Archivio di gennaio 2014

La Vinyl Legacy Association a VINILMANIA

di admin

28 gennaio 2014

locandina vinilmania febbraio 2014

Nei giorni 8 e 9 febbraio 2014 si svolgerà la 82° edizione di Vinilmania, il quadrimestrale appuntamento per gli incontinenti vinilomani del Parco Esposizioni di Novegro – Milano Linate, la più grande e frequentata fiera del settore in Italia.

Come di consueto, la nostra Associazione avrà il suo allegro banchetto, dove sarà possibile associarsi e anche disquisire del più e del meno. Quindi vi attendiamo numerosi.

La Fiera apre alle 10.00 e chiude alle 18. Per ogni maggiore informazione: http://www.vinilmaniaitalia.com

FreaKraut – 2. CAN

di Marco Tagliabue

25 gennaio 2014

Stanno ormai già veleggiando intorno alla trentina quando, sospinti da un irrefrenabile e misterioso impulso, Irmin Schmidt e Holger Czukay, decidono di costituire una rock band per portare un po’ di sconquasso in un mondo a loro perfettamente estraneo. Siamo intorno alla fine degli anni sessanta e per i due l’età delle ragazzate è finita da un pezzo. O forse, pensandoci bene, non è ancora cominciata… Schmidt è già un affermato direttore d’orchestra: allievo di Stockhausen, di Berio e di Ligeti, è ancora fresco di un soggiorno a New York che ha sancito gli stretti legami della sua arte con La Monte Young, Terry Riley e Steve Reich e che, al tempo stesso, ha portato quasi certamente i suoi malcapitati passi nei vicoli poco ortodossi frequentati dai Velvet Underground. Czukay, vecchio compagno di corso sotto la bacchetta del professor Stockhausen, ha avuto una formazione diversa, più improntata al jazz in qualità di chitarrista della Holger Schuering Jazz Band prima di volgere all’insegnamento del pentagramma in terra elvetica. Sarà proprio un vecchio allievo di Czukay, Michael Karoli, artefice tra l’altro della conversione al rock dell’attempato maestro nel segno di qualche ascolto clandestino di Velvet, Hendrix e Zappa, a raccogliere la chitarra nell’entità nascente consentendo allo stesso Czukay di spostarsi al basso. Completeranno il quadro Jaki Liebezeit, solido batterista jazz con gloriosi trascorsi alla corte di Chet Baker, pronto a mollare un tranquillo impiego nel Manfred Schoof Group, e Malcolm Mooney, scultore nero americano di ritorno dall’India con la giusta dose di misticismo ed i favori di Buddha nelle corde vocali.

Qualche conoscenza, si sa, rende la vita meno attraente ma semplifica spesso le cose. Grazie ad un anonimo mecenate, che offre loro la possibilità di installare uno studio di registrazione in una sala del castello di Schloss Norvenich di sua proprietà, i nostri possono jammare fino ad essere sopraffatti dal sonno in piena libertà e senza l’assillo di un affitto da pagare. Sarà la maniera ideale per sviluppare la conoscenza reciproca e, magari, qualche qualità extrasensoriale che si rivelerà indispensabile nella creazione di un nuovo concetto d’improvvisazione: “Niente è pianificato, sia in studio che sul palco. Tutti nel gruppo sono telepatici. Non c’è niente di particolarmente misterioso nella telepatia, è qualcosa che riguarda ogni giorno ciascuno di noi. Come qualsiasi altra cosa, necessita di allenamento: quando raggiungi un certo livello di telepatia devi sviluppare il gradino successivo. E’ quello che io chiamo il punto critico, ed è alla base della creatività.” (Schmidt).

Il primo esito concreto di queste sessions infinite sono dieci minuti di pura anarchia sonora che prendono il titolo di Get The Can: un biglietto da visita talmente scomodo ed imbarazzante da costringere la meteora David Johnson, flautista di estrazione classica orbitante intorno al primo nucleo del gruppo, a partire alla ricerca di qualche via lattea un tantino più armoniosa. E così, punto critico dopo punto critico, il 1969 saluta la pubblicazione di Monster Movie, debutto a 33 giri dei Can. Originariamente edito in una tiratura assassina di 500 copie per la piccola Music Factory, label privata della band, e prontamente ristampato dalla United Artists, che nel frattempo ha messo sotto contratto il gruppo, Monster Movie paga pegno alla psichedelia più classica di Pink Floyd e Co., ma esprime già pienamente le linee essenziali del sound in via di definizione. Nelle cadenze ipnotiche e ossessive del lungo mantra tribale You Doo Right, che monopolizza il secondo lato all’insegna di un nuovo concetto di suite, più affine agli standard del minimalismo e del concetto di reiterazione, ma anche nei toni lirici della sublime ninna nanna lisergica di Mary, Mary, So Contrary, nelle linee scarne dell’ipnosi iniziale di Father Cannot Yell, in cui le sferzate della chitarra di Karoli fanno il paio con i registri cupi dell’organo di Schmidt in un crescendo ad alto tasso emozionale, e nei ritmi più rock della velvettiana Outside My Door.

Non lo abbiamo ancora detto, ma tutto sembra ruotare intorno alla voce di Mooney, vero e proprio raccordo per gli strumenti ed elemento trainante della band. Monster Movie sarà anche il suo testamento: la sua mente sempre più instabile e la vera e propria ossessione che la sua visibilità in quanto membro dei Can possa in qualche modo allertare le patrie Forze Armate per un richiamo in Vietnam già più volte scampato, lo costringeranno a fare armi e bagagli per tornare in America dove, riacquisita una certa tranquillità, potrà dedicarsi ad un più anonimo insegnamento nelle facoltà artistiche. Avete presente i due terribili vecchietti del film Una Poltrona Per Due che raccolgono dalla strada uno straccione per scommettere sulla sua abilità come agente di borsa? E’ più o meno quello che succede a Liebezeit e Czukay allorché quest’ultimo, seduto al tavolo di un caffè di Monaco e attratto dalle litanie offerte a chissà quale divinità pagana da un artista di strada dalle fattezze orientali, indica in lui all’incredulo amico il prossimo cantante dei Can, che saranno oltretutto in scena quella sera stessa in un club della città. Perché no? Questa sera non ho niente da fare… sarà la risposta di Damo Suzuki che, nell’esibizione serale al Blow Up, con una performance che dagli iniziali toni meditativi si trasformerà in un vero e proprio assalto contro il pubblico inerme, riuscirà a svuotare anzitempo un locale che contiene 1500 persone…: tra i 60 entusiasti che assisteranno fino alla fine del concerto la leggenda, pensate un po’, segnala anche l’insospettabile profilo hollywoodiano di un incredulo David Niven!

L’esame, naturalmente, potrà dirsi brillantemente superato e Suzuki il dono della Provvidenza che eserciterà un peso decisivo nei successivi momenti chiave della storia dei Can. Momenti che, dopo l’interlocutorio Soundtracks (1970), che merita comunque di essere ricordato, quantomeno, per la magnifica Mother Sky, assumeranno le fattezze di quel vero e proprio caposaldo dell’Arte del novecento che sarà il successivo Tago Mago (1971). Monumentale sia nella forma che nella sostanza, Tago Mago è, al pari di Trout Mask Replica o White Light/White Heat, una delle opere più innovative ed influenti della musica, non solo rock, del ventesimo secolo. Punto. Figlio della musica colta di Stockhausen e La Monte Young, ma anche della psichedelia e delle musiche etniche, del rock blues, della contemporanea e del free jazz, l’album si snoda attraverso quattro facciate che anticiperanno molte delle tendenze a venire: dalla new wave alla musica industriale, da certa elettronica alla neopsichedelia. La catarsi è lenta e graduale, comincia dalle linee, ancora amiche, di Paperhouse, sorta di folk del dopo bomba dalle atmosfere struggenti e rassicuranti, per sprofondare nelle tonalità alienate e psicotiche di Mushroom e nel raggio di sole dopo un temporale estivo di Oh Yeah. Ma la discesa agli inferi è ormai irreversibile. Halleluwah e Augmn occupano per intero la terza e la quarta facciata. La prima, con le sue linee di basso vagamente dub, con le sferzate nervose della chitarra di Karoli, con il drumming metronomico di un virtuosissimo Liebezeit, con le dissonanze vocali di uno strambo Suzuki, oltre ad essere –in sé- una grande opera di musica contemporanea, prefigura con incredibile esattezza Metal Box dei PIL, ma anche Wire, Devo, Fall, Pop Group. La seconda, agghiacciante viaggio nel delirio di una mente umana a base di soluzioni sempre più ardite ed epilettiche, in un crescendo spasmodico verso un finale caratterizzato da inserti rumoristici e di musica concreta, sarà un inevitabile terreno di prova per la corrente industrial e lascerà un’impronta indelebile su esperienze del calibro di Residents, Sonic Youth, Cabaret Voltaire. Chiudono il lavoro i vocalizzi in salsa free jazz di Peking O ed il clima più rassicurante nella nenia psichedelica di Bring Me Cofee Or Tea.

Il poco spazio che rimane ci impone di passare con un bel paio di cesoie su un altro paio di capolavori, quali i successivi Ege Bamyasi (1972) e Future Days (1973), e sul comunque più che dignitoso Soon Over Babaluma, che esce nel 1974 dopo la conversione di Suzuki al culto dei Testimoni di Geova ed il conseguente abbandono dei Can, regalando ai superstiti l’illusione di poter proseguire come se nulla fosse agli abituali, elevatissimi standard. Ege Bamyasi varca territori molto meno accidentati rispetto all’illustre predecessore e viene ricordato in particolar modo per il brano che lo chiude, Spoon, che raggiungerà addirittura il primo posto nelle classifiche tedesche grazie al traino di una popolare serie televisiva. Future Days e Soon Over Babaluma, il secondo con Karoli e Schmidt che si alternano –senza troppa fortuna- alla voce, sono lavori di fattura più squisitamente elettronica, caratterizzati da un sound più mellifluo ed etereo che, dopo aver esplorato gli abissi della pazzia, pare quasi voler riappropriarsi della quotidianità, del gusto della normalità. Esemplari, in questo senso, la suite Bel Air, che occupa il secondo lato di Future Days, e Come Sta La Luna o Quantum Physics, dal successore. Per noi solo il tempo di dire che la storia dei Can che più ci stanno a cuore finisce qui: ci sarà spazio anche per altri lavori, progressivamente più inconsistenti, e per una dignitosa reunion nel 1989 con Mooney alla voce per l’album Rite Time. Della pletora di pubblicazioni postume che scavano negli archivi della band, citiamo infine gli imprescindibili Delay 1968 (1981) e Unlimited Edition (1976), che documentano, fra l’altro, gli esperimenti pre Monster Movie.

da LFTS n.70

FreaKraut – 1. FAUST

di Marco Tagliabue

1 gennaio 2014

 

Non doveva essere un posticino tanto tranquillo la Germania a cavallo fra i sessanta ed i settanta, e non soltanto per le questioni prettamente musicali che stiamo indagando in queste pagine. “Una mattina ci svegliammo e trovammo Wumme completamente circondata da poliziotti in assetto da guerra, con cani e mezzi blindati ovunque. Io mi ritrovai con un fucile puntato alla testa e l’ordine di non muovere un dito. All’inizio pensai ad uno scherzo, ma quelli avevano l’aria di fare maledettamente sul serio. Era davvero terrificante. Sembrava di essere in un brutto film dal quale non potevi fuggire”. Così Jean-Hervé Peron, bassista e membro fondatore dei Faust, ricorda i giorni spensierati trascorsi in magica armonia fra arte e natura nella comune di Wumme, il vecchio edificio scolastico che la Polydor aveva messo a disposizione del gruppo per assecondarne la fervida creatività. Non si è mai fatta abbastanza luce, del resto, sulle presunte connivenze fra Uwe Nettelbeck -creatore, produttore e manager dei Faust- con le cellule terroristiche del movimento Baader-Meinhof che, proprio in quei giorni, stavano cominciando ad esportare in tutta Europa il loro tragico modello. “Non c’è dubbio –è ancora Peron a parlare- che vi erano rapporti fra Uwe e gli uomini della Raf (Red Army Faction). Mi ricordo vagamente di certi strani personaggi che non avevano nulla a che fare con la musica. Andavano e venivano con la massima tranquillità, come se avessero legami ben precisi con qualcuno di noi”. In ogni caso, nella loro tragica messa in scena, i solerti tutori dell’ordine che avevano rotto il magico equilibrio di quel mattino a Wumme non erano poi andati così lontani dalla realtà, perché i Faust sono davvero il braccio armato del krautrock: il gruppo più estremo, più eversivo, più corrosivo, più anarcoide, più incontrollato ed incontrollabile.

Dei veri e propri terroristi sonori, insomma, sui quali ancora oggi aleggia un folto alone di mistero: poco o nulla è trapelato per anni sulle loro origini e sui loro particolari biografici. Di valore incommensurabile –invece- ciò che hanno raccontato i loro dischi ad intere generazioni di musicisti e di semplici appassionati. A quelli, almeno, che hanno saputo scavare così in profondità per vincere i numerosi ostracismi che -almeno fino alla metà degli anni novanta, all’epoca del glorioso ritorno sulle scene- hanno avvolto e fomentato una delle realtà più luminose e misconosciute della musica rock. Fra le teorie che circondano la nascita del gruppo sembra ormai aver preso piede quella che vuole i Faust una sorta di creazione a tavolino di Uwe Nettelbeck, giornalista/editore incaricato dalla Polydor di scovare una band underground che potesse rivaleggiare con gli astri nascenti del krautrock per tappare una vistosa falla nel catalogo della label. E pare proprio che questo McLaren ante-litteram si sia subito dimostrato all’altezza del compito affidatogli, confezionando su due piedi la band, ideando per il debutto una delle creazioni grafiche più celebri della storia del rock (la confezione in vinile trasparente con la busta –altrettanto trasparente- sulla quale è impressa la radiografia di una mano, irraggiungibile feticcio per schiere di collezionisti) ed ottenendone la pubblicazione –favore rimasto unico per una band non di estrazione colta- nella prestigiosa collana Deutsche Gramophon, normalmente dedita alla musica classica. Il tutto, naturalmente, in una manciata di giorni e senza alcuno sforzo apparente. “La storia dei Faust è fondamentalmente la storia di due piccoli gruppi tedeschi di stanza ad Amburgo, di un uomo –Uwe Nettelbeck- e di una situazione sociale, l’Europa del 1968. C’era un nucleo di persone che produceva musica per cineasti underground come Helmut Costa e Hans Hemminghaus. Un giorno arrivò Uwe e, insieme ad Helmut Costa, disse che stava cercando un nuovo gruppo per qualcosa di nuovo sulla scena musicale. Helmut, che era un mio vicino, ci mise in contatto con Uwe. Uwe ascoltò un nostro demo ma, a suo parere, ci voleva più ritmo e ci volevano più tastiere, così contattammo un altro gruppo dicendo che avevamo bisogno di un batterista. In questo modo fondammo i Faust. Rudolf Sosna, Gunther Wusthoff ed io eravamo nella  prima band, Werner Diermaier, Joachim Irmler e Arnulf Meifert nell’altro gruppo. Ci chiudemmo in uno studio per mezza giornata e reincidemmo il nostro demo. Uwe disse ‘E’ perfetto’ e lo consegnò alla Polydor”  E poi saranno gli anni di Wumme, celebrati proprio allo scoccare del nuovo millennio dal cofanetto antologico The Wumme Years 1970-1973. Ricorda ancora Peron: “Eravamo come in un monastero. Stavamo per mesi senza televisione o radio e solo Joachim ascoltava altra musica. Non era facile vivere sempre insieme, con chi si amava e con chi si odiava, senza la possibilità di andarsene. Ma quando eravamo fuori non vedevamo l’ora di tornare a Wumme”. E ancora: “Werner passava la maggior parte del proprio tempo a letto, come del resto facevano quasi tutti gli altri… Ma andava bene così  perché i fili dei microfoni salivano dallo studio di registrazione al piano terra su per le scale fino alle camere… Spesso registravamo proprio a letto, sdraiati, con le cuffie in testa…”

Faust, noto anche come Faust Clear per la celebre confezione, esce finalmente nel 1971 con un sottotitolo –che aggiungiamo noi e certo non sarebbe guastato- come l’immaginazione al potere. E’ un’opera composta da tre movimenti, non osiamo definirli canzoni, all’insegna dell’improvvisazione e di un caos controllato, un azzardato ma riuscito connubio fra certi collage zappiani, Captain Beefheart, i Velvet Underground ed il teatro di Brecht, le allucinazioni di Stockhausen, il melodramma di Wagner. Why Don’t You Eat Carrots? apre l’album fra dirompenti effetti elettronici ed i frammenti nascosti (adesso si direbbero campionamenti…) di Satisfaction e All You Need Is Love a chiudere fin dall’inizio i conti con la tradizione. Poi uno strano insieme di dissertazioni pianistiche, fanfare circensi, fiati di estrazione jazz, dialoghi, canti stralunati e recitazioni surreali mentre, sullo sfondo, impazza una chitarra elettrica ed il synth rigurgita le proprie nefandezze. La successiva Meadow Meal prosegue all’incirca sugli stessi binari con un morbido arpeggio chitarristico dal quale si staglia perfino un tentativo di canto. Poi un’apertura strumentale di impalcatura progressive con la chitarra in primo piano, mentre gli scrosci di un temporale introducono la chiusa affidata ad un organo di chiesa ed alla sua lugubre preghiera. Qualche indicazione maggiore la fornisce allora Miss Fortune, ritmica serrata all’inizio, con tastiere e chitarre che si rincorrono in vaste dilatazioni psichedeliche. Poi tutto si ferma e le distorsioni di una chitarra ritornano dall’aldilà creando una zona d’ombra dove una voce stolta si può esercitare fra violenti percussionismi. E’ il preludio ad una nuova esplosione strumentale dominata dagli svolazzi del synth, mentre voci sconnesse ritornano a parlare su brevi divagazioni pianistiche. Il finale degenera con un synth impazzito prima che qualche attimo di silenzio introduca un morbido arpeggio di chitarra sul quale due voci, a canali alternati, recitano una fiaba medievale che inizia con “Are We Supposed To Be Or Not To Be” e termina con “Nobody Knows If It Really Happened”. Due frasi che, senza scomodare tesi di Laurea, racchiudono lo spirito e la magia del disco: una musica che, forse, ci è solamente sembrato di ascoltare e che, riaperti gli occhi, non sappiamo se collocare nella dimensione del sogno o nella realtà. Come, del resto, la nostra stessa vita: l’apparenza, spesso, inganna.

Il disco passa quasi inosservato in Germania mentre ha qualche riscontro commerciale in Gran Bretagna per merito del solito John Peel, che lo programma spesso nelle sue trasmissioni radiofoniche. Sotto la pressione della casa discografica, che spinge per un prodotto più accessibile, i Faust pubblicano nel 1972 So Far, che attenua l’impeto dissacratorio del primo album in una dimensione più compiuta e più vicina alla forma canzone. Già, per la prima volta si può parlare di canzoni e di un album che ha marchiato a fuoco tre decadi di rock alternativo. Dall’iniziale It’s A Rainy Day, Sunshine Girl, battito secco e metronomico, una chitarra sgraziata in sottofondo quale strana ossatura, la melodia cupa e glaciale del canto e le aperture geometriche per tastiere, armonica a bocca e sax, passando attraverso On The Way To Abamae, forse il massimo punto lirico toccato dai Faust, con organo pinkfloydiano, arpeggio acustico e tocchi di flauto e la successiva No Harm, che parte come una parodia di Atom Heart Mother, con una partitura sinfonica dominata da organo e chitarra, per trasformarsi in un funky scatenato con una frase demenziale ripetuta all’infinito da voci sempre più folli “Daddy, take a banana, tomorrow is sunday”.  E che dire della title-track, un rock in tempo medio giocato sul dialogo a distanza fra chitarra e fiati con svolazzi elettronici in sottofondo, o delle radiazioni elettroniche dell’assalto al calore bianco di Mamie Is Blue o, ancora, del divertissment finale affidato al jazz da teatrino di avanspettacolo di …In The Spirit? Pagine di testo per generazioni di più o meno folli sperimentatori…

Dopo la pubblicazione di So Far ed alcune importanti collaborazioni fra le quali quella con il violinista Tony Conrad, che frutta il celebre Outside The Dream Syndicate, costituito da due lunghe composizioni nelle quali i nostri forniscono un tappeto ipnotico e percussivo alle elucubrazioni strumentali del maestro, i Faust rompono definitivamente con la Polydor e si accasano presso la nascente Virgin, che aveva già furbescamente orientato le proprie antenne verso il rock teutonico grazie alla distribuzione in Terra d’Albione delle produzioni targate OHR. “Uwe quella volta volle fare qualcosa di diverso, così disse ‘Vi diamo questi nastri per niente, nessun anticipo, ma voi –allo stesso modo- pubblicherete il disco per niente’. Volevamo garantire che non ci avremmo guadagnato niente, così vendemmo il disco al prezzo più basso possibile: vendemmo The Faust Tapes al costo di un singolo, 49 pence”. Potenza del marketing, The Faust Tapes, prima uscita dei Faust in casa Virgin, brucia in poche settimane la tiratura iniziale di 100.000 copie anche se, c’è da scommetterlo, un buon 90% di quegli incauti acquirenti non va oltre la prima facciata e, forse, nemmeno riesce a ultimarne l’ascolto… Peccato, perché The Faust Tapes, costituito da 26 più o meno lunghi frammenti legati in un’unica composizione di tre quarti d’ora circa, li avrebbe edotti sui successivi vent’anni di musica rock: new wave, post rock, industrial, dub, ambient, no wave, free jazz, folk apocalittico, isolazionismo…tutto e più di tutto sembra albergare, indisturbato, fra questi solchi in attesa del più o meno prossimo germoglio. L’essenza, o meglio la summa, dell’arte faustiana.

Sul finire dell’anno (non lo abbiamo ancora detto, è il 1973) esce Faust IV, il nuovo disco ufficiale del gruppo che, sull’onda del buon riscontro commerciale dei Tapes, riesce a vendere quasi altrettanto bene. Merito soprattutto, questa volta, dei suoni più levigati e più vicini alla forma canzone mai prodotti dai Faust, in un lavoro sicuramente valido ma privo di quell’inventiva rivoluzionaria che aveva scosso le produzioni precedenti. Certo non si direbbe, comunque, dall’ascolto dell’iniziale Krautrock, grande classico della band e del rock tutto. Una sorta di Hallogallo (Neu!) che vira verso la claustrofobia pura: questa volta i corrieri cosmici sembrano andare verso l’inferno. Il lato più cupo, malato ed angosciante del krautrock: un vortice psichico, un trip lisergico che sconfina in overdose, una lunga ed ossessionante cavalcata elettronica –costruita sul concetto di reiterazione- in cui il sintetizzatore esala i propri miasmi vorticosi in una irrefrenabile discesa agli inferi. Suscita allora non poco stupore, se non addirittura sgomento, passare subito dopo a The Sad Skinhead, reggae rock semi demenziale, o alla successiva –pur splendida- Jennifer, che si sviluppa da cupe linee di basso e finisce fra fasci di rumore ma, in mezzo, cela la ballata più solare che abbiano mai inciso i Faust. C’è ancora spazio per Just A Second, una sorta di ripresa di Krautrock che sfocia in abrasioni elettroniche, per le digressioni progressive un po’ datate di Picnic On A Frozen River, Deuxieme Tableaux e per le divagazioni folk –altrettanto datate- di Gyggy Smile. Strano per un gruppo che non si è mai guardato alle spalle… Chiude l’album l’organo chiesastico sfregiato da un’improvvisa distorsione di chitarra di Lauft…Heisst Das Es Lauft Oder Es Kommt Bald…Lauft e It’s A Bit Of Pain, morbida ballata disturbata da frequenze elettroniche. Anche i Faust, in fondo, dovevano pur mangiare…  

Ma, evidentemente, il pane non è tutto o, forse, quel poco non è ancora abbastanza perché, subito dopo IV, il gruppo abbozza un paio di tour e poi  sembra letteralmente scomparire nel nulla. Tutto ciò che trapela sono le numerose collaborazioni e le registrazioni personali dei vari membri, ma per i Faust sembra iniziato un lunghissimo letargo interrotto soltanto dalla pubblicazione di registrazioni postume o dalle ristampe del catalogo originale.  Tocca prima a Munich And Elsewhere, contenente il materiale che avrebbe dovuto comporre il successore di Faust IV, edito nel 1986 e ripubblicato con l’aggiunta dell’ep Faust Party Three, contenente altre registrazioni d’epoca, con il titolo di 71 Minutes Of Faust. Poi la reunion dei primi anni novanta, sotto l’egida di Jim O’Rourke, che conduce ai due volumi di Concerts, contenenti materiale live del 1990/1991, ed al ritorno in pompa magna con il primo album originale dai tempi di IV, il violento ed incompromissorio Rien (1995), davvero all’altezza dei tempi migliori, cui faranno seguito, un gradino più sotto, You Know Faust (1997) e Ravvivando (1999) più l’opera Faust Wakes Nosferatu. E’ proprio di questi giorni, infine, la notizia della (ennesima) ripubblicazione di Outside The Dream Syndicate in edizione de-luxe e del nuovissimo Derbe Respect Alder, split con la nota posse alt-hiphop statunitense dei Dalek, in cui i nostri si reinventano per l’ennesima volta trovando un inaspettato punto di convergenza fra due esperienze apparentemente così diverse. Ma questa è già storia di domani. E, per i Faust, non è certo una novità…

da LFTS n.70