Archivio articoli per la categoria ‘Rock'n'Pop’

IL SENATO – Kings Of The World

di Paolo Baiotti

17 settembre 2023

IL SENATO

IL SENATO
KINGS OF THE WORLD
Rubber Soul Records 2023

Nato da un’unione che sembrava estemporanea tra alcuni nomi della scena mod-garage anglo-italiana legata alla musica e alle atmosfere dei sixties, guidato dalla voce di Luca Re (Sick Rose) e dalla voce e tastiere di Fay Hallam (Prime Movers, Makin’ Time) con Andy Lewis (già bassista di Paul Weller e Spearmint, produttore e DJ in ambito acid jazz), Alberto Fratucelli alla batteria (Sick Rose) e Roberto Bovolenta, il quintetto de Il Senato sta dimostrando di voler ambire a qualcosa in più. Dopo l’esordio di Zibaldone del 2020, è il momento di Kings Of The World in cui Bovolenta è sostituito al basso da Ennio Piovesani (Statuto), rafforzando il mix tra mod, garage e beat che sta alla base della formazione, intorno alla quale girano collaboratori di sostanza come Sean Read ai fiati, Fabrizio Fratucelli alla chitarra e Giuseppe Filigi (Senzabenda) alla chitarra, voce e in fase compositiva.
Registrato in provincia di Torino con la produzione di Andy Lewis e masterizzato in Gran Bretagna, Kings Of The World conferma le coordinate sonore dell’esordio con un pizzico di pop/beat in più, lasciando un’impressione di maggiore compattezza e di un’accentuata attenzione all’aspetto compositivo. Funziona bene l’alternanza alla voce solista di Luca e Fay, che contribuisce alla freschezza e leggerezza (in senso positivo) del disco, giustamente uscito in estate e pubblicato con la consueta passione dalla label Rubber Soul in edizioni limitate in vinile (nero e colorato) e cd.
La frizzante apertura in stile sixties del pop fiatistico Peter Falk, il funky-rock di Lickin’Stick, unica cover del disco ripescata da George Torrence & The Naturals (singolo della London del ’68) e il delizioso pop avvolgente di Honour Me cantato sontuosamente da Fay sono sufficienti a inquadrare il suono del quintetto che si conferma con la cadenzata Room Is On Fire, con 1980 percorsa dall’organo di Fay, con il rock scanzonato di Learn The Rules e con Mr.Reed, che potrebbe essere scambiata per una outtake dei Kinks. Passando attraverso la grintosa Sham A Lam e il soul carezzevole di Holding Out My Hand, si arriva velocemente alla parte finale in cui spunta l’unico brano in italiano, il brioso beat Non Ti Scordar Di Me seguito dall’up-tempo Where Are We Now in cui si ricava uno spazio solista il sax di Read, per chiudere con la title track interpretata nelle due lingue da Fay e Luca.
Divertente, fluido e scorrevole, Kings Of The World conferma la validità di questa formazione nata per gioco, ma sempre più convinta delle proprie potenzialità.

Paolo Baiotti

CROSBY TYLER – Don’t Call The Law On Me!

di Paolo Baiotti

13 settembre 2023

Crosby-Tyler

CROSBY TYLER
DON’T CALL THE LAW ON ME!
Autoprodotto 2022

Non è sicuramente un esordiente Crosby Tyler, in giro da 30 anni e con una manciata di album alle spalle. L’esordio su lunga durata risale al ’99 con Black Canary, seguito da One Man Band Rebellion, 10 Songs For America Today e nel 2010 da Lectric Prayer. Poi una lunga pausa nel corso della quale Crosby ha continuato a comporre e suonare dal vivo e collaborare con altri artisti come Peter Case e Sarah Watkins, finchè è tornato in studio per Don’t Call The Law On Me!, un album che lo riavvicina al country tradizionale, seppur spruzzato di venature roots. Lo stesso Tyler ha dichiarato di avere ascoltato a fondo Buck Owens, Kris Kristofferson, Willie Nelson, David Allan Coe, Todd Snyder e Robert Earl Keen mentre scriveva e registrava, riconoscendo che questo album è molto influenzato dal country, con un uso accentuato della pedal steel e di chitarre Telecaster.
Accompagnato da un solido gruppo di strumentisti che comprende Jeff Turmes (Mavis Staples) al basso, Dale Daniel (Hacienda Bros) alla batteria, Mike Khalil alla chitarra e pedal steel, Aubrey Richmond (Shooter Jennings) al violino e cori e Kimbra West ai cori, Tyler ha inciso dieci canzoni semplici e scorrevoli, ideali per un ascolto nei lunghi percorsi autostradali americani che faranno la gioia di camionisti e motociclisti, senza particolari ambizioni di originalità e con qualche momento in cui la voce sembra faticare, specialmente quando il ritmo si alza.
Un album discreto in cui spiccano la title track, un honky-tonk che apre le danze, la western song Trucker On The Road, la nostalgica The Family I Never Had, più narrata che cantata con gli inserimenti del violino, la ballata Born A Bad Boy e la spiritosa Bikers Hippies And Honky-Tonkin’ Cowboys con la chitarra di Khalil in primo piano.

Paolo Baiotti

MIKE SPINE AND THE UNDERGROUND ALL STAR BAND – Guided By Love

di Paolo Baiotti

9 settembre 2023

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MIKE SPINE AND THE UNDERGROUND ALL STAR BAND
GUIDED BY LOVE
Global Seepej 2023

Questo è l’undicesimo album di Mike Spine, artista di Seattle che ha girato veramente in ogni parte del mondo, Italia compresa, da sempre ai margini della popolarità ma con la volontà di proseguire nella professione in modo indipendente, Attivo dagli anni novanta, ha fatto parte del gruppo indie/punk At The Spine e della folk/rock band The Beautiful Sunsets. Dal 2012 si muove da solo, in duo o con una band elettrica, sempre pubblicando sulla sua label Global Seepej; ha anche guidato due formazioni di tributo a Neil Young. Inoltre, al di fuori dell’ambiente musicale, ha lavorato come attivista e insegnante in aree disagiate, testmoniando un apprezzabile e serio impegno sociale.
In Guided By Love è accompagnato da un folto gruppo di musicisti di nicchia con alle spalle esperienze significative, dalla violoncellista Lori Goldston presente nell’Unplugged dei Nirvana al chitarrista Johnny Sangster (Neko Case, Laura Veirs), da Paul Brainard (Richmond Fontaine) a Jeff Fielder (Mark Lanegan Band), senza dimenticare i connazionali Massimo Catalano e Barbara Luna, violinista che lo accompagna da molti anni.
Registrato da Robert Bartleson (Wilco) che ha suonato anche il basso negli Haywire Recording di Portland in Oregon e mixato da Johnny Sangster a Seattle, il disco comprende undici brani autografi composti in periodi diversi che confermano le capacità di scrittura di Spine ed è uno dei più accessibili del suo percorso, a partire dall’orientaleggiante Tangier, proseguendo con la ritmata Smile On scritta in Italia (anche in video è stato girato dalle nostre parti), il country-rock Pancho And Lefty, Part II e la ballata Never Sell Your Soul. In questo album piuttosto vario e interessante meritano anche la latineggiante Tears Of Mexico, l’intensa No Man’s Land e la rockeggiante Good And Gone, nonché la conclusiva ballata Butterfly.

Paolo Baiotti

EDIE CAREY – The Veil

di Paolo Baiotti

5 settembre 2023

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EDIE CAREY
THE VEIL
Autoprodotto 2022

Finanziato da una campagna di successo su Kickstarter che ha dimostrato la solidità della fanbase della cantante, The Veil è il decimo album di Edie Carey, cantautrice apprezzata per la voce morbida, i testi intimi e personali e per la capacità di vivacizzare concerti in ambienti di diversa grandezza, essendo dotata di umorismo e sensibilità. Non solo cantante, ma anche poetessa, cresciuta in una famiglia in cui la cultura ha avuto sempre una posizione importante, ha studiato alla Columbia University dove si è appassionata alla musica ed ha anche vissuto un anno a Bologna.
Attiva dalla seconda metà degli anni novanta, ha suonato in festival, college e locali disseminati negli Usa, in Canada e anche in Europa, supportando artisti come Sara Bareilles, Brandi Carlile, Emmylou Harris, Lyle Lovett e Shawn Mullins. Ha partecipato ai festival di Telluride, Rocky Mountain Folks e Newport e inciso il suo primo album The Falling Places nel ’98, seguito deu anni dopo da Disco Ball Heart. Risale al 2016 la sua ultima pubblicazione, Paper Rings: 8 Love Stories precedente a The Veil.
Questo disco nasce nel 2020 con la title track, scritta in seguito a un grave incidente automobilistico che ha coinvolto la cantante e i suoi due figli e all’esplosione della pandemia: due eventi che hanno minato le sicurezze di Edie, come espresso nel testo della canzone che ricorda la sottile barriera (appunto the veil) che separa la vita dalla morte. In altri brani si alternano riflessioni sulle difficoltà del matrimonio e sulla divisione del paese in un momento difficile, sempre con una visione che lascia trasparire speranza e desiderio di riconciliazione. Prodotto e inciso da Scott Wiley,che ha anche suonato chitarra, synth e mellotron negli studi June Audio di Provo in Utah nel novembre del 2021, con l’aiuto di numerosi musicisti tra i quali Aaron Anderson alla batteria, Stuart Maxfield al basso, Paul Jacobsen alla chitarra e John Standish al piano (che accompagna la Carey nei concerti acustici), The Veil è un disco di country/pop con venature rock e folk, melodico e di discreto impatto che potrebbe avere una buona accoglienza radiofonica, interpretato dalla cantante nata a Burlington in Vermont, ma residente a Colorado Springs, con tonalità prevalentemente oscure e di atmosfera notturna, arrangiato con cura.
Tra i brani meritano una citazione l’intensa title track che apre il disco con qualche richiamo ai Fleetwood Mac più popolari, la malinconica ballata The Old Me con un testo sulla precarietà della vita di coppia, tema ripreso nella ritmata e scorrevole The Chain, mentre la dolce I Know This e Rise si soffermano sulle pressioni della maternità. Anche la seconda parte del disco ha tracce solide come la pianistica Teacher che cresce strumentalmente nella parte centrale con l’inserimento degli archi, la love song The Cypress And The Oak, Who I Was indurita da una chitarra robusta, per chiudere con la ballata acustica You’re Free.
Curato anche nella parte grafica, The Veil meriterebbe una distribuzione più ampia.

Paolo Baiotti

WILCO at Todays Festival: TORINO, Spazio 211 Open Air, 25/08/2023

di Paolo Baiotti

3 settembre 2023

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Quando i Wilco salgono puntuali sul palco alle 22.30 per chiudere la prima giornata del festival torinese, l’accaldato pubblico che gremisce l’ampia area di fronte al palco ha già avuto l’occasione di assistere a tre esibizioni di diverso genere e impatto: dapprima l’indie/fok intriso di psichedelia dell’eccellente duo inglese dei King Hannah, quindi il post/punk degli americani Les Savy Fav guidati dall’istrionico frontman Tim Harrington, infine l’elegante e sinuosa miscela funky/pop di Warhaus, progetto nato da un’idea del belga Maarten Devoldere. Ma l’attesa è tutta per il sestetto guidato da Jeff Tweedy, anche perché molti dei presenti ricordano il concerto del 2007 nel medesimo luogo, in cui durante l’esecuzione di Spiders (Kidsmoke) ci fu un blackout di parecchi minuti riempito dai cori del pubblico che accompagnarono la band che, dopo il ritorno dell’energia, si lasciò andare ad una lunga e ispirata jam. Se lo ricordano anche loro visto che iniziano il concerto proprio con le note dissontanti di Spiders, accolte da un boato. Le chitarre di Tweedy e di Nels Cline si inseriscono aspre e taglienti nella ritmica finchè esplode il duro riff centrale, con Jeff che si alterna alla solista con il collega. L’aspro crescendo è interrotto dalla ripresa del cantato, lasciando poi spazio, dopo altre dissonanze, alla partecipazione del pubblico, molto apprezzata dal cantante.

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Un inizio indovinato per una serata che non avrà momenti di flessione, confermando i Wilco come una delle migliori band rock del nuovo millennio, almeno dal vivo (su disco hanno avuto qualche momento di calo nell’ultimo decennio). Quello che stupisce del sestetto di Chicago è la capacità di mantenere un equilibrio mirabile tra il roots/rock melodico venato di folk e country delle loro ballate e i momenti sperimentali e di avanguardia culminati in studio in Yankee Hotel Foxtrot (rifiutato dalla Reprise e poi stampato dalla Nonesuch) e A Ghost Is Born. Sono una vera squadra in cui il valore dell’insieme è superiore a quello, seppur notevole, dei singoli, dal bassista John Stirratt, l’unico presente con Tweedy fin dall’inizio, al batterista Glenn Kotche in formazione dal 2001, per finire con il tastierista Mikael Jorgensen entrato nel 2002.

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La malinconica I Am My Mother e la title track Cruel Country (che esprime nel testo le contraddizioni americane) ci riportano alla produzione più recente, mentre I’m Trying To Break Your Heart esemplifica l’equilibrio tra melodia e sperimentalismo di YHF. La semplicità della beatlesiana If I Ever Was A Child e della pianistica Hummingbird, la cadenzata Random Name Generator e la magnifica Misunderstood da Being There del ’96 ci traghettano alla parte centrale del concerto rappresentata da tre brani superbi, dopo un timido coro di auguri di compleanno a Jeff Tweedy accolto con altrettanta timidezza dal cantante. Dapprima Bird Without a Tale/Base Of My Skull, uno dei pezzi migliori di Cruel Country, occasione per una notevole sezione jammata di impronta psichedelica che vede protagoniste le chitarre di Cline e del polistrumentista Pat Sansone (l’unico membro non ancora citato), posizionati ai lati opposti del palco. Quindi la sublime ballata Jesus, Etc., infine l’amata Impossible Germany da Sky Blue Sky, in cui il dinoccolato Nels costruisce un fantastico assolo in crescendo richiamando il suono di Tom Verlaine. Da qui si procede verso la parte finale della serata in cui si distinguono la spigliata Falling Apart, la trascinante A Shot In The Arm (unico estratto da Summerteeth) e la conclusiva Outtaside (Outta Mind) tratta da Being There.

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A mezzanotte in punto la band saluta il pubblico e lascia il palco dopo 90’ senza un attimo di pausa. E’ chiaro che se avessero iniziato alle 22 avrebbero potuto suonare di più come in alcune date precedenti, ma sono i limiti dei Festival e, finchè al Todays arriveranno musicisti di questa caratura, non potremo che esserne soddisfatti.

Paolo Baiotti
(foto di Michele Marcolla)

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APPLE & SETSER – Apple & Setser

di Paolo Baiotti

3 settembre 2023

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APPLE & SETSER
APPLE & SETSER
Bell Buckle Records 2022

Brad Apple e Pam Setser suonano ufficialmente in duo dal 2017, ma hanno collaborato saltuariamente per 30 anni. Sono cresciuti entrambi suonando all’Ozark Folk Center di Mountain View in Arkansas e girando nell’area circostante. Nel 2022 sono stati nominati migliore gruppo acustico agli Arkansas Country Music Awards, dopo avere esordito con l’omonimo album che raccoglie brani originali e tradizionali eseguiti in forma acustica.
Pam Setser ha una voce calda e pulita ed è una polistrumentista (armonica, dulcimer, chitarra, basso) di qualità; ha fatto parte per 16 anni della formazione della sua famiglia, The Simmons Family Band con la quale ha inciso quattro album, districandosi tra folk, bluegrass e country. Inoltre ha pubblicato dischi di “mountain dulcimer” (suonato soprattutto nella zona degli Appalachi) con la madre Jean Jennings e tre album da solista.
Brad Apple è un polistrumentista (chitarra, mandolino, basso), cantante e autore che si muove nei medesimi ambiti; inoltre è titolare di un podcast sulla musica acustica in cui ha intervistato numerosi artisti. Ha suonato per anni nel gruppo della sua famiglia che ha gestito The Apple Family Bluegrass Festival dal ’79 all’84. E’ ingegnere del suono e proprietario di uno studio di registrazione dove è stato inciso questo album che ha prodotto e masterizzato.
Aiutati da musicisti locali specializzati nel folk/bluegrass come Sam Cobb al mandolino, Tim Crouch al violino, banjo e chitarra e David Johnson al violino, banjo e dobro, Apple & Setser si alternano alla voce solista e ai cori, armonizzando con una notevole intensità e puntualità. Tra i tradizionali citerei Hand Me Down My Walking Cane e Rake And The Rambling Blade oltre allo strumentale When You And I Were Young, Maggie posto in chiusura, mentre tra i brani autografi spiccano Grandma Danced With The Arkansas Traveler e A Friend You’d Never Met di Brad, la ballata pianistica Too Far Gone e lo strumentale Hayes’ Hoedown di Pam in cui è protagonista il dulcimer. Interessante l’intima riproposizione di un brano pop come It Doesn’t Matter Anymore di Paul Anka e del bluegrass I’ll Love Nobody But You di Jim e Jesse McReynolds.
Apple & Setser è un disco brillante e scorrevole, ovviamente consigliato soprattutto agli appassionati del folk degli Appalachi e del bluegrass.

Paolo Baiotti

LAURIE JONES – Dark Horse

di Paolo Baiotti

28 agosto 2023

dark horse

LAURIE JONES
DARK HORSE
Autoprodotto 2021

Leggendo la presentazione dell’artista del Maine sul suo sito si sprecano definizioni roboanti come “l’anello mancante tra Dusty Springfield e Tom Petty” o “Chrissie Hynde con una chitarra folk” oltre a paragoni con Lucinda Williams e Sheryl Crow per le influenze di Americana e folk/rock. Ovviamente ci sono delle esagerazioni, ma si tratta comunque di una cantautrice rock esperta con alle spalle otto dischi da quando ha esordito nel 2000 con After The Crash. Nel 2016 la raccolta The Truth About Her ha radunato brani dei dischi precedenti, seguita da Bridges nel 2017 e da questo Dark Horse quattro anni dopo, sempre autoprodotti.
In bilico tra canzoni rock che in effetti possono ricordare Tom Petty, gli irlandesi Cranberries, Melissa Etheridge o Sheyl Crow e brani elettrocaustici più vicini al folk, Laurie costruisce un disco fresco, leggero e godibile, interpretato con una voce solida e puntuale, più che discreto dal punto di vista compositivo con dei testi riferiti a situazioni intime e personali come fede, accettazione di sé, lotta contro le dipendenze e salute mentale, nel tentativo di trovare un equilibrio nella vita.
Il coinvolgente e nostalgico pop-rock That Summer apre il disco seguito dalla robusta Light Side e dalla ballata Dazed, scritta dal figlio Torin. Nella parte centrale la contagiosa Resurrecting Joan ricorda i Cranberries, No Hell ondeggia tra rock, archi e venature gospel, mentre nel finale si distinguono la cadenzata Sorry I’m Stilted e l’emozionante ballata rock Letting Go.
Prodotto da Darren Elder con l’aiuto di Mehuman Ernst e registrato durante la pandemia con le inevitabili difficoltà del periodo, Dark Horse è un disco che mette in luce un’altra voce di un certo spessore del panorama americano.

Paolo Baiotti

BEN GREENBERG – Son Of The Hills

di Paolo Crazy Carnevale

16 agosto 2023

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Ben Greenberg – Son Of The Hills (Ben Greenberg Music /Atomic Disc 2021)

Parlare di cantautorato puro, a proposito di questo sconosciuto songwriter americano, è più che mai lecito vista la molteplicità dei suoi punti di riferimento (da Bon Iver a James Taylor) ed al tempo stesso la vena originale della sua ispirazione.

Con un piede ben piantato nell’ambito più decisamente indie vicino alla sua situazione anagrafica, Greenberg, di cui questo disco dovrebbe essere l’esordio (l’aveva preceduto solo un EP), ha comunque imparato bene la lezione dei padri fondatori del genere e dimostra di saperla mettere a frutto.

Il vinile in questione – perché sì, Greenberg, pur essendo il disco acquistabile tramite download su Spotify, ha anche pensato alla copia solida del suo disco e l’ha rigorosamente voluta in formato 33 giri – profuma di legno, perché ci sono tanti strumenti acustici, gestiti dal titolare col producer losangelino Jordan Ruiz, con un paio di archi da camera e poco altro, e perché c’è in esso tutto l’amore delle cose fatte in casa, siano esse la marmellata di mirtilli o una sedia a dondolo lavorata a mano.

Certo, c’è anche un pizzico di elettricità che non guasta, ma in punta di piedi e mai fuori luogo.

End of The Line, il brano d’apertura ha un approccio molto indie rock, con la bella voce di Ben che si mette in evidenza, c’è una chitarra elettrica che dà sostanza alla canzone, le successive River e Northern Pines sembrano ricondurci al miglior Gene Parsons, anche se non siamo sicuri che Greenberg sia un frequentatore dei suoi dischi: non solo per la presenza di pedal steel guitar e banjo ma, particolarmente nel secondo dei due titoli, per l’uso armonico che Ben fa della voce, davvero vicina a quella dell’ex polistrumentista dei Byrds.

Il tipo di sonorità si fa meno bucolico con Let You Down in cui i riferimenti sono più moderni, sia per il cantato che per la strumentazione, inclusa l’elettrica e il suono della batteria.

Sparrow, sostenuta da mandolino e chitarra ci rimanda invece alla musica del James Taylor delle origini: essenziale nelle liriche e nella struttura, la canzone chiude un lato A da ricordare.

Pianistica e intima, la breve Milk And Honey apre il lato B in bilico tra Taylor e Nick Drake, poi i sapori indie alla Bon Iver si accentuano in Our Lady con l’elettrica che gioca con gli archi.

For Nick suona come un brano di Nick Drake, cui guarda caso è dedicata. Chitarra arpeggiata, piano, archi e leggere percussioni ci fanno pensare a Bryter Layter; a seguire la title track, con di nuovo la lezione di James Taylor in mente, soprattutto nella parte cantata e una pedal steel sognante che fa capolino con discrezione nel refrain. La chiusura è affidata a Mirror, Mirror, brevissima composizione sorretta dal mandolino che sembra coniugare Richard Thompson con Taylor, a duettare con Greenberg ci sono Simòn Wilson e Eve Elliot.

Paolo Crazy Carnevale

LOVE ON DRUGS – Fluke

di Paolo Baiotti

8 agosto 2023

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LOVE ON DRUGS
FLUKE
Paraply 2023

Love On Drugs è la creatura di Thomas Pontén, musicista svedese di Gavle che, passato attraverso trasferimenti a Uppsala e Stoccolma, si è stabilito a Goteborg una ventina di anni fa. Ha suonato reggae, avanguardia e rock prima di formare i Love On Drugs dove ha trovato una sua dimensione abbracciando un suono più tradizionale tra rock, indie pop e americana. Fluke, pubblicato a giugno, è il quarto album del gruppo che ha esordito nel 2016 con I Think I’m Alone Now, seguito nel 2018 da Solder e nel 2021 da Melodies. Oltre a Thomas, autore di tutti i brani, produttore, chitarrista e cantante, la formazione comprende Martin Lillberg alla batteria, Robert Olsson al basso, Markus Larsson alle tastiere, coadiuvati in studio da Berra Karlsson alla pedal e lap steel e Andreas Hall al sax.
Se l’apertura Through The Dark evidenzia un suono chitarristico con un paio di lunghi assoli fluidi e incisivi che ricordano i quasi omonimi (ma molto più conosciuti) The War On Drugs, replicata dal rock movimentato di Stranger Danger e dal riff grintoso di Give It To Me Darlin’, in Never Walk Away si sentono le influenze new wave con richiami ai New Order, ribaditi dall’unica cover posta in chiusura, una ripresa di Heaven dei Talking Heads. Gli accenti country della pedal steel caratterizzano le ballate Where The Water Flows e Tears Must Fall, acustica e lap steel ammorbidiscono You Got Away With Words, mentre il sax caratterizza il ritmato pop-rock Follow Me Down. La traccia più debole e superflua risulta la morbida For The Good Times che precede la già citata Heaven.

Paolo Baiotti

DOUG COLLINS & THE RECEPTIONISTS – Too Late At Night

di Paolo Baiotti

2 agosto 2023

Doug-Collins

TOO LATE AT NIGHT
Autoprodotto 2022

Abbiamo scritto di Doug Collins nel 2019 in occasione della pubblicazione di Good Sad News. Dopo tre anni, superato il periodo della pandemia, Doug torna con Too Late At Night che mantiene lo stesso stile del predecessore. Considerato uno degli autori più interessanti dell’area di Minneapolis, ha esordito nel 2013 con Those Are The Breaks seguito da due mini-album. Il suo quartetto dei Receptionists è completato dal basso di Charlie Varley e dalla batteria di Billy Dankert, ai quali si è aggiunta la pedal steel di Randy Broughten, mentre la produzione è nuovamente affidata a Rob Genadek. Doug scrive canzoni semplici, orecchiabili e melodiche, con echi degli anni cinquanta, pop di beatlesiana memoria e influenze country accentuate dalla presenza della pedal steel. Si possono prendere come riferimenti Buddy Holly, Hank Williams, Nick Love e Roy OrbiDOUG COLLINS & THE RECEPTIONISTSson con l’aggiunta di Merle Haggard e Bob Wills, con particolare attenzione ad un suono vintage, scorrevole e ballabile, sostenuto da una voce chiara e melodica.
Tracce come il country Sunday Afternoon, la scattante Drinkin’ Again (perché le radio non trasmettono più brani come questo?), la latineggiante Mexico Mo., Wish I Still Cared percorsa dalla pedal steel e Three Waves sono esempi di brio, melodia e freschezza, alternati a ballate come la romantica Stay The Same, l’evocativa Mama’s Shoes e il valzer country One Thing In Common.
Un amabile dischetto estivo completato adeguatamente dall’accativante melodia di Hardest Part.

Paolo Baiotti

BILL PRICE – Kicking Angels

di Paolo Baiotti

21 luglio 2023

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BILL PRICE
KICKING ANGELS
Grass Magoops 2022

Bill Price è un cantautore dell’area di Indianapolis in continua evoluzione. Ha pubblicato quattro album, tre Ep e due cd singoli, con alcuni progetti in sospeso. I Can’t Stop Looking At The Sky del 2015, composto da due album, un diario personale di 120 pagine e un libro di racconti, poesie e saggi di 160 pagine, con l’aggiunta di un libretto con i testi delle canzoni, poster e adesivi, il tutto raccolto in una confezione studiata dallo stesso Price (che è anche un grafico) è la sua realizzazione più ambiziosa, ispirata da un viaggio nell’Ovest degli Stati Uniti.
Kicking Angel è il suo disco più recente, un Ep con quattro brani originali, registrato in un lungo arco di tempo presso i Lodge Recording Studios di Indianapolis con un nutrito gruppo di collaboratori e una cura particolare per gli arrangiamenti. La title track è un country-rock nel quale Bill riflette sul rischio di creare capri espiatori, invece di cercare di unire le persone. Seguono 50 Miles From No Place, una canzone folk/roots scritta parecchi anni fa e ripescata per questo disco e Be Nice Or Get Out, un country/pop ritmato e brioso sull’opportunità di comportarsi in modo rispettoso almeno in pubblico. In chiusura l’intima ballata Bringing Down The Sun impreziosita da un espressivo assolo di chitarra, una critica alle persone che sembra abbiano come unico interesse quello di danneggiare gli altri. I musicisti principali che hanno partecipato alle registrazioni sono Michael Clark (mandolino, pedal steel slide), Paul Holdman (chitarra), Bill Mallers (tastiere, fisarmonica), Grover Parido (violoncello), Jamey Reid (batteria) e Jeff Stone (basso).

Paolo Baiotti

TWELVE GATES – Twelve Gates

di Paolo Crazy Carnevale

19 luglio 2023

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Twelve Gates (Appaloosa/IRD 2023)

Disco strano (per i canoni abituali dell’Appaloosa) e di non facile assimilazione.

Innanzitutto, la formazione che lo ha registrato e il cui nome non è ben stabilito se sia appunto Twelve Gates o se questo sia piuttosto il titolo e i titolari non siano piuttosto i quattro musicisti coinvolti nel progetto: Charlie Cinelli, Pietro Tonolo, Giovanni Giorgi, Giancarlo Bianchetti.

Molto qualunque la veste grafica, per non dire proprio brutta.

Sulla carta sembrerebbe un progetto in omaggio a certo blues, in particolare a quello del reverendo Gary Davis, ma la strumentazione usata, dal basso, alla batteria alla chitarra elettrica fino all’eccsivo sax di Tonolo, spiazza parecchio e almeno un paio di brani con quel certo blues hanno poco a che fare.

Il reinventare in chiave jazz un brano come Death Don’t Have No Mercy non è facile, e difatti il risultato sono otto minuti di noia di cui si salva praticamente il cantato di Cinelli.

Le cose vanno meglio con I’m The Light Of This World, rivista in chiave quasi calypso con Tonolo al flauto e con un assolo di chitarra storto di Bianchetti. River Man è un omaggio al repertorio di Nick Drake, più facilmente riconducibile agli abiti creati dal quartetto, sempre bene Cinelli che ci mette la voce giusta.

Il lungo medley Another Man Done Gone/Twelve Gates To The City mescola effettistica e sonorità di matrice afro con una vocalità non distante da certe cose di Nick Cave. Sembra regnare un po’ l’indecisione su quale sia il pubblico a cui il quartetto si vuole rivolgere.

Railroad Worksong ha il pregio di essere più breve e convince anch’essa per l’approccio al cantato di Cinelli più che per l’arrangiamento, e lo stesso si può dire per Poses di Rufus Wainwright, che esce dai binari blues del resto del disco.

Della classica Black Betty abbiamo ascoltate ben più convincenti versioni, la lunga introduzione strumentale a base di sax ed effetti ci riporta al Gary Davis del medley I’ll Be Alright/I’ll Fly Away, piacevole, che precede il finale (sempre di Davis) I Will Do My Last Singing trattata in chiave jazz.

Di certo non un disco imprescindibile.

Paolo Crazy Carnevale

FARAWAYS – Decades Of Dormancy

di Paolo Baiotti

19 luglio 2023

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FARAWAYS
DECADES OF DORMANCY
Paraply 2023

I Faraways nascono come duo a metà degli anni novanta nella campagna intorno a Boras in Svezia, formati da due amici d’infanzia. Influenzati dalla musica orientale degli anni sessanta, i ragazzi hanno sperimentato aggiungendo basso, batteria e campionature di tablas e sitar. Dopo un demo su cassetta del ’96 aggiungono un terzo amico come cantante e poi un tastierista e un batterista diventando un quintetto. Con questa configurazione indidono un Ep nel ’99, dividendosi nel 2002 fino all’anno del Covid, quando il duo originario ha ripreso a jammare. Erik Holmberg (chitarra, sitar, voce) e Tomas Axelsson (basso, chitarra, liuto, cori) hanno recuperato il vecchio amico Tobias Walka (batteria, percussioni, tastiere, voce) e, dopo alcune prove, hanno composto dei nuovi brani che fanno parte di questo Ep di cinque canzoni che fonde rock, jazz, folk, psichedelia e influenze orientali in un puzzle ben riuscito che richiama gli anni sessanta. I ventuno minuti scorrono veloci e fanno venire voglia di ascoltare altri brani del trio, prodotto da Tobias Walka che è anche l’autore della copertina.
Quanto alle canzoni Holy Host è un rock psichedelico energico nel quale si inseriscono le tastiere dell’ospite Magnus Holmberg, la corale e ritmata Silvertrain Ride aggiunge elementi country, Ruby Ring Of Love ha un eco floydiano ed evidenti influenze orientali che raggiungono l’apice in un interessante break di sitar, Like A Bottle Of Wine è arricchita dalla slide di Robert Peterson e ricorda il riff di Calling Elvis dei Dire Straits. In chiusura di questo interessante Ep la traccia più lunga, l’intensa e inquietante Frozen Moon, cadenzata e potente con tastiere avvolgenti

Paolo Baiotti

ALICE HOWE – Circumstance

di Paolo Baiotti

16 luglio 2023

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ALICE HOWE
CIRCUMSTANCE
Knowhowe 2023

La giovinezza trascorsa a Newton in Massachusetts, la passione per la musica trasmessa attraverso la collezione di dischi dei genitori tra folk, blues e cantautori rock, le tranquille estati nei boschi dei Vermont, il college a Seattle, il diploma in storia medioevale europea, il lavoro in un negozio di dischi e le prime serate nei club locali. Questo è il retroterra culturale di Alice Howe, cantautrice che ha esordito con un Ep seguito dall’album Visions, inciso nel 2019 a Bakersfield, in cui si alternano originali a cover, da lei definito “a modern love letter to ‘60s and ‘70s folk and timeless blues”. In questo album inizia la fruttuosa collaborazione con Freebo, un musicista di Los Angeles (bassista e autore) che ha collaborato con artisti importanti come Bonnie Raitt (dal ’71 al ’79), Maria Muldaur, Jackson Browne, Dr. John, John Mayall e Ringo Starr e pubblicato cinque dischi a suo nome. Tramite Freebo ha conosciuto il chitarrista Will McFarlane, altro ex musicista della Raitt, che ha aperto la strada per registrare ai leggendari Fame Studios di Muscle Shoals in Alabama, dove si sono svolte due sessioni, una prima e una dopo il Covid, durante le quali è stato registrato Circumstance. Una grande soddisfazione per Alice, cresciuta ascoltando Aretha Franklin e Etta James, una spinta a dare il massimo mettendo in mostra una voce soul profonda e matura per una trentenne al secondo disco. Quanto alle canzoni, scritte da sola o con Freebo, si percepiscono influenze blues, soul, country e folk, amalgamate dalla voce della cantante e dalla produzione attenta del bassista che ha riunito un gruppo di musicisti notevoli come Jeff Fielder alla chitarra (Mark Lanegan, Amy Ray), Clayton Ivey alle tastiere, Justin Holder alla batteria e Will McFarlane alla chitarra.
Supportato da una raccolta di fondi su Kickstarter, Circumstance è un disco in cui spiccano il rock scorrevole di Somebody’s New Lover Now, quallo più robusto di What About You, il mid-tempo Love Has No Rules che ricorda Tom Petty, la ballata country venata di gospel Something Calls To Me, la sobria Things I’m Not Saying che si sviluppa con l’inserimento dei fiati richiamando il classico suono dei Fame Studios come la ritmata With You By My Side, mentre l’ombroso southern-soul Travelin’ Soul e la ballata country It’s How You Hold Me chiudono il disco confermando le impressioni positive su un’artista da seguire con attenzione.

Paolo Baiotti

HARRY HMURA – Goin’ Home

di Paolo Crazy Carnevale

10 luglio 2023

Harry Hmura

HARRY HMURA – Goin’ Home (Appaloosa/IRD 2023)

Curioso a volte il destino di un musicista: probabilmente se poco più di dieci anni fa Harry Hmura non avesse avuto la ventura di passare dall’anonimato alla fama procuratagli dall’aver realizzato la colonna sonora del videogame “Halo”, sarebbe rimasto un tranquillo signor nessuno.

Di onesti, bravi, dotati musicisti – non serve che sia io a dirvelo – ce ne sono a bizzeffe e, soprattutto in un genere come il blues, la fama è riservata a pochi, la gloria ad ancor meno. È anche vero che c’è sempre spazio per qualche giovane talento che sbuca dal nulla, e non possiamo non pensare al pirotecnico Christone Kingfish, passato lo scorso anno anche per il nostro belpaese, sferzando di svisate il Pordenone Blues Festival.

Con ogni probabilità i creatori di “Halo” erano in cerca della musica giusta per il loro prodotto e da buoni risparmiatori (per aggiudicarsi la fetta intera dei proventi senza dover pagare troppe royalties usando magari il brano di un chitarrista blues di grido) devono averne cercato uno bravo ma non celebre.

Il risultato è che grazie al videogame, Hmura è entrato in casa di ottanta milioni di persone in tutto il mondo. A questo punto qualcuno si deve essere chiesto chi fosse l’autore e interprete della musica e Hmura è diventato un autentico caso del blues, andando a rivangare e trovando i due dischi pre “Halo” del chitarrista.

Da allora ne sono arrivati un altro paio, oltre alle immancabili prove per gli “Halo” successivi.

Dotato oltre che della giusta tecnica con la sei corde, anche di una voce adeguata, Hmura torna oggi con questo onesto disco realizzato coi nostrani Damiano Della Torre all’organo Hammond e Pablo Leoni alla batteria.

Il risultato è un solido excursus nelle sonorità blues chicagoane, molto vicino alle produzioni della Alligator, ad oggi probabilmente la “casa” del blues più titolata del pianeta.

Certo, il blues è un genere difficile da reinventare, sono pochi quelli che riescono a elevarsi, e citiamo di nuovo Kingfish tra i giovanissimi, e taluni vecchi marpioni come Curtis Salgado, Charlie Musselwhite, o i meno anziani Keb Mo’ e Tommy Castro.
Tutto ciò che esce dal CD di Harry Hmura (realizzato tra Chicago e Trezzo sull’Adda e mixato a Bologna da Damiano Della Torre) è blues, in tutte le sue forme, ci sono belle galoppate, ci sono le dodici battute, gli assoli lancinanti e c’è spazio anche per escursioni semi acustiche a ritmo di boogie lento (Give Me Anything) o all’insegna di un ottimo suono slide (Let’s Get High). Fondamentale è comunque l’apporto del tappeto di tastiere intessuto dal nostrano organista che permette a Hmura di costruirci sopra i suoi assoli: pensiamo alla title track, alla jazzata Cool Cool World, a I Ain’t Going Away. La sezione ritmica si sorregge sul basso suonato dal titolare e sulla batteria di Leoni e in un brano come Put The Blame On c’è anche il modo di deviare dal blues ad un apprezzabile rock. In definitiva un buon disco, forse non il futuro del blues, ma pur sempre verace.

Paolo Crazy Carnevale

DREW YOUNG – Bourbon & Bad Decisions

di Paolo Baiotti

10 luglio 2023

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DREW YOUNG
BOURBON & BAD DECISIONS
Autoprodotto 2023

Bourbon & Bad Decisions è una raccolta di brani usciti digitalmente come singoli, rimasterizzati con l’aggiunta di due inediti e tre brani acustici registrati a Suffolk. Drew Young è un cantautore di Atlanta residente a New Orleans, in giro con la sua band da quasi 20 anni, dopo un’esperienza negli anni dell’università con il gruppo Ruben Kinkaid. Ha esordito su lunga durata con No Good At Being Cool nel 2004 seguito quattro anni dopo da Better Than Pretend e nel 2011 da Home By The River al quale hanno partecipato Dr. John, Anders Osborne e Marc Broussard. Dopo una lunga pausa nella quale ha continuato a lavorare nel settore discografico, ha ripreso a registrare a Nashville durante il lockdown con alcuni musicisti locali; tali sessioni hanno prodotto 60 canzoni in parte pubblicate come singoli e in questo album. Nello stesso periodo ha smesso di bere ritrovando serenità e sicurezza. Poi ha ripreso a girare in tour negli Stati Uniti e in Gran Bretagna dove ha suonato recentemente.
Definito da alcuni critici “the Americana crooner from New Orleans” per la sua voce melodica e ben impostata, Drew sembra prediligere il lato più morbido dell’Americana, fortemente venato di pop, con la melodia sempre in primo piano, l’uso dei cori femminili e inserimenti sobri degli strumenti tra country e pop. Un suono pulito, semplice che non ha nulla di rivoluzionario o di sperimentale, ma che vuole divertire e intrattenere con un certo gusto. Se la vibrante title track ha dei riferimenti evidenti nel testo alla cattiva influenza dell’abuso di alcolici nella sua vita e alla saggia decisione di smettere, The Georgia Line ha un’impronta country & western con un arrangiamento convincente, Try Me è un accattivante pop-rock, mentre Clearly We Belong Together è una ballata ben costruita. Il resto del disco scorre velocemente, passando attraverso le melodie corali country-rock in stile anni settanta di You’re Just Too Good To Let Go, il pop-rock di A Couple Of Rounds Before I Go, il country-blues Stuck On Believing nobilitato da una slide incisiva e il boogie pianistico It’ll Be Soon, per chiudere dopo un paio di brani modesti con la divertente e ottimistica Sing Me A Happy Song.

Paolo Baiotti

JEFF LARSON – It’ll Never Happen Again

di Paolo Baiotti

3 luglio 2023

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JEFF LARSON
IT’LL NEVER HAPPEN AGAIN
Melody Place 2023

Mini album di sei canzoni, è un tributo al cantautore Tim Hardin da parte di un produttore e ingegnere del suono che si è anche fatto notare come cantautore in California guidato da Elliot Mazer, suonando soprattutto nei clubs della Bay Area. Ha pubblicato parecchi album a partire dal 2002 per etichette come la JVC e la Universal prima di dedicarsi principalmente alla produzione di progetti d’archivio di Beach Boys, Buddy Holly e Roy Orbison e di nuovi progetti di Jack Tempchin e America (gruppo del quale è l’archivista ufficiale). Ed ora è tornato a incidere proprio con l’aiuto dell’amico Gerry Beckley (America) che si cimenta alla chitarra, piano, organo, fisarmonica, basso e batteria risultando elemento determinante anche come produttore del disco che è stato registrato tra Sydney e la California. Inoltre Jeff sta preparando un nuovo album, il primo da Close Circle del 2014, che dovrebbe uscire entro l’anno. Interpretato da cantanti di diversa provenienza tra i quali Rod Stewart, Robert Plant, Bob Seger e Johnny Cash, il repertorio di Hardin è molto conosciuto. Alternando brani famosi come Reason To Believe e If I Were A Carpenter ai meno popolari Don’t Make Promises e Misty Rose, Jeff si dimostra cantante sensibile e raffinato, forse troppo, con una voce che appare un po’ esile, privilegiando il lato melodico a discapito dell’intensità. In If I Were A Carpenter emergono le percussioni di Joachim Cooder e il violino di Matt Combs, mentre Don’t Make Promises profuma di California e Misty Roses accentua il tratto confidenziale. In chiusura la splendida How Can We Hang On to a Dream (tra le cover ricordo quelle dei Nice, Roger Chapman, Nazareth e Peter Frampton) ha un pregevole arrangiamento con gli archi ed è cantata con le giuste tonalità.

Paolo Baiotti

JAIME MICHAELS – How To Shine

di Marco Tagliabue

25 giugno 2023

JAIME MICHAELS
HOW TO SHINE
Appaloosa 2023

Cantatutore stabilitosi da tempo a Santa Fe giunto al dodicesimo album solista, premiato più volte ai New Mexico Music Awards, ha girato per un mese in Italia tra maggio e giugno alternando date da solista alla partecipazione a tributi a Townes Van Zant e Bob Dylan. Jaime torna spesso nel nostro paese avendo legami di amicizia e di lavoro con Andrea Parodi, Paolo Ercoli e Claudia Buzzetti, oltre al rapporto con la Appaloosa. Inoltre il disco è stato prodotto da Jono Manson, un altro musicista legato da tempo all’Italia, nel suo Kitchen Sink Studio con l’aiuto di parecchi amici tra i quali Jason Crosby alle tastiere (Jackson Browne, Hard Working Americans, God Street Wine), Jon Graboff alla pedal steel (Ryan Adams) e Ronnie Johnson al basso (James McMurtry).
La scrittura di Jaime attraversa il folk e l’Americana, alternando tracce acustiche ed elettriche, escursioni errebi e influenze country, con uno sguardo anche all’Italia con The Fisherman, cover de Il Pescatore di Fabrizio De Andrè.
L’apertura malinconica di How To Shine con la fisarmonica di Char Rothschild e la chitarra di Andrew Hardin è seguita dal folk acustico Angelus in cui emerge il banjo di Jeff Scroggins e da Beauty Doesn’t Need Forever avvolta dall’hammond di Crosby, con un suono che ricorda Tom Petty, un riuscito impasto di chitarre e la voce a tratti un po’ esile di Jaime doppiata da Claudia Buzzetti. Nel prosieguo si distinguono il brioso errebi Midnight Bus Station in cui la voce ricorda Paul Simon, ravvivato da una sezione fiati, il dolente valzer acustico Want What You Get con Graboff alla pedal steel e mandolino e Jason al violino, la grintosa cover di This I’d Do dell’amico Greg Trooper e la ritmata Whiskey And Bones profumata di New Orleans.
How To Shine è un disco melodico e scorrevole, che ha il difetto di mancare di qualche spigolo che lo ravvivi laddove la scrittura mostra un po’ di fatica.

Paolo Baiotti

RON LASALLE – Roads Taken

di Paolo Crazy Carnevale

7 giugno 2023

ron lasalle

RON LASALLE – Roads Taken (Appaloosa/IRD 2023)

Le coordinate sono indubbiamente quelle giuste, bastano le prime note del disco per farci capire che le intenzioni di Ron Lasalle sono più che ottime, l’impasto sonoro è degno del miglior rock made in U.S.A. di stampo anni settanta, prima della plastica, prima dei synth, prima delle svolte mainstream che più avanti hanno infarcito la musica dei puri di cuore come Lasalle.

Gipsy Road, la strada zingara, è la prima delle vie intraprese (citando letteralmente il titolo del disco) dal nostro, una bella amalgama di chitarre, organo, sezione ritmica precisa. Peccato per la voce di Ron che non riesce ad essere sempre all’altezza, in particolare in questo brano e nel successivo Then I Loved You, mancando qua e là l’intonazione e peccando in estensione.

Deve averla consumata lungo le strade intraprese la voce, questo rocker di vecchia data, tanto avaro nella produzione discografica quanto generoso nel concedersi sui palchi d’ogni angolo d’America. Spiace un po’ perché il disco ne viene penalizzato. Viene un po’ da pensare a Donnie Fritts, grande autore e sideman, ma vocalmente talmente poco dotato da sminuire i suoi rari dischi solisti, cosa che per altro non ha impedito al suo primo lavoro di divenire un oggetto di culto.

Si diceva bene dell’amalgama sonora, e altrettanto bene vogliamo dire della vena compositiva di Lasalle che scodella qui una decina di brani solidi e belli come raramente accade di ascoltare tutti sul medesimo supporto: We Swore We’d Fly, terza traccia del CD è una ballad cadenzata, con chitarre gemelle, assoli brevi e un organo ficcante e importante (Bobby Jones), perdipiù qui c’è anche la voce che funziona bene e rialza le quotazioni del lavoro. Ron sembra qui accostarsi al cantato di Gregg Allman e le twin guitars di Brent Little (altrove impegnato come batterista e tastierista), Dave Martin (che in buona parte del disco è anche il bassista) e Frank Grizanti sono degne del miglior southern rock.

Ginny è un’altra composizione azzeccata, con le stesse carte vincenti, il suono è paludoso e sembra chiamare in causa anche certe atmosfere laid back degne della premiata scuola di Muscle Shoals, in Without A Sound c’è anche la sezione fiati con in vista la tromba di Mitch Goldman ed il brano è un’altra piccola grande certezza. Peccato poi che The Rest Of Our Lives veda il titolare giocare a fare il jazzista su un motivo in stile New Orleans che sembra un brutto esercizio di stile, tra vocalizzi risaputi e la sordina sulla tromba di Goldman. Sono meno di tre minuti ma disturbano, fortunatamente il rock energico, stavolta siamo in odor di Bob Seger, torna con That Was Then confezionato da un muro sonoro di chitarre slide. Per tirare il fiato, Lasalle s’inventa una ballata pianistica, col solito Dave Martin che salta da uno strumento all’altro, intitolata Somewhere After Goodbye in cui si odono reminiscenze della musica di Randy Newman. Ad impreziosire il risultato c’è un solo di sax ad opera di Alto Reed (proprio quello della Silver Bullett Band di Seger). Il modello Seger è poi dominante in The Spice brano galoppante e con la sezione fiati usata molto bene insieme al piano di Martin. Il break centrale concede ad ogni musicista il giusto e meritato spazio. A chiudere il disco, spostando l’asse verso il sound di Asbury Park, c’è Still Got Someday, che porta alla memoria il miglior Southside Johnny, con fiati e cori in evidenza.

Paolo Crazy Carnevale

TWELVE BAR BLUES BAND – Live

di Paolo Baiotti

5 giugno 2023

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TWELVE BAR BLUES BAND
LIVE
TBBB 2023

Il blues è un linguaggio universale, ne abbiamo esempi continui con formazioni vecchie e nuove in ogni parte del mondo. Dall’Olanda proviene il quintetto della Twelve Bar Blues Band formato da cinque musicisti non giovanissimi che hanno pubblicato quattro album in studio tra il 2006 e il 2012, iniziando con The Blues Has Got Me e terminando con Life Is Hard, tutti autoprodotti e di difficile reperibilità. La guida della band, in attività fino al 2015, è sempre stata nelle capaci mani dei JJ Sharp (nome d’arte di Jan J. Scherpenzeel), voce e armonica già nei Blazing Aces e di Kees Dusink alla chitarra elettrica e slide. Hanno vinto numerosi premi della Dutch Blues Foundation, ma per alcuni anni sono rimasti inattivi, finchè nel 2022 hanno ceduto alle numerose richieste riformando il gruppo con la vecchia sezione ritmica formata da Partrick Obrist al basso e Jeffrey Van Duffelen alla batteria, aggiungendo la chitarra di Peter Langerak. Il loro suono è ispirato dal blues di Chicago che a volte coverizzano, pur preferendo brani autografi. Dal tour della reunion è stato tratto questo cd registrato al Blueszy Blues Festival di Ridderkerk in Olanda che testimonia l’affiatamento e l’energia ritrovata dal quintetto dopo la lunga separazione. E’ raro iniziare un disco con uno slow blues: la 12BBB non ha paura di farlo e con The Blues Has Got Me mette subito in luce le doti vocali di Sharp, che ricorda un po’ le tonalità sporche di Charlie Musselwhite e quelle strumentali di Dusink, chitarrista in grado di dosare gli assoli con perizia senza strafare, tra Peter Green e Mark Knopfler, rispettoso della melodia delle canzoni. Non ci poteva essere un avvio migliore per un Live che scorre veloce senza intoppi e senza alcun cedimento con la ritmata I Can’t Get Enough Of That Girl in cui la slide di Dusink ricorda i Fleetwood Mac dei sixties e l’armonica si concede un pregevole spazio solista e l’esuberante Bluesman, caratterizzata da una slide pungente e dall’elettrica di Langerak, tutti brani composti dalla coppia Sharp/Dusink. L’unica cover è il lungo slow Life Is Hard di Fred James e Mary Ann Brandon (ricordate Freddie And The Screamers?), eseguito per primo da Johnny Winter in Let Me In nel ’91 e già ripreso dal gruppo nell’omonimo quarto album. Questa versione è eccellente, sofferta al punto giusto, cantata e suonata con maestria e intensità. Il funky You Gotta Move puntaggiato dalla solista di Dusink e la bluesata Don’t Ask Me Why riscaldano il pubblico pur denotando limiti di scrittura, ma il terzo slow del programma, la sentimentale ballata Key To Your Heart, title track del terzo album in cui spiccano un intenso assolo melodico di Dusink e una coda più robusta, rimette le cose a posto prima del finale affidato all’up-tempo I Can Make Everything Alright in cui le due chitarre si spalleggiano nel break solista. Il cd è reperibile tramite la pagina Facebook della band.

Paolo Baiotti