Archivio di gennaio 2018

HOUNDMOUTH – Little Neon Limelight

di Paolo Crazy Carnevale

29 gennaio 2018

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HOUNDMOUTH – Little Neon Limelight (Rough Trade 2015)

Che fine avranno fatto questi Houndmouth che avevano fatto gridare al miracolo quando all’inizio del decennio hanno cominciato a muovere i primi passi?

Le loro tracce sembrano essersi perse dopo questo, per altro piacevolissimo LP, frutto di una gran dispiego di forze chiamate in campo in loro favore, dalla label Rough Trade al produttore Dave Cobb. Un disco molto apprezzato e recensito un po’ ovunque in maniera molto positiva.

Li ho visti in azione proprio l’anno della pubblicazione di questo Little Neon Limelight uno showcase nel parcheggio dei Waterloo Records, ad Austin, ma per la verità non mi avevano colpito più di tanto, forse per via del sound poco curato. Mi hanno comunque incuriosito quel tanto da andare ad approfondire il discorso. Ed è stato un bene perché il disco è tutta un’altra cosa.

Il quartetto dell’Indiana può contare su una formazione abbastanza classica, chitarra, basso, batteria e tastiere, ma a fare la differenza sono le due voci molto diverse, quella del leader Matt Myers e quella della tastierista Katie Toupin (l’anno successivo dimissionaria, ma tutto il gruppo sembra essere sparito nel frattempo). La proposta musicale è curiosa, per essere un disco inciso a Nashville sotto l’egida di Cobb bisogna dire che è una sorpresa, non c’è nulla di nashvilliano nelle sonorità e non c’è similarità con le altre applaudite produzioni del soggetto in questione.

Gli Houndmouth sembrano brillare di luce propria, con un rock talvolta in odor di punk, tal altra sontuosamente acustico e desertico, con chitarre affilate e delle tastiere che sanno equamente prendere spunto da quelle psichedeliche di certi dischi degli anni sessanta – la stessa chitarra di Myers in più di un’occasione sembra venire dal secolo scorso – quanto da quegli organi da sottofondo imperiale del classico country-soul.

Eppure definire questo disco country soul (qualcuno lo ha fatto) è decisamente fuorviante.

Così come definirlo commerciale, è vagamente orecchiabile semmai, ma non commerciale.

Il lato A offre subito una cinquina di brani pregevoli, dal singolo trainante (che apre la facciata) intitolato Sedona, cantato da Myers, a Otis in cui la voce è invece quella della Toupin: due composizioni tutto sommato abbastanza nello stesso stile (la caratteristica del disco è quella di sfuggire però ad una definizione generale). 15 Years è un brano molto psichedelico, moderatamente garage, ruvido, totalmente differente dal successivo For No One, una perla acustica di Myers, a metà tra deserto e Dylan. Black Gold chiude degnamente questa prima parte, con una bella chitarra ed un motivo coinvolgente.

Honey Slide, con l’apertura di un bell’organo di sottofondo su cui la chitarra s’inserisce alla perfezione, è la giusta partenza per la seconda facciata, con un bel refrain a due voci; My Cousin Greg non è male, forse un po’ più di routine, una sorta di versione grezza di Bob Dylan & The Band, con Myers e la Toupin che si dividono le parti vocali, mentre Gasoline è un altro riuscito brano acustico, stavolta con la voce della tastierista e il coro degli altri soci. Bella chitarra quella che guida By God, forse il brano in cui le influenze country di Nashville e di Cobb si fanno sentire ma senza esagerare, perché comunque, a questo punto lo si può dire, il sound è proprio Houndmouth. Say It è di nuovo molto sixties, qualche reminiscenza stonesiana nel cantato, non fosse per il suono Farfisa delle tastiere, sicuramente più importante il brano con cui il disco si chiude, Darlin’, ballatona da applausi con un tappeto d’organo imponente e un andamento che rimanda un po’ (voce a parte) a Blonde On Blonde, un disco che era stato – guarda caso – prodotto proprio a Nashville quarantanove anni prima.

Peccato siano spariti dalla circolazione… ma forse sono solo in stand by…

LOAFER’S GLORY – Loafer’s Glory

di Paolo Crazy Carnevale

24 gennaio 2018

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LOAFER’S GLORY – Loafer’s Glory (Arhoolie 2012)

Se esistono dischi di una bellezza disarmante, questo debutto nonché unica pubblicazione del quartetto Loafer’s Glory rientra sicuramente nella categoria.

Mi spiego: non è solo un disco ben riuscito, ben registrato, ben prodotto. Loafer’s Glory va oltre, è un tributo ad una musica forse di nicchia, quale è il bluegrass, un tributo al bluegrass vero, quello più tipico, senza artifizi di alcun tipo e nei vari ringraziamenti all’interno i quattro componenti del gruppo (i veterani Herb Pedersen, Bill Bryson e i più giovani Tom e Patrick Sauber, padre e figlio) esprimono gratitudine a tutti, ma proprio tutti, i pionieri del genere da Bill Monroe in giù. Chitarra, banjo, mandolino, violino, contrabbasso e soprattutto un amalgama di voci che mettono i brividi, sia che la parte solista la domini il superlativo Pedersen, sia che siano i due Sauber o addirittura il quartetto all’unisono.

L’impressione è quella di trovarci in un ambiente confortevole come il salotto raffigurato in copertina, anche se le note di copertina ci dicono che è registrato al Rainbow Garage di Sherman Oaks, California, sotto la guida di Rick Cunha che in tempi lontani ha fatto parte della band di Byron Berline. La ricetta non è nuova, si tratta di quel bluegrass progressista (come lo chiamavano una volta), quello dei Kentucky Colonels, dei Dillards o della Country Gazette che tra anni sessanta e settanta portò il genere all’attenzione del pubblico più vasto del rock’n’roll o del country rock: un misto tra la tradizione appalachiana ed il gospel, con un risultato eclatante. Con delle voci come quelle a disposizione, il quartetto si concede un solo brano strumentale, l’iniziale Crow, Little Rooster, poi si va subito col cantato ed è Pedersen a fare la parte del leone in The Legend Of The Johnson Boys, brano dalle implicazioni molto old time, poi è la volta di un omaggio in chiave gospel ad Hank Williams con May You Never Be Alone, il brano tradizionale Let Me Fall è invece bluegrass allo stato puro, un’autentica mitragliata di note in cui gli strumenti s’inseguono in maniera insuperabile. Dal repertorio della Carter Family viene Sweet Heaven In My View, mentre Banjo Pickin’ Girl, altro tradizionale è uno dei momenti migliori del disco, che però – va detto – non ha momenti deboli.

Di nuovo gospel quello che troviamo alla base di I’ll Be Alright Tomorrow, mentre il country folk è la matrice di Milwaukee Blues, cantata dai due Sauber e impreziosita da una serie di bei break strumentali. Il brano più rilassato è The New Partner Waltz firmato da Ira e Charles Louvin, il bluegrass al fulmicotone torna con Just To Ease My Worried Mind. La terna di brani che chiudono il disco parte con la banjo song Otto Wood The Bandit, dalle atmosfere più appalachiane che mai, a seguire Ridin’ The L&N, l’unico brano originale del disco (la firma è di Bryson che è anche voce solista qui) autentica canzone ferroviaria in cui il violino di Tom Sauber replica lo sferragliare della vecchia locomotiva; poi il finale gospel a quattro voci di Is There Room For Me, con gli strumenti davvero in punta di piedi per lasciare il palco alle quattro splendide ugole.

GRAYSON CAPPS – Scarlet Roses

di Paolo Crazy Carnevale

22 gennaio 2018

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GRAYSON CAPPS – Scarlet Roses (Appaloosa/IRD 2017)

Credo di non essere l’unico ad aver incontrato per la prima volta Grayson Capps al cinema: nella colonna sonora di A Love Song For Bobby Long, in mezzo ad altre ottime canzoni c’erano soprattutto le sue composizioni, tanto suggestive da rendere necessario il trovarne il CD. Quelle canzoni erano parte irrinunciabile del film, al pari della bellezza disarmante di Scarlett Johannson e della sofferente indolenza del personaggio di John Travolta.

Sono trascorsi anni da quella colonna sonora e dal debutto di Capps su Hyena Records, ma questo nuovo disco, l’ottavo del cantautore dell’Alabama, è diretto discendente dei temi e delle atmosfere degli esordi, prodotto come allora in tandem con la moglie Trina Shoemaker: si tratta di una raccolta di ballate elettriche a metà strada tra Lou Reed e James McMurtry, ma rispetto a Reed, Capps è un campagnolo, le sue storie sono storie da spazi aperti, non c’è posto per le metropoli nella poetica cappsiana, e rispetto a McMurtry il cantato del longocrinuto Capps è sicuramente meno monocorde. Nove composizioni dolentissime sono il bagaglio di questo Scarlett Roses, dalla title track alla conclusiva Moving On, nove canzoni venate di sofferenza e fughe. Quelle fughe da America periferica che abbiamo visto tante volte al cinema o letto nei libri: no, se cercate aria nuova, Capps non è probabilmente quanto fa per voi, niente suoni nuovi, solo ritmica nervosa e grandi chitarre devastanti che ben si adattano alla voce e alle liriche del songwriter.

Se la title track è una canzone d’addio dal riuscito giro musicale, Hold Me Darlin’ è un po’ più scanzonata, mentre la lunga Bag Of Weeds sembra la cronaca di una fuga post adolescenziale, un sacchetto d’erba, una cassa di birra, del whiskey per andare a passare qualche notte nel bosco, ma anche disperazione e musica ad alto volume nel pick-up. You Can’t Turn Around e Thankful hanno chitarre infuocate e riff dominanti, d’altra parte oltre che essere un songwriter, Capps è anche uomo del sud e ci sta tutto che le sue canzoni risentano dell’atmosfera southern rock che queste chitarre appunto le conferiscono.

Un’armonica soffiata con delicatezza e un arpeggio di chitarra acustica tessono invece le trame sonore di New Again prima che esploda lo sferragliare di Hold ‘Em Up Julie, brano in cui sembrano tornare a mordere i binari fossero i vecchi amati treni di Johnny Cash.
Il tutto a preludere agli otto minuti della devastante Taos, la canzone più drammatica del disco, forse quella in cui si evidenzia maggiormente la poetica del nostro, una lunga introduzione di chitarra, un racconto che sembra figlio della springsteeniana The River, almeno nell’idea di partenza della fuga a due (anzi quasi a tre), ma qui non ci sono le acque purificatrici del fiume. I risvolti sono un pugno allo stomaco, tanto forte da necessitare una distorta appendice sonora in odor di feedback younghiani. A nulla può la conclusiva e più ottimistica Movin’ On. La redenzione non è di questo mondo.

CHRIS HILLMAN – Bidin’ My Time

di Paolo Crazy Carnevale

18 gennaio 2018

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CHRIS HILLMAN – Bidin’ My Time (Rounder 2017)

Il 2017 è stato un anno di gran bei dischi. Alcuni del tutto inattesi. Sia per quanto riguarda nomi nuovi, sia – soprattutto – per quanto riguarda quelli che hanno alle spalle fino a cinquant’anni di attività. Non mi riferisco a quei colossi come Neil Young o Bob Dylan, che da alcuni anni non ne azzeccano una e vivono di rendita pubblicando dischi imbarazzanti. No.

E non mi riferisco neppure all’osannatissimo e furbissimo disco della buonanima di Gregg Allman, per altro molto bello, ma troppo facile da votare come miglior disco dell’anno, sull’onda del ricordo e della nostalgia per il fatto che non ce ne saranno altri.

Mi riferisco piuttosto al capolavoro di Marty Stuart & His Fabulous Superlatives, al bel disco di Tommy Castro (in ambito blues), a quello di Jon Langford’ Four Lost Souls, a quello di Stephen Stills & Judy Collins (del tutto inatteso e altrettanto ben riuscito). E mi riferisco soprattutto a questo pezzo d’anima e cuore firmato da Chris Hillman (che nel poll del mensile Buscadero è arrivato secondo ad un solo punto di distacco dal disco di Allman).

Chissà perché quando si parla di Byrds, gli sperticamenti e gli allori vengono sempre riservati all’antipatico McGuinn o al guru David Crosby. Ebbene, degli originali c’è in giro ancora anche Hillman, e vorrei sottolinearlo una volta per tutte, è l’unico, unico Byrds ad aver avuto una carriera discografica continua, senza interruzioni, dal 1965 fino ad oggi, con pochi scivoloni (guarda caso spesso in concomitanza con le riunioni estemporanee o meno che lo hanno visto al fianco degli ex soci).

Dire che questo è il suo disco più bello equivarrebbe a fare un torto a tutti gli altri che ha inciso (da solo, con i Flying Burrito Brothers, coi Manassas, la Desert Rose Band o con l’amico Pedersen), dirò solo quindi che si tratta di uno dei più belli usciti nel 2017, e tanto basta.

E, beninteso, non è un bel disco solo perché in regia sedeva la buonanima di Tom Petty, no, Hillman è autosufficiente, e continua a sfornare buone canzoni: sì, perché un conto è fare un bel disco – mi riferisco a quello di Allman – interpretando brani altrui di sicuro effetto e presa sull’ascoltatore, altra cosa è fare un disco nuovo di zecca, con giusto qualche ripescaggio, quattro su dodici brani, suonati senza tradire minimamente il proprio sound di sempre.

Hillman ha diverse fortune: innanzitutto quella di essere in buona salute, poi quella di avere dei fidati amici da far suonare nei dischi e, last but not least, di aver conservato una voce che non ha perso minimamente l’estensione e lo smalto d’un tempo.

Per iniziare questo Bidin’ My Time (su etichetta Rounder, la stessa del disco di Allman) Chris si affida ad un brano di Pete Seeger che i Byrds avevano già inciso sul loro debutto nel 1965, ma qui l’arrangiamento è diverso, c’è sì la dodici corde, affidata a John Jorgenson (che è stato con Hillman nella pluridecorata Desert Rose Band), ma c’è anche il piano di Benmont Tench che infonde al brano un suono diverso, e poi ci sono le voci di Pedersen e Crosby che si combinano alla perfezione. Poi segue un’infilata di brani nuovi, tutti eccellenti.

Si parte dalla bella title track che ospita oltre a Tench (ma nel disco compaiono altri Heartbreakers: Steve Ferrone alla batteria, il chitarrista Mike Campbell e lo stesso Tom Petty) anche la pedal steel di Jay Dee Maness, altro frequentatore di Hillman dal passato glorioso e di lungo corso; Hillman oltre che alla voce ci mette il suo fantastico mandolino. Fantastiche sono poi Given All I Can See (acustica con begli interventi di Jorgenson e Pedersen e con l’armonica di Petty) e Different Rivers, entrambe testimonianza dell’ottimo momento creativo del titolare, che come sempre da molti anni in qua, firma le canzoni con Steve Hill.

Here She Comes Again è un brano firmato con Mc Guinn che risale ai tempi del sodalizio dei due con Clark a fine anni settanta, ma era rimasta inedita: è Byrds sound a trecentosessanta gradi, ma non assomiglia alle cose che i due hanno scritto quando erano nei Byrds, sembra piuttosto una composizione in stile Gene Clark, cosa che la dice lunga su chi fosse l’autore di punta del gruppo. Il brano è un trionfo di sound Rickenbaker, oltre a Jorgenson c’è anche lo stesso Roger McGuinn, registrato in differita dalla sua casa in Florida, e c’è anche una ulteriore chitarra affidata al producer.

Il lato A si chiude con una bella rilettura di Walk Right Back, presa dal repertorio degli Everly Brothers e rivestita di abiti californiani, con una grande acustica di Jorgensen.

La seconda facciata è un ulteriore trionfo di suoni, siamo più sull’acustico, la batteria di Ferrone appare solo in due brani, lasciando piuttosto spazio alle origini bluegrass di Hillman. Such Is The World That We Live In è un inizio fantastico, chitarre acustiche e mandolino si fondono alla perfezione e c’è anche un violino affidato a Gabe Witcher, avrebbe potuto tranquillamente trovare spazio su Morning Sky o sul più recente The Other Side, capisaldi assoluti della discografia hillmaniana. When I Get A Little Money continua a mantenere alto lo standard del disco che sfocia poi nel ripescaggio di due byrds song molto belle ritrattate con gusto. She Don’t Care About Time era di Gene Clark e la versione cantata da Hillman rende onore ad un brano che non ha perso una virgola della sua bellezza; New Old John Robertson è una breve rilettura del quasi omonimo brano di Hillman incluso su Notorious Byrd Brothers, di nuovo con Witcher al violino e il contrabbasso di Mark Fain (presente in tutto il disco, salvo su Here She Comes Again in cui il basso è elettrico e suonato dallo stesso Chris).
Il disco prosegue con la splendida ballata Restless con grandi chitarre acustiche di Herb Pedersen e Jorgenson e l’elettrica di Campbell che porta a tre il numero degli Heartbreakers presenti nella canzone (Ferrone e Tench gli altri). Gran finale con la pettyana Wildflowers, in deliziosa versione fedele all’originale.

Il disco finirebbe qui. Per chi acquista la versione in vinile (edita purtroppo solo in America) c’è però un bonus, gradevolissimo e in linea col resto del disco: una ghost track che manca nel CD, intitolata Let Me Get Out Of This World Alive. Che dire, speriamo che Hillman non abbia intenzione di andarsene troppo presto! Sarebbe un peccato visti i bei dischi che fa…

BRETT PERKINS & THE PAWN SHOP PREACHERS – Put A Fork In Me, I’m Done

di Paolo Crazy Carnevale

16 gennaio 2018

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BRETT PERKINS & THE PAWN SHOP PREACHERS – Put A Fork In Me, I’m Done (Work Of Heart/NCB/Hemifran 2017)

Ventisette minuti sono pochini per un CD, d’altro canto, considerato che ci sono ben dodici tracce, tutte oscillanti tra i due minuti e i due minuti e quarantacinque, va da sé che non si può parlare di EP.

Un piacevole disco di country swingante, forse un po’ demenziale a giudicare dai titoli di brani, sicuramente camaleontico visto che Brett Perkins si diverte a calarsi di volta in volta nei personaggi delle sue canzoni, facendo anche voci differenti e avvalendosi di una schiera di musicisti, tutti rigorosamente nei panni di qualcun altro (lui ad esempio è Preacher Perkins, ma tutti gli altri hanno un soprannome, da cui a volte si evince lo strumento suonato, ed un alias ecclesiastico tipo Pastore Jon, Sorella Christina, il buon reverendo Rune e via dicendo)

Perkins, nativo dell’Oklahoma, è una piccola gloria nei paesi del nord europeo, in particolare in Danimarca dove dal 2004 è anche residente.

E i suoi “predicatori da banco dei pegni” hanno infatti tutti nomi e cognomi scandinavi, di quelli scritti con quelle lettere dell’alfabeto a noi ignote.

Le canzoni del disco si snodano una dopo l’altra in maniera vorticosa, si va dallo swing texano di The Next New Now, alla coinvolgente I Just Feel Good For No Particular Reason, passando per l’ironica She Loves My Belly & My Bald Spot e l’outlaw song I’m Longin’ For A Short Term Relationship. Tra i brani più interessanti spiccano sicuramente la title track, l’honky tonk pianistico B.I.B.L.E., Just Like Jesus, quasi un gospel con una base musicale particolarmente interessante e meno scontata del resto del disco, la pregevole Pretty Girls Gotta’ Work Twince As Hard With Me, in cui il country passa in secondo piano per fare largo ad un ritmo quasi punk baciato per altro nel mezzo da un break di chitarra che riporta invece tutto a casa, e She’s Got Champagne Tastes On My Beer Budget, un latin-country dalle atmosfere tra l’avvinazzato e quello che potremmo definire hilbilly-calypso.

Sì saranno solo ventisette minuti, ma assolutamente godibili.

BONEFISH – Atoms

di Paolo Crazy Carnevale

15 gennaio 2018

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BONEFISH – Atoms (NCB/Hemifran 2017)

Contrariamente a quanto potrebbe far pensare il logo con la lisca (proprio come Jacovitti) il nome di questa formazione scandinava si riconduce ad un pesce in particolare, il tarpone: il quartetto ittico che con questo Atoms è giunto alla sua seconda produzione, fa capo al cantautore Bie Karlsson che vanta un passato anche in un’altra formazione svedese, i Docenterna.

Arabo, praticamente. O svedese, che è più o meno la stessa cosa visto che si tratta di nomi mai sentiti alle nostre latitudini.
I Bonefish dal canto loro probabilmente rimarranno nello stesso limbo, complice anche il fatto che dall’ascolto di questo disco l’unica cosa certa è che ci sia della grande indecisione sulle direzioni musicali da intraprendere.

E non è il solo problema.

I Bonefish nella biografia che hanno pubblicato sul loro sito spacciano questo lavoro per “americana” (un termine che non mi garba troppo come ben sapete), ma qui di “americana” c’è solo il look dei quattro, non più giovanissimi, pesci.

Non che il disco sia brutto, ma manca di sapore e direzione; in definitiva si tratta di pop di maniera, molto studiato a tavolino, con una ritmica moderna, un cantato molto british (altro che “americana”!) in odor di anni ottanta, con qualche reminiscenza dei Waterboys prima maniera (nella traccia con cui il disco si apre, Atoms). In Old Town Fishermen Blues la chitarra echeggia sonorità knopfleriane, Potential Loss Of Faith ha un riff che mi ricorda dannatamente qualcosa ma non so cosa… eppure è lì sulla punta delle dita che scorrono sulla tastiera, per non dire sulla punta della lingua. E il refrain ricorda qualcos’altro, in questo caso so cosa, Let The Sun SHine In, quella del musical Hair: peccato, perché la struttura del brano e i suoni di chitarra e organo sarebbero anche interessanti. Kissin’ In The Rain sembra Santana, ma al posto delle percussioni c’è una batteria che pare fin finta e il cantato rende il tutto piuttosto Talking Heads. Sister poi mi lascia perplesso con tutti gli echi che il produttore ha messo nelle voci. Il resto del disco scorre in maniera indolore.

LYDIA LOVELESS – Boy Crazy And Single(s)

di Paolo Crazy Carnevale

14 gennaio 2018

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LYDIA LOVELESS – Boy Crazy And Single(s) (Bloodshot Records 2017)

Chitarre ruggenti, ritmica tosta e un bel tappeto di tastiere come si deve secondo i crismi più consolidati del verbo rock: così inizia All I Know il brano che da il “la” al nuovo disco di Lydia Loveless. Un bel cominciare, a testimonianza della buona vena della cantautrice (o sarebbe meglio dire rockeuse?) dell’Ohio, e a testimonianza anche della buona onda della Bloodshot Records i cui artisti spesso e volentieri sfornano dischi più che degni d’attenzione: non ci sarà il nome rivelazione, non ci saranno eclatanti sorprese, ma nei dischi Bloodshot in cui mi sono imbattuto negli ultimi due o tre anni ho sempre riscontrato un buon feeling tra il contenuto ed i miei gusti, che si tratti delle blues ballad semi acustiche di Luke Winslow-King, del punk western dei Bandidos, delle ruvidezze dei Waco Brothers o del loro leader Jon Langford quando fa il solista.

Lydia Loveless non è da meno, in soli sette anni si è costruita una credibilità più che attendibile, attraverso un pugno di dischi a lunga durata ed una manciata di 7” intriganti. Lo aveva confermato col suo disco del 2016 e lo ribadisce con questo nuovo CD. Nuovo si fa per dire per la verità, si tratta di una raccolta di materiale già noto sotto forma di singolo o di EP, ma i singoli, si sa, al giorno d’oggi vengono stampati solo nel caro vinile (che diviene presto sold out) o in formato etereo: così ecco l’idea di combinare (nei quaranta minuti del disco che ho tra le mani) un EP del 2013 intitolato Boy Crazy (e composto da cinque brani più che convincenti) con una serie di brani dai singoli, come per altro suggerisce anche il gioco di parole del titolo.

Se All I Know è pura potenza, il disco mantiene gli stessi toni con All The Time, altra composizione d’ottimo spessore, con Lover’s Spat e con la title track, poi il ritmo rallenta e Lydia ci offre una bella ed intensa ballata, The Water, con intrecci di chitarra perfettamente inseriti, su cui lei tesse la base con l’acustica e da libero sfogo alla potenza della sua voce tutt’altro che qualunque….

Mile High è un brano dal basso pulsante e dalle chitarre convinte, a metà strada tra punk e folk-rock, con un tema interessante, a seguire il brano che ne era la B-side, una cover di Blind della collega Kesha, ancora con un interessante lavoro delle chitarre elettriche; Come Over e Falling Out Of Love sono invece due singoli digitali, di quelli che non hanno mai visto il formato solido. Il primo conta anche su una bella pedal steel che si intreccia con le altre chitarre, mentre la ritmica incalza e Lydia infonde ispirazione nella voce, il secondo è uno slow altrettanto intenso e riuscito.

I Would Die 4 U proviene da un 7” del 2015 ed è un riuscito omaggio a Prince in cui Lydia riesce a rispettare il brano originale mantenendo però il proprio stile, peccato non ne sia stata ripresa anche la B-side, Under The Cherry Moon, sempre firmata da Prince. Azzeccatissima la conclusione è affidata ad una versione in solitaria di Alison, lato B del singolo del 2012 che in origine era abbinato all’opening track del CD dell’anno precedente.

BARNEY BENTALL – The Drifter & The Preacher

di Paolo Crazy Carnevale

14 gennaio 2018

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BARNEY BENTALL – The Drifter & The Preacher (True North 2017)

Ai lettori più attenti o sufficientemente stagionati, non sarà sfuggito il nome della label responsabile di questo recente disco del canadese Barney Bentall: la True North è un’etichetta indipendente con una certa storia alle spalle, responsabile tra l’altro della pubblicazione – almeno su suolo canadese – dei dischi di Bruce Cockburn ma anche dei Guess Who, Murray McLauchlan, Blackie Ant The Rodeo Kings e molti altri, inclusa recentemente la cantautrice Cree Buffy St.Marie.

Bentall è un rocker che calca le scene davvero da parecchio tempo, dapprima come leader di band, da una decina d’anni come titolare di un’attività discografica tutta a proprio nome e con una serie di progetti aperti che vanno dal trio con Shari Ulrich e Tom Taylor alla High Bar Band fino ai Cariboo Express: il grosso della sua attività è comunque concentrato sulla carriera solista, come dimostra questo recente disco.

Niente di nuovo sotto il sole, un buon prodotto cantautorale in cui Bentall, con una voce che personalmente mi ricorda quella di Max Gazzè, mette in fila una decina di composizioni più o meno riuscite ed eseguite con l’accompagnamento di una band che gli fornisce il giusto supporto, di volta in volta con assoli di chitarra, tastiere ben suonate, violino (Shari Ulrich?) e naturalmente una robusta sezione ritmica.

Non è male l’inizio con The Miner in cui duetta con il figlio Dustin, più di routine Moon At The Door, seguita dalle due ballatone The Dirfter e Hey Mama, dal costrutto particolarmente elaborato e ben resa anche grazie a cori orchestrati come si deve e ad una sezione fiati che fa un bel botta e risposta con la chitarra solista. In The Morning è un pezzo più intimista, raccolto e qui oltre al duetto con una voce femminile non meglio identificata (il promo che ho in mano mi dice solo i titoli dei brani e poco altro ma si potrebbe propendere per una delle cantanti della High Bar Band), c’è di nuovo il violino, mentre in The Preacher, una delle canzoni più riuscite, c’è un banjo che s’intreccia con una pedal steel.

Un altro duetto, stavolta indicato, è quello della successiva Won’t Change The World in cui troviamo Jim Cuddy, altro canadese noto per essere uno dei fondatori e tutt’ora leader dell’ensemble dei Blue Rodeo: il brano si fa piacere anche grazie alla voce di Cuddy, qualche spanna sopra quella di Bentall, per rendere l’idea siamo in piena atmosfera The Band, complice anche l’uso di una fisarmonica che ben s’innesta nella struttura della composizione. E ben riuscita è anche la lunga Don’t Wait For Me Marie, di nuovo con un duetto femminile, una bella slide nella parte iniziale ed un refrain convincente che esplode nel finale in un solo di chitarra assassino.

Le atmosfere si rifanno raccolte con Say Goodbye To Albert Comfort, sospesa tra arpeggi di chitarre e vibrazioni d’armonica, poi The Ocean And You e On The Shores Of Grise Fjord portano il disco alla sua conclusione.

DAVID HAYES – In Stereo!

di Paolo Crazy Carnevale

14 gennaio 2018

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DAVID HAYES – In Stereo! (2012)

A David Hayes piace riprendere in mano le proprie canzoni, rivestirle, rivederle, ricantarle. Su questo disco pubblicato in autonomia qualche anno fa ci sono due brani che ha recentemente riproposto in chiave totalmente acustica nel suo recente CD in collaborazione con Gene Parsons. Uno dei due era già apparso su un altro disco solista uscito nel 2007, si tratta di The Colorado, che è poi anche il brano con cui si apre questo disco dal curioso titolo.

E, se proprio devo dirla tutta, questa lunga versione di quasi otto minuti è probabilmente la più bella, e oltretutto ci dà l’idea di quale sia il mood di In Stereo!, un mood profondamente legato alla musica del più famoso dei solisti per cui Hayes ha lavorato nella sua lunga e blasonata carriera. Mi riferisco a Van Morrison: tutto in questo disco è pervaso dall’humus morrisoniano, Hayes registra e produce il suo disco come se si trattasse di uno dei capolavori del suo antico mentore, probabilmente non è un caso, il disco è stato pensato e registrato nel paio d’anni successivi al tour di Van Morrison dedicato alla riproposizione di Astral Weeks, tour di cui Hayes è stato il bassista.

Tutto in In Stereo! è pervaso da splendide atmosfere che richiamano alla mente il capolavoro dell’irlandese e l’altro suo disco pastorale, sempre con Hayes al basso, quel Veedon Fleece da cui è tratta la Country Fair che è la seconda traccia di questo bel disco, altro brano ripreso poi nel CD con Gene Parsons, ma qui, con oltre sei minuti di durata ed un arrangiamento completamente differente, siamo ad altri livelli. Per mettere insieme queste sonorità David Hayes ha lavorato di fino nel suo Smokey Haze Studio di Mendocino, coadiuvato dal fido Karl Derfler: poi gli strumenti se li è suonati quasi sempre da solo, occupandosi di basso, chitarre, armonica e voce, facendosi assistere solo da alcuni batteristi e – nelle prime quattro tracce – da Pete Sears alle tastiere e da Jim Rothermel al sax, clarinetto e flauto. Con ottimi risultati che sfociano nella creazione di brani d’incredibile atmosfera.

Dopo i due citati, c’è Dead Master con una pregevole armonica soffiata con un vibrato penetrante, e ancor più da meraviglia sono i sette minuti della strumentale Seven Bridges che richiama a più riprese le atmosfere del Mark Knopfler di Local Hero, con i fiati in vista ed un break di pianoforte in cui emerge tutta la bravura di Sears (che con Hayes ha lavorato a lungo al fianco di Terry Dolan negli anni ottanta). Piacevole anche Stony Brook, ma fa più presa Deseré, un brano intimista sorretto quasi totalmente da un basso sopraffino su cui Hayes si sovraincide con l’acustica, ritmica e solista, senza mai eccedere, lasciando comunque il basso, che è poi il suo strumento principe, in evidenza. In Love Is Right Hayes fa tutto da solo, non ci sono neppure i batteristi, e forse si sente troppo che le percussioni sono artificiali, però, sarà che ho proprio l’idiosincrasia nei confronti delle batterie elettroniche e delle drum machine…., il brano comunque è assolutamente buono e il suono del basso e delle chitarre ci fanno perdonare questa piccola pecca. E buono, intimo, più nell’onda di Astral Week che mai è anche il brano conclusivo, To Feel Love.

8^ Fiera del Disco di Mariano Comense

di admin

11 gennaio 2018

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Il prossimo 14 Gennaio 2018, si svolgerà la “8^ MOSTRA MERCATO DEL DISCO, CD & DVD, USATO E DA COLLEZIONE DI MARIANO COMENSE, presso IL LOCALE “IL CIRCOLO” in Via E. D’Adda 13.
INGRESSO DEL PUBBLICO GRATUITO – AMPIO PARCHEGGIO GRATUITO – SERVIZIO RISTORO –
70 METRI LINEARI STIPATI DI DISCHI, CD, DVD E TUTTA L’OGGETTISTICA RIGUARDANTE LA MUSICA.
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ORARIO: dalle 10:00 alle 19:00

WINGFIELD/REUTER/SIRKIS – Lighthouse

di Paolo Crazy Carnevale

10 gennaio 2018

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WINGFIELD/REUTER/SIRKIS – Lighthouse (Moonjune 2017)

Curioso, quando mi è capitato per le mani questo CD non ho potuto fare a meno di pensare che si trattasse di qualcosa che avesse a che fare con l’omonimo disco di David Crosby uscito un anno prima, non solo per via del titolo, ma la foto di copertina aveva le stesse tonalità ed un’immagine molto simile… c’era poi il fatto che lì Crosby suonava con Michael League che è un musicista di estrazione jazz (ma il disco non era affatto jazz) come quelli coinvolti in questo disco prodotto da Leonardo Pavcovich.

Tutto sbagliato.

Alla radice di questo disco in trio c’è un altro disco, pubblicato sempre dalla Moonjune e registrato in Catalogna quasi contemporaneamente: col titolo di The Stone House è infatti uscito sempre lo scorso anno un acclamato progetto che oltre ai titolari di questo disco vedeva coinvolto il bassista Yaron Stavi, già con Phil Manzanera e David Gilmour. Nelle giornate precedenti alla registrazione di The Stone House, Wingfield, Markus Reuter (Stickmen e Crimson ProjeKCt) e il batterista israeliano Asaf Sirkis hanno jammato, improvvisato e naturalmente registrato tutto sotto la guida di Pavcovich e del soundman Jesus Rovira.

Il risultato sono le sette lunghe, nervose tracce incluse in questo disco, un’impellente raccolta di composizioni all’insegna del classico suono che è un po’ il marchio di fabbrica di casa Moonjune, un prog jazz molto affilato in cui la chitarra di Wingfield e la TouchGuitar di Reuter, entrambe filtrate con l’elettronica, impazzano sul robusto drumming di Sirkis.
Non un disco di facile digestione, certo, ma comunque un buon esempio della tecnica e delle capacità di questi musicisti, oltre che della straordinaria inclinazione per la label ed il suo comandante a creare situazioni propizie, incontri tra musicisti di diversa estrazione, nazionalità, esperienza, mettendoli in condizione di produrre e creare in sintonia.

CECE WINANS – Let Them Fall In Love

di Paolo Crazy Carnevale

8 gennaio 2018

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CECE WINANS – Let Them Fall In Love (Thirty Tigers Records 2017)

La black music, non è un mistero, pur partendo tutta da una stessa matrice, si è evoluta in mille generi e sottogeneri: la disco, il rap, l’hip hop sono loro (e nostro) malgrado un derivato di quel grande soul e rhythm’n’blues che negli anni gloriosi del vinile ci hanno consegnato artisti monumentali, ma se le contaminazioni sono molteplici e il loro conteggio si perde nell’infinito, di black music d’alta qualità, pur con inevitabili concessioni ad altre sonorità, ne viene ancora prodotta parecchia.

È il caso di questo recente disco della cantante gospel Cece Winans, sulla breccia da parecchi anni, dapprima col duo Bebe & Cece (insieme al fratello Benjamin), dal nome abbastanza infausto e ridicolo, poi come solista. Il gospel pop con cui è condito questo vinile pubblicato dalla Thirty Tigers, un’etichetta che è una garanzia, è a volte un po’ leggero e sovrarrangiato, ma è definitivamente figlio della musica che gli afro americani cantavano, con notevoli risultati e riscontri, negli anni d’oro in cui Stax e Motown erano sinonimi di garanzia.

Il disco è prodotto da Alvin Love III, consorte della Winans, che pur eccedendo qua e là nell’uso di archi e cori, finisce comunque col consegnarci un disco apprezzabile che va ben oltre le connotazioni solitamente associate al gospel.

La voce è di quelle giuste, si capisce da subito, anche se il primo brano He’s Never Failed Me Yet ed il seguente Run To Him strizzano un po’ l’occhio al pop, con Hey Devil! la ricetta cambia, il ritmo spacca e tutta la classe della Winans vien fuori, e vien fuori anche in Peace From God, ballatona guidata dal pianoforte con un break di chitarra acustica e un bel coro a supporto della bella voce della titolare.

Ma il pezzo forte del primo lato è la canzone che lo chiude, una rilettura intensa e riuscita del brano di Kris Kristofferson Why Me?, già rivestita di gospel decenni fa anche da Elvis Presley. Qui la Winans ce la mette proprio tutta per fare una gran bella cosa, l’inizio con la chitarra elettrica appena pizzicata e la gran voce, poi il crescendo con l’organo, i cori e persino una pedal steel usata con parsimonia.

Il lato B parte ugualmente alla grande, Lowly – che è firmata dal marito di Cece – sembra provenire da quella scuola musicale del profondo sud che mescolando country e soul ha lasciato tracce profonde passando per Memphis e Muscle Shoals: l’incedere è vincente, le voci non se ne parla neppure e il pianoforte di Gabe Dixon guida la composizione, che prima del finale ha un breve rallentamento per sola voce e steel guitar prima di decollare vorticosamente.

L’atmosfera si fa più raccolta con Never Have To Be Alone, ballata essenziale dall’arrangiamento misurato (cori e violini ci sono, ma in maniera meno preponderante) che ricorda il pop soul di casa Motown; riesplode poi con Dancin’ In the Spirit, con botta e risposta tra la solista e le coriste su un ritmo sostenuto da un fantastico suono di basso su cui piano e organo ballano allegramente, la soul music venata di funky che prelude alla nascita della disco. Marvelous è forse il brano più propriamente gospel di questo vinile, un gospel moderno con entrata sfumata dell’organo da chiesa, su cui si innestano la voce della Winans e il coro alle sue spalle guidando il brano per tutta la durata, prima che verso la fine facciano capolino – appena appena – basso, chitarra e batteria.

Il finale è affidato ad un brano pianistico composto dalla stessa Winans, l’arrangiamento a cavallo tra pop e jazz (batteria spazzolata e) è abbastanza distante dal resto e appesantisce il risultato finale, privando un bel disco del giusto finale e conferendo alla canzone, non disprezzabile, un’atmosfera da musical disneyano (gli archi e i cori da film ci mettono del loro a rovinare tutto!).

A sottolineare le intenzioni gospel del disco, va osservato come i titoli dei brani – siano essi originali o meno – vengono fatti ricondurre a frasi tratte dalle sacre scritture, vangeli o salmi che siano.

BEN SOLLEE AND KENTUCKY NATIVE – Ben Sollee And Kentucky Native

di Paolo Crazy Carnevale

8 gennaio 2018

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BEN SOLLEE AND KENTUCKY NATIVE – Ben Sollee And Kentucky Native (Soundly 2017)

La rilettura di quello che pare un vecchio francobollo celebrativo dello sbarco sulla luna, con un astronauta (munito di piccone da minatore) che guarda verso l’alto e vede il pianeta terra su cui si distingue la sagoma del continente americano. Che attendersi da un disco con questa immagine in copertina e del cui autore non si sa assolutamente nulla?

Vi faciliterò la risposta: folk appalachiano da camera.

Non stiamo a girare attorno alle definizioni, questo è e basta e avanza. Dopo i primi ascolti volutamente al buio, senza neppure leggere le note di copertina (che ci dicono solo i titoli dei brani e i nomi dei musicisti (sul foglio interno), mi sono reso conto di quanto di buono ci fosse in questo disco, così sono andato a documentarmi.

Ben Sollee è un violoncellista, songwriter, nonché attivista politico molto impegnato sul fronte della difesa dell’ambiente. In una decina d’anni ha dato alle stampe un numero incredibile di dischi, spesso anche in società con altri musicisti come Daniel Martin Moore o Jordon Ellis.

Il progetto Kentucky Native, il più recente, lo vede alla guida di un gruppo davvero minimale, insospettabile una formazione così, ed insospettabile il sorprendente risultato che si può avere registrando un disco utilizzando solamente violoncello, violino, banjo e basso con una spolverata di percussioni. Il termine con cui l’ho definito, folk appalachiano da camera rende in tutto e per tutto quello che suonano i Kentucky Natives: una miscela coinvolgente, a volte dolente altre più moderatamente entusiastica di brani ben composti e ben arrangiati.

Il lato A si apre proprio con un brano tradizionale, la breve Carrie Bell, non ancora abbastanza per entrare nel vero mood del disco, che però ingrana subito con la successiva Presence e mette poi sul piatto una quaterna di brani molto indovinati: cominciando con Mechanical Advantage e proseguendo con Eva Kelley in cui gli strumenti si mescolano con sapienza ed un break strumentale molto facile da assimilare. Il violoncello introduce poi l’ottimo strumentale The Holdout/Speed Breaker, una composizione che permette di apprezzare tutta la bravura dei musicisti coinvolti, ognuno vi trova il proprio spazio senza sbavare, il banjoista Bennett Sullivan, il violino di Julian Pinelli, le percussioni di Jordon Ellis. Buona ultima la malinconica Pieces of You, un racconto quasi in punta di piedi, purtroppo Solle (o chi ha fatto la grafica del disco) ha preferito lasciare sul foglio interno il solo logo del gruppo anziché stampare i testi: il video promozionale del disco suggerisce però una triste canzone su qualcuno che perde la memoria per qualche brutto male dell’età mentre qualcun altro pensa di etichettare tutte le sue cose per aiutarlo a ricordare.

Girando il disco troviamo un brano che sotto l’arrangiamento acustico fa sottintendere la possibilità di una veste più ritmata: Two Tone Gal ha infatti richiami moderatamente swingati ed è guidato molto bene da un basso discreto su cui banjo, violino e violoncello si muovono abilmente.

Well Worn Man sembra più cupa ed ha una lunga coda strumentale che precede Emily’s Song, un brano firmato dal banjoista, uno strumentale aperto proprio dall’arpeggio del banjo che ricorda certe composizioni del Ry Cooder cinematografico, quello di The Long Riders, cello , basso e violino vi si inseriscono sempre con precisione e misura e il risultato è indubbiamente apprezzabile. Moon Miner è la canzone a cui fa riferimento l’immagine creata da Brian Turner per la copertina con l’astronauta armato di piccone: il brano parte come un tango sbilenco sorretto dal violoncello ma poi quando Sollee comincia a cantare diventa quasi un valzer molto rallentato.

Il disco si chiude con The Wire che parte molto veloce, con le percussioni che diventano quasi un set di batteria, ma quando rallenta si fa sorreggere dal giro di basso, salvo poi diventare molto corale con violino, banjo e violoncello impegnati stavolta a creare spazio e volume, come se a suonare fosse una band più numerosa. Anche in questo caso il risultato è eccellente.

CHARLES BRADLEY – Changes

di Paolo Crazy Carnevale

8 gennaio 2018

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CHARLES BRADLEY – Changes (Dunham/Daptone Records 2016)

La storia di Charles Bradley sembra in tutto e per tutto un soggetto cinematografico infarcito di brute sfighe e successi mancati: probabilmente non è un caso che sia stato girato un film su di lui, Soul Of America, presentato nel 2012 al SXSW di Austin. Bradley è uno di quei potenti cantanti dalla pelle nera che negli ultimi anni sono balzati alla ribalta (come Sharon Jones) riportando in auge suoni e canzoni che sembrano arrivare direttamente da quell’epoca in cui tra casa Stax e casa Motown la black music era in auge grazie ai nomi di Otis, Aretha, Percy, Wilson e ovviamente James, il “padrino del soul”.
Letteralmente folgorato dall’aver assistito ad un concerto del suddetto “padrino” all’Apollo di New York, Bradley è passato attraverso le più svariate esperienze professionali, girando l’America in lungo e in largo, dormendo in scantinati, facendo i lavori più disparati e cercando invano di farsi un nome nello show business, nel momento sbagliato, quando la musica che tanto amava non era già più in auge. Se la sua attitudine al palcoscenico si è forgiata proprio sul vivido ricordo del concerto di James Brown, la sua vocalità è più accostabile a quella di Otis Redding, soprattutto nel suo modo di approcciare le ballad, soul o meno che siano.

Il successo è stato tardivo per Bradley, scoperto all’inizio del terzo millennio da Bosco Mann della Daptone Records: dapprima ci sono stati concerti e singoli, poi nel 2011 è giunto anche il primo di tre LP e il nome di Bradley ha cominciato a girare molto anche in Europa.

Lo scorso anno è arrivato il terzo disco, questo Changes che prende il titolo da una geniale cover del brano dei Black Sabbath (a dimostrazione della predisposizione del nostro a confrontarsi con autori lontani da soul, cosa dimostrata in precedenza con Neil Young e i Nirvana).

Accompagnato da una solida band (i cui componenti sono anche autori o coautori delle canzoni) in grado di ricreare quelle atmosfere che calzano come un guanto alla sua voce, Bradley si cimenta in una decina di brani – undici se contiamo la breve introduzione di God Bless America – che riescono ad essere modernissime pur sembrando provenire da un passato quasi remoto.

Good To Be Back Home è forse il brano in cui l’influenza di Brown si fa più sentire, per contro già con Nobody But You il riferimento a Redding, alla sua vocalità, ai suoi urletti è più che una certezza: Bradley è un erede naturale del grande Otis, anche nella successiva Ain’t Gonna Give It Up, nonostante l’arrangiamento tenda più verso il funky precursore della prima disco music, l’impressione è quella di trovarsi al cospetto di una grande soul ballad. Destino che tocca in sorte in misura anche maggiore alla rilettura di Changes, aperta dall’organo e cadenzata da un basso su cui i fiati s’innestano magistralmente. Applausi a scena aperta. Bradley è un portento e con questo brano è in grado di mettere tranquillamente a tacere ogni eventuale e poco accorto detrattore.

Ain’t It A Sin, in cui il modello sembra tornare ad essere James Brown, è molto ritmata e suona vagamente di già sentito, per via di un giro di basso terribilmente familiare, ma dà l’idea di aver un gran potenziale nelle serate dal vivo. Il soul più classico torna a farsi sentire in Things We Do For Love, dall’ottimo impasto sonoro, con le tastiere e la chitarra in primo piano e l’eccezionale accompagnamento delle Gospel Queens (che fanno da backup vocalist in tutto il disco). Bello l’andamento recitativo di Crazy For Your Love, altra ballata dalla cadenza ampia e ariosa, e bella anche You Think I Don’t Know sottolineata bene dalla chitarra e dai fiati con le voci femminili che fanno botta e risposta con quella de leader. La fine del disco è affidata a Change For The World, quasi un brano in stile colonna sonora per film di blaxpoitation, e a Slow Love che suggellano quello che la critica ha unanimemente indicato come il miglior disco (finora) inciso da Bradley.

THE NEW MASTERSOUNDS – Masterology

di Paolo Crazy Carnevale

8 gennaio 2018

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THE NEW MASTERSOUNDS – Masterology (Sundazed 2010, 2 LP)

L’energia ed il gusto musicale sviscerati da questo quartetto britannico, da tempo residente a Denver, sono davvero incomparabili, contagiosi, senza tempo.

Se è un dato di fatto che questa musica ha avuto i suoi giorni migliori in altre decadi di altri millenni, è altresì vero che quando c’è qualcuno che la suona con ardore, come fanno i New Mastersounds, continua ad essere – come ogni altro genere datato – una gioia da ascoltare.

Lo sticker che la Sundazed, responsabile di questa doppia raccolta parla chiaramente di “a massive dose of dance floor funk!!!”. E come darle torto, i New Mastersounds sono tra gli alfieri di questa musica strumentale che prendendo le mosse dai pionieri del genere di fine anni sessanta/primi settanta, si è sviluppata inglobando varie altre influenze, da quella di certo acid jazz al rhythm’n’blues ricco di groove che ha portato alla nascita della prima disco music.

Pionieri del new british funk, i New Mastersounds intessono trame sonore costruite sui riff e sul suono ineccepibile dell’organo Hammond suonato da Bob Birch: la sezione ritmica (Simon Allen e Pete Sand) ed una chitarra dal suono molto geometrico le cui corde sono torturate da Eddie Roberts che del gruppo è un po’ la guida. La loro storia comincia alla fine degli anni novanta ma il primo disco è del 2001; per questo Masterology sono state scelte nientemeno che da Bob Irwin in persona – il guru della Sundazed – una ventina di tracce estrapolate dai dischi di studio e dal vivo del gruppo oltre che da una serie di singoli meno noti. Il risultato è molto brillante, una raccolta ineccepibile che mette molte cose sul piatto: si comincia con Baby Bouncer e Can’t Hold Me Down, che danno subito un saggio fenomenale del potenziale del gruppo, e si prosegue con la lunga Land Of Nod che offre la possibilità di dilatazioni strumentali molto vicine alla psichedelia senza però mai scostarsi dal funk primordiale. Una delle perle dell’intero disco è Ode To Bobby Gentry, una sorta di rivisitazione del classico scalaclassifiche della cantautrice Bobby Gentry Ode To Billy Joe, grande successo negli anni sessanta: il brano, in precedenza disponibile solo su un 7 pollici, è magnificamente costruito sulla chitarra di Roberts. Con Hole In The Bag, dal riff molto serrato a metà tra Booker T (complici le tastiere ovviamente) e l’Otis Redding più spinto di Hard To Handle si chiude il lato A. Stessa ambientazione per l’inizio di All I Want (Right Now) che inaugura il lato B: stavolta c’è una ripresa vaga del riff di Knock On Wood, sempre di casa Stax, ma la sezione ritmica è più ardita e i riff della chitarra impazzano. The Minx è tratta da live a San Francisco di difficile reperibilità, qui la chitarra sfoggia un wah wah d’altri tempi e il brano sembra un’ottima occasione per la band di dare saggio delle proprie capacità a livello d’improvvisazione, con l’Hammond che s’intrufola ovunque dando al sound una ricchezza inestimabile. Altra ottima composizione è Better Of Dead in cui la chitarra assume sonorità da sitar: la ritmica è incalzante, i riff si rincorrono e come da copione l’Hammond si ritaglia i meritati spazi; meno interessante è La Cova, brano soffuso troppo breve per fare presa, estrapolato dal disco dal vivo registrato nel 2005 nell’omonimo locale di Minorca. Nervous, la composizione tratta dal primo disco del gruppo che va a chiudere la seconda facciata tiene fede al proprio nome, è un funk molto jazzato in cui un trio di fiati composto da Atholl Ransome, Jason Rae e Malcolm Strachan conferisce un’andatura decisamente nervosa, sempre sopraffino il lavoro di Bob Birch. Il lato C è quello che mi piace di più, solo quattro brani, ma di gran respiro e grande ispirazione: Thermal Bad proviene da Plug And Play, l’unico altro disco del quartetto che conosco, è un brano dal gran potenziale in cui le tastiere e la chitarra col wah-wah ripercorrono i fasti del sound dell’Isaac Hayes che sfornò la colonna sonora di Shaft, nella composizione successiva invece facciamo conoscenza con l’unica canzone del disco, nel senso che si tratta dell’unica composizione cantata e la voce è quella di Corinne Bailey Rae che ben si adatta alle sonorità raffinate qui create dai New Mastersounds: soul di classe, con la ritmica precisa e gli interventi di chitarra e Hammond che ben si adattano anche alla musica cantata. Colorado Sun è un gran brano dalle insinuanti atmosfere notturne mentre la lunga Spooky, ripresa dal menzionato live ispanico è decisamente in odor di Santana, ma la chitarra di Roberts brilla di luce propria senza fare il verso a quella del più celebre collega. L’ultimo lato del disco si apre con The Vandenburg Suite, dove il modello invece è il funk di James Brown, ma in versione rigorosamente strumentale, a seguire la nervosa ed elettrica più che mai Give Me A Minue, con la batteria un po’ troppo fastidiosa, a differenza di Dusty Groove, dall’ispirazione simile ma con un missaggio assai più riuscito e fraseggi Hammond da ludibrio puro. Meno d’impatto la breve Miracles. Il doppio vinile dalla bella confezione gatefold (ma esiste anche un CD) si conclude con la samba insipida di Idris e con Butter For Yo’ Popcorn in origine inclusa su un singolo francese.

SHARON JONES AND THE DAP-KINGS – Give The People What They Want

di Paolo Crazy Carnevale

6 gennaio 2018

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SHARON JONES AND THE DAP-KINGS – Give The People What They Want (Daptone 2014)

L’attacco di Retreat!, il brano con cui questo disco s’inaugura, è di quelli che pigliano subito: la chitarra e la batteria, poi il cembalo e la voce che entra protagonista con l’eco della sezione fiati ed un basso di quelli che pompano. Se fossimo negli anni sessanta l’impressione sarebbe quella di trovarci al cospetto di un disco vincente di casa Motown. Senza dubbi!

Solo la qualità e la pulizia del suono ci possono riportare al presente, perché il disco ed il suo singolo (ammesso che si possa usare ancora questo termine parlando di supporti musicali non fisici) sono proprio pensati e suonati con la mente all’epoca d’oro di certe sonorità. D’altra parte per una voce come quella di Sharon Jones non si poteva fare diversamente: la storia forse è nota, la Jones (scomparsa lo scorso novembre all’età di sessant’anni) è assurta a notorietà nel campo rhythm’n’blues solo una decina di anni fa, dopo aver fatto per anni la guardia carceraria a Rikers e la portavalori per la banca Wells Fargo, tentando inutilmente di sfondare nel music business.

La leggenda vuole infatti che quando era giovane nessuno dell’ambiente discografico volesse filarsela e ci sono voluti decenni prima che qualcuno abbia deciso di darle credito. Per fortuna.

Nella sua breve carriera la Jones è riuscita a pubblicare sei/sette dischi, accasandosi presso la Daptone Records, piccola etichetta newyorchese dai grandi prodotti e dal gran gusto: le è stato cucito addosso un gruppo di professionisti sotto il nome di Dap-Kings, alla stregua delle house band delle label di una volta, tra i quali spicca il nome di Bosco Mann, polistrumentista, produttore, autore e autentico direttore dell’ensemble che accompagna la Jones.

Il risultato è da inchinarsi e scappellarsi, sembra di essere tornati indietro di quarant’anni e più, i Dap-Kings sono una macchina da ritmo (non è un caso se Bosco Mann e il gruppo sono anche dietro quel gran disco che è il Back To Black di Amy Winehouse), la voce di Sharon Jones fa il resto.

Rispetto a lavori precedenti della Jones, in cui il modello di riferimento sembrava essere James Brown col suo funk-soul da battaglia, le atmosfere di questo Give The People What They Want virano verso un rhythm’n’blues più morbido. Il lato A di questo vinile (che fin dalla grafica di copertina e dal pesante cartone della confezione richiamano il passato) è un tripudio dietro l’altro, se il brano citato in apertura ha fatto da traino (fino a portare questo disco alla nomination come miglior prodotto errenbì alla cerimonia dei Grammy), il resto non è da meno, grandi brani sono anche Stranger To My Happiness con un sax vagamente ska e bei cori ad opera delle Dapettes, la scanzonata e contagiosa We Get Along, You’ll Be Lonely composizione di gran carattere e precisa struttura che ne fanno una delle migliori del lotto intero, la possente e varia Now I See, autentico veicolo per i graffi e le carezze di cui la voce della Jones è capace.

Meno d’effetto il lato B, pur restando nell’ambito della buona musica, con qualche virata più pop-soul (proprio per questo il disco è più Motown che Stax oriented), fin dall’iniziale Making Up And Breaking Up, eccellente soul ballad. Tra le cose più in vista di questa seconda parte va citata anche Long Time, Wrong Time, firmata dal sassofonista Cochemea Gastelum.
Forse negli anni settanta, quando la Jones avrebbe potuto emergere come cantante giovane, questo genere musicale era ormai troppo contaminato dai fenomeni disco e dance; per fortuna il ritorno alla musica bella le ha reso onore e gloria almeno nei suoi ultimi anni.

ROBERT RANDOLPH & THE FAMILY BAND – Got Soul

di Paolo Crazy Carnevale

3 gennaio 2018

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ROBERT RANDOLPH & THE FAMILY BAND – Got Soul (Dare Records/ Sony Masterworks 2017)

Nel panorama delle uscite a cavallo tra rhythm’n’blues, soul, funk rock, il disco di Robert Randolph è sicuramente quello che racchiude le maggiori influenze e di conseguenza che esprime tutte le contaminazioni dei generi suddetti, incluso certo rock sudista così distante dalle radici newyorchesi del titolare. Partendo dal gospel strumentale che il nostro aveva cominciato a suonare con la sua pedal steel nelle chiese, la musica della Family Band si è evoluta, allargata, adora jammare, tanto che nelle serate dal vivo i brani si confondono l’uno con l’altro, tutti i componenti del gruppo diventano cantanti e viene fuori anche tutto quello spirito hendrixiano di cui Randolph e parenti fin da subito sono stati identificati come latori e discepoli.

In studio le cose cambiano un po’, nel senso che i brani sono più definiti, il sound è studiato a tavolino e questo settimo disco della formazione (il quinto in studio) pare essere, per ora, il più interessante, il più maturo, pur ricalcando ampiamente la struttura dei suoi predecessori nell’uso di guest vocalist e di inserire cover d’autore nelle scalette a base di composizioni originali.

Il cugino Marcus siede ai tamburi e la sorella Lanesha fornisce le backing voclas con Candice Anderson, Stevie Ladson e Johnny Gale, l’hammond è affidato alle dita sapienti di Raymond Angry e il basso è opera di Derrick Hodge che però non fa parte della Family Band on stage.

Il lato A della versione in vinile (uno spettacolare gatefold con una bella foto di Randolph elaborata al computer) si apre con un medley tra la Got Soul, la title track, e She Got Soul, la band stantuffa e offre subito spunti al leader per i suoi ricami a base di pedal steel. Due composizioni un po’ routinarie per la verità, ma comunque buone per aprire le danze. A cantare con Randolph, nel secondo dei due pezzi troviamo il cantautore e produttore Anthony Hamilton.

Il decollo vero e proprio di questo LP arriva con la terza traccia, l’hit single dischiarato dallo sticker apposto sul cellophane, Love Do What It Do, l’amore fa quel che fa, e la voce solista è quella di Darius Rucker che contribuisce a far volare il brano lasciando libero Randolph di librarsi con la sua pedal steel divincolandosi tra le trame tessute dall’hammond. Shake It è un altro buon brano originale con la band che pompa alla grande prima di lanciarsi tra le raffinatezze soul di I Thank You, a firma Hayes-Porter, che era stata un successo per Sam & Dave. Qui è l’ospite Corey Henry che duetta alla voce con Robert e rileva l’hammond dalle mani di Angry. La versione è molto riuscita ed il brano splendidamente rivestito a nuovo. La chiusura della prima facciata è affidata alla breve perla strumentale Heaven’s Calling, una specie di dimostrazione di che voce possa venir fuori dallo strumento del titolare, qui molto dalle parti dei due dischi incisi col quintetto The Word (con i fratelli Dickinson, John Medeski e il bassista Chris Chew).

La seconda facciata del disco è, se possibile, ancora più energica, molto robusta, nell’iniziale Be The Change hanno spazio per cantare non solo come coristi anche Lanesha e Johnny Gale, Find A Way è un ottimo brano dalla struttura elaborata che sembra finire in un altro brano, purtroppo sfumato, in cui l’atmosfera si rallenta, probabilmente per riesplodere come accade nei concerti del gruppo di solito. I Want It è dinamite, Randolph paga pegno a Jimi Hendrix nel riff del brano e tutti i cantanti ci danno dentro mentre oltre alla pedal steel del leader troviamo anche l’elettrica di Eric Gales.

Travelin’ Cheeba Man è forse il brano in cui si fanno sentire maggiormente le influenze di certo rock sudista, si tratta di uno strumentale dall’andatura un po’ boogie che Robert Randolph e parenti riescono domare con sapienza. Lovesick è ancora un buon veicolo per le acrobazie del titolare con la sua pedal steel, la sezione ritmica ci dà dentro come uno stantuffo.

La chiusura è affidata alla riuscitissima Gonna Be Alright, brano dalle fattezze meno muscolari e denso di quella raffinatezza che sul lato A era affidata al brano di Sam & Dave, la voce solista è quella di Steve Ladson, decisamente più soul di quella di Randolph che qui ne approfitta per dare un altro saggio di abilità duellando con l’elettrica di Gales, mentre l’organo, continua ad essere protagonista creando i tappeti su cui voci e chitarre possono camminare comodamente e morbidamente.

ANDREA DE MARCO – Acer Rubrum

di Paolo Crazy Carnevale

1 gennaio 2018

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ANDREA DE MARCO – Acer Rubrum (Fingerpickingnet 2017)

Partiamo dal presupposto che non ho mai sentito nominare Andrea De Marco prima di essermi imbattuto in questo suo disco, e aggiungiamo che non sono riuscito a trovare troppe informazioni su di lui: la conclusione è comunque che questo sforzo del chitarrista di Imola pare decisamente positivo.

Non so in quale filone dei cosiddetti album di virtuosi della chitarra sia da incanalare, ma forse l’indicazione da seguire è proprio quella di non volerlo incanalare a tutti i costi: De Marco mette sul piatto, o meglio nel lettore CD, una decina di brani, quasi interamente di sua composizione, tutti sorretti in solitudine dai suoni della sua chitarra, prodotti con accuratezza.
Fingerpicking, sicuramente, come suggerisce il nome dell’etichetta che ha pubblicato il disco, ma anche molto altro, rock ad esempio come suggerisce invece la voce di Igor Piattesi (già vocalist dei Vicolo Inferno, anch’essi di Imola), ma anche suggestioni classicheggianti. Tutte le composizioni sono molto godibili e lontane dalla verbosità e dall’eccessiva ricerca sonora di chitarristi acustici come il pur bravo Franco Morone.

Il disco si apre con un brano sognante e riuscito il cui titolo, Arwen, porta alla mente richiami fantasy legati alla saga del “Signore degli anelli”, e in punta di piedi è seguito da Dedicato a te.

Nella terza traccia entra in campo il suddetto Piattesi che con la sua voce infonde al brano (sempre acustico e dotato di liriche da Caterina Minguzzi) l’imponenza di certe ballad tipiche del genere metal, e difatti Bring Us Back To Life suona proprio come le più tipiche ballate metalliche (sulla stessa onda di Another Day dei Dream Theater, che troviamo poco più in là sul disco e sempre affidata alla voce di Piattesi).

Altre due buone composizioni sono Goodbye e Arianna, in cui il suono è proprio quello della chitarra classica.

Tra echi e suggestioni idilliache Alessia è un’altra delle tracce particolarmente interessanti del disco, mentre il fingerpicking è protagonista di Dancing Mouse, composizione piacevolissima e riuscitissima in cui lo stile tipicamente americano si fonde con una melodia che richiama suggestioni tipicamente celtiche. Il disco volge al termine con My Words breve composizione che prelude alla seconda bella cover, in cui De Marco duetta con Irene Rugiero su Walls firmata da Tommy Emmanuel (virtuoso del fingerpicking il cui solo elenco del curriculum richiederebbe molto altro spazio).

BAYOU SIDE – Unbound

di Paolo Crazy Carnevale

1 gennaio 2018

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BAYOU SIDE – Unbound (Three Saints Records 2017)

Capita di rado di mettere sul piatto un disco realizzato in Italia da cui escano suoni che sembrano provenire direttamente da Oltreoceano: non me ne vogliano i partigiani di tutta quella schiera di bravi, meno bravi o bravissimi italici artisti che vanno a registrare i loro dischi fuori porta oppure chiamano a produrre e suonarci fior di nomi americani, ma sono convinto che valga molto di più lo spirito che l’uso di ingredienti tipici per fare un disco di musica americana come si deve.

Ecco, questo debutto dei Bayou Side secondo me ci è riuscito appieno, ammesso e non concesso che fosse nelle loro intenzioni fare un disco così americano. I Bayou Side sono il trio del chitarrista altoatesino Hubert Dorigatti, ottimo chitarrista e pregevole cantante che lo scorso inverno si è ritrovato a difendere i colori nazionali all’International Blues Challenge di Memphis, a cui è arrivato dopo accurate selezioni tenutesi in occasione del Delta Blues Festival di Rovigo.
La ricetta dei Bayou Side è chiara, un blues dalle connotazioni molto rurali, con una sezione ritmica in punta di piedi (Klaus Telfser al contrabbasso e Peter Paul Hofmann alla batteria) che fa il suo lavoro diligentemente in modo da supportare i voli mai pesanti della sei corde di Dorigatti, sia che si tratti di acustica, che di elettrica o resofonica, tutte suonate con identica bravura.

I brani sono tutti originali se escludiamo la classica See That My Grave Is Kept Clean di cui però Dorigatti mantiene solo il testo ed elabora un tema musicale originale con adeguato riff di chitarra che ben si adatta all’occorrenza, dimostrando di aver raccolto perfettamente i dettami del verbo blues in cui il brano originale è sempre lì lì per divenire qualcosa di completamente o (perché no?) similarmente diverso: non è un caso che il gruppo nel corso delle sue brillanti esibizioni live si conceda personalissime e indovinate riletture di brani che sembrano stare agli antipodi, come Purple Haze o Goodnight Irene. È il segnale più che evidente di come l’obiettivo di realizzare del blues spolverato di rock e roots music sia riuscito, senza fronzoli od artifizi irrilevanti.

Il lato A del disco si apre con due brani che la dicono subito lunga sui Bayou Side: No Money Blues e Unbound sono suonate, composte e cantate alla perfezione, nulla farebbe presagire – se non lo sapessimo già – che questo trio arriva dal Sudtirolo e non dalle pianure del Texas o dalle colline del Tennessee. Emily è una deliziosa traccia acustica, molto raccolta, mentre Voodoo Queen In Pink tradisce le radici jazz di Dorigatti, ma senza esagerare troppo, in Mary torna la chitarra acustica, il brano ha un’andatura tipicamente country-blues, a dimostrazione di quanto bene tutte le sfumature del genere siano state assorbite dal trio, poi la prima facciata va a chiudersi con l’energica I Get Lost, con l’acustica che ricama riff insieme al basso e Dorigatti che canta particolarmente ispirato mentre a completare il suono c’è, in qualità di ospite, una sofferta armonica soffiata da Giulio Brouzet.

La seconda parte inizia con Everything Is Alright convincente composizione in cui riaffiorano senza mai disturbare i trascorsi jazzistici di Dorigatti, testo azzeccato, batteria spazzolata e ancora gran lavoro della chitarra. First September Rain si apre invece con un’introduzione a cappella su cui poi i Bayou Side entrano all’unisono, le chitarre quasi in odor di Ry Cooder (ma avrete già capito che Dorigatti non ama farsi definire con paragoni: le sue influenze in campo blues sono le più disparate e lui è come un sarto che sapientemente taglia, cuce, assembla ma soprattutto ci mette del suo. Della riuscita trasposizione del brano di Blind Lemon Jefferson vi ho già detto più sopra, Lullaby For Me è invece un brano più raccolto, la chitarra acustica è deliziosamente intima come si addice ad una lullaby che si rispetti, il contrabbasso di Telfser è suonato con l’archetto e Dorigatti si fa accompagnare al canto da Irmi Amhof e Marion Feichter.

Per il gran finale il trio si affida a Not Ready To Go, una composizione sorretta da una slide da brivido e cantata con intensità.
La versione in CD include un brano in più, This Girl Is Mad, e l’ordine dei brani è differente, salvo che la canzoni con cui si aprono e chiudono sia CD che long playing in vinile (rigorosamente 180 grammi) sono le stesse.