THE MARCUS KING BAND – Carolina Confessions
di Paolo Crazy Carnevale
22 agosto 2019
THE MARCUS KING BAND – Carolina Confessions (Fantasy 2018)
Tanto è giovane questo Marcus King, quanto è bravo.
Già i primi due dischi realizzati con la band eponima erano stati una chiara dichiarazione di bravura e d’intenti, ma questo spettacolare disco uscito a fine anno è una conferma con le contropalle, sarà che c’è dietro Dave Cobb come produttore, ma se il gruppo e il leader non valgono, il produttore può sudare quanto vuole, il prodotto non sarà mai di questa statura.
Che King sia soprattutto una bomba dal vivo è cosa nota, dopo averlo visto in azione con la band del disco su un piccolo palco di Austin lo scorso marzo ne ho avuto la conferma: Marcus King Band è una forza della natura e con gente così il rock sudista è ben lungi dal vedere la fine. Se i gruppi storici sono sciolti o girano in versioni un po’ farlocche che non convincono troppo e sono ormai delle cover band di sé stessi, gente come Marcus King e soci o la Tedeschi Trucks Band hanno riportato il southern sound a splendori insperati e insperabili.
Già con l’iniziale Confessions i ragazzi danno ampia dimostrazione di aver mandato bene a memoria l’abbecedario della materia, ma non solo, hanno saputo tesaurizzarla e metterci del loro, così il loro disco va oltre il rock sudista più tipico, recupera elementi soul di grande impatto e appunto questa prima traccia è una soul ballad di grande spessore. Su Where I’m Headed entrano in campo anche i cori di Kristen Rogers, mai invadenti e totalmente irrinunciabili, mentre tutto il gruppo sostiene un ritmo perfetto, con fiati e tastiere usati con grande maestria e misuratezza mentre la chitarra di King (unico chitarrista del disco) entusiasma irrevocabilmente. Homesick è uno shuffle dai suoni bilanciati, sempre con bei cori, chitarra effettata a dovere, senza plastica latente e con l’organo che lavora in sottofondo mentre i fiati sono ancora una volta misuratissimi come in un vecchio disco soul di casa Atlantic. Grande anche il brano successivo, una ballatona di country soul intitolata 8 A.M. a cavallo tra le migliori composizioni di Gregg (Allman naturalmente) e lo stile di Delaney & Bonnie (guarda caso uno dei punti di riferimento anche per il gruppo di Susan Tedeschi e Derek Trucks). Poi il lato A si va a chiudere con un brano assolutamente vincente, How Long, grande dimostrazione di classe, molto soul anche qui, in stile Otis Redding, con un iniziale dialogo a tre in cui King, il tastierista Deshawn Alexander e la sezione fiati di Justin Johnson e Dean Mitchell rendono subito accattivante la composizione, poi nel bel mezzo un nuovo break strumentale con piroette infuocate della chitarra e tutti gli altri ingredienti in giusta dose.
Il lato A è una dimostrazione di bravura ad una sola voce, quella del leader, che però si occupa oltre che di canto anche di chitarra acustica e pedal steel (con giusto in sottofondo le tastiere): Remember è una lenta composizione dal suono lancinante, una canzone d’amore come buona parte delle altre incluse nel disco. Anche qui c’è molto Gregg Allman, ma King, l’ho già detto ma mi preme sottolinearlo ancora, ha davvero assorbito in toto tutte le lezioni della musica sudista, e non quella machista e talvolta razzista dei gruppi muscolari, ma quella più legata alla black music.
Il gruppo torna alla grandissima in Side Door con la voce di King che sembra voler citare Janis Joplin e tutti i buoni elementi fin qui apprezzati nelle composizioni precedenti; Autumn Rains si sviluppa intorno ad un bell’intreccio di chitarra acustica con King che si trattiene inizialmente con l’elettrica, salvo poi doppiarsi nel finale per ottenere quel tipico effetto di chitarre gemelle che lo fa duettare con sé stesso. Un altro brano da applausi sostenuto da un sound impeccabile. E se a qualcuno venisse in mente di obiettare che però manca un brano, in questo disco, dal riff sudista robusto e caratteristico, King e soci lo spiazzerebbero subito con la successiva Welcome ‘Round Here, bella cavalcata sonora che nella parte si permette persino di assumere toni psichedelici tutt’altro che fuori luogo, con la chitarra solista che impazza e tutta la band lanciata in un tour de force che dal vivo dev’essere una conditio sine qua non per una lunga jam.
Per il finale, King ci riserva un’altra perla, Goodbye Carolina, introdotta da un arpeggio di acustica e da un bel cantato su cui poi si innesta la voce della Rogers con Desahwn Alexander che tesse le basi col suo organo, poi il brano prende il volo, grande slide che duetta con l’acustica e l’organo che duetta col piano elettrico. Il brano si dipana per oltre sei minuti, rivelandosi con ogni probabilità come il capolavoro supremo di un disco che di grandissimi brani ce ne ha già dati molti.
E quando il disco termina, l’istinto è ogni volta quello di recarsi al giradischi e voltare facciata per ricominciare daccapo.