STEPHANIE HATFIELD
OUT THIS FELL
Free Box Music 2020
Slanciata, capelli biondi, occhi azzurri, sguardo sensuale, gambe lunghe e tacchi alti: così appare sulla copertina e nell’interno di Out This Fell questa cantante residente a Santa Fe, New Mexico, ma originaria di Detroit, con degli antenati del Kentucky. Il suo viaggio è stato sia fisico che musicale, passando dal coro di chiesa alla classica e operistica, proseguendo con la commedia di Broadway, il jazz e il folk per terminare al rock, seppur pervaso di influenze diverse e moderato da influssi pop. Una voce che è in grado di espandersi con una buona modulazione ispirata da Brandi Carlile, Neko Case e Alanis Morissette, una personalità vivace e un gran numero di interessi e passioni (dalle corse di moto al trekking, dai safari al nuoto con gli squali ai margini della barriera corallina) caratterizzano Stephanie, autrice di quasi tutto il materiale con particolare attenzione ai testi sognanti. La sua carriera è iniziata parecchi anni fa con Stephanie Hatfield And Hot Mess, seguito da due album in studio e da Live At Frogville del 2018, già inciso con la band che comprende il marito Bill Palmer alla chitarra, Noah Baumeister al basso e Matthew Tobias alla batteria. Il rock cadenzato di Day Or Decades in cui duetta con Eliza Lutz alla seconda voce, l’intensa In The Woods in cui è raggiunta da Paul Hunton, voce dei Dust City Opera, il singolo Gone Gone Gone ispirato dai libri di Elena Ferrante (!) e dalla musica di Ennio Morricone in cui Stephanie accenna qualche vocalizzo operistico, Not Her dedicata alla madre e la sentita ballata Never Go Away sono i brani che caratterizzano positivamente un album che ha un’unica cover, la delicata Michigan dei Milk Carton Kids in cui viene aiutata dalla pedal steel dell’esperto Jon Graboff (Ryan Adams, Phil Lesh). Registrato ai Torreon Studios di Santa Fè e coprodotto dalla coppia Hatfield/Palmer, Out This Fell è chiuso da una sognante traccia acustica, Like Sweetness Does, invero un po’ banale come un paio di altre canzoni della seconda parte del disco che ne abbassano la valutazione.
Sono trascorsi quattro anni dall’ultima produzione di Jono a proprio nome, il che non vuol dire naturalmente che il nostro se ne sia stato con le mani in mano tutto questo tempo, ci sono state produzioni per altri artisti (i nostrani Gang su tutti), ci sono stati tour (l’ultimo dalle nostre parti con John Popper dei Blues Traveller meno di un anno fa) e naturalmente c’è stato il tempo di mettere insieme uno dei suoi lavori migliori, il secondo su label Appaloosa. Silver Moon è uscito proprio poco prima della pandemia, cosa che non aiuta, tutti coloro che si sono trovati con dischi in uscita in questo periodo hanno dovuto fare i conti con i negozi chiusi e con l’impossibilità di fare una promozione adeguata.
Un peccato, perché il disco di Jono merita di essere tenuto in considerazione. Il rocker/songwriter di stanza in Nuovo Messico, a Taos per la precisione, dove trascorse i suoi ultimi anni il trapper Kit Carson.
Per il nuovo disco Jono ha messo insieme una bella serie di composizioni e si è dato da fare nel coinvolgere un sacco di colleghi e amici per farsi dare una mano. Innanzitutto diciamo che il disco comunque reggerebbe bene anche senza guest star, perché la bontà del materiale e le doti di Jono in sede di produzione sono ormai ben assodate, certo che sentire far capolino tra le tracce la voce di Joan Osborne o la slide di Warren Haynes non può che far piacere. Silver Moon si regge comunque soprattutto sul solido suono creato da Jono (chitarre elettriche ed acustiche, banjo e naturalmente voce), dai fidi Jason Crosby (organo e piano), Ronnie Johnson (basso), John Graboff (ogni genere di chitarra) e Paul Pearcy (batteria). Senza dimenticare le harmony vocals di Hillary Smith e Myrrhine Rosemary.
Il disco comincia bene con il brano che lo apre, un’orecchiabile e piacevole Home Again To You, seguita dall’altrettanto azzeccata Only A Dream in cui troviamo anche la voce del compagno di scuderia James Maddock. È evidente che con la title track, in cui è ospite Haynes (per altro presente anche in altri dischi di Manson), il disco decolli definitivamente, una bella canzone, ben ordita e con un gusto southern inevitabile, conferito dall’intervento di Warren. In Loved Me Into Loving Again ci mette sul piatto il duetto con Joan Osborne, decisamente riuscito, la canzone sembra costruita appositamente per il duetto, non solo, oltre al botta e risposta tra Jono e Joan, c’è la terza voce, quella della sezione fiati che s’inserisce con sapienza, e di meno non ci si poteva aspettare da un produttore dall’orecchio fino come il titolare. I Have A Heart è una canzone breve caratterizzata dall’inconfondibile suono dell’ospite chitarrista Eric Ambel, poi c’è la lenta I Believe, dalla melodia che ricorda vagamente quella del traditional Shenandoah. I’m A Pig, sono un ingordo, non un maiale come verrebbe da pensare, è rock allo stato brado, con la chitarra di Eric Shenkman, un brano dal testo ironico, rispetto agli altri del disco che sono più tipicamente canzoni d’amore. La chitarra del brano successivo, Shooter, è quella di Paolo Bonfanti, già collaboratore in passato di Jono (i due hanno anche un disco cointestato risalente al 2003). The Christian Thing è una bella riflessione sul cristianesimo visto da un non cristiano, con le voci di Terry Allen e Eliza Gilkyson che danno una bella mano cantando una strofa ciascuno e un bel sottofondo di pedal steel a cui provvede John Grabhoff, la melodia è debitrice di qualcosa alla dylaniana Titanic, ma Dylan si sa, è di per sé debitore (e creditore) nei confronti di tutti… Rock’n’roll alla Stones invece per Face The Music dal testo amaro sulla vita e gli stravizi di certe rockstar, col pianoforte indiavolato di Jason Crosby e la chitarra di Eric McFadden.
Everything That’s Old (Again Is New) è una lenta canzone riflessiva, mentre Every Once In A While, già ascoltata nel recente tour italiano, è una canzone guidata dalla slide di Jay Boy Adams che trae lo spunto dalla gatta dei vicini portata via da un rapace e che poi si evolve in una serie di altre considerazioni sul fatto di poter avere una seconda possibilità nella vita per sistemare le cose.
Il finale, The Wrong Angel, è un ironico blues swingato col sound dell’organo in evidenza ed una storia tragicomica, nel miglior stile di Manson.
Herbert Pixner & The Italo Connection – Live (Three Saints Records 2020/2 CD + DVD)
Herbert Pixner è titolare di un quartetto che da diversi anni spopola letteralmente nei paesi di lingua tedesca, dove i suoi numerosi concerti sono regolarmente “sold out”, addirittura alla fine dello scorso anno ha fatto una tournee con l’orchestra sinfonica berlinese ed il gruppo aumentato a sestetto: la sua musica, partendo dal folk tirolese si è evoluta in una miscela incredibilmente riuscita di elementi che vanno dal folk al blues, al jazz, fino a sperimentare sonorità psichedeliche.
Il tutto senza perdere mai l’attenzione e il consenso dei media e del suo pubblico. Da un paio d’anni è leader di una nuova formazione che ha battezzato Italo Connection: il proprio nome, dice, lo ha messo solo perché presentarsi con quello è una garanzia per il pubblico, ma in realtà Italo Connection è un gruppo di sette elementi bravissimi e assai rodati che hanno alle spalle esperienze molto solide (basti dire che il batterista Mario Punzi è stato diverso tempo con la Rudy Rotta Blues Band, prendendo parte al disco dal vivo registrato a Kansas City), e non solo nella loro terra d’origine, l’Alto Adige.
Nata per caso per un progetto estemporaneo richiesto a Pixner in occasione di un festival in Austria, la Italo Connection ha subito dimostrato di avere delle potenzialità spropositate, così ad inizio 2019 c’è stato un tour che partendo da Vipiteno ha portato i sette assi altoatesini a Berlino e ritorno, facendo tappa e conseguente “tutto esaurito” nei teatri germanici e austriaci. Il tutto con troupe cinematografica diretta da Christoph Franceschini al seguito. Il disco di cui ci accingiamo a parlare è il risultato di quel tour, con tanto di road movie sul tour allegato in confezione.
Ma che genere di musica ci si deve aspettare dalla Italo Connection vi chiederete? La risposta è musica totale, universale, con una leggerissima strizzata d’occhio al gusto tedesco, ma proprio leggera: in repertorio il gruppo ha infatti anche una versione pop di Nel blu dipinto di blu, d’altronde da un gruppo con questo nome, destinato al mercato estero, è inevitabile (non dimentichiamo poi che anche Neil Young e i Promise Of The Real eseguirono l’intramontabile brano di Modugno nel loro ultimo tour europeo). Nel sound della Italo Connection si mescolano funk, jazz, musica tradizionale, sonorità desertiche alla Calexico, bossa nova, blues e una valanga di citazioni anche appena accennate all’interno dei brani che vanno dai Deep Purple di Smoke On The Water al tema de Il padrino.
Pixner fa il direttore d’orchestra, suona la sua inseparabile fisarmonica, firma molti brani, si cimenta molto bene con tromba e flicorno, ma lascia molto spazio ai suoi comprimari, in particolare a Manuel Randi, chitarrista sopraffino che è da anni anche una delle colonne portanti dell’Herbert Pixner Projekt (il gruppo abituale di Herbert). Randi e la sua Fender sono parte irrinunciabile del sound dell’Italo Connection, come lo sono i brani da lui composti, ma poi ci sono il già menzionato batterista Punzi, il percussionista Max Castlunger, il bassista Marco Stagni, il tastierista Alex Trebo e l’insostituibile frontman Sax Martl (al secolo Martin Resch), sassofonista e occasionale voce del gruppo: insieme questi sette artisti riescono a costruire un muro sonoro incredibilmente solido e riuscito, capace di spaziare dalle sonorità più contagiose e per così dire “facili” di Blues’n auf e American Polka al jazz di Summer Bossa, tutte in apertura del primo CD. Il disco entra nel vivo però con Tarantino, omaggio del chitarrista alle colonne sonore dei B-movies, e sempre il chitarrista è autore di Aurelia, brano dalla bellezza incredibile, già apparso in versione più tranquilla nel suo disco solista intitolato Toscana, uscito un paio di anni fa. Pixner è autore di nuovo invece di un altro capolavoro, Breaking Bad, quasi una colonna sonora per un film western, la chitarra elettrica e la fisarmonica (ma qui Pixner suona anche i fiati) conducono le danze per oltre otto minuti di bellezza sonora totale (scusate se mi ripeto). Il primo CD si conclude, azzeccatamente con una cover della famosa Misirlou di Dick Dale.
E il secondo disco, seguendo un filo logico cinematografico, ma virando sul jazz , si apre con un brano di Piero Umiliani intitolato Gassman Blues in cui gran parte hanno le tastiere di Trebo e il lavoro della sezione fiati composta da Pixner e Resch. Randi è l’autore di Novilunio, una lunga cavalcata di immagini sonore e suggestioni che cita la musica classica, quella etnica, il sound latino, lasciando spazio a tutti e sette i musicisti con presentazione del gruppo ad opera del sassofonista. C Jam di Duke Ellington è veicolo di nuovo per le evoluzioni delle tastiere di Trebo e la tromba di Pixner, poi tocca ad una composizione del bassista Stagni, un bel blues vibrante e contemporaneo intitolato Sober. Electrifying Overture, in una versione di oltre dieci minuti, è una composizione tratta dal più recente e più ardito disco dell’Herbert Pixner Projekt: il trattamento Italo Connection è ovviamente incredibile, il brano diventa da originale overture di un disco a vetrina di fine concerto con un lungo assolo del batterista. Il finale, preceduto dalle invocazioni di “encore” del pubblico, è affidato a Jazz Carnival di Stanley Clarke, ottimo spunto per un’esecuzione quasi corale di grande effetto.
E se il disco non vi è bastato, sul DVD troverete altra musica, oltre ad un realistico e godibile quadro della vita on the road durante il tour, degli attestati di stima reciproca tra i musicisti e siparietti da backstage.
Talinka – Rainbow Over Kolonaki (Fanfare Records 2020)
Molto affascinante la proposta musicale di questo quartetto che propone un riuscito mix tra canzone folk, musica da camera, atmosfere mediterranee e un pizzico di jazz: Talinka è una formazione che fa capo alla cantante ed attrice israeliana Tali Atzmon, ispirata voce del quartetto, impegnata anche all’ukulele. Il disco precedente, uscito per la stessa etichetta e intitolato col nome del gruppo si era a buon diritto aggiudicato quattro stelle sulla rivista anglosassone Mojo, e questa nuova produzione fresca di stampa ambisce ovviamente a bissare.
Produttore del disco, nonché sassofonista, clarinettista, chitarrista e fisarmonicista è Gilad Atzmon, marito della cantante e jazzista di fama internazionale con una certa propensione verso la musica etnica, a completare il disco ci sono la virtuosa di musica barocca Jenny Bliss Bennett, coi suoi archi e la sua voce, e il bassista Yaron Stavi.
Il disco infila dieci brani mescolando composizioni originali firmati dai due coniugi Atzmon con brani tradizionali della musica britannica e standard: il risultato potremmo definirlo folk-jazz da camera, ma è ancora poco, perché la cosa va decisamente oltre le classificazioni. Qualcuno ha parlato anche di world music, ma, per quanto il termine sia stato abusatissimo in passato e usato per cose assai diverse, Talinka è un’altra dimensione.
La title track apre il disco dando subito un’idea della dimensione sonora ordita dal quartetto, a firmarla è Gilad Atzmon e si sentono le sue radici jazz, che si fanno maggiormente vive nella seguente If i Should Lose You, composizione degli anni trenta passata per le ugole di Nina Simone, Aretha Franklin, Julie London , tanto per dirne un paio, ma ripresa in chiave strumentale anche da tutti i grandi del jazz. Il primo brano da scappellamento è una versione della folk song She Moved Through The Fair, cantata magicamente dalla Atzmon coadiuvata dalla violinista: si tratta di un brano che abbiamo ascoltato decine di decine di volte, quasi tutti i discepoli del british folk vi si sono cimentati, ma questa versione ha un sapore diverso, intimo, col clarinetto di Gilad che calza a pennello. I’m A Fool To Want You è una composizione di Frank Sinatra, l’accostamento è quindi parecchio jazzato, con tanto di pianoforte suonato dall’ospite Ross Stanley che dialoga col bassista mentre Tali offre una bella interpretazione vocale parecchio distante dallo stile crooner dell’autore. Altra virata verso il folk è la rilettura di Greensleves, dalla tradizione irlandese, con Gilad alla fisarmonica e la Bliss Bennett come seconda voce. Perdita sembra un connubio tra tango e canzone yiddish: qui Gilad Atzmon si doppia dialogando con sé stesso suonando sia sax che clarinetto. Altra canzone firmata da Tali è Time Runs Out, bella composizione, con suggestioni della tradizione musicale ebraica della Mitteleuropa: una parte è anche cantata in ebraico e la fisarmonica ci mette del suo per creare queste atmosfere. Cimentarsi con il traditional Scarborough Fair dopo la versione stra-conosciuta di Simon & Garfunkel può sembrare un azzardo, eppure anche qui il quartetto fa faville, partendo con un’introduzione a cappella delle due cantanti, su cui mano a mano si inseriscono gli strumenti, Gilad è di nuovo alla fisarmonica e alla chitarra, e la viola della Bennett ha una bella parte strumentale nella riuscita dell’arrangiamento. A due voci anche When Apollo Smiles, di nuovo firmato dalla cantante, arrangiamento scarno con contrabbasso, chitarra e ukulele, poi per la chiusura del disco torna in campo il pianista e c’è anche la batteria spazzolata di Billy Pod, che creano il tessuto per un altro standard già inciso da una moltitudine di cantanti: I’ll Be Seeing You, Billie Hollyday, Rod Stewart, Sinatra sono alcuni di coloro che vi si sono cimentati, la versione dei Talinka è assolutamente rispettosa del brano, ma con tutti gli elementi musicali che caratterizzano il loro sound, Gilad ci infila la fisarmonica e un caldo solo di sax.
Non una produzione Moonjune a tutti gli effetti, piuttosto un disco realizzato in autonomia dall’ensemble che ne è titolare e pubblicato da Cool Label, con distribuzione digitale Moonjune: e d’altronde il ghiotto contenuto del disco non poteva sfuggire all’acume della label newyorchese che fin dai suoi esordi si è dimostrata particolarmente interessata ed attenta nei confronti di prodotti a cavallo tra jazz/rock e fusion provenienti dall’Europa e dall’Asia, laddove il termine fusion va inteso nella sua accezione più naturale, indicando una fusione musicale tra la matrice appunto jazz/rock e l’uso di strumenti e melodie che sono tipiche dei paesi d’origine dei musicisti coinvolti.
È così che nel disco dei Nikolov-Ivanovic Undetected, formazione serba, fanno capolino fisarmonica e sezione di ottoni che riportano vagamente alla memoria certe cose di Bregovic, ma sempre con una base tipicamente jazz in cui contrabbasso, piano e batteria sono determinanti quanto i fiati.
Frame And Curiosity vede poi come ospite il flautista Magic Malik, inizialmente pensato solo come ospite la festival jazz di Blegrado, ad aggiungere un tocco in più.
Vladimir Nikolov e Srdan Ivanovic sono le due menti conduttrici, rispettivamente pianista e batterista, nonché autori dei brani che compongono il disco, gli altri dieci membri della formazione sono tutti loro amici, ex compagni di conservatorio.
Nelle composizioni, definite da qualcuno post-bop, si avvertono echi di musica balcanica, free jazz, ma anche il fatto che i due titolari hanno esperienze passate in comune nell’ambito delle colonne sonore.
Il risultato è un disco dai molti colori, da quelli più tipicamente balcanici della lunga composizione iniziale L’etranger, a quelli tipicamente fusion di Timbre And Prayer, all’elaborata Across The Treshold. Anonymous, in cui emergono quegli immancabili elementi orientali che sono componente essenziale della musica balcanica, è una delle composizioni più interessanti, molto cinematografica, con fondamentale presenza di Magic Malik e con particolare uso della fisarmonica e tutta la sezione fiati che giganteggia. Anche Carefree vede la fisarmonica in primo piano ma qui si fa notare anche la chitarra acustica suonata da Nikolov, decisamente ben inserita nel contesto. Long Ago, composizione breve tutta ad appannaggio della fisarmonica di Noe Clerc, va intesa come introduzione alla più orchestrata Far Away, in cui i riferimenti cinematografici sono quanto mai evidenti.
Bocephus King – The Infinite & The Autogrill Vol. 1 (Appaloosa 2020)
Strana la vicenda musicale di Bocephus King… un musicista di gran talento indubbiamente, ma che a giudicare dalle cronache e dalla discografia non sembra avere un seguito particolare dalle sue parti (Canadà) o comunque Oltreoceano: piuttosto invece è acclamato in Italia, o comunque in Europa (uno dei suoi pochi dischi è stato pubblicato negli anni novanta dalla tedesca Blue Rose). Certo, è più facile ritagliarsi una fetta di seguito tra gli appassionati italiani come che in America dove i musicisti di talento abbondano, ma la cosa più di tanto non ci interessa, in fin dei conti è la musica che conta, e in questi ultimi anni di musica in giro per la penisola Bocephus King ne ha seminata tanta, dal vivo poi è una forza della natura, un trascinatore, che è poi quello attorno a cui si è costruita la sua fama italiana. Da sempre, praticamente, è amico di Andrea Parodi che oltre ad essere il responsabile dei suoi innumerevoli tour italici è anche il produttore di questo nuovo disco e il mediatore del contratto con l’Appaloosa.
Diciamo subito che il disco è bello, prodotto con grande gusto, bella la scelta delle canzoni, Bocephus canta molto bene; piuttosto non facciamoci fuorviare dalla scheda di presentazione che dice che Bocephus è figlio del suono di van Morrison, dei Rolling Stones e di Bob Dylan, perché francamente non ho trovato alcuna traccia di queste discendenze sonore, e la cosa penso sia solo positiva, in quanto questo fa di Bocephus qualcosa che va oltre l’avere dei riferimenti. Certo riferimenti ci sono, personalmente a me viene più in mente (per il modo di cantare e anche per qualche scelta musicale) il buon Little Steven.
Il disco, comunque lo si voglia vedere, è un omaggio al nostro paese, fin dal titolo ispirato dall’Infinito leopardiano e dall’Autogrill di Francesco Guccini che si vocifera appariranno sul prossimo volume dalla medesima denominazione: un omaggio che tra le nove tracce vede l’inclusione in lingua inglese di due canzoni di cantautori italiani, ma anche un omaggio che ci presenta una canzone dedicata alla rivista “Buscadero” e alla manifestazione musicale dalla rivista ispirata.
Il disco si apre con i suoni introspettivi di One More Troubadour, brano cupo e triste considerazione su un cantautore/trovatore costretto a cantare davanti ad un pubblico sparuto e indifferente più intento a guardare lo schermo dell’i-phone che a prestargli attenzione, che probabilmente è poi quello che accade a tanti artisti americani in patria, mentre da noi vengono acclamati e portati in trionfo, seguiti, cosa che fa loro amare l’Italia o l’Europa in generale.
In Something Beautiful, dall’iniziale tessuto acustico volto a crescere, c’è ospite alla voce l’amico Parodi, poi il sound esplode nella cavalcata spaghetti western di Buscadero, con ampi riferimenti alle varie edizioni del “Buscadero Day” a cui King ha preso parte negli ultimi anni, come ospite e come animatore, e con una manciata di riferimenti al cinema western all’italiana e alla sua discendenza dai film di Kurosawa, e ai personaggi della storia del west come Annie Oakley e Toro Seduto. The Other Side Of The Wind è una ballata giocata sulle molte chitarre suonate da Bocephus e da Alex Gariazzo (Treves Blues Band), sul piano e su atmosfere messicaneggianti. Di nuovo il cinema è all’origine di John Huston, con ovvi riferimenti al grande regista di origine irlandese, qui a cantare c’è ospite il compagno di scuderia James Maddock. Il primo omaggio alla canzone d’autore italiana è con una bellissima versione di Lugano addio di Ivan Graziani (di cui anni fa King aveva già eseguito dal vivo una versione inglese di Pigro), che qui diventa Farewell Lugano, con la doppia voce di Jane Aurora. Una cover particolare e riuscita, un omaggio ad un personaggio mai abbastanza ricordato della musica italiana. La speranza è che il disco abbia una distribuzione ed un po’ di seguito anche fuori dall’Italia, perché così il senso delle cover di brani italiani sarebbe maggiormente finalizzato.
Identity è una ballata struggente, intima, fluida in cui l’autore si pone una serie di interrogativi. Il secondo omaggio alla canzone d’autore italica è con Crêuza de ma del grande “Faber”. La traduzione è molto riuscita, il brano è ben arrangiato, vocalmente piaceva di più la cover del brano fatta da un altro americano (ma cantata in genovese), Gene Parsons, inserita qualche anno fa in un disco di Beppe Gambetta. Il disco si chiude con l’inno alla vita di Life Is Sweet, brano semplice che invita a vivere la vita con gioia, “dal giorno in cui la nave entra in porto a quello in cui leggono il tuo testamento”.
Con Mara sembra di tornare all’epoca hippy di fine anni sessanta, nell’abbigliamento, negli accessori (è anche disegnatrice di gioielli), nelle tematiche sociali e nella musica, folk prevalentemente acustico con influenze country, cantato con una voce pulita e celestiale che può ricordare Joan Baez e Judy Collins. Le canzoni scelte per questa raccolta mostrano le diverse facce della musica folk, con alcuni classici alternati a riprese di autori contemporanei meno conosciuti, con l’aggiunta di un paio di tracce tradizionali. Mara trae ispirazioni dall’attuale situazione politica e sociale, dalla lotta contro le ingiustizie e a favore dei diseredati. Questo è il suo terzo album dopo Mara’s Jems del 2009 e Jewels & Harmony del 2013 , prodotto da Bob Harris (già collaboratore di Johnny Cash e Vasser Clements), suonato con un folto gruppo di musicisti tra i quali il gruppo Gathering Time, trio con il quale si esibisce spesso, alternando questo tipo di formazione ai concerti da solista, a quelli con il cantautore Terry Kitchen e con altri musicisti.
In Facets Of Folk spiccano l’anthem di protesta Daughters And Sons di Tommy Sands, una versione malinconica di Hey, That’s No Way To Say Goodbye (Leonard Cohen), il tradizionale delle Isole Ebridi Taladh Chriosda, il bluegrass You Reap What You Sow, la dolce Bitter Green (Gordon Lightfoot) e, in chiusura del disco, una ripresa di Song For The Asking di Paul Simon, uno degli artisti preferiti dalla cantante. Arrangiato con cura particolare per le armonie vocali, Facets Of Folk è un disco che mette in luce un’interprete sensibile e ispirata, dotata di capacità vocali non indifferenti.
MARK WINGFIELD & GARY HUSBAND – Tor & Vale (Moonjune Records 2019)
A Maggio dello scorso anno, il chitarrista britannico Mark Wingfield si è chiuso nella suggestiva location del La Casa Murada Studio, ricavato da una vecchia masseria in Catalogna, col pianista Gary Husband per dare un seguito al disco dell’anno precedente, intitolato Tales Of The Dreaming City.
Rispetto alle precedenti produzioni di Wingfield su etichetta Moonjune, il risultato di questa session iberica con Husband sembra più fluido, più immediato, testimonianza del naturale affiatamento che si è creato tra i due: le composizione di Tor & Vale sono quasi tutte firmate da Wingfield (con l’eccezione della title track, di Shape Of Light e di Silver Sky), ma è innegabile che a livello di arrangiamento poi ci sai stato un vero e proprio lavoro d’equipe. La scelta di collaborare con Husband è stata una cosa logica per Wingfield che conoscendo il lavoro del compatriota – il cui curriculum parte dagli anni settanta e dalle collaborazioni con Allan Holdsworth – era certo che sarebbe stato in grado di seguirlo senza problemi sui sentieri di un jazz non convenzionale: “sapevo – ha detto recentemente commentando la collaborazione – che cera un potenziale da sfruttare anche se non avevo idea di dove la cosa ci avrebbe portato.”
Wingfield si è presentato in studio con cinque brani già composti, ma nel corso della session, durata un solo giorno, altre tre composizioni sono uscite dall’intesa e dal feeling sbocciati trai due britannici, in particolare la lunga, avventurosa ed elaborata title track che si snoda per ben oltre sedici minuti.
Il risultato sono otto tracce rigorosamente strumentali in cui la chitarra effettata di Wingfield duetta col piano di Husband, creando paesaggi sonori molto intriganti: non a caso il titolo del disco fa riferimento a due termini che hanno precisi riferimenti al paesaggio, e in questo caso un suo peso sembrerebbe avere anche il paesaggio della location scelta per registrare. In particolare vorremmo citare la prima parte del secondo brano The Golden Thread, in cui sono evidenti le suggestioni ispaneggianti sicuramente indotte dalla location delle session, i cui echi si fanno sentire anche, ma più alla lontana nella successiva Night Song, quasi un botta e risposta tra innamorati in cui piano e chitarra elettrica sembrano tubare come due piccioncini. Echi a mezza via tra il tango e atmosfere moresche sono invece alla base di Tryfan, almeno nella sua parte iniziale, visto che poi il brano si dipana concedendo a Husband un breve assolo, prima che la chitarra di Wingfield rientri in primo piano per tutta la seconda parte del brano. I dodici minuti di Silver Sky sono improvvisazione allo stato brado, prima della conclusiva e lirica Vaquita.
Cantautrice country di Laurel, Mississippi, ha firmato per la Curb Records nel ’98 esordendo con l’omonimo album a 31 anni, ottenendo discreti riscontri. In seguito ha registrato un mini album e, dopo una lunga pausa, questo It’s A Hard Life, 10 nuove tracce registrate tra Texas e Tennessee, dove vive a Shady Grove con il marito e un assortimento di animali (cani, cavalli e un maialino). Tipica vita di campagna americana, rispecchiata anche dall’abbigliamento e dalla musica di Ruby, che esprime la passione per questo modo di vivere nella deliziosa Home Sweet Honky Tonk. La somiglianza con la voce di Nanci Griffith è certificata dalla title track, un brano di Nanci ripreso con rispetto, accompagnata dalla chitarra di Jeff Plankenhorn, che nel disco ha il ruolo di principale collaboratore (Weissenborn, resonator, acustica ed elettrica, mandolino e organo) e dal violino di Gene Elders. La cover della ballata Catfish John di Allen Reynolds e Bob McDill (famosa nelle versioni di Jerry Garcia e dei Grateful Dead), la dolce A Father’s Love dedicata al padre adottivo e la campagnola The Blues You And Me (che ricorda il tradizionale Keep Your Eyes On The Prize) confermano la semplicità e autenticità della proposta della cantante, nella quale la voce chiara ed espressiva risulta sempre in primo piano. Non ci sono sorprese, ma una serie di canzoni country, prevalentemente ballate come Where I’m Standing Today e Straight Form My Heart o la riflessiva Walkin’ On The Moon che chiude il disco.
SID WHELAN
WAITIN’ FOR PAYDAY
Presidio Records 2019
Cantautore e chitarrista di roots-rock partito da radici blues, dotato di una voce chiara e melodica, Sid ha esordito negli anni ottanta, facendo in seguito parte di gruppi di world music come Lijadu Sisters e Afroblue. Abbandonata la musica per creare e mantenere una famiglia a New York, è tornato in attività dopo il 2010 formando la band Whelan, che ha esordito con Flood Water Rising, una raccolta di canzoni bluesate di discreta intensità, seguita dal secondo album The Story of Ike Dupree, in cui sono stati inseriti fiati, percussioni e coristi.
Waitin’ For Payday è un album di otto brani, prodotto con la figlia cantautrice Lora Faye e registrato a Brooklyn. Aiutato da alcuni musicisti della band come Richard Huntley (batteria) e Ron Horton (tromba) e da altri collaboratori, Sid si mantiene fedele alle sue passioni: blues, world music e roots rock. Se Legba Ain’t No Devil evidenzia un uso delle percussioni di matrice africana, The Promise intreccia blues e jazz con i fiati in primo piano e incisivi inserimenti della chitarra mentre la title track, incentrata sulle difficoltà e le pressioni di avere dei guadagni saltuari a fronte di conti e fatture regolari da pagare, è un blues venato di funky mosso e nervoso. Il disco è eclettic: l’opener Nina Simone è un blues acustico da portico assolato, Love Me Right un roots rock che ricorda i Dire Straits se non fosse per i backing vocals, Make Some Time un rock leggero rallegrato dai fiati e dai cori, Midnight In The Country un blues melodico con una chitarra pungente, la conclusiva Break It Down un rock trascinante, cadenzato dalle percussioni e dai fiati in ritmica.
Waitin’ For Payday è un album che scorre veloce nei suoi 32’, ma lo fa senza lasciare tracce significative del suo passaggio.
Claudia Fofi dalle molteplici attività e infinite risorse. Poetessa, cantautrice, musicista, pianista, performer, actress, scrittrice, musicoterapista ed educatrice della voce. Lei viene dall’Umbria e il suo disco che abbiamo appena ascoltato esce per l’etichetta pugliese Dodicilune. Aveva esordito nel 1998 con l’album Un sogno blu seguito nel 2003 sempre da una sua autoproduzione dal titolo Centrifuga e adesso ci allieta con Teoria degli affetti, il primo, appunto per una casa discografica, ben sedici anni dopo, l’album è uscito a fine 2019 ma le promozioni di fatto son state realizzate quest’anno fermo restante lo stop causato dal coronavirus che ha scombussolato le vite di tutti.
Sweet cantautrice con rotonda e rosea voce ma che a momenti si erge perfettamente con timbri più acuti proiettati verso l’alto. Un intenso pianoforte, Alessandro Gwis, l’accompagna piacevolmente con certo delicato e suadente suono che richiama le atmosfere più dolci di certa musica progressiva. Ma il disco spazia tra pezzi similari come intensità ma differenti come immagine l’uno dall’altro, e riusciamo a leggervi vigorosi e nel contempo lancinanti strali di soffuso blues, tocchettato folk, impetuoso soft rock addirittura a tratti psichedelico e soffici e morbide pennellate jazz. Splendida Figlia di un Dio minore, brano eccellente dai risvolti altisonanti di cantautorato doc tra suoni jazz, blues e americana. Ares Tavolazzi al contrabbasso ricama magie a profusione specialmente in Basso Albertino. Tratti splendidi e ondeggianti nel brano che potrebbe essere un ottimo singolo, la superba Se tu pezzo molto coinvolgente. Più si procede nell’ascolto e più si trae l’immediata conclusione che trattasi di lavoro con ritmie decisamente accattivanti ove la di lei voce spazia come uno strumento musicale e arrangiamenti e produzione superlativi lo elevano a disco di notevole spessore. Alessandro Paternesi gestisce una batteria che non esiteremmo a definire minimalista ma essenziale con la memoria che ci riporta a certe produzioni percussive alla Daniel Lanois, docet La valigia dello straniero e Canto.
I’intrecciarsi della vivace strumentazione con la voce della cantante, un connubio di classe sopraffina, ci porta a rammentare le gentili sonorità del duo ucraino Imthemorning ove le note dettano perfettamente i tempi e l’ottima voce di Mariana Semkina chiude mirabilmente il cerchio. La pulizia dei suoni, la limpida voce, le sobrie chitarre di Paolo Ceccarelli assieme agli altri valenti musicisti, ovvero la perfetta coesione di tutti gli strumenti incastonati in modo ottimale fa di questo lavoro uno dei più interessanti usciti negli ultimi tempi. E fa piacere oltre a renderci orgogliosi che che tre artiste nostrane, la ligure Roberta Barabino, la friulana Giulia Daici e l’umbra Claudia Foti siano state artefici recentemente di tre eccellenti album interessanti ed avvincenti che nobilitano la nostra musica in modo perentorio. In questo Teoria degli affetti, bellissimo il titolo, musiche e testi sono di Claudia Fofi esclusa Travolto dalla piena di te stesso, ove le musiche sono sue ma il testo rielaborato da Cimbelino di William Shakesperae. Ottimo album consigliatissimo nel quale tutto ma tutto, voce, musiche, musicisti, produzione si fondono in modo compatto e compiuto. Un plauso enorme. Curiosa e vintage la copertina anche se le sedie anni settanta sono terribili, lei carinissima e dolcissima.
Gran bella sorpresa questo disco di Frank Get, al secolo Franco Ghietti, genuino rocker nostrano dalle multietniche origini a cavallo tra Trieste e l’Istria. Get, sulla breccia da oltre trent’anni, con parecchie soddisfazioni anche a livello internazionale, ha al suo attivo parecchi dischi, a proprio nome o con formazioni di cui è stato comunque il faro illuminante, ha pubblicato recentemente questo CD dal sound corposo, perfettamente in bilico tra tutte le sonorità rock che potremmo desiderare, dalle chitarre grezze ai suoni appalachiani di dobro, banjo e mandolino, dalle ballate soffuse alle atmosfere del border texano, senza dimenticare il rock a tutto tondo.
Il tutto corredato con testi interessanti in inglese inclusi nel booklet e con un volumetto allegato in cui Get ha reso in italiano le liriche di questo e del suo precedente prodotto.
Il gruppo di cui Get si avvale è prevalentemente un trio, con Marco Mattietti alla batteria e la bassista Tea Tidic; in un paio di brani alla batteria c’è Giulio Roselli. Get si occupa di voci, chitarre d’ogni tipo, mandolino, banjo, piano bajo sexto, qualche ospite fa capolino qua e là per mettere un assolo di chitarra (Anthony Basso, Jimmy Joe, Matteo Zecchini), o per metterci degli archi o il Cigar box.
Il suono è solido e ben costruito, la registrazione è equilibrata e la produzione adeguata alla bisogna rende un buon servizio alle musiche di Get e alla sua voce che spesso, ma non sempre, ci ricorda quella di Mark Knopfler.
Fanno subito presa sull’ascoltatore i brani che aprono il CD: The Great Deception e Johnny’s Bunch, due vecchie storie triestine rese con impeto rock, poi il decollo avviene con la title track, che prende l’ispirazione da un pensiero di Noam Chomsky riguardo alle tecniche che il potere utilizza su scala mondiale per dominarci. Gran brano, vibrante e arrabbiato al punto giusto. Con Tranway’s Tales l’argomento torna al vissuto di Get, con la storia di un tram ormai in disuso che portava a Opicina. Da notare che nel volumetto il testo di questo brano è reso in dialetto triestino. Freedom Republic, racconta di un episodio storico risalente agli anni venti ed è costruita sul suono degli archi e del cajon, Anton The Brewer, gira invece attorno ad un giro blues ballabile, con un bell’assolo di chitarra, e racconta la storia nientemeno che del signor Dreher, quello della birra!
Splendida ballata pianistica è Marbourg Hills in cui Get racconta del luogo da cui provenivano i suoi nonni, grande arrangiamento, bell’atmosfera, si capisce che per l’autore è un pezzo importante. Blues cadenzato è la struttura di Waht’s The Patriot che trae ancora una volta lo spunto dalle storie di famiglia di Ghietti, i cui nonni nella Grande Guerra si trovarono a combattere su fronti opposti come sempre accade nelle zone di confine. Trip To The Moon è una ballata elettroacustica di grande intensità ispirata da Johann Nepomuck Krieger, che visse molti anni a trieste e disegnò una dettagliata mappa della luna: le chitarre acustiche s’intrecciano col violino, lasciando spazio ad un assolo opera stavolta di Anthony Basso.
Rock quasi hendrixiano di grande presa è quello che troviamo alla base di The Lighthouse Of Sadness, mentre in Last Day Of Summer si rifà spudoratamente a Bruce Springsteen di cui Get è un entusiasta dichiarato. Più interessante sembra The Story Of Richard Francis Burton, sorretta un organo Hammond (sempre Get) e intrecci di chitarre e con i cori della bassista: la canzone racconta la storia di un altro triestino acquisito, un esploratore che nell’ottocento risalì il Nilo fino al Lago Vittoria cercandone le sorgenti. Il disco si concluderebbe con una delicata e ispirata ballata dedicata al cane Joy, da cui prende il titolo, un’affettuosa dog song con piano, dobro e chitarra acustica in primo piano.
Il disco finirebbe così, se non ci fosse la bonus track Climbin’ Up This Mountain, un corale valzerone in stile texano in cui a reggere le sorti vocali con Get ci sono Anthony Basso, Franco Trisciuzzi, Jimmy Joe,Ivo Tulli, che cantano una strofa per ciascuno: tutti si occupano anche di chitarre soliste o dobro, sempre in combinazione col titolare del disco, mentre ai cori oltre a Tea Tidic c’è Matteo Zecchini.
ROOMFUL OF BLUES – In A Roomful Of Blues (Alligator/IRD 2020)
Decisamente poca fantasia nella scelta del titolo, d’altronde quando si è sulla breccia da oltre cinquant’anni e da più di quaranta si fanno dischi, può anche starci.
Certo la fantasia non è la dote principale che si richieda ad una formazione come i Roomful Of Blues, formazione dedita ad un blues onestissimo che nel corso di tanto longeva attività ha contato più componenti che dischi (ben venticinque album tra studio, live e antologie, gli ultimi cinque in seno all’Alligator).
Tant’è: della formazione originale non è rimasto nessuno, ma c’è il sassofonista Ron Lataille che è nel gruppo dal 1970, e quindi ha preso parte alle registrazioni del primo disco, nel 1977, e c’è il chitarrista Chris Vachon, che è arrivato nel 1990 ed è poi quello che tiene salde le redini della band: una piccola big band dedita al blues in tutte le sue articolazioni. Vi troviamo sfumature soul, elementi swing, un po’ di New Orleans sound, stile di Chicago, echi rhythm’n’blues suggeriti dai fiati.
Non c’è da stupirsi se gran parte della fortuna il gruppo se la sia costruita in Gran Bretagna e in Europa, in epoca in cui il blues dei padri originali latitava o era in disarmo (gli anni ottanta sono stati un decennio nero per il genere, se escludiamo il fenomeno Stevie Ray, ma lui era su un altro pianeta).
Quello dei Roomful Of Blues è un po’ un blues enciclopedico, da palestra (vi hanno militato negli anni futuri personaggi di vaglia come Lou Ann Barton, Ronnie Earl, Duke Robillard e l’immenso Curtis Salgado), il blues per tutti potremmo dire, quello ben suonato ma senza troppe pretese: tutto suona già sentito e la voce duttile del cantante Phil Pemberton, pur adattandosi alle varie situazioni non convinca sempre del tutto. Niente da dire sulla chitarra di Vachon invece che a buon diritto è il band leader e l’autore di buona parte del materiale, composto prevalentemente con Bob Moulton, componente aggiunto.
Il disco scivola piacevolmente senza però destare entusiasmi particolari: c’è la ballad (She Quit Me Again), e c’è una scorribanda nello zydeco (Have You Heard), il jive (She’s Too Much e Too Much Boogie), il boogie (We’d Have A Love Sublime), lo slow blues jazzistico (Carcinoma Blues).
Se la musica vi serve come sottofondo per viaggiare o farvi la doccia, troverete in questo prodotto un buon viatico, ma sinceramente allora nel catalogo Alligator degli ultimi anni ci sono dischi ben più interessanti e stimolanti.