Archivio di luglio 2022

JIM PATTON & SHERRY BROKUS – Going The Distance

di Paolo Baiotti

28 luglio 2022

patton

JIM PATTON & SHERRY BROKUS
GOING THE DISTANCE
Berkalin Records 2022

Nel circuito folk i nomi di Jim Patton e Sherry Brokus sono piuttosto conosciuti. Coppia nella vita e nel lavoro, pubblicano da anni per la Berkalin. Nel 2019 è uscita per il mercato europeo la raccolta Collection: 2008-2018 comprendente brani dai loro quattro album acustici. Suonano insieme da 40 anni, hanno guidato il gruppo folk/rock Edge City di Baltimora, poi si sono spostati a Austin dove hanno collaborato con Lloyd Maines. Nel 2008 è uscito il primo cd acustico in duo Plans Gang Aft Agley, prodotto come i successivi da Ron Flynt che anche in Going The Distance produce, suona il basso, la chitarra e le tastiere, mentre Rich Brotherton affianca Patton alla chitarra acustica e al mandolino e Warren Hood assiste al violino. Ospite in tre brani la chitarra elettrica dell’esperto Bill Kirchen (ex Commander Cody).
Questo nuovo album non sembra il più significativo del duo, paragonato ad esempio a The Hard Part Of Flying del 2016. Intanto la presenza di Sherry, che nella vita è psicoterapeuta oltre che cantante, è più sfumata del solito, per cui il disco sembra quasi un’opera solista di Jim; inoltre si nota una ripetitività eccessiva e una mancanza di qualche margine più affilato nelle composizioni folk scritte da Patton in solitaria o con Jeff Talmadge, eccetto un paio con la moglie; infine la voce solista a tratti mostra un po’ di fatica. Tra i brani spiccano la title track, una composizione folk lineare e melodica, la ballata avvolgente Golden Boy con il violino in evidenza, Brand New Car in cui l’elettrica di Kirchen ricama arpeggi intorno alla melodia folk, il country-folk Facing The Lions e la vivace e robusta Austin Night, un rock anni cinquanta venato di blues in cui riappare l’amico Kirchen.
Going The Distance è un disco minore di morbido folk venato di rock, nulla di più e nulla di meno.

Paolo Baiotti

PETER GALLWAY & THE REAL BAND – It’s Deliberate

di Paolo Baiotti

28 luglio 2022

gallway

PETER GALLWAY & THE REAL BAND
IT’S DELIBERATE
Gallway Bay Music 2022

Scorrendo la discografia di Peter Gallway, newyorkese cresciuto nel Greenwich Village, da tempo residente in Maine dopo avere vissuto in California, si resta abbagliati dalla quantità di materiale pubblicato. Cantautore e poeta, ha esordito come solista nei primi anni settanta per la Reprise con Ohio Knox seguito dall’album omonimo; poi ha lavorato con parecchie label indipendenti incidendo in ogni decade, fino a quando nel 2008 ha fondato la Gallway Bay Music che ha pubblicato sei album prima di It’s Deliberate. Ci sono poi sei dischi come Hat Check Girl, in duo con la cantante Annie Gallup, un paio di album di fine anni sessanta con la Fifth Avenue Band e le produzioni tra le quali spiccano quelle per la Gallup e soprattutto quelle di Time And Love (un tributo a Laura Nyro del 1997) e della raccolta Bleecker Street: Greenwich Village In The 60’s (Astor Place 1999). Nel suo percorso spalmato su sette decadi è passato dal rock and roll dei sixties, al jazz/folk fino all’Americana e all’indie. E’ difficile classificare la sua musica che anche in questo album oscilla tra folk, jazz e pop con richiami nella voce a Ron Sexsmith, Brian Ferry, Lyle Lovett e David Byrne. La Real Band è formata da Andrea Re alle percussioni e voce, Mark Wainer, coproduttore e chitarra solista e Joseph Wainer alla batteria, con alcuni tastieristi ospiti. Il tono distaccato della title track che si muove tra rock e jazz apre il disco che prosegue con l’accattivante funky-pop Two Bits, ma ha i momenti più interessanti nella parte centrale con Good Trouble in cui si nota il testo politico dedicato all’attivista John Lewis, la malinconica ballata Madly In Love, Like Mercury con la batteria in controtempo e un arrangiamento morbido e misterioso e Not This Time dedicata a David Bowie citato anche nel testo, con l’importante contributo della voce di Andrea Re.
Alcune canzoni mantengono toni dissonanti favoriti dalla voce un po’ stranita di Peter, fino alla chiusura jazzata e intimista di Forget Me Not Blue.

Paolo Baiotti

MIKE CAMPBELL & THE DIRTY KNOBS – External Combustion

di Paolo Crazy Carnevale

16 luglio 2022

Mike Campbell & The Dirty Knobs - External Combustion (1)

Mike Campbell & The Dirty Knobs – External Combustion (BMG 2022)

Spiace dirlo, perché Mike Campbell è un personaggio di statura superiore e sarebbe anche un eccellente produttore, come ha dimostrato qualche anno fa assistendo in regia Marty Stuart, ed è uno che dalla chitarra elettrica riesce a cavar fuori suoni fantastici: anteporre il proprio nome a quello del gruppo (contrariamente a quanto era accaduto per il disco precedente) suona come una mossa furbetta per migliorare le cose, senza però cambiare il risultato.

È chiaro che dopo la prematura dipartita di Tom Petty il buon Campbell si sia trovato per così dire disoccupato, ma i Dirty Knobs possono essere considerati tutt’al più un side project fatto per divertirsi. Anche se si fanno produrre da Drakoulias il giudizio non cambia.

Una band da divertimento e, soprattutto, senza idee.

Questo nuovo disco è la logica continuazione di quello che lo aveva preceduto meno di due anni fa, un disco di rock, se vogliamo classico, suonato bene ma con poco smalto. Campbell canta discretamente, la chitarra la suona da dio, ma a comporre canzoni non ha la scintilla di Petty, e ci mancherebbe!

Altrimenti non avrebbe fatto il gregario, se pur di lusso.

Se nel disco d’esordio del quartetto da lui guidato c’era qualche buona composizione (ma si sa, per scrivere i brani dei dischi d’esordio si ha sempre a disposizione molto più tempo che per il secondo, la regola è quasi aurea), qui si fa fatica ad ascoltare il disco dall’inizio alla fine.

A poco serve metterci un po’ di furore rockabilly, quanto meno ci vorrebbe la voce giusta per cantarli, le prime due tracce (Wicked Mind e Brigitte Bardot) suonano abbastanza simili e non hanno guizzi degni di nota, meglio Cheap Talk, dal titolo quasi rubato a Keith Richards, che mette un po’ di sperimentazione nel sound con l’inserimento di archi e fiati (un po’ come aveva fatto Dave Stewart col Tom Petty di Southern Accents), il brano ha comunque un pregevole assolo di chitarra e la prezzemolina ma brava Margo Price ci fa i cori.

Più dura la title track che ha un sound in odor di hard rock su cui Campbell infila la slide. Dirty Job vede la presenza di Ian Hunter a duettare con la voce di Mike e questo fa la differenza oltre a risollevare un po’ le cose, il brano è un rock granitico dal riff abbastanza migliore rispetto al resto. Il lato A si chiude di nuovo con la presenza della Price, State of Mind, questo il titolo della lenta canzone in cui ritroviamo le caratteristiche di Cheap Talk, fiati e archi, l’intervento di Margo è più consistente e aiuta sicuramente il brano che di per sé non è comunque un capolavoro.

La seconda parte inizia con Lightning Boogie, l’ennesimo brano di routine che fa tornare il disco nell’oblio, c’è il piano di Benmont Tench, sì, ma latita la sostanza, tutto è strasentito. In Rat City la voce di Campbell convince maggiormente di quanto nono sia accaduto finora, il livello resta comunque sotto la media, che si risolleva con la languida In This Lifetime, che senza l’urgenza di essere un brano da usare e gettare come buona parte dei precedenti si concentra sui suoni delle chitarre evidenziando che Campbell ve ne suona più d’una. It Is Written paga spudoratamente dazio a Petty, sembrerebbe esserci una tastiera, ma le note di copertina non lo dicono, probabilmente è di nuovo Tench, del resto non viene detto neppure di sia la seconda voce che si alterna a quella di Mike… e pensare che è la produzione di una major! Il disco si chiude abbastanza dignitosamente con la cadenzata Electric Gipsy, brano riuscito e piacevole, di nuovo con tastierista ignoto.

Paolo Crazy Carnevale

BOBBY WEIR & THE WOLF BROS. – Live In Colorado

di Paolo Crazy Carnevale

13 luglio 2022

Bobby Weir & Wolf Bros - Live In Colorado (1)

Bobby Weir & The Wolf Bros. – Live In Colorado (Third Man Records 2021)

Se qualcuno avesse ancora dei dubbi, Bob Weir, o Bobby Ace, o Bobby Weir come si fa chiamare in questo disco, è colui che tra i vari ex meglio incarna e continua a tenere in vita lo spirito dei cari vecchi Grateful Dead. Se non fosse bastato l’ancora eccellente disco di studio di qualche anno fa, lontano dai suoni ma vicino nello spirito al gruppo madre, ora Bob ci riprova con un live bello e spettrale registrato nella sempre vincente location di Red Rock, in Colorado, e pubblicato dalla label di Jack White.

Da qualche anno Weir si fa accompagnare da una formazione rodata e assolutamente all’altezza della situazione, esibendosi in festival o location dove il pubblico è pronto ad immergersi in atmosfere che sono legate allo spirito libero e alle jam di casa Dead. Il repertorio pesca un po’ qui un po’ lì, privilegiando ovviamente la lunga militanza al fianco di Garcia e soci, ma c’è spazio anche per le scorribande del Weir solista, dal primo all’ultimo disco, come questo doppio vinile dal vivo dimostra.
Innanzitutto sorprende che nel gruppo ci sia un prezzemolino come Don Was, uno che per dire la verità ha spesso fatto danni, soprattutto a livello di produzione: pensiamo all’ultima prova di Gregg Allman, funestata dalla produzione mainstream di Was, e pensiamo soprattutto alle sue supervisioni di concerti tributo che a causa del suo lavoro suonano un po’ tutte uguali e tutte allestite con l’inserimento nel cast di gente mai all’altezza (mi viene in mente l’inutile e onnipresente Eric Church).

Fortunatamente qui, Was si limita ad essere il bassista, lasciando che sia tutto il gruppo dei fratelli lupi ha costruire il suono essenziale (mai mainstream) attorno alla voce di Bobby. Ci sono poi le tastiere di Jeff Chimenti, ormai uno di famiglia, la batteria di Jay Lane e, soprattutto, la pedal steel di Greg Leisz, maestro assoluto dello strumento e del buon gusto. In alcuni brani, al fianco dei Wolf Bros. ci sono anche i Wolfpack, vale a dire un quintetto d’archi e fiati che s’inserisce con oculatezza e precisione. Per concludere, si fa particolarmente apprezzare lo stile di Weir alla chitarra, solitamente un chitarrista ritmico all’ombra di Jerry Garcia o di altri solisti eccellenti: qui, sia con l’elettrica che con l’acustica Weir rilascia ottime prove, il suo cantato è ulteriormente maturato, si è irrobustito e arrochito, rendendo le performance vocali sempre nuove e interessanti.
Il doppio si apre con una lunga ripresa di un brano di Garcia e Hunter, quella New Speedway Boogie che per i Grateful Dead è stata un classico e che nella nuova versione conquista, Leisz ne è il protagonista e sono presenti anche i fiati dei Wolfpack, si prosegue poi con un immancabile omaggio a Bob Dylan, A Hard Rain’s Gonna Fall, con Weir all’acustica e un interplay tra piano e pedal steel che fa urlare dal godimento. Big River è il brano di Johnny Cash che i dead hanno suonato dal vivo decine di volte, si pare con un breve brillante intro strumentale e poi prosegue senza intoppi con belle soluzioni sonore; Weir si lascia poi andare a brani più recenti, con una ripresa dell’originale West L.A. Fadeaway dal penultimo disco di studio dei Dead, il loro successo di vendita più importante di sempre, quell’In The Dark che apparentemente fuori tempo massimo li aveva catapultati in cima alle classifiche sul finire degli anni ottanta, facendoli vivere di rendita e concerti fino alla morte di Garcia nel 1995. La versione è lunghissima, lunga intro con i fiati, non c’è una sbavatura, le tastiere di Chimenti se la giocano con sax e trombe e il titolare fa capolino con la chitarra. My Brother Esau è un altro brano che arriva dalle session di in The Dark, ma invece che finire sul disco fu inserito sul lato B del singolo Touch Of Grey, la versione di Bobby dal vivo rende giustizia ad una composizione che qui suona infinitamente meglio, anche se gli highlight della terza facciata sono le due composizioni seguenti. Only A River, dall’ultimo disco di studio, di cui ripercorre le atmosfere minimali e acustiche create per quell’occasione dei due coautori Josh Ritter e Josh Kaufman: la pedal steel e il refrain che cita la tradizionale Shenandoah fanno il resto. Pregevole anche qui l’intervento di Bobby all’acustica. Looks Like Rain è uno dei brani migliori scritti da Weir, stava su Ace, la sua prova solista del 1972, un brano nato per essere suonato dalla pedal steel di Garcia (ve ne sono alcune rare versioni nei primi concerti del tour europeo di quell’anno) e qui giustamente Greg Leisz fa faville muovendosi col suo strumento tra l’elettrica dell’autore e il piano elettrico di Chimenti, versione da urlo e il pubblico fa capire di apprezzarla parecchio.

La quarta facciata vede riscendere in campo anche i Wolfpack per il medley classico formato dalla doppietta Lost Sailor/Saint Of Circumstance scritta per il disco del 1980 Go to Heaven, non tra i più memorabili dei Grateful Dead, ma la versione qui presentata, con i suoi diciotto minuti ha dalla sua l’interplay interessante tra Leisz e la sezione fiati, combinazione strumentistica non usuale.

Bella prova!

Paolo Crazy Carnevale