Archivio di settembre 2017

DAVID HAYES – Folk Jazz!

di Paolo Crazy Carnevale

29 settembre 2017

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DAVID HAYES – Folk Jazz! (Smokey Haze Music 2013)

Il titolo calza incredibilmente a pennello: d’altra parte David Hayes, in quasi cinquant’anni di onorata e considerevole carriera nel campo musicale ha sempre fluttuato tra un genere e l’altro, sempre con eleganza e maestria, dalla titolata prestazione d’opera come bassista al servizio di del Van Morrison migliore in poi. Citare tutto il suo curriculum sarebbe dispersivo oltre che eccessivamente lungo (per chi vuole approfondire il rimando è al numero 130 della nostra edizione cartacea), mi limiterò quindi a raccontarvi di questo piccolo disco argenteo che il nostro ha inciso con pochi amici nel suo studio nella contea di Mendocino: dieci brani dalle atmosfere in costante bilico tra il folk suggerito dall’uso delle chitarre acustiche (ad opera del medesimo Hayes) al jazz indotto da una sezione ritmica ad hoc (il basso del titolare, ovviamente, la batteria di Bob Ruggiero, anche lui già con Van Morrison, e il piano di Bill Bottrell, dal pedigree altrettanto nobile, sia come turnista che come produttore).

Il disco si apre bene con Warmth Of The Sun, poi ripesca Down In The Dirt che Hayes aveva già inciso per il suo sforzo precedente, Soul Diver. I Will Wait prelude ad una delle tracce più interessanti, Holy Ground in cui Hayes si dedica anche all’armonica, l’atmosfera è particolarmente folk jazz in questo brano, mentre nel successivo Soul Search, sempre con l’armonica, la voce si fa particolarmente dolente e la ritmica accentua le inflessioni jazz. Molto più bella Wolves Are At The Door, dall’inizio incalzante, con la pregevole prestazione di Hayes alla chitarra sembra arrivare direttamente da un western movie.

Old Dusty Road è invece una delle composizioni preferite del nostro, l’aveva già incisa con diverso arrangiamento su Soul Siver e in chiave ulteriormente diversa l’ha inclusa anche ne recente disco in duo inciso con Gene Parsons: e proprio Parsons è ospite in questa versione con la sua pedal steel, che fa veramente la differenza, col brano precedente è sicuramente tra le perle di questo dischetto.

Love Avenue gira dalle parti di Astral Weeks, la voce di Hayes non è quella del Cowboy Belfast ovviamente, ma l’influenza di Morrison si fa veramente sentire in maniera determinante (Hayes oltre che su classici come It’s Too Late To Stop Now e Veedon Fleece ha suonato anche nel tour in cui Morrison proponeva Astral Weeks dal vivo per intero). Molto bella anche Father To Son di nuovo con una spettacolare pedal steel di Parsons che stavolta ci mette anche la sua bella voce a duettare con quella dell’amico. La chiusura è affidata a Mirror Song, altra buona composizione dall’andamento moderatamente caraibico. Un disco quasi fatto a mano, se non in casa, a partire dai simpatici disegni di copertina, opera dello stesso Hayes. Se solo ne esistesse una versione in vinile il capo dei trapper ne sarebbe già sulle tracce…

Prog Rock Italiano

di admin

24 settembre 2017

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DAL 23 SETTEMBRE DE AGOSTINI PUBLISHING PORTA IN EDICOLA GLI ALBUM DELLA STAGIONE D’ORO DEL ROCK ITALIANO E LANCIA LA COMMUNITY ITALIANA DEDICATA AL VINILE

Milano, 21 settembre 2017 – Dopo le Collezioni dedicate a jazz, classica e blues e a seguito del grande successo di The Beatles Vinyl Collection, De Agostini Publishing si concentra questa volta sulla grande stagione del progressive rock italiano: album e autori che hanno fatto la storia del rock nostrano degli anni Settanta e che sono diventati di culto anche al di fuori dei nostri confini.

Gli album riproposti sono 60 e la prima uscita, in edicola il 23 settembre, è uno dei dischi iconici di quell’epoca: “Storia di un Minuto”, album d’esordio della Premiata Forneria Marconi, registrato dalla formazione originale con Franz Di Cioccio, Franco Mussida, Flavio Premoli, Giorgio Piazza e Mauro Pagani. Album che include una pietra miliare di questo genere musicale come “Impressioni di Settembre”, una canzone che si è impressa in modo indelebile nella memoria degli appassionati del genere grazie all’immaginifico testo di Mogol ma soprattutto, imprevedibilmente, al ritornello esclusivamente strumentale, che introduce presso il grande pubblico il suono futuristico del moog.

Prog Rock Italiano è un’imperdibile collezione di LP a 33 giri in vinile da 180 grammi che racconta una musica rivoluzionaria, in grado per la prima volta di mettere il nostro Paese in una posizione di spicco sulle mappe internazionali del rock, con nomi e titoli che hanno lasciato un segno indelebile nell’immaginario musicale: tra i protagonisti, oltre alla PFM, Banco del Mutuo Soccorso, Area, Le Orme, Franco Battiato, Arti e Mestieri, New Trolls, The Trip, Delirium, Alan Sorrenti, Perigeo e Napoli Centrale.

In edicola ogni 14 giorni, tutti i dischi sono accompagnati da un fascicolo – curato da Guido Bellachioma, uno dei massimi esperti di progressive in Italia – ricco di immagini e testi che raccontano quell’irripetibile stagione del rock e, sullo sfondo, le grandi rivoluzioni della politica e dei movimenti sociali che hanno animato il Paese tra la fine del boom economico e gli anni di piombo.

De Agostini Publishing, punto di riferimento stabile nell’attuale mercato nazionale della musica in vinile, coglie l’occasione per lanciare anche DeAgostini Vinyl, la Community italiana interamente dedicata al disco nero.

L’obiettivo della community DeAgostini Vinyl, che prende vita su Facebooke Instagram, è quello di diventare un punto di riferimento per tutti gli appassionati e i collezionisti di musica in vinile. Uno spazio social fatto di consigli, notizie, curiosità, immagini e contenuti inediti per rivivere la storia del disco, scoprire le nuove uscite e i trend del momento.

PROG ROCK ITALIANO
Viaggio nella rivoluzione della musica italiana
Le prime 20 uscite:
1. PFM – Storia di un Minuto
2. Banco del Mutuo Soccorso – Banco del Mutuo Soccorso
3. Franco Battiato – Pollution
4. New Trolls – Concerto Grosso
5. Alan Sorrenti – Aria
6. Area – Arbeit Macht Frei
7. Le Orme – Felona e Sorona
8. Il Rovescio della Medaglia – Contaminazione
9. Napoli Centrale – Napoli Centrale
10. Osanna – L’Uomo
11. Perigeo – Azimuth
12. Autori Vari – Concerto per Demetrio
13. Formula 3 – Dies Irae
14. PFM – Live in USA
15. The Trip – Caronte
16. Claudio Rocchi – Volo Magico n.1
17. Arti & Mestieri – Tilt
18. Tony Esposito – Rosso Napoletano
19. Banco del Mutuo Soccorso – Darwin
20. Metamorfosi – Paradiso

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Save the date!

di admin

22 settembre 2017

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Si avvicina l’appuntamento con BRIANZA VINILICA, giunta alla sua terza edizione.
L’appuntamento è per il prossimo 15 OTTOBRE ad AGRATE BRIANZA (MB) dalle ore 10 alle ore 18 presso la Cittadella della Cultura – Auditorium Mario Rigoni Stern Via Gianmatteo Ferrario, 51.

Come sempre, INGRESSO LIBERO E PARCHEGGIO LIBERO nei pressi della fiera, in Via Lecco, 11.
Vi aspettiamo!

MOTORHEAD – Under Cover

di Paolo Baiotti

20 settembre 2017

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MOTORHEAD
UNDER COVER
Silver Lining 2017

Era inevitabile che una delle conseguenze della morte di Lemmy (28 dicembre 2015) e dello scioglimento dei Motorhead sarebbe stata l’uscita di pubblicazioni postume, come sempre avviene in questi casi. Per ora bisogna dire che la label e il management della band non hanno esagerato, limitandosi a Clean Your Clock, cd/dvd dal vivo tratto dall’ultimo tour del trio e a questo recentissimo Under Cover, che raccoglie undici covers della formazione britannica eseguite dall’ultima formazione, quella con Phil Campbell alla chitarra e Mikkey Dee alla batteria e quindi registrate nel periodo 1992-2015.

Alcuni brani si adattano alla perfezione al gruppo e in particolare alla voce di Lemmy che non ha una grande estensione ed è palesemente monocorde. Parlo di God Save The Queen (2000 da We Are Motorhead) che riafferma la parentela dei Motorhead con il punk, di Breaking The Law (2008, tratta da un tributo ai Judas Priest) e di una devastante Whiplash dei Metallica (2005, vinse un Grammy Award). Persino l’inedita Heroes, l’anthem di David Bowie (uno degli eroi del leader del gruppo) inciso nel 2015, non è affatto male, con la chitarra abrasiva di Campbell e una prestazione vocale sorprendente di Lemmy.

I Motorhead non si adattano ai brani che ripropongono, tendono ad applicare il loro trattamento incuranti dalla versione originale. Nella robusta ripresa di Starstruck (2014 dal tributo a RJ Dio, This Is Your Life) c’è l’aiuto alla voce solista di Biff Byford dei Saxon, tuttavia la versione non è indimenticabile. Rockaway Beach è un classico degli amici Ramones, ma la voce non è la più adatta ad eseguirla, mentre sorprendono i due brani dei Rolling Stones, Jumping Jack Flash (2001) e soprattutto Sympathy For The Devil (da Bad Magic del 2015). Hellraiser è un brano scritto insieme a Ozzy Osbourne e pubblicato su No More Tears dall’ex cantante dei Black Sabbath e su March Or Die dai Motorhead (questa versione è anche inserita nella colonna sonora di Hellraiser 3), Cat Scratch Fever la title track di un disco di Ted Nugent ripresa senza guizzi per March Or Die nel 1992. Manca all’appello Shoot ‘Em Down dei Twisted Sister (2001 dal tributo Twisted Forever) che non si distacca dallo stile della band, in particolare nel cantato, mentre la ritmica e il doppio assolo di Campbell si distinguono per la giusta attitudine.

Raccolta non imprescindibile che ha il pregio di riunire tracce sparse in dischi anche minori della band e in tributi di qualità alterna.

JIMMY RAGAZZON – Songbag

di Paolo Baiotti

17 settembre 2017

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JIMMY RAGAZZON
SONGBAG
Ultrasound Records 2016

Fondatore e leader dei pavesi Mandolin’ Brothers, uno dei tesori (putroppo) nascosti della musica roots italiana dalla fine degli anni settanta, bibliotecario nella vita, appassionato cultore di musica, letteratura e cultura in generale, Jimmy Ragazzon è finalmente riuscito a pubblicare il suo primo album solista, un altro sogno impossibile diventato realtà (come scrive nelle note del booklet).

Questo disco lo aveva in testa da molto tempo ed è il frutto di una serie di canzoni scritte nel corso degli anni e messe da parte in una borsa virtuale (la songbag) che finalmente è stata svuotata negli studi della Ultra Sound di Belgioioso (PV) con la produzione di Stefano Bertolotti e il mixaggio negli Usa da parte dell’amico Jono Manson. A un primo sguardo non ci sono molte differenze dai dischi dei Mandolin’ Brothers.

Il principale collaboratore è il chitarrista della band Marco Rovino che ha scritto due brani con Jimmy; inoltre partecipano altri due membri del gruppo, Joe Barreca e Riccardo Maccabruni. Tuttavia il cuore della band (The Rebels) che accompagna Ragazzon (voce, armonica e chitarra acustica) è formato da Rino Garzia (basso), Paolo Ercoli (dobro), Luca Bartolini (chitarra acustica) e da Rovino. Songbag è un disco acustico, senza batteria (e in questo differisce dai Mandolin’ Brothers), prevalentemente folk con accenti bluegrass, country e roots, un disco intimo, personale, con dei testi significativi parzialmente autobiografici che conferma la bravura e l’integrità del suo autore. Dieci brani, nessun riempitivo, un suono pulito nel quale si sente quasi il legno degli strumenti (fotografato anche all’interno della copertina).

Otto brani autografi e due covers che rappresentano due influenze decisive per Jimmy: un’eccellente Spanish Is The Loving Tongue (Bob Dylan) nella quale brillano l’armonica e il violino di Chiara Giacobbe e una The Cape (Guy Clark) fedele all’originale. Tra le altre tracce spiccano l’opener D Tox Song con un suono che mi ha ricordato David Grisman e riusciti intrecci vocali, l’intima Old Blues Man con un testo sofferto e coinvolgente, Dirty Dark Hands sul problema dell’immigrazione, la dura Sold, accusa a un mondo nel quale tutto è in vendita arrangiata con morbida malinconia (e l’apporto della lap steel di Roberto Diana) e la scorrevole Evening Rain, un altro brano in cui ad un accompagnamento musicale rilassato si contrappone un testo di denuncia, in questo caso sulla povertà e sull’emarginazione. Niente male anche il blues Going Down con la chitarra di Maurizio “Gnola” Gliemo, mentre la conclusiva ballata In A Better Life, soffusa e sofferta, è nobilitata da un’armonica preziosa.

A Varedo la prima edizione della Fiera del Disco

di admin

13 settembre 2017

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Si svolgerà il prossimo 1 ottobre la prima edizione della Fiera del Disco, del CD e del DVD di Varedo (MB).
La location è l’Oratorio della chiesa “Maria Regina” di Varedo (Fraz. Valera), in Via Friuli, 18.
Ingresso e parcheggio liberi, orario: dalle 10 alle 19
per maggiori informazioni: 338 4273051
Facebook: Rock Paradise Fiere del Disco

WALTER TROUT – We’re All In This Together

di Paolo Baiotti

13 settembre 2017

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WALTER TROUT
WE’RE ALL IN THIS TOGETHER
Mascot/Provogue 2017

Walter Trout è un miracolato, un uomo al quale è stata concessa una seconda occasione dalla sorte, dalla bravura dei medici o da un’entità superiore. Nel giugno del 2013 mentre è in tour in Germania si sveglia di notte con le gambe gonfie di liquido. Gli viene diagnosticata una cirrosi epatica, causata da anni di stravizi. Si cura con fatica, ma il fisico deperisce finchè nel marzo del 2014 crolla. Ricoverato nel centro specialistico della Ucla, apprende che l’unica possibilità di salvezza è un trapianto di fegato entro 90 giorni. Raccoglie i 125.000 dollari necessari con un crowfunding (la mancanza di coperture sanitarie in Usa non è una novità…) e il 26 maggio viene operato. Il recupero è durissimo, come abbiamo raccontato in LFTS n. 120, ma con grande tenacia si riprende, aiutato dalla moglie Marie e dai figli. Pubblica The Blues Come Callin’, iniziato prima della malattia e finito dopo tra mille ostacoli e Battle Scars, che racconta nei testi le sue paure, le sofferenze e la battaglia per sopravvivere. Sono due dischi faticosi, tosti, drammatici, nei quali musicalmente Walter si affida al rock-blues muscolare che lo ha sempre contraddistinto. Battle Scars vince un Blues Music Award come miglior album rock-blues del 2016 e viene seguito dal doppio dal vivo Alive In Amsterdam che celebra il ritorno sul palco, testimoniando un tour emozionante e di grande successo, anche se non è il suo disco dal vivo più riuscito.

Superata l’emozione del ritorno, è giunto il momento di pubblicare un disco più positivo ed eccitante. Walter ha richiamato un gruppo di amici, anche per ringraziarli del supporto, incidendo un seguito di Full Circle (Ruf 2006), nel quale era accompagnato da ospiti come John Mayall, Jeff Healey, Eric Sardinas, Coco Montoya e Joe Bonamassa. Questa volta la maggior parte delle registrazioni sono state fatte separatamente, utilizzando i mezzi offerti dalla tecnologia, ma l’impressione è che siano tutti nello stesso studio, tanto è il calore emanato dal disco, nettamente superiore a quello del 2006. Prodotto da Eric Corne e suonato da una band formata da Sammy Avila (tastiere, con Trout dal 2001), Mike Leasure (batteria, con Trout dal 2008) e Johnny Griparic (basso) è un disco entusiasmante, con dei brani e degli arrangiamenti studiati per mettere a proprio agio gli ospiti.

La partenza è esplosiva con l’energetico rock-blues Gonna Hurt Like Hell nel quale si incrociano le chitarre di Walter e Kenny Wayne Shepherd, il boogie Ain’t Going Back, un duetto con la voce e la raffinata slide di Sonny Landreth, lo splendido slow The Other Side Of The Pillow, un duetto da antologia con l’armonica e la voce di Charlie Musselwhite e la scorrevole She Listens To The Blackbird Sing con Mike Zito, che ci riporta al suono sudista dei seventies di Allman Brothers e Marshall Tucker Band. Dopo lo strumentale Mr. Davis nel quale si confrontano lo stile ruvido di Trout e quello più raffinato di Robben Ford, si prosegue con la superba riedizione di The Sky Is Crying dove Walter duetta alla grande con Warren Haynes.

La parte centrale del disco registra un paio di episodi minori con Eric Gales e Joe Louis Walker, ma anche il pregevole soul She Steals My Heart Away con il sax di Edgar Winter e l’energico up-tempo Too Much To Carry con l’armonica di John Nemeth. Nel finale spiccano Blues For Jimmy T., duetto acustico con John Mayall (Trout è un ex componente dei Bluesbreakers) e la title track, nella quale il musicista di Ocean City ingaggia un duello con la chitarra di Joe Bonamassa. Trout ha dichiarato: “ho 66 anni, ma mi sento nel periodo migliore della mia vita. Fisicamente mi sembra di avere molta più energia rispetto al passato. Inoltre apprezzo molto di più il fatto di essere vivo, il mio mondo, la mia famiglia, la mia carriera”. Questo disco ne è la dimostrazione: pieno di gioia, entusiasmo e voglia di vivere e, soprattutto, di rock-blues energico e coinvolgente.

MICHAEL TOMLINSON – House Of Sky

di Paolo Crazy Carnevale

13 settembre 2017

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MICHAEL TOMLINSON – House Of Sky (Desert Rain Records 2016)

Un attacco accattivante, ritmo moderato con tastiere giustamente insinuanti. Michael Tomlinson questo disco lo inizia gran bene, l’andatura del brano che lo apre, Boulevard Rain, ricorda alcune di quelle belle canzoni che Van Morrison ha disseminato nei suoi dischi a cavallo tra anni ottanta e anni novanta. La direzione del cantato però va in tutt’altra direzione: Tomlinson sembra figlio o fratello minore di quella scuola di songwriting tanto in voga negli anni d’oro della west coast, quando la west coast music più tranquilla, quella che odiava la frenesia delle grandi città, aveva trovato riparo sulle alture del Colorado, tra rocce, nevi e boschi.

Il disco di Tomlinson – che non è un novellino alla luce di una considerevole produzione comprendente ormai una dozzina di album disseminati tra la metà degli anni ottanta ed oggi – è stato realizzato grazie ad un crowdfunding che ha garantito al cantautore di origine texana il capitale per chiudersi in studio a Seattle e mettere insieme le sedici tracce del CD contando su un discreto parterre di musicisti impegnati tra strumenti a corde tipici della musica di base folk rock qui inclusa, fiati e molto altro (suonato dal coproduttore del disco Kay Kenney impegnato alle tastiere, alla fisarmonica, basso, percussioni, synth): il risultato è un disco piacevole, tranquillo molto rilassato che va a pescare – a livello d’ispirazione – in quella scuola cantautorale raffinata e perfettina, in bilico equilibrato tra folk rock e pop facente capo a gente come Dan Fogelberg e Kenny Loggins. Alla buona traccia d’apertura segue un’altra bella composizione, Wyoming Wind, che tradisce leggermente l’origine texana di Tomlinson, e sul percorso si incappa in altre pregevoli canzoni come All This Water.

Diciamolo subito, non c’è davvero nulla di nuovo in questo artista, ma credo che chi cerca qualcosa di nuovo sappia da che parte cercare senza indugiare nel mondo dei cantautori. Piuttosto, quello che può dar da pensare è quale futuro possa avere questa musica (il pubblico, è evidente, è quello del crowdfunding): pensate al menzionato Fogelberg, amato alla follia nei suoi anni d’esordio, benedetto dalla presenza di titolati ospiti nei solchi dei primi dischi e premiato da notevoli vendite. Con gli anni, pochi, è finito nel dimenticatoio (pur continuando a fare dischi) la fortuna è cessata, i fan si sono persi: un paio d’anni fa girando il Texas con Daniele Lopresto, nei numerosi negozi di vinile usato che abbiamo visitato siamo incappati in un numero elevatissimo, quasi montagne, di dischi di Fogelberg venduti (per non dire tirati dietro) nei reparti delle offerte da un dollaro, segno che quei dischi li avevano comprati in molti ma che anche che quei molti se ne sono anche sbarazzati.

Artisti di questo genere non vendono certo più le centinaia di migliaia di vinili d’un tempo ma forse autori come Tomlinson tra vent’anni potranno ancora contare su una fetta di pubblico, affezionato quanto limitato, che metterà nel lettore CD i loro dischi facendosi cullare dolcemente da melodie zuccherine e voci malinconiche.

KENNY WAYNE SHEPHERD BAND – Lay It On Down

di Paolo Baiotti

7 settembre 2017

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KENNY WAYNE SHEPHERD BAND
LAY IT ON DOWN
Mascot/Provogue 2017

Considerato un talento prodigioso ai tempi dell’esordio di Leadbetter Heights, pubblicato nel ‘95 quando aveva compiuto 17 anni, Kenny Wayne Shepherd, nato a Shreveport in Louisiana nel ’77, ha vissuto un avvio di carriera esaltante con due dischi di platino e un disco d’oro (oltre al citato esordio, Trouble Is e Live On) e un successivo periodo di assestamento (o di crisi), comune ad altri giovani talenti della chitarra usciti nello stesso periodo (Jonny Lang, Jeff Healey, Joe Bonamassa).

Per ritrovare un equilibrio è dovuto tornare alle radici, ovvero al blues, con il pregevole progetto 10 Days Out (cd e dvd usciti nel 2007), un documentario nel quale ha incontrato e collaborato con alcuni veterani del genere come Etta Baker, B.B. King, Hubert Sumlin, Lazy Lester e Pinetop Perkins, approcciati da Kenny con umiltà e modestia, culminato in un concerto con alcuni ex membri delle band di Muddy Waters e Howlin’ Wolf.

Da allora ha ripreso la sua strada nell’ambito del rock-blues con una convinzione e una serenità che gli hanno consentito di pubblicare l’ottimo Live In Chicago nel 2010 seguito da due validi dischi in studio, Here I Go e Goin’ Home. Se quest’ultimo era un nuovo omaggio al blues attraverso dodici covers di artisti che lo hanno influenzato, il nuovo Lay It On Down è un ritorno al rock-blues più ortodosso. Inoltre dal 2013 Kenny è un membro di The Rides, l’eccellente band formata con Stephen Stills e Barry Goldberg.

Uno dei punti di forza di Shepherd è l’eccellente band che lo accompagna, da anni comprendente il potente cantante Noah Hunt, uno dei migliori in questo genere e, l’esperto batterista Chris Layton (già con Stevie Ray Vaughan), ai quali si aggiungono i nuovi Kevin McCormick al basso e Jimmy McGorman alle tastiere, recentemente sostituito da Joe Krown (già con Clarence Gatemouth Brown).

Lay It On Down è un disco di blues moderno, robusto, intenso e vario, nel quale Kenny dimostra la sua personalità pur non nascondendo le sue influenze, in primis Stevie Ray Vaughan (basta ascoltare Down For Love e Ride Of Your Life). Tra i brani spiccano la title track, una brillante ballata presentata in due versioni, una elettrica e una acustica (bonus track dell’edizione in digipack), lo slow Hard Lesson Learned profumato di country, l’errebi irrorato dai fiati Diamonds & Golds, composto con il produttore Marshall Altman, il ruvido opener Baby Got Gone e la scorrevole Nothing But The Night. L’edizione limitata in digipack ha un booklet di 56 pagine con i testi, un’intervista e foto sulle due passioni di Kenny (chitarre a automobili).

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AMILIA K. SPICER – Wow & Flutter

di Paolo Crazy Carnevale

6 settembre 2017

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Amilia K. Spicer – Wow & Flutter (Free Range Records 2017)

Si apre come un signor disco questa nuova fatica di Amilia K. Spicer, talentosa cantautrice di stanza sulla West Coast ma di fatto autentico concentrato di sonorità “americana” per via dei suoi vari spostamenti e delle sue frequentazioni di certi giri texani che con questa definizione vanno a nozze. Wow & Flutter è la più recente delle produzioni firmate da Steve McCormick ed è forse quella più eccellente, per quanto anche le altre siano riuscitissime, in costante e misurato equilibrio tra il lirismo di Emmylou Harris e la drammaticità di Lucinda Williams. Lui stesso non ha esitato nel definire il disco una gemma ed è difficile dargli torto.

La Spicer, per quanto assai poco nota alle nostre latitudini, dopo alcuni altri dischi da cantautrice e la partecipazione ad alcuni tribute album in cui ha reinterpretato Neil Young, Peter Case e Brian Wilson, mette sul piatto una dozzina di belle, a volte eccelse composizioni e lo spessore del disco viene subito tutto fuori fin dalla prima traccia, la convincente Fill Me Up in cui McCormick oltre a produrre infila anche un’azzeccata chitarra acustica e porta in dote il suo parterre di amici e collaboratori che in questo brano sono Michael Jerome, Eric Lynn e Joe Karnes. La titolare dal canto suo si alterna tra elettrica, banjo e organo Hammond C3. Bella anche la successiva Harlan, con ospiti la batteria di Andy Kamman (Phil Cody Band) e il basso di Tom Freund (cantautore in proprio e titolare di un rarissimo vinile condiviso insieme all’amico di sempre, tale Ben Harper, col quale si esibisce ancor oggi appena se ne presenti l’occasione). This Town è forse il brano più elaborato del disco, col maggior dispiego di strumenti, intenti a costruire una specie di riuscito wall of sound. McCormick si alterna tra elettriche ed acustiche mentre la Spicer si occupa della lap steel, ma ci imbattiamo anche nel mandolino di Matt Cartsonis (sempre del giro Cody, ma anche collaboratore di Warren Zevon e recentemente di John McEuen), ci sono i sassofoni del Blues Baron e le percussioni di Wally Ingram, mentre alla batteria ed al piano c’è nientemeno che Malcolm Burn che è responsabile del mixaggio dell’intero disco. Con la delicata Shotgun Amilia costruisce una serie di grandi armonie vocali che richiamano i lavori “pellerossa” di Robbie Robertson e certe frequentazioni africane del Paul Simon anni ottanta: si tratta di un brano riuscitissimo su cui lei mette l’acustica e lascia McCormick a far duettare l’elettrica e la slide con la mandola di Cartsonis. Tanto di cappello, davvero! Lightning sposta invece l’asse verso un suono più percussivo, ci sono ben quattro persone che si occupano di batteria e percussioni varie, tra cui lo stesso Steeve McCormick che lascia ad occuparsi delle chitarre l’illustre Gurf Morlix, grande amico della Spicer e titolato chitarrista che i frequentatori della scena texana di certo conoscono.

Con Train Wreck, brano in punta di piedi che ospita Tony Gilkyson alla chitarra, Mc Cormick porta alla corte della Spicer (impegnata oltre alle chitarre anche al piano e alla melodica) un altro dei suoi collaboratori preferiti, il bassista Daryl Johnson, che nel brano successivo, Shake It Off offre anche una bella prestazione vocale degna della sua militanza nella band dei fratelli Neville; ma non è tutto, nel brano – dallo sviluppo dannatamente intrigante – c’è un altro ospite da urlo, seduto dietro al suo Hammond B3 c’è infatti Mike Finnigan, titolare di alcuni buoni dischi come solista, tastierista live e in studio sia di Stephen Stills che di CSN, ma soprattutto autentico pezzo di storia del rock che ha messo le sue tastiere in un album fondamentale come l’Electric Ladyland di hendrixiana memoria! In Windchill Amilia e McCormick fan tutto da soli, alle prese con una canzone in odor di Emmylou Harris, quella della storia più recente, non solo quella prodotta da Lanois e suonata da Buddy Miller, quanto piuttosto quella di Red Dirt Girl in cui si rivelava insospettabilmente dotata autrice oltre che interprete, con la produzione di Malcolm Burn e la presenza in studio di Daryl Johnson ed Ethan Johns. Down To The Bone è ricca di suggestioni portate dall’uso di strumenti meno rock come il violino e il banjo o totalmente inusuali come le campane tibetane. In Wild Horses troviamo anche la pedal steel di Eric Heywood, altro musicista del giro McCormick mentre con Waht I’m Saying il ritmo si fa più sostenuto grazie alla ritmica efficace di Johnson e Jerome che regge il cantato della titolare impegnata ad intrecciare la sua lap steel con i suoni delle elettriche di McCormick e con l’Hammond stavolta affidato ad un’altra divinità dello strumento, quel Rami Jaffe che abbiamo imparato a conoscere attraverso i dischi dei Wallflowers e dei Foo Fighters. Ancora un brano da applausi.

Il finale, lento, soffuso, con le chitarre di Heywood e Gurff Morlix, è affidato a Shine in cui a duettare dolentemente con Amilia c’è nientemeno che Jimmy Lafave, probabilmente in una delle sue ultime apparizioni.

ERIK LUNDGREN – Doordwellers

di Paolo Baiotti

3 settembre 2017

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ERIK LUNDGREN
DOORDWELLERS
Misty Music 2016

Svedese da tempo trasferitosi a Copenhagen in Danimarca dopo un’esperienza in Giappone, attivo dalla prima metà degli anni novanta, Erik è stato coinvolto in molti progetti con formazioni diverse incidendo più di venti albums. Alcune bands non sono più attive come Sink, Ballroom Bastards, i Knivfisk o i Depleted, altre invece risultano tuttora in attività come Kebe Music (si occupano soprattutto di colonne sonore), Abetabeat e Druids. Ma in questo momento la priorità di Erik è la sua carriera solista che dopo Journey del 2014, prosegue con questo DoorDwellers. Lundgren ha una voce da cantautore indie-folk con un fondo di malinconia, qualche venatura pop e un forte senso della melodia. Negli arrangiamenti prevalgono le chitarre acustiche e le tastiere suonate da Jimmy Nolsoe e Kaare Graesboll, con l’aggiunta di un pizzico di batteria elettronica, creando un suono avvolgente, a tratti fiabesco e romantico, morbido e pacato, influenzato dai grandi e quieti paesaggi del nord (d’altronde Erik è cresciuto in una cittadina circondata da foreste ed ha sempre ammesso di ispirarsi alla natura del suo paese). Taken By The Fog, la folkeggiante The Passing e In Your Eyes che richiamano le melodie di Paul Simon, la melodica e sognante What Follows, l’evocativo pop-folk Ease e l’intensa pianistica My Demise mi sembrano le tracce più significative di un disco ideale per un ascolto notturno, pubblicato anche in vinile.
Per informazioni il sito dell’artista è www.eriklundgrenmusic.com.