Joni Mitchell, Carly Simon e Norah Jones. Valente cantante e sensibile pianista, afficancata come sempre da John McLane (fiati, archi, batteria, basso, tastiere, chitarre) e Danny Morgan (bongo, chitarra, percussioni) che hanno anche prodotto il disco registrato da McLane, Wendy torna dopo qualche anno di pausa con Silver Lining, un album molto orecchiabile e sosfisticato che sembra destinato a un pubblico più maturo, pur confermando le coordinate musicali del passato tra folk, jazz, pop e blues. La registrazione è stata rallentata e complicata dalla pandemia e da un uragano che ha colpito l’isola di Sanibel, distruggendo anche la casa che condivide con il marito, lo scrittore Randy Wayne White, ma risparmiando lo studio di registrazione.
Seppure composto da brani in parte un po’ troppo leggeri per le nostre orecchie, Silver Lining si lascia ascoltare senza sbalzi, a partire dalla sognante ballata pianistica This Is Love, proseguendo con la latineggiante e rilassata Old Blue Panama, alzando un po’ il ritmo con il soft-rock di Gonna Treat You Right e rallentandolo di nuovo per una cover pianistica di I’ve Grown Accustomed To Your Face da My Fair Lady, interpretata con classe e sensibilità dalla Webb sia vocalmente che al piano. Tra i brani successivi si apprezzano la notturna Timeless Love che ricorda vocalmente Carole King, la mossa I’ve Never Been To Argentina, la romantica Rhythm Of Your Love con il sax di McLane e un’altra interpretazione vocale notevole e la suadente Children On The Blue dedicata al padre, per finire con la ritmata Silver Lining.

Paolo Baiotti

I SHOT A MAN – Dues

di Paolo Baiotti

11 aprile 2024

dues

I SHOT A MAN
DUES
Bloos Records 2024

Ho ascoltato per caso questo trio torinese come spalla di Dany Franchi e Alberto Marsico al Festival del Blues del Magazzino di Gilgamesh e ne sono rimasto favorevolmente colpito. Appena è uscito il loro secondo album me lo sono procurato, non avendo potuto assistere al concerto di presentazione del disco. Sul loro sito scrivono: “gli I Shot A Man nascono nel 2014, dall’ostinazione di riprendere il blues delle origini e di suonarlo come fosse nato oggi. Le materie prime sono di prima scelta: chitarre elettriche, acustiche, resofoniche, batteria degli anni ’40, impreziosita da cucchiai e assi per lavare i panni, voce a metà tra il crooner e il musicista di strada. Il risultato è un suono essenziale, incompleto, che pensa al mondo in cui il blues è nato, quando gli strumenti erano pochi e arruginiti”.
Può sembrare un’ambizione esagerata, invece i ragazzi suonano proprio così! Nel 2022 hanno partecipato all’International Blues Challenge a Memphis, tre anni dopo avere pubblicato l’esordio Gunbender grazie ad un crowfunding. Poi hanno iniziato a pensare a Dues, molto più ragionato del precedente, prodotto e registrato da Manuel Volpe nel suo studio Rubedo a Torino.
Manuel Peluso (voce e chitarra), Domenico De Fazio (chitarra solista e voce) e Simone Pozzi (batteria e voce) compongono il trio che non ha un bassista e sono anche gli autori di nove dei dieci brani dell’album. Ovviamente il loro nome è un riferimento a un famoso brano di Johnny Cash (Folsom Prison Blues) e già questo denota una scelta di campo. Ma è soprattutto la musica che colpisce: il suono è antico e contemporaneo nello stesso tempo, parte dalla tradizione, ma la rielabora tenendo conto dello stile essenziale dell’Hill Country Blues del Mississippi, dell’approccio dei Black Keys o di certe cose di Jack White, senza dimenticare accennni di world music.
La spigolosa e cadenzata Arnold Wolf, uscita anche come singolo, richiama proprio i Black Keys con una chitarra ficcante e riusciti intrecci vocali, seguita da un’incisiva cover di Moaning At Midnight di Howlin’ Wolf con l’armonica di Tom Newton, dall’old style raffinato di Contemplation Blues e dal profumo d’Africa della notevole Desert Room. Toccando ogni aspetto ricollegato al blues senza essere degli integralisti, si prosegue con il boogie Left Eye in cui spicca una slide sofferta, con la morbida Annie Goodheart che si apre ad un sorprendente finale corale e con Thieves, quasi sospesa con il suo ritmo lento e una coralità gospel dovuta anche all’aggiunta delle voci di Alice Costa e Ilaria Audino. Nel finale la deliziosa Roll And Flow, la notturna Spazio 50 in cui dialogano il piano di Simone Scifone e la slide e la nostalgica ballata soul-blues Billboard in cui il piano è affidato a Manuel Volpe confermano le impressioni positive su Dues, un album che soddisfa in ogni aspetto e che meriterebbe una distribuzione più vasta a livello internazionale.

Paolo Baiotti

JAMES J TURNER – Future Meets The Past

di Paolo Baiotti

1 aprile 2024

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JAMES J TURNER
FUTURE MEETS THE PAST
Touch The Moon 2023

Originario di Liverpool, James ha imparato a suonare la chitarra da bambino appassionandosi al rhythm and blues, iniziando da adolescente a scrivere canzoni. Ha lasciato la scuola a 15 anni per lavorare di giorno sulle banchine portuali della città e per suonare di sera. A ventidue anni ha fatto la scelta di lasciare il lavoro e di dedicarsi alla musica come cantante di alcuni gruppi, tra i quali i Lies All Lies e The Electric Morning che hanno anche supportato Rain Parade e True West in Europa. In seguito ha aperto i Liverpool Hard City Studios dove ha inciso nel 2002 il suo esordio da solista The Believer ristampato nel 2017, ottenendo un certo interesse non solo in Gran Bretagna. Nel 2012, dopo quattro anni di lavoro, è uscito How Could We Be Wrong? più vicino al folk-rock di gruppi che lo hanno influenzato come i Fairport Convention e la Incredible String Band. Essendo un grande appassionato e studioso di storia antica (è membro dell’OBOD, Order of Bards, Ovates and Druids), gli approfondimenti in questo campo hanno influenzato Spirit, Soul & a Handful Of Mud, pubblicato nel 2016. Più recentemente, superata la pandemia, James ha ottenuto il supporto del Arts Council England che lo ha aiutato a registrare Future Meets The Past, un album che ruota intorno al tema del Druido Bardico che riconnette le persone sia allla natura che alle radici storiche del passato. Questo tema influenza soprattutto i testi, ma anche musicalmente ci sono dei collegamenti al folk acustico con i violini di Amy Chalmers, Neil McCartney e Chris Haigh e il violoncello di Vicky Mutch, mentre Turner suona chitarra acustica ed elettrica, mandolino e flauto a fischietto. Un suono orgoglioso prevalentemente acustico con una voce all’altezza, ma con una base ritmica che può richiamare alla lontana gruppi come gli Alarm, i Waterboys e i Big Country con un tocco di Americana.
La trascinante Future Meets The Past con inserimenti continui del violino, l’aggressiva Kalahari Rain, l’orientalegginte Breaking Of The Ties, il rock cadenzato e robusto di Heaven’s Inside You, la drammatica Same Old Story, il singolo folk-rock Hey Brother e l’epica Move Up To The Light sull’importanza della consapevolezza ecologica per combattere la politica delle corporazioni, sembrano emergere in un disco pieno di vitalità e di energia.

Paolo Baiotti

HANK WOJI – Highways, Gamblers, Devils And Dreams

di Paolo Baiotti

20 marzo 2024

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HANK WOJI
HIGHWAYS, GAMBLERS, DEVILS AND DREAMS
Autoprodotto 2023

Hank Woji ha fatto la gavetta come bassista nell’ambiente musicale di Asbury Park nei tardi anni ottanta e nei primi anni novanta, suonando blues, errebi, reggae e rock and roll in diverse band locali sia nei club che in festival e arene. Nel 2001 si è trasferito a Houston in Texas, entrando a far parte della vivace comunità locale di cantautori, ma nel 2009 si è nuovamente spostato nell’ovest dello stato a Terlingua proseguendo a scrivere e a incidere. Considerato un musicista di Americana nella tradizione di artisti come Guy Clark, Townes Van Zandt e Butch Hancock, ma anche fortemente influenzato dal folk di Woody Guthrie e Pete Seeger, ha pubblicato sei album a partire dal 2005 con Medallion fino a The Working Life del 2014 per giungere, dopo una lunga pausa, a questo ambizioso doppio cd Highways, Gamblers, Devils And Dreams di 23 tracce (di cui 5 cover) per quasi due ore di musica, che si può leggere come una riflessione sulle tematiche del mito americano. Se generalmente Hank si muove in tour come solista, in duo, in trio o con la sua Conspiracy Band, per l’incisione del recente album avvenuta in diversi studi (ben 15 in 8 stati) ha utilizzato numerosi turnisti.
Dotato di una voce che è stata definita come “resa granulosa dai venti e dalle sabbie del deserto” è sicuramente un folk singer della vecchia scuola che preferisce strumenti come la pedal steel, il violino, la chitarra acustica, l’armonica e il banjo, pur avendo questo disco una struttura elettrica.
L’apertura di Don’t Look Back ricorda Neil Young, mentre Chasin’ My Headlights Again è addolcita dalla seconda voce di Jaimee Harris. Nel primo disco ci sono quattro cover significative: I Ain’t Got No Home di Woody Guthrie con violino, fisarmonica e mandolino, cantata in trio con i colleghi e amici Jimmie Dale Gilmore e Butch Hancock, una dolente e acustica I’ll Be Here In The Morning di Townes Van Zandt in duetto con Jaimee Harris, Sitting In Limbo di Jimmy Cliff e Land Of Hope And Dreams di Bruce Springsteen più country dell’originale con l’inserimento del violino di Jeff Duncan e della pedal steel di Rob Pastore. Tra gli altri brani spiccano la rilassata I’m Gonna Hit The Number tra blues e JJ Cale, il riflessivo gospel Saving Grace e la delicata ballata Sunny Days.
Il secondo disco parte con il bluegrass Runnin’ With The Devil, proseguendo con brani autografi tra i quali la jazzata Man In A Cave con il sax di Tommy LaBella, l’Hammond di Radoslav Lorvic e delle percussioni sudamericane, El Sonador (The Dreamer) profumata di influenze latine e cantata in parte in spagnolo, mentre Start Building Bridges ondeggia tra People Get Ready e The Band con un messaggio importante di unità e umanità, ribadito da Corporations Are People dove Hank ci ricorda che anche le grandi aziende dovrebbero seguire le leggi. Dopo il gospel/blues The Devil’s At The Door è posta quasi in chiusura l’unica cover, Take Your Burden To The Lord, un gospel degli anni venti di Charle A. Tindley in cui si ascolta l’elettrica di Bill Kirchen (Commander Cody).

Paolo Baiotti

C. DANIEL BOLING – New Old Friends

di Paolo Baiotti

18 marzo 2024

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C. DANIEL BOLING
NEW OLD FRIENDS
Berkalin Records 2023

Paragonato ad artisti del calibro di Steve Goodman, Tom Paxton e John Prine, già vincitore del Grassy Hill Kerrville New Folk Contest e del Woody Guthrie Folk Festival, Daniel ha una lunga carriera alle spalle. Già membro del trio The Limeliters, ha lavorato come Ranger nei parchi nazionali e per altri uffici statali, diventando musicista a tempo pieno a cinquant’anni. New Old Friend è il suo nono album, prodotto da Jono Manson come il precedente e registrato nello studio del produttore The Kitchen Sink a Santa Fe. Quanto ai dischi precedenti, nel 2016 These Houses è stato nominato per i Grammy come migliore album folk.
Boling è amico da tempo del grande cantautore Tom Paxton, nato a Chicago nel ’37, che ha scritto brani coverizzati da Bob Dylan, Pete Seeger, Willie Nelson, Joan Baez e tanti altri. I due si sono ritrovati casualmente in Colorado nel 2022 per un raduno di autori e hanno iniziato a comporre insieme lavorando online sulla piattafoma Zoom, completando il disco non casualmente intitolato New Old Friends. Per Daniel è stato ovviamente un grande onore ed il risultato una sorpresa positiva per molti, cosicchè i due stanno anche suonando insieme dal vivo e preparando un secondo album in coppia.
Oltre alla collaborazione nella scrittura, Tom Paxton canta in cinque canzoni. Manson ha chiamato validi session men come Jason Crosby al piano, Jeff Scroggins al banjo e Char Rothschild per i brani arrangiati in modo più complesso che con la sola presenza di chitarra e voce, contribuendo a rendere il disco più vario e interessante.
Si parte con la scanzonata Get a Life! un duetto tra Daniel e Tom accompagnati da chitarra e banjo che profuma di Appalachi, seguita dalla prima canzone scritta dai due, la nostalgica Old Friends con il mandolino di Kelly Mulhollan. Gli altri pezzi cantati insieme sono il bluegrass This Town Has No Cafè, Red White And Blue caratterizzata dal piano di Crosby e Turn The Corner, una ballata deliziosa percorsa dall’armonica di Michael Handler in cui la voce di Paxton doppia quella di Boling.
Tra gli altri brani spiccano la delicata How Did You Know? e Of You And Me dedicata alla moglie Ellen, la disinvolta Bear Spray And Barbwire sulle disavventure che possono capitare camminando sulle montagne che circondano la città di Albuquerque in New Mexico dove Daniel vive, la bluesata The Keys sull’inesorabile trascorrere del tempo, Leaving Afghanistan che tratta delle problematiche dell’intervento americano e The Missing Years, una riflessione sulla pandemia e sulle sue conseguenze.

Paolo Baiotti

NOLAN MCKELVEY – Forward

di Paolo Baiotti

8 marzo 2024

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NOLAN MCKELVEY
FORWARD
Autoprodotto 2023

Attivo da oltre 25 anni nell’area di Boston, Nolan ha suonato in ogni angolo degli Stati Uniti toccando diversi generi musicali che possono essere racchiusi nel termine Americana: alternative country, roots, bluegrass, country e rock. In questo lungo periodo ha ricevuto apprezzamenti non indifferenti, aprendo per artisti ben più conosciuti tra i quali Greg Brown, Odetta, Leon Russell, Los Lobos, Jerry Douglas, Cowboy Junkies, Son Volt e Josh Ritter. Tuttavia, non è riuscito ad emergere né nell’attività da solista che conta cinque album, né come componente di diverse formazioni tra le quali The Benders con i quali ha inciso altri cinque dischi e The Resophonics. Ha trascorso un periodo in California dove ha suonato nella band di Joel Rafael, ha registrato con Levon Helm, poi si è trasferito in Arizona dove ha inciso con i Muskellunge (sei album) che sono la sua band attuale di bluegrass insieme ai Tramps And Thieves, ma alterna anche l’attività da solista e in trio. Nel 2020 ha pubblicato Songs Of Hope, un mini-album di sei canzoni in associazione con la fondazione “cure the kids” e Into The Silence, registrato dal vivo senza pubblico a Flagstaff in trio.
Ora torna da solista con Forward, registrato con un nutrito gruppo di musicisti in parte già utilizzati in passato, in cui conferma pregi e difetti della sua musica, gradevole e di discreto livello pur risultando indubbiamente derivativa e senza grandi picchi nella scrittura. Un artigiano della musica roots come ce ne sono tanti negli Stati Uniti, per cui è difficile pensare che riesca ad emergere ulteriormente.
Forward alterna tracce di matrice rock, country e folk disegnando un ritratto credibile della musica di McKelvey. Ballate intime e dolenti di impronta folk come Mother, la title track già uscita come singolo che si impone con un crescendo notevole e la springsteeniana Pretending (contro la guerra) si alternano al soul ritmato di Tir Na Nog con il sax di Dana Colley (Morphine), al rock di Phoenix Rising e Other Side e al country di Tears In The Dell e di Sweetest Dreams scritta per la figlia, con la chiusura di New House in cui spicca il violino dell’amica Megyn Neff.

Paolo Baiotti

STEFANO DYLAN: Torino, Cafè Neruda, 29/2/2024

di Paolo Baiotti

8 marzo 2024

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STEFANO DYLAN: TORINO, CAFE’ NERUDA, 29/2/2024.

Dopo diversi tentativi andati a vuoto in Italia, il percorso musicale di Stefano Dylan si è sviluppato quando si è trasferito a Malta con la famiglia nel 2012, dove ha formato una band e suonato anche da solista. Ma il vero cambio di passo è avvenuto dopo il trasferimento in Irlanda, nella zona di Limerick. Per sua fortuna nell’isola di smeraldo la musica è radicata nella cultura locale, si trovano con maggiore facilità ingaggi nei locali (soprattutto nei pub) e anche suonare per strada è molto apprezzato. Per farla breve Stefano è riuscito a diventare un musicista professionista in Irlanda e ha pubblicato tre dischi: Rough Diamonds nel 2019, Ouroboros nel 2022 e Ballads From Home nel 2023, i primi due con una prevalenza di brani autografi, il terzo di cover di brani tradizionali e di altri cantautori anglosassoni.
Nella sua prima apparizione italiana da solista a Torino dove è nato e ha vissuto a lungo, il cantautore ha suonato da solo dimostrando una certa sicurezza e dimestichezza sul palco, alternando cover a brani autografi tratti dai tre dischi citati, ma non solo.

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Dall’esordio sono state scelte l’eccellente ballata folk Not A Day Goes By, la deliziosa No Key Blues e The Road To Waterloo ispirata dai Miserabili di Victor Hugo, che perde qualcosa senza la chitarra elettrica dell’originale in studio. Da Ouroboros sono stati estratti i primi tre brani dell’album: la sofferta Endless Road, la nostalgica The Life Before e Fool’s Gold, mentre dal recente Ballads From Home il musicista ha eseguito Canadee-i-o del folksinger inglese Nic Jones, il tradizionale Fair Annie nell’arrangiamento di Martin Simpson, la malinconica The Green Fields Of France del cantautore australiano Eric Bogle, una canzone contro la guerra ripresa anche dai Dropkick Murphys e da The Men They Coudn’t Hang e il tradizionale Shady Grove. Non sono mancate un paio di tracce in italiano, Malinverno con la quale ha aperto la serata e Filastrocca, con la quale ha vinto un concorso per cantautori indipendenti a Biella nel 2001 e alcune cover, tra le quali Icarus di Anne Lister (conosciuta nella versione di Martin Simpson), The Fields Of Athenry di Pete St. John sulla grande carestia irlandese (ripresa tra gli altri dai Dubliners e dai Dropkick Murphys), la dolente ballata western Tumbleweed di Peter Rowan e nei bis, a chiusura del concerto, una toccante Rainy Night In Soho dei Pogues, dedicata ovviamente alla memoria di Shane McGowan, l’unico brano in cui, oltre alla chitarra acustica, il musicista ha suonato anche l’armonica.
Un esordio promettente doppiato la sera dopo a Novara, sperando che in futuro ci siano altre occasioni per ascoltarlo dalle nostre parti.

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Paolo Baiotti

BRIAN KALINEC – The Beauty Of It All

di Paolo Baiotti

3 marzo 2024

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BRIAN KALINEC
THE BEAUTY OF IT ALL
Berkalin 2023

Cantautore folk di Beaumont, da tempo residente a Houston, sempre in Texas, Brian è stato paragonato a grandi artisti come Woody Guthrie, James Tayor, Jim Croce e Rodney Crowell. Già presidente della Houston Songwriters Association, ha condotto per anni un festival di cantautori piuttosto conosciuto e ha partecipato come autore a numerose manifestazioni locali, ottenendo riconoscimenti in eventi tra i quali la Songwriter Serenade Competition e The Big Top Chautauqua Song Contest. Molto attivo nel sociale e nella promozione della scena locale, nel 2012 è stato premiato con il “My Texan” Award ai Texas Music Awards per il suo supporto alla musica e agli artisti dello stato. Con la moglie Pam gestisce la Berkalin Records che pubblica parecchi artisti folk e di Americana.
Ha esordito come solista nel 2007 con Last Man Standing, seguito nel 2012 da The Fence, che ha suscitato notevole interesse nelle radio specializzate europee e americane. Dopo un progetto in coppia con la cantautrice folk Kj Reimensnyder-Wagner (un tour americano, qualche data europea e un album nel 2021) torna da solo con The Beauty Of It All prodotto da Merel Bregante, esperto produttore, ingegnere del suono e batterista (Loggins & Messina, The Dirt Band), nonché proprietario dello studio Cribworks Digital Audio di Liberty Hill in Texas dove è stato registrato l’album. Merel ha radunato una pattuglia di session men tra i quali la moglie Sarah Pierce ai cori, Mark Epstein e Rankin Peters al basso, Dave Pearlman alla pedal steel e Pete Wasner alle tastiere che hanno accompagnano Brian (voce, chitarra acustica ed elettrica) in 14 canzoni in cui prevalgono melodie dolci e carezzevoli e tempi medi o lenti che riflettono nella loro quiete e pacatezza i paesaggi delle foto della copertina e del booklet.
La scrittura di Kalinec è semplice, folk con qualche venatura country negli arrangiamenti, adatta alla sua voce calda e melodica, a tratti un po’ troppo vicina a quello che gli americani chiamano “adult contemporary”, tanto che qualche sforbiciatura avrebbe giovato all’ascolto complessivo dell’album. Non ci sono grandi picchi né cadute fragorose, tuttavia la ballata Next Door Stranger con una fisarmonica dolente, la dolce Redwood Fence, Fix-It Man con l’armonica e il mandolino di Cody Braun e The Wind scritta con Mando Saenz, musicista di Nashville e autore di parecchi brani di successo per artisti come Miranda Lambert, The Oak Ridge Boys, Jim Lauderdale, Eli Young Band e Whiskey Myers, sembrano avere qualcosa in più.

Paolo Baiotti

LADY PSYCHIATRIST’S BOOTH – Four Research Porpoises Only

di Paolo Baiotti

1 marzo 2024

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LADY PSYCHIATRIST’S BOOTH
FOUR RESEARCH PORPOISES ONLY
Autoprodotto 2023

Ashley E. Norton (voce e chitarra acustica) è stata coinvolta lo scorso decennio nel progetto Whitheward, un duo indie/folk formato con Edward A. Williams che si è esibito anche in trio con Stephanie Groot (violino, mandolino e voce). A seguito della pandemia che ha interrrotto l’attività del duo, le ragazze hanno deciso di formare una nuova formazione incidendo a Los Angeles nello studio di Laura Hall (pianista e tastierista, nonché direttrice musicale di uno show televisivo) un mini-abum, dandosi il nome di Lady Psychiatrist’s Booth, mischiando elementi folk, dark e pop con ironia e un po’ di eccentricità. Il passo successivo è stato la registrazione di questo album, un concept che intende raccontare la storia di quattro pazienti donne che negli anni cinquanta, intrappolate in un mondo dominato dagli uomini, dopo che i mariti le hanno lasciate per diversi motivi vengono accolte in un ospedale psichiatrico per scopi di ricerca (da qui il titolo del disco), con l’intenzione di scoprire perché sono state lasciate. Un medico, lo psichiatra Garf Lunkel interpretato da Bruce Blied, dovrebbe diagnosticare e trattare le loro problematiche o quelle dei mariti. Attraverso dialoghi e canzoni, ogni paziente racconta la sua storia; Ashley, Stephanie, la batterista Amanda Albini e la bassista Marcia Claire interpretano le quattro pazienti, la pianista Laura Hall un’ospite, il produttore del disco Johnny Garcia interpreta sé stesso. Un progetto satirico di impianto teatrale che è disponibile in digitale su Bandcamp comprensivo dei dialoghi che si alternano alle canzoni, che a loro volta sono invece raccolte senza dialoghi nel cd oggetto di questa recensione.
In generale spiccano la voce solida di Ashley e le curate armonie vocali, come si evince da Hell in Michelle che apre il disco a cappella, senza accompagnamento musicale. Il violino della Groot contraddistingue l’animata Joelle, il mandolino e una melodia pop la deliziosa When I Grow Up, mentre nell’ironica Cold Dead Body emergono cori anni cinquanta e la fisarmonica di Laura Hall. Spanish Cafè è una ballata morbida, Slow Train To Memphis una piacevole traccia bluesata, Money That Makes You A Man un mid-tempo country, per chiudere con il ruspante honky tonk di Dancing In The Dirt che cita nel testo la springsteeniana Dancing In The Dark.

Paolo Baiotti

BONEFISH – Where Do We Belong

di Paolo Baiotti

1 marzo 2024

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BONEFISH
WHERE DO WE BELONG
FMB 2023

I Bonefish sono un quartetto svedese formato da musicisti esperti che si sono uniti nel 2010, pubblicando tre anni dopo l’omonimo l’album d’esordio. La formazione originale comprendeva Bie Karlsson (voce e chitarra), Lasse Nilsen (chitarra), Rasmus Rasmusson (batteria) e Anders Nylle Thoor (voce e basso). La presenza di quattro voci di buon livello ha garantito da subito delle armonie puntuali e una varietà di tonalità vocali che si sono sposate con una musica influenzata da rock-blues e Americana. Alla fine del 2015 Nilsen ha lasciato la band sostituito da Matte Norberg, chitarrista votato ad un solismo più energico, con il quale è stato scritto e inciso il secondo album Atoms, registrato negli Rockfield Studios in Galles con la produzione di Max Lorents. Apprezzato dalla critica locale e trasmesso parecchio dalla radio nazionale tedesca, il disco ha consentito un lungo tour in nord Europa tra Germania, Olanda, Belgio e Svezia. La pandemia ha bloccato l’attività nel 2020 quando era in preparazione Where Do We Belong, che è stato rimandato fino al 2023, nuovamente prodotto da Lorentz che suona anche le tastiere.
Abbiamo di fronte 11 canzoni rock con melodie pop e un tocco di Americana con dei riff e dei cori che restano in testa, scritti in prevalenza da Karlsson o Rasmusson. Se l’opener New Orleans ha un riff di impronta rock-blues, Modern Day Attraction ricorda nell’attacco i primi U2 e profuma di anni ottanta, Always Right ha una cadenza più lenta e intima con incisivi interventi della solista di Norberg e Dance On The Ceiling mischia rock e pop con una ritmica dance. Nel rock ipnotico di Sad la voce solista è di Nylle Thoor, mentre la soffusa e avvolgente Friend Of Mine è scritta e cantata dal batterista Rasmusson. Meritano una citazione anche la riflessiva Home e la melodica Just Like A Warrior posta in chiusura.

Paolo Baiotti