Archivio di novembre 2021

ANNIE GALLUP – Oh Everything

di Paolo Baiotti

28 novembre 2021

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ANNIE GALLUP
OH EVERYTHING
Gallway Bay Music 2021

Cantautrice di Ann Arbor in Michigan cresciuta con la passione per il country-blues, interprete sensibile e raffinata con una voce che richiama quella di Marianne Faithfull e autrice di testi intimi e significativi, Annie ha inciso una dozzina di album per etichette indipendenti, accompagnata spesso dal marito Peter Gallaway con il quale condivide il progetto Hat Check Girl (otto dischi in studio). A sua volta Peter è attivo da decenni come solista, avendo pubblicato anche per la Warner/Reprise prima di entrare nel circuito indipendente e incidere sia da solo che con vari gruppi (The Fifth Avenue Band, The Real Band…) ed essere coinvolto in produzioni di notevole livello come la raccolta Bleecker Street – Greenwich Village in the ‘60s.
Nel corso della pandemia, un periodo sofferto e oscuro caratterizzato da una forte insonnia, Annie ha scritto una serie di canzoni raccolte in Oh Everything che è stato registrato e mixato nello studio di famiglia Rockland nel Maine dalla cantante (chitarra elettrica e acustica, lap steel, dobro) con Peter (chitarra, basso, sintetizzatori, percussioni e batteria elettronica) e con la preziosa aggiunta di Harvey Jones (synth, tastiere, violoncello), già collaboratore di Sting, Robert Fripp e Carla Bley, che ha inciso le sue parti a New York.
La melodica e avvolgente Magic Saved Me apre il disco in modo eccellente, risultando una delle tracce più convincenti. Se alcuni brani più sperimentali come Rockabye, quasi rappata e la narrata I Dreamed lasciano qualche dubbio, la sofferta e malinconica Sleeplessness cantata con toni accorati e arrangiata con il violoncello e Little Theater, che l’autrice considera la più riuscita del disco, confermano la preferenza di Annie per atmosfere rarefatte e intimiste che caratterizzano altri brani come Who Hurts You, Everybody Wants To Take Her Home e Portrait Of The Artist As A Young Punk che chiude il disco seguendo le medesime coordinate sonore.

Paolo Baiotti

TOMMY CASTRO – Bluesman Came to Town

di Paolo Crazy Carnevale

28 novembre 2021

tommy castro

TOMMY CASTRO – Bluesman Came to Town (Alligator/IRD 2021)

Lo ammetto, quando ho realizzato che questo settimo disco di Tommy Castro su Alligator vedeva l’artista accompagnato da una sorta di house band al posto dei suoi fidi Painkillers (presenti tra l’altro nei due eccellenti lavori che lo avevano preceduto), mi sono un po’ preoccupato.

Il fatto che ci fosse il prezzemolino Kevin McKendree (tastierista e produttore presente in molte pubblicazioni Alligator) e che tra i vari tecnici in cabina di regia figurasse l’ancor più prezzemolo Kid Andersen (per altro presente anche in altri lavori di Castro) mi ha fatto temere di imbattermi in un sound preconfezionato e un po’ qualunque tipico di altri dischi blues dell’etichetta, tipo quelli di Rick Estrin, Tinsley Ellis, Nick Moss: tutti dischi di qualità, ma senza il mordente che hanno quelli di altri artisti Alligator come Shemekia Copeland, il duo Curtis Salgado & Allan Hager, Kingfish.

Proprio al produttore e alla house band dell’esordio del giovane chitarrista Kingfish, si è affidato Castro per il suo primo concept album, questo Bluesman Came to Town, che racconta la storia di un ragazzo di provincia la cui vita cambia radicalmente dal momento in cui nella sua cittadina arriva un bluesman.

La produzione esperta di Tom Hambridge e il sostegno dello stesso alla batteria, di Rob McNeeley alla seconda chitarra, Tommy MacDonald al basso e del suddetto McKendree portano il chitarrista e cantante di San Francisco a realizzare un disco ambizioso e importante, soprattutto bello.

Un disco che può contare sul poliedrico modo di sentire il blues che è poi quello che rende Castro più interessante e valido dei menzionati Nick Moss e Tinsley Ellis.

Una dozzina di brani nuovi di trinca, tutti composti per l’occasione da Castro e Hambridge, tutti ben suonati, a partire dalla convincente Somewhere, che apre (e chiude, ma in versione slide acustica in cui con Castro c’è la sezione ritmica dei suoi Painkillers) il disco alla grande con un cameo di Jimmy Hall all’armonica, la chitarra è sempre dominante, ma è tutto l’insieme che gira bene, a partire dall’uso maturo e vario della voce. Cosa che si conferma nella title track in cui i cori sono a cura di Hall e in Child Don’t Go, veloce brano in cui a duettare con il titolare troviamo Terrie Odabi, mentre alle tastiere è ospite Mike Emerson (della band abituale di Castro).

Prima perla del disco è You To Hold On To, spettacolare virata verso il soul, con voce alle stelle e grande lavoro dell’organo di McKendree. Con Hustle le atmosfere si fanno più moderne, molto funk con echi di James Brown che convincono appieno, grazie anche ad un’azzeccata sezione fiati arrangiata da Keiyh Crossan.

I Got Burned è uno shuffle come tanti se ne sono sentiti, molto meglio il lento blues dal sapore texano Blues Prisoner in cui la chitarra di Castro duetta egregiamente col piano di McKendree nella lunga introduzione. I Caught A Break sembra un omaggio ai riff di Chuck Berry, l’eloquente Women, Drugs & Alcohol è solido rock blues, blues notturno per Draw The Line in cui ritroviamo Emerson alle tastiere. Il soul della successiva I Want To Go Back Home è un altro pezzo da novanta del disco, grande interpretazione vocale, chitarra essenziale, sezione fiati giusta (qui arrangia Deanna Bogart) con misurato assolo di sax, tastiere ficcanti. Applausi (da immaginare a scena aperta nelle esecuzioni live del disco). Il disco si chiude con il riff ripetitivo della roboante e sferragliante Bring It On Back, prima della ripresa dell’opening track a cura dei Painkillers.

Paolo Crazy Carnevale

COREY HARRIS – The Insurrection Blues

di Paolo Crazy Carnevale

21 novembre 2021

corey harris

COREY HARRIS – The Insurrection Blues (Bloos Records/IRD 2021)

Il disco che abbiamo tra le mani è un disco molto particolare ed è un disco che la dice lunga sui propri intenti fin dalla copertina, in cui si intuisce il Campidoglio americano avvolto dalle fiamme, e dal titolo. Corey Harris del resto è un musicista le cui radici affondano in epoche antecedenti alla sua nascita, quando con le canzoni era importante anche dire delle cose, oltre che cantare.

Il blues – dicono le note di presentazione del disco nel sito dell’etichetta – è il nuovo modo che abbiamo per sopravvivere in un mondo che sta andando a fuoco. E gli intenti sono decisamente notevoli.

Mick Jagger non è certo il primo musicista rock ad aver deciso di prendere casa nella nostra penisola, Harris lo ha fatto prima di lui e per un po’ di tempo la sua residenza si è trovata in Abruzzo, ad Atri, dove il disco è stato registrato negli studi di Simone Scifoni, coproduttore del disco con il titolare, tutto in una giornata, come facevano i vecchi bluesmen.

Nella fattispecie il 21 maggio 2021.

Il tutto si compone di quindici tracce, alcune originali altre ripescate dalla tradizione o dai songbook di illustri padri fondatori.
Harris inserisce nel suo lavoro tutte le sue influenze, tutta la sua conoscenza, con il risultato di un disco affascinante per quanto riguarda le sonorità, un po’ zoppicante nel complesso per via dell’inserimento di qualche cosa di non particolarmente esaltante.

Se l’inizio è subito molto indovinato, grazie a Twelve Gates To The City in cui sfoggia un bel fingerpicking (ovviamente il disco è totalmente acustico e suonato interamente da Harris, salvo due interventi di ospiti in altrettanti brani) alla reverendo Davis, con la chitarra di Harris che pare librarsi al pari di quella di Jorma Kaukonen nel primo mitico disco degli Hot Tuna. Non è male neppure l’inserimento di Some Of The Days, firmata da Charlie Patton e When Did You Leave Heaven in cui il mandolinista Lino Muoio piazza un intervento alla Ry Cooder che desta entusiasmo.

Meno bene le incursioni nella musica africana da Harris più volte bazzicata in passato, dal film sul blues diretto da Scorsese alle collaborazioni con Olu Dara e Ali Farka Toure. Toubaka è un breve strumentale tradizionale e Mama Africa un originale lungo e noiosetto.

Meglio la ripresa di Special Rider Blues del vecchio Skip James, ma sinceramente anche la seguente Sunjata, di nuovo un tradizionale di provenienza africana, non convince troppo.

Sorvoliamo sui trenta secondi di interludio che sembrano provenire dai disordini del Campidoglio e passiamo alla title track cantata da Harris con voce tenorile, anche se è evidente che uno dei punti deboli dell’artista sia la mancanza di una voce personale, al pari di come il suo talento alla sei corde è ineccepibile. Il fingerpicking torna con la breve Boats Up River e con l’originale By And Bye, bel brano in cui affiorano di nuovo le carenze vocali di Harris, proprio come nella classica You Gonna Quit Me Baby di Blind Blake, in cui però è eccellente il lavoro della chitarra. Phil Wiggins soffia nell’armonica nello strumentale Afton Mountain Blues, composto da Harris. That Wil never Happen No More è un rag di nuovo a firma Blind Blake e precede la conclusiva Scottsville Breakdown breve strumentale di routine.

Paolo Crazy Carnevale

Il Ritorno dell’EP: THE BEAUTIFUL ART OF DECAY/BORTA PA VINDEN

di Paolo Baiotti

21 novembre 2021

IL RITORNO DELL’EP.

In questo mercato discografico estremamente frammentato è tornato di moda anche il formato del mini-album o EP, forse per il costo minore al quale si aggiunge la tendenza favorevole nei confronti della canzone singola o comunque di un prodotto breve che non implichi tempi lunghi per l’ascolto. In ogni modo qui ne segnaliamo due provenienti dalla Svezia.

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THE BEAUTIFUL ART OF DECAY:SOUNDS OF A PROMISING FUTURE (Paraply 2021)
Questa formazione svedese si è formata a Stoccolma nel 2015, suonando soprattutto in patria con qualche apparizione inglese. Si tratta di cinque musicisti esperti, provenienti da gruppi di area punk e post-punk, con influenze che si riallacciano a nomi storici. Dopo avere realizzato un paio di singoli li raggruppano in questo EP di quattro canzoni che anticipa un album previsto per il prossimo anno. La ritmata Stories ha indubbi richiami a David Bowie, anche nel modo di cantare, mentre Enemies ricorda i Simple Minds e in generale il suono degli anni ottanta. Ma il brano migliore è forse il primo singolo Americans, un up-tempo trascinante con reminiscenze punk cantato con voce filtrata da Pelle Strandberg, seguito dalla ballata Happiness Even After in cui spicca il suono secco ed incisivo delle chitarre nella coda strumentale.

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BORTA PA VINDEN: CD EP (Rundare/Paraply 2021)
Questo EP raccoglie sei brani del 1980-1981 di una formazione svedese che si muoveva tra punk, rock e reggae, utilizzando la lingua locale, nella quale ha militato anche il noto produttore Peter Holmstedt. In attività tra il ’79 e ’82, dopo tanti anni hanno deciso di mettere mano al materiale inedito rimasto nei cassetti.
Si parte con Ingemar Aker Stortlopp, un reggae-rock dedicato allo sciatore Ingemar Stenmark che risente delle influenze delle formazioni inglesi del periodo come i Ruts o i Clash, seguito da Kaj Dimmornas Bror, un reggae con una chitarra che si insinua in modo incisivo e da AT Reggae, un reggae-rock più leggero in cui viene lasciato ampio spazio alla chitarra solista. Le altre tracce sono John Wayne, un brano rock rilassato e melodico ben costruito, il punk secco e rabbioso di Hatets Sang e Juice Blues, un blues raffinato con intrecci elettroacustici di ottima fattura che dimostra la capacità del gruppo di spostarsi dalle coordinate sonore di riferimento. Niente male per una formazione che ha inciso pochissimo nel periodo in cui è rimasta in attività.

TOM RODWELL – Wood & Waste

di Paolo Baiotti

15 novembre 2021

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TOM RODWELL
WOOD & WASTE
Fireplace 2021

Al contrario di molti musicisti che convergono verso la Gran Bretagna per cercare di costruirsi una carriera musicale, Tom ha operato diversamente spostandosi dalla nativa Sheffield alla Nuova Zelanda, dove si è creato una nicchia come session man collaborando ai dischi di musicisti locali come William Adamson, Don McGlashan, Art Terry e Coco Davis. Inoltre ha inciso due dischi con gli Storehouse a partire dal 2008 con il primo volume di Housewrecking seguito da un altro nel 2014 e ha esordito da solista con Live Humble del 2012, replicando con Wood & Waste a nove anni di distanza. In questo periodo Rodwell ha anche suonato dal vivo come supporto a Leon Russell, Tedeschi Trucks Band, Otis Taylor, Charles Bradley e John Butler Trio, ottenendo rispetto e considerazione da parte dei colleghi e della stampa. La sua musica è particolare: un blues scarnificato e ipnotico, molto ritmico e ballabile, influenzato dalla passione per l’avanguardia jazz, con incursioni nel funky, nel gospel e nel calypso. Rodwell è un chitarrista versatile che nel 2017 ha definito un suo tour come dedicato ai “ritmi sacri della chitarra elettrica primitivista e assurda”, attraversando la Nuova Zelanda con mezzi di trasporto pubblici. Un misto di ritmi grezzi e particolari, non sempre agevoli da seguire e con qualche limite dal punto di vista compositivo, registrato e mixato interamente in analogico nello studio Roundhead di Neil Finn
Don’t Be Fugitive All Your Life è un mid-tempo blues con una ritmica particolare e interventi ficcanti della chitarra elettrica e slide. La batteria di Chris O’Connor e il basso di Jeff Henderson, due musicisti molto apprezzati in patria, sono essenziali nel caratterizzare il suono nel dissonante boogie Keep on Knockin’, mentre in Plenty Time la voce riecheggia lo stile di David Byrne, in Make Believe sono evidenti le influenze sudamericane (e di In The Midnight Hour) e in She Got Me Boiling quelle caraibiche. Si ha l’impressione che il disco manchi di una direzione precisa, pur non essendo privo di spunti lodevoli come in Touch Me Like A Teddybear in cui si apprezza una ficcante chitarra distorta quasi da Hill Country Blues o nella quieta Dead End Road che chiude il disco incrociando slide e synth.
Segnaliamo che la prima edizione limitata di 500 copie è stata stampata in vinile 180 gm.

Paolo Baiotti

MARK ROGERS – Rhythm Of The Roads

di Paolo Baiotti

14 novembre 2021

MARK ROGERS
RHYTHM OF THE ROADS
Autoprodotto 2021

Le vicende musicali di MarK Rogers sono divise in due periodi ben distinti. Il primo è relativo agli anni ottanta quando, dopo un’esperienza a Washington DC con The Tennessee Flying Goose, si trasferisce a Los Angeles alla fine dell’82 e forma una band di Cosmic Americana influenzata dal country di Gram Parsons e dei Byrds: non viene capito e valorizzato, per cui dopo qualche anno se ne ritorna in Virginia dove si dedica a formare una famiglia e a mantenerla con altre attività. Ma se si ha una passione resta sullo sfondo e prima o poi riappare. Così intorno al 2013 riprende a suonare e a scrivere testi più profondi che risentono delle esperienze maturate in una vita. La voce è rimasta chiara e pulita, adatta al folk-rock elettroacustico, venato di pop, morbido e melodico che Mark apprezza e che forma la base del suo esordio solista Laying It Down e di Rhythm Of The Road. Canzoni semplici, quiete e gentili, che magari non colpiscono per originalità, ma si ascoltano serenamente, adatte per un lungo viaggio in macchina.
Registrato a Virginia Beach e coprodotto dall’ingegnere del suono Rob Ulsh, il disco si avvale principalmente della collaborazione del bassista Jimmy Masters, del chitarrista Larry Berwald e del batterista Powell Randolph, con Marc alla voce e chitarra acustica.
Fifty Dollars Fine è un’apertura easy, un soft-rock pulito alla Jackson Browne con una chitarra elettrica che può richiamare Mark Knopfler. Con Waiting For Maria si passa ad un ritmo sudamericano, ma il brano è troppo leggero, quasi impalpabile, a differenza di Every Once In A While, un country-rock solare con melodie byrdsiane. Just So You Know profuma di California, ma è privo di sostanza; convince maggiormente l’energica Rain Parade dall’atmosfera sognante e un pizzico psichedelica. Shake It Down è una ballata soft alla James Taylor, Strange Anticipation un’altra ballata un po’ sospesa che viene vivacizzata dal piano di John Toomey, Leaving una canzone ritmata che mi ha ricordato lo stile del Tom Petty più leggero con basso e tastiere in evidenza. In chiusura la soave Joking curata nell’arrangiamento vocale precede Flying, in cui la chitarra di Berwald aggiunge qualche tocco psichedelico a una melodia cristallina.

Paolo Baiotti

SMALLABLE ENSEMBLE – Plays The Music Of John Lennon

di Paolo Crazy Carnevale

14 novembre 2021

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SMALLABLE ENSEMBLE – Plays The Music Of John Lennon (Appaloosa/IRD 2021)

Cimentarsi con la musica dei Beatles è sempre una grande tentazione per qualunque musicista. I Beatles sono per quasi tutti il faro illuminante, il genio, la bravura, il talento sconfinato, il punto di riferimento.

Grande tentazione quindi, ma anche grande sfida. Il rischio è quello di voler strafare per eguagliare gli originali, o di volerli stravolgere eccessivamente, o di farli pari pari ma senza corpo e anima.

Wilson Pickett ebbe a dire a Duane Allman che gli proponeva di registrare Hey Jude, che i Beatles non avevano anima: ora, vero che sia l’aneddoto e condivisibile o meno la dichiarazione, l’anima bisognerebbe comunque mettercela sempre. Di inutili tributi ai Beatles, sia come gruppo che come singoli artisti, sono piene le scaffalature virtuali dei negozi online e dei rigattieri.
Non è il caso di questo piccolo omaggio alla musica di John Lennon registrato dallo Smallable Ensemble, un italico quartetto (arricchito di qualche collaborazione sparsa qua e là) che fa capo al chitarrista Alex Gariazzo, uno dal bel curriculum, noto in particolare per i suoi trascorsi legati a Fabio Treves, ma con decine di collaborazioni anche a dischi di artisti stranieri di un certo rilievo.

Gariazzo e soci (Marco Gentile al violino, bouzouki, violoncello, il bassista Michele Quaglio e Roberto Bongianino alla fisarmonica, mandolino e chitarre e – fuori formazione – il percussionista Alessio Sanfilippo) sono riusciti a mettere insieme una bella selezione di brani, pescando in egual misura tra quelle dei Beatles più smaccatamente attribuibili all’occhialuto e tra quelle del Lennon solista.

Una volta selezionato il repertorio lo hanno rivestito in chiave folk rock, virato “americana”, come si addice ad un musicista come Gariazzo che il genere lo ha bazzicato davvero tanto e in virtù del fatto che in qualità di amici/ospiti, in quattro brani sono impegnati come cantanti quattro artisti americani che si immergono con gusto nella materia lennoniana.

Resta però come punto fermo che – bontà degli ospiti a parte – il vero punto di forza dello Smallable Ensemble è quello di aver saputo creare una propria sonorità caratteristica che calza bene alle canzoni del disco.

Si inizia con una bella versione acustica e legnosa (nel senso degli strumenti usati) di Norwegian Wood, un buon modo per presentare il progetto, poi tocca a due canzoni del Lennon solo, un’entusiasmante e abbastanza filologica Instant Karma, resa davvero in maniera impeccabile, e Crippled Inside, affidata alle corde vocali del primo ospite, Jono Manson, che da par suo infonde l’anima particolare della sua vocalità al brano.

Rain, di nuovo i Beatles, è particolarmente bella, con lo Smallable Ensemble senza fronzoli e ospiti; c’è invece la voce di Bocephus King ad arricchire la magica atmosfera costruita per arrangiare Beautiful Boy. Per Cold Turkey, siamo sempre alle prese con la discografia post Beatles, il quartetto tira fuori un bell’arrangiamento rock, con Gariazzo che ci dà dentro con l’elettrica, come si addice ad un chitarrista versatile della sua statura.

A seguire una tripletta di brani dei Beatles, All I’ve Got To Do con la voce della texana Patricia Vonne (suo fratello è il registra Roberto Rodriguez e lei, poco nota da noi, ha una discografia di tutto rispetto e a Austin è considerata una celebrità) a duettare con Gariazzo, anche in questo caso l’arrangiamento convince appieno, nonostante la strumentazione lontana anni luce da quella originale. Sonorità a cavallo tra psichedelia e folk rock per She Said She Said con ottimo arrangiamento delle voci tutto a cura dello Smallable Ensmeble per poi lasciare spazio a Girl, in una versione swingata sostenuta dall’interplay tra fisarmonica e chitarra elettrica che fanno da sfondo alla voce dell’ultimo ospite, Doug Seegers.

Con Watching the Wheels torniamo al Lennon solista, poi di nuovo i Beatles con una bella versione di Julia, dal doppio bianco e in chiusura una strumentale Oh My Love tutta in punta di chitarre con Gariazzo che replica lo stile di George Harrison.

Paolo Crazy Carnevale

BARD EDRINGTON V – Two Days In Terlingua

di Paolo Baiotti

10 novembre 2021

bard

BARD EDRINGTON V
TWO DAYS IN TERLINGUA
Autoprodotto 2021

Nato in Alabama e cresciuto in Tennessee, Bard è stato influenzato dalla musica ascoltata nel corso di una vita caratterizzata da molti spostamenti e in particolare dalla Old Time Music dei Monti Appalachi e dal blues del Delta. Per un anno ha vissuto in Messico, quindi si è stabilito a Santa Fe in New Mexico. Ha esordito con la band The Palm In The Cypress pubblicando nel 2016 l’omonimo mini album seguito da The Great Emancipation; nel 2019 è il turno di Espadin, il suo primo disco da solista in cui le influenze sopra citate si fondono con la cultura messicana, ma anche della formazione degli Hoth Brothers con Boris McCutcheon e Sarah Ferrell che pubblicano Workin’ And Dreamin’ seguito pochi mesi fa da Tell Me How You Feel.
Ed eccoci finalmente a Two Days In Terlingua, secondo sforzo solista, registrato in due giorni nella Santa Inez Church di Terlingua in Texas nel marzo 2020, vicino al Rio Grande e al confine con il Messico, con una formazione elettroacustica che, oltre a Bard alla chitarra e voce, comprende Karina Wilson alla viola, violino e voce, Bull Palmer al basso, Jim Palmer alla batteria, Zoe Wilcox alla voce e Alex McMahon alla pedal steel, chitarra e banjo. Un disco arrangiato in modo spoglio e minimale, prevalentemente acustico, con i brani pubblicati nell’ordine in cui sono stati eseguiti senza sovraincisioni, come un disco dal vivo senza pubblico.
Il mid-tempo country Ramblin’ Kind funge da apertura mettendo in luce la voce chiara e puntuale di Bard e raccontando le vicende di un anziano che vive in fuga come un vagabondo, con il violino in primo piano tra Steve Earle e Guy Clark, seguito da Property Lines, traccia dalle tonalità western drammatica e intensa con un’elettrica aspra e pungente e il violino sempre protagonista. Shut The Screen Door è una ballata accorata cantata con calore, mentre A New Day On The Farm è un country-bluegrass un po’ scontato. Prevalgono ballate polverose come la dolente Bard And The Bears che richiama Townes Van Zandt con la chitarra elettrica che vivacizza il finale, la drammatica e springsteeniana Strange Balloon, il country-folk Masterpiece Of St. Mark ‘s Square o Black Coat Lung sulla vita dei minatori con un dialogo tra l’acustica e il violino, ma ogni tanto si cambia registro come in Ma Cherie vivacizzata da una chitarra twangy, nell’animato mid-tempo Athena’s Gaze percorso dal violino di Karina o nel folk degli Appalachi di Dog Tags 1942 che si avvale di un testo poetico della nonna di Bard sul ritorno dalla guerra del nonno del musicista. In chiusura No Reason in cui Bard riflette sulla crescita di un figlio e sul suo allontanamento dai genitori in un brano che ha un avvio acustico lento, ma che si sviluppa con un crescendo strumentale e corale in cui, ancora una volta, il violino assume un ruolo primario.

Paolo Baiotti

CAROLYN WONDERLAND – Tempting Fate

di Paolo Baiotti

1 novembre 2021

temptingfate

CAROLYN WONDERLAND
TEMPTING FATE
Alligator 2021

Texana di Houston, finalmente Carolyn ha la grande occasione di pubblicare per un’etichetta di prestigio come la Alligator. Sicuramente avere fatto parte dell’ultima formazione dei Bluesbreakers del maestro John Mayall l’ha aiutata a trovare un buon contratto da solista dopo un lungo periodo di gavetta e di produzioni indipendenti iniziato negli anni novanta quando ha pubblicato parecchi album con gli Imperial Monkeys. Dopo lo spostamento a Austin e centinaia di concerti nei clubs, generalmente in trio, ha esordito da solista nel 2001 con Alcohol And Salvation seguito da Bloodless Revolution e nel 2008 da Miss Understood prodotto da Ray Benson degli Asleep At The Wheel (su consiglio di Bob Dylan!). In seguito ha inciso altri tre album prima di entrare nel 2018 nella band di Mayall, che si è sciolta recentemente quando il musicista britannico ha annunciato la sua rinuncia alle esibizioni dal vivo (o almeno ai tour). Parecchie sue canzoni sono state utilizzate in serie tv e si è aggiudicata tre Austin Music Awards…insomma pur restando un’artista di nicchia non è mai rimasta inattiva, ma la possibilità di incidere per la label di Chicago è importante. E in Tempting Fate non ha fatto compromessi, suonando la sua musica che, come nei dischi precedenti, partendo dal blues texano inserisce elementi rock, country, cajun e tex-mex in una miscela brillante e vitale, energica e divertente. Nel corso degli anni ha affinato le doti vocali, mentre come chitarrista ha uno stile personale e inconsueto di finger-picking, ineccepibile sia a livello tecnico che a livello emotivo. Il disco comprende sei brani originali e quattro cover; Carolyn è accompagnata dagli abituali collaboratori Bobby Perkins (basso) e Kevin Lance (batteria) con l’aggiunta di qualche ospite di prestigio come Marcia Ball al piano e del produttore Dave Alvin che la affianca alla chitarra in tre brani.
Se l’iniziale Fragile Peace And Certain War è un solido rock-blues con una slide aspra e tagliente che ricorda Johnny Winter e un testo di impegno sociale, Texas Girl And Her Boots è un divertente e vivace atto d’amore verso gli stivali (!) su una base bluesata in cui si inserisce il piano di Marcia Ball e Broken Hearted Blues è un mid-tempo blues con una riuscita coda strumentale in cui la voce richiama Beth Hart. Un piano boogie introduce Fortunate Few in cui Carolyn dimostra di essere efficace anche con meno decibel, impressione confermata dall’accorata Crack In The Wall in cui spicca la fisarmonica di Jan Flemming. La cover di The Law Must Change di Mayall da The Turning Point aggiunge rabbia ed energia con un break chitarristico notevole che sostituisce l’armonica, quella di Honey Bee di Billy Joe Shaver ha un delizioso sapore cajun, mentre la pianistica On My Feet Again è un notturno blues jazzato.
In chiusura la Wonderland piazza due cover importanti: It Takes A Lot To Laugh di Bob Dylan in duetto con Jimmy Dale Gilmore dai sapori campagnoli in cui si nota anche la lap-steel di Cindy Cashdollar e un’eccellente Loser dei Grateful Dead (scritta dal duo Garcia/Hunter) in cui si eleva Dave Alvin con una chitarra psichedelica nella melodia ondeggiante resa più oscura dall’interpretazione di Carolyn che si lascia andare in un finale rabbioso.
Un disco notevole per un’artista degna di essere conosciuta da un pubblico più ampio.

Paolo Baiotti