Archivio di gennaio 2017

THE GRAND UNDOING – Sparks Rain Down From The Lights Of Love

di Paolo Crazy Carnevale

28 gennaio 2017

grand undoing

THE GRAND UNDOING
Sparks Rain Down From The Lights Of Love
(Secret Candy Rock Records/Hemifran 2016)

Terza opera per questa formazione del Massachusetts che più che un gruppo vero e proprio sembra essere un’emanazione del cantante, chitarrista e autore di tutti brani, rispondente al nome di Seth Goodman.

Copertina fantasiosa ma forse eccessivamente anonima – non vi figura neppure il nome del gruppo – ricavata, come tutto il booklet accluso, da fotografie opera del medesimo Goodman, a riprova di quanta parte egli abbia in questo ensemble, tanto da essere l’unico personaggio ricorrente in tutte e dieci le tracce qui incluse.

Fin dalle note di copertina viene dichiarato l’intento di fare un disco di grande pop-rock, a dimostrazione che Goodman ha le idee chiare riguardo alle proprie mire: operazione riuscita, oppure missione compiuta. Che il pop-rock piaccia o non piaccia, qui ci troviamo davvero di fronte ad una bella proposta, molto british per essere opera di una formazione yankee (chi è più yankee dei bostoniani del Massachusetts, culla della rivoluzione americana?), echi di sonorità d’altri tempi, della psichedelia spensierata degli anni sessanta ma anche di quella recuperata su entrambe le sponde dell’oceano Atlantico negli anni ottanta, il tutto approntato alla bisogna di fare breccia nei cuori e nelle menti dell’ascoltatore contemporaneo.

Certo, tra gli intenti dichiarati da Goodman c’è anche quello di dire cose importanti attraverso i suoi testi, e qui non mi sembra di aver riscontrato particolari risultati, ma parliamo di dischi e quel che deve emergere è comunque la musica.
Oltre a tutti gli strumenti che devono esserci in un disco pop-rock, vale a dire chitarra, basso e batteria con un po’ di tastiere, Goodman ama mescolare le carte con l’inserimento di percussioni, seminando qua e là archi e fiati, senza mai appesantire troppo l’amalgama finale di questo disco dal lungo titolo.

Belle le iniziali Sing Yourself Home e Key Biscayne, che ci mettono subito di fronte alla particolare voce del leader (o titolare che dire si voglia), ma molto intrigante è anche Falling From A Plane, in cui il violino lavora molto bene, mentre la più raccolta Lady In Grey vede comparire anche il violoncello. I brani più d’impatto sono Most Of All We Just Go Around che arriva solo a metà disco, e la title track. Due belle canzoni dai refrain accattivanti ed al tempo stesso con una bella costruzione sonora che valorizza i suddetti refrain.

Ma la sorpresa arriva con le due tracce finali in cui fa capolino nell’oculata scelta sonora di Goodman persino la pedal steel guitar di B.J. Cole, storico membro di formazioni britanniche dedite negli anni settanta al country-rock: naturalmente Cole si inserisce alla perfezione nel contesto, seguendo i dettami di taluni colleghi di strumento californiani che della pedal steel avevano fatto un grande veicolo per la musica sognate e dilatata che si produceva alla fine dei sixties nei dintorni di San Francisco e di cui non serve dirvi altro. The Winter, in particolare, dove la chitarra a pedali si fonde bene col sax di Dana Colley, e Anyway The Wind suggellano degnamente il disco grazie proprio all’apporto di Cole, un personaggio che fa sempre piacere rincontrare tra le tracce o i solchi di un disco.

MARTEN LARKA – Aluette

di Ronald Stancanelli

23 gennaio 2017

MARTEN LARKA[151]

Marten Larka
ALOUETTE
Motion Songs 2016

Possiamo definire lo svedese Marten Larka un cantante trovatore e compositore che ha al suo attivo, da noi è praticamente strasconosciuto, ben 4 album, 4 ep e alcuni singoli, tutte cose uscite negli ultimi undici anni. Artista ne giovanissimo ne ancora stagionato, è nato nel 1971, ama cantare in lingua francese anche se le sue precedenti cose sono in lingua svedese. È autore di due brani nella compilation per bambini Sånger och ramsor från barnkammarboken vol.4 del 2007, album che ha vinto un grammy per quanto concerne appunto i dischi concepiti per fanciulli. Alouette è il suo ultimo lavoro che abbiamo ricevuto dall’etichetta svedese Hemifran specializzata nell’esportazione in Europa di artisti sia del proprio paese che nell’importazione sempre nel nostro continente di certi dischi minori che rispondano a interessanti requisiti nell’ambito della gut music che nel paese nordico intende album che colpiscano visceralmente l’ascoltatore pur rispondendo a generi musicali differenti come power pop, cantautorato soft, pacato blues, morbida weat-coast, country, soffice jazz, americana e anche elettronica d’effetto, certo heavy rock e ovviamente rock and roll. In uno stile volutamente sincopato, potremmo dire loureediano, l’artista sviscera nove strambi forse, ma curiosi brani che non possono non incuriosire l’eventuale ascoltatore. In modo strascicato in alcuni frangenti e in tema sincopato come accennato sopra riunisce sotto la stessa bandiera, curiosa la semplice copertina disegnata con matite colorate, questa miriade di pezzi che possono risultare al primo ascolto senza capo ne coda ma che poi con ripetuti passaggi entrano bellamente in un incastro polimorfo che ha sia un senso che una decisa appartenenza, nell’ultimo brano fa capolino un’armonica a bocca che parrebbe materializzare la presenza di Neil Young! Al primo ascolto son restato un po’ perplesso ma poi dopo vari passaggi, l’album con la sua policromia mi è entrato sotto pelle e lo ascolto sempre più volentieri ed è lavoro decisamente singolare che proprio per il suo insieme intrinseco fatto da differenti pedine e dai testi interessanti, da seguire con attenzione, mi porta a ricordare il recente album dei nostrani Johann Sebastian Punk anch’essi caratterizzati da una bravura non comune nel coniugare temi differenti. Alouette è quindi un bel disco dai toni pop-synt-folk-variegati che varrebbe la pena di ascoltare. Per info varie e l’acquisto del cd potete rivolgervi a peter.holmstedt@telia.com

SCOTT BRICKLIN – Lost ‘Til Dawn

di Ronald Stancanelli

23 gennaio 2017

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SCOTT BRICKLIN
Lost ‘Til Dawn
Blue Rose 2015 Distr. IRD

Il bassista Scott Bricklin faceva o fa ancora parte di un supergruppo statunitense chiamato US RAILS, buona band transitata anche dalle nostre parti, a novembre erano al Giardino di Lugagnano-Verona, ed orientata su un deciso rock urbano con venature funky-soul, forieri di un paio di album che crearono certa curiosità. Anche Scott Bricklin si trova adesso con un paio di album accreditati a suo nome, il precedente, omonimo, era uscito circa cinque anni fa mentre adesso abbiamo tra le mani questa sua seconda prova dal titolo Lost ‘til Dawn . Album decisamente non male caratterizzato anch’esso da ballate urbane, momenti più rock tanto per capirci alla Willie Nile o al primo Murray McLauchlan ed altri più leggeri quasi orientati verso pop/rock d’autore ma di grande impatto e ritmo. Il tipo viene da Philadelphia e pare si sia stanziato da tempo in quel di Parigi, in questo mi ricorda il buon Elliott Murphy, e a pensarci il brano che da il titolo al cd Lost ‘til Dawn risente notevolmente dello stile del biondo Elliott. In alcuni frangenti certe sonorità possono anche ricordare gli Stones più intransigenti e se ci fosse una bella sezione fiati non esiteremmo a scomodare anche Southside Johnny. Tre i musicisti che suonano con lui, Felix Beguin con chitarre, piano, organo e tastiere; Jeremy Norris che percuote pelli e percussioni mentre Matt Muir, già facente parte degli US RAILS aggiunge in veste di ospite in Maybe Less Than Before la sua batteria. Bricklin suona oltre al basso anche chitarre, mandolino, banjo, pisano, organo, tastiere, batteria e percussioni !! Segnaleremmo tra le dodici canzoni che compongono il cd la gradevolissima ballata acustica Let me Go che come le altre è composta da Bricklin mentre solo un brano, l’ottima byrdsiana o tompettyana che dir si voglia Make a Lotta Love è scritta a quattro mani con Felix Beguin. Molto bella anche la ballata I Would che potrebbe stare a metà strada tra Wilco e Steve Wynn. Un buonissimo e piacevole disco di cantautorato americano di un artista che ha ormai girato in lungo ed in largo vantando anche collaborazioni prestigiose con artisti di fama e culto come Graham Parker e Sir Paul McCartney. Decisamente un disco da sentire e che avvince spassionatamente. Prettamente urbana la copertina.

WAIRA – Under The Black Hat

di Paolo Crazy Carnevale

22 gennaio 2017

2016 Waira copertina[177]

WAIRA – Under The Black Hat (Viva Records 2016)

La prima cosa che colpisce nell’ascolto di questo EP della giovanissima Waira è la freschezza abbinata ad una spontaneità disarmante. La musica e la voce che escono da questo dischetto sono lo specchio della ragazza che ne è autrice, Camilla Cristofoletti, che ha però di affidare le proprie sorti artistiche allo pseudonimo di Waira.

Con bene in mente la lezione di songwriters britannici della sua generazione (Ed Sheeran, Nina Nesbitt, Birdy ed altri), ma anche con riferimenti più vetusti (non esita a fare il nome di Bob Dylan), Waira è la dimostrazione che si può fare musica buona e a farsi apprezzare senza dover a tutti i costi passare per i talent show che inflazionano da troppo tempo la scena musicale nazionale e non. Il tutto quasi per caso, perché si è scoperta musicista senza sapere di esserlo, riprendendo in mano una vecchia chitarra e riuscendo a scriverci su delle canzoni, con testi molto personali. Tristi dice lei, in realtà solo ispirati da momenti di tristezza o malinconia, ma a loro modo intrisi di una solida voglia di reagire!

Ha voluto realizzare il disco per il suo ventesimo compleanno, coadiuvata da Mattia Mariotti e Marco Facchin, rispettivamente chitarrista e pianista, che hanno saputo lasciare alle canzoni di Waira la loro spontaneità, senza snaturalizzare eccessivamente il costrutto folk che ne sta alla base. E per il futuro Waira ha in mente di minimalizzare ulteriormente gli arrangiamenti, consapevole del potenziale assoluto che le sue canzoni e la sua voce possiedono senza dover ricorrere a troppi artifici.

Cinque i brani inclusi nel disco, uno dei quali, Don’t Cry, utilizzato come singolo di prova all’inizio dello scorso anno: poi le cose hanno cominciato ad andare più che in fretta per Waira, a partire dagli apprezzamenti per le sue esibizioni in piccoli teatri e dalla partecipazione ad un concorso a livello locale (Waira vive tra Bolzano e Trento) per arrivare alle assi del palco della 02 Islington Academy di Londra dove lo scorso 19 ottobre ha aperto per il cantautore texano Jay Brennan.

La traccia iniziale del disco è subito vincente, sorretta da chitarre e voce, è già una dimostrazione della stoffa di cui Waira sa vestire le proprie emozioni ed i propri pensieri: Nothing To Lose, che potremmo considerare il brano portante dell’EP, è un incoraggiamento a non farsi condizionare e a reagire anche quando si resta delusi da qualcuno. Wrong Way è giocata sul pianoforte e su archi sintetizzati ed è a sua volta un’esortazione ad andare comunque avanti anche quando si ha la sensazione che l’universo intero stia giocando contro di te. House Of Cards si gioca su un’interessante base musicale con tanto di cori in cui Waira doppia sé stessa, un’altra canzone di spessore, indirizzata a qualcuno che si cela dietro una maschera rifiutandosi di mostrarsi per quello che è. Sono storie personali si diceva, tutt’al più di persone molto vicine all’autrice, che per sua stessa ammissione dice di riuscire a scrivere solo di quello che conosce e che vive in prima persona.

Don’t Cry è la bella canzone da cui tutto è partito e ascoltandola risulta nettamente chiaro come sia stato possibile in poco tempo a Waira giungere agli apprezzamenti di cui è stata oggetto. Il disco si conclude con Rain, la composizione più recente, un altro invito a guardare avanti perché dopo la pioggia arrivano sempre giorni migliori, un altro bel risultato per una giovane cantautrice che vale la pena di conoscere e seguire.

SPECIAL CONSENSUS – Long I Ride

di Ronald Stancanelli

21 gennaio 2017

Special Consensus[152]

SPECIAL CONSENSUS
Long I Ride
Compass Records 2016 distrib da IRD

Gli special Consensus sono un gruppo bluegrass acustico attivi dal 1975, formato da quattro elementi il cui leader è Greg Cahill di Chicago che suona il banjo, Rick Faris canta e suona la chitarra mentre Dan Eubanks suona il basso e Nick Dumas, nessuna parentela crediamo, il mandolino, entrambi gli ultimi due curano anche le harmony vocals della band. Lo stile di questi gruppi è solitamente alquanto equiparato e generalmente si assomigliano tutti ma gli Special Consensus hanno quel quid particolare che fa risaltare questo album nella sterminata marea di dischi di questo tenore, il banjo suonato da Cahill ricorda lo stile di Mc Euen della Nitty Gritty Dirt Band e tutto l’album è piacevolmente velocizzato da una notevole comunione strumentale che lo rende oltremodo accattivante, molto bella ad esempio Highway 40 Blues, pezzo di Larry Cordle cantato in duetto con Celia Woodsmith e con accompagnamento del violino da parte di Kimber Ludiker. Solo un brano è a firma della band mentre un traditional è da loro arrangiato e gli altri otto sono di altri artisti. Ci soffermeremmo in particolare su First One to Know di Stoney La Rue Phillips con l’aggiunta della voce di Summer McMahan e Fireball di Lester Flatt che è anche l’unico strumentale. Se chi ama sperticatamente questa musica spesso va alla ricerca nel suo scaffale colmo di vinili, di suoi vecchi dischi appunto quali quelli della Nitty Gritty Dirt Band o dei New Grass Revival, di John Hartford o della Deserte Rose Band per rimpolpare le suo orecchie di vecchie tradizioni allora con questo nuovo album appena uscito troverà note per le sue orecchie in grande quantità e specialmente con tanta qualità. Autori di una dozzina di album hanno anche al loro attivo l’interessante e piacevolissimo tributo a John Denver del 2014 dal titolo Country Boy : A Tribute Bluegrass to John Denver con ospiti vari tra i quali Jim Lauderdale , Peter Rowan e Alison Brown che produce anche questo eccellente Long I Ride caratterizzato oltre che da ottimi suoni anche da una particolare copertina perfect country style. Nel 2012 per il cd Scratch Gravel Road gli special Consensus hanno avuto una nomination ai Grammy come Best Bluegrass Album.

STONEY LARUE – Us Time

di Ronald Stancanelli

21 gennaio 2017

stoney-larue-us-time[163]

Questo era un cd arrivato un po di tempo fa e restato sepolto nella miriade di cose che affollano la mia scrivania. Nonostante siano passati vari mesi dalla sua uscita mi pare doveroso dividerlo con altri essendo un album molto piacevole pur se caratterizzato da varie cover e solamente da tre pezzi ascritti a Stoney Larue sugli undici che lo compongono. Cercando informazioni su di lui in rete ho scoperto che tempo fa è stato arrestato poiché tornato ubriaco a casa alla mattina presto, poco dopo, infastidito dal phon della moglie o compagna che si stava preparando per andare a lavorare svegliatosi l’ha buttata giù dalle scale. Diciamo che questa storia che non depone assolutamente a suo favore ha raffreddato il mio impeto di recensore considerando i fatti letti. Il cd non è male come gia accennato e tra le cover una bella Into the Mystic di Van Morrison e Seven Spanish Angels di Seals/Setser già portata anni fa al successo da una bella versione di Willie Nelson. Per quanto concerne i suoi brani pare che siano pezzi della sua discografia riproposti dopo un pool di preferenze redatto dai suoi fan. Un disco calmo, quasi pacato, ben cantato, ottimamente suonato, che potrebbe anche essere ideale come sottofondo sia in auto che in casa in fase di rilassamento, peccato che il personaggio che lo propone non dia sentori di rilassamento a chi gli sta attorno. Un collage di tante foto la cover tra le quali probabilmente anche la compagna o moglie finita in ospedale. No, questa storia a differenza del cd non mi è piaciuta per niente, un collega amico mio che scrive sia di musica per hobby che di altre cose per lavoro mi ha anche consigliato di non recensirlo proprio per la dissolutezza del personaggio. Diciamo che pur io avendo raffreddato gli stimoli ho trovato una via di mezzo semplificando la recensione.

LEVI PARHAM – These American Blues

di Ronald Stancanelli

21 gennaio 2017

Levi Parham[153]

LEVI PARHAM
These American Blue
Music Road Records 2016

Levi Parham ha realizzato da solo il suo primo album dal titolo An Okie Opera nel 2013 venendo acclamato in Oklahoma ove crediamo risieda o sia nato come eccellente singer – songwriter del genere Americana, appellativo ormai al quale non si può più sfuggire. Per dare seguito a questo lavoro che come dicevamo ebbe un notevole riscontro si spostò a Nashville per registrare il successivo Avalon Drive che uscì negli stores musicali l’anno dopo. Due singoli tratti da questo lavoro, Never coming Home to me e Ruby, ebbero a loro volta un buon successo. Grazie a questi eccellenti risultati si accasò alla Music Road Records ove il 24 giugno 2016 licenziò il nuovo album These American Blues registrato in Texas che abbiamo recentemente ricevuto. La prima cosa che si denota ascoltandolo è la bella voce dell’artista, netta, chiara, pulita e decisamente piacevole ed accattivante, voce che assieme alla tipologia di canoni che l’album rappresenta aiuta in modo perfetto a rilassarsi essendo lavoro di profonda solidità e di imperturbabile estensione. Tredici brani per una lunghezza perfetta, circa 47 minuti di buona ed inossidabile serie di preziose ballate che potrebbero far pensare, volendo proprio dare un parametro di paragone, al primo Steve Young. Oltre alla bella voce del cantautore altre due sono le peculiarità che rendono interessante questo supporto, in primis la produzione a cura di Jimmy La Fave che è sinonimo di illimitata garanzia e come seconda cosa la presenza al pianoforte di Radoslav Lorkovic, in Italia un paio di anni fa proprio al seguito di La Fave, che abbellisce in modo superlativo i brani nei quali è presente. Delle tredici canzoni che compongono questo piacevole e brillante album da rimarcare assolutamente Chemical Train, eccellente profonda ballata folk/rock/bluesy che da sola varrebbe l’acquisto del cd mentre tutto il resto è incentrato su buoni amabili livelli. Levin Parham, artista che se non si conosce, crediamo sia assolutamente da scoprire. L’unica nota negativa la spenderei per l’anonima copertina, si poteva far molto meglio, anche per attirare la curiosità di eventuali ascoltatori.

LUKE BELL – Luke Bell

di Ronald Stancanelli

19 gennaio 2017

LUKE BELL[154]

LUKE BELL
LUKE BELL
Thirty Tigers/IRD 2016

Luke Bell mi ricorda con la sua faccia di profilo in bianco e nero una specie di ritratto/misto tra il vecchio Hank Williams e Bruce Springsteen, se andate sul suo sito una foto nella quale è vicino al suo cane ricorda proprio il Boss . Non conosco il personaggio, ma il suo sound un po retrò che sto facendo mio, mi ha letteralmente conquistato con l’ascolto di questo suo omonimo cd, terzo album della sua discografia. Tra l’altro anche il primo suo lavoro del 2012 aveva lo stesso esatto titolo del suo nome e cognome! Boh ! Come i vecchi e puri dischi country di una volta dalla parca durata anche questo passa di pochissimo i trenta minuti. Il sound è piacevole, ne troppo ricco ne diremmo scarno, giusto per il genere che vuole proporre o riproporre. I musicisti con lui non sono noti, almeno per noi, e rispondono ai nomi di Casey Driscoll al violino, Brett Resnick alla steel, strumento che caratterizza notevolmente tutto l’album e Micah Hulscher al pianoforte, anch’esso di notevole spessore e tutti e quattro i musicisti assieme sono decisamente bravi nella decina di pezzi che compongono il cd con estensioni che vanno dal country, come prima accennato, di stampo classico a velato rock and roll, qualche spruzzatina labile di rockabilly e un istrionico yodel di giusta misura senza però esagerarne, e in un ultima istanza anche certo sommerso honky-tonk fa capolino dai solchi. Diciamo che la nota più curiosamente interessante la traiamo dalla produzione che è affidata a Andrija Tokic che aveva prodotto nel 2012 l’esordio degli strepitosi Hurray for a Riff Raff che erano poi stati autori due anni dopo di uno splendido capolavoro come Small Town Heroes. Il disco scorre che è un piacere e il suo scalpitare veracemente ci fa pensare a una sana mistura tra Randy Travis, Dwight Yoakam e Chris Le Doux. Tutti i brani si fanno scivolare addosso che è un piacere ma una giusta e doverosa citazione All Blue, Where Ya Been e the Great Pretenders la meritano sicuramente; niente a che vedere i Platters con quest’ultima. Tutti i pezzi sono a firma del cantautore che scopriamo provenire dal Wyoming, la copia giuntaci per recensione non ha alcuna nota informativa, solo una fotocopia della cover e nel retro i titoli. Bel disco come se ne facevano a bizzeffe tra gli anni cinquanta e inizio settanta; fatto con gusto, pulizia dei suoni, ritmo e tanta classe e passione. Chissà come saranno i suoi due precedenti, ci prende la curiosità.

THE REFUSERS – Wake Up America

di Paolo Baiotti

19 gennaio 2017

the refusers[173]

THE REFUSERS
Wake Up America
Autoprodotto 2016

I Refusers sono la creatura di Michael Belkin, autore, cantante e chitarrista che, dopo anni di esperienza come turnista a Los Angeles, si è trasferito a Seattle formando quattro anni fa la band con Steve Newton (basso) e Joe Doria (organo hammond e piano), raggiunti per registrare questo album da Brendan Hill, batterista dei Blues Traveler. The Refusers sono una band di rock politicamente schierata. Si evince chiaramente dal titolo del disco e di molte canzoni e dalle dichiarazioni del leader: “il rock dovrebbe essere pericoloso e sfidare i poteri dominanti, come ha fatto Edward Snowden con la NSA o le Pussy Riot con la Russia e Putin. Troppa musica contemporanea è pop inoffensivo fatto con lo stampino, con banali trucchi per arrivare al n. 1 e poi lasciarsi cadere come una pietra, per essere subito dimenticato. Noi vorremmo scuotere l’albero e risvegliare le coscienze nei confronti delle ingiustizie politiche ed economiche. Il rock dovrebbe fare questo”. Da questo punto di vista ricordano band come Rage Against The Machine, mentre musicalmente scelgono un rock che non dimentica il valore della melodia, con una chitarra e una voce piuttosto dure, sempre senza esagerare. A livello compositivo devono migliorare; il disco è alterno e il messaggio molto diretto (forse anche troppo) trova solo a tratti un veicolo attraente per raggiungere il pubblico.
Born To Rock apre il dischetto e si può considerare uno dei manifesti del gruppo. Brano secco, grintoso, con un chiaro messaggio di ribellione verso lo status quo, ribadito dalla robusta Wake Up America, nella quale spiccano una chitarra espressiva e un apprezzabile sottofondo di hammond. You Won’t Read It In The Ny Times con Doria al piano sovrappone un messaggio duro nei confronti dell’informazione ufficiale ad una musica piacevole e morbidamente bluesata con un sax insinuante, mentre Hang The Bankers (i testi di Belkin non si possono definire sottili…) è un rock rabbioso con venature punk e Go Back To Sleep una ballata che ricorda la scrittura di Ian Hunter. Il disco sembra sparare le cartucce migliori nella prima parte o forse, più semplicemente, si ripete troppo, appesantendo l’ascolto nei brani successivi. Anche il tentativo di variare lo stile con un po’ di reggae e di dub, con una traccia jazzata e qualche scheggia rappata non sembra molto ispirato.
In chiusura la ballata Professor Friedman’s Magic Money Contraption riaccende un po’ di interesse, ma il dischetto offre solo qualche spunto interessante, senza incidere come vorrebbe.

KEEGAN McINROE – Uncouth Pilgrims

di Ronald Stancanelli

19 gennaio 2017

Keegan mcinroe[168]

KEEGAN McINROE
Ucouth Pilgrims
2015 Autoprodotto e Distribuito da Hemifran

Keegan McInroe, è un musicista e scrittore texano cresciuto a Lubbock e spostatosi poi a Fort Worth nel 2001 ove poi si è laureato con lode in storia delle religioni e filosofia nel 2005.
Proprio nel periodo universitario si è messo a suonare in alcuni bar locali aiutando degli amici a formare un gruppo dal nome di Catfish Whiskey che pare sia sciolto poi nel 2009. Dopo la laurea ha deciso di continuare a fare il musicista professionista (!?) iniziando a girare e facendo anche un giro attraverso l’Europa. Propone un folk-rock-blues tranquillo, forse troppo, che non si disdegna all’ascolto ma non fa certo gridare al miracolo ne a strapparsi le vesti dalla gioia. Musica quindi un po’ dark come lo è del resto la copertina del cd che lo rappresenta. Mah, dovessi proprio andare a trovare un termine di paragone forse fa venire in mente David Munyon cantautore di grande valenza ed eterno beautifil looser.. Denso di ballate, molto bella Begogna, è album comunque dall’incedere alfine decisamente piacevole. Addirittura una lenta quasi indolente ballata, tra i momenti più suggestivi e belli dell’album, si chiama Verona, proprio da dove sto scrivendo adesso queste righe. Poco più di una sessantina di minuti per 14 brani nei quali sono addirittura venticinque gli artisti che lo coadiuvano sia come back vocals che come strumentazione che, nonostante faccia parte di un disco alquanto spartano di suo come genere, è invece molto ricca anche se dosata e misurata. Molto bella anche I Got Trouble un blues-reggato che sembra facente parte del trittico cristiano di Dylan con splendido triplo lavoro di coriste soul. Keegan ha diviso i palchi girando in tour oltre che da solo anche aprendo per artisti come Leon Russel da poco scomparso, la mexican band Tito & The Tarantula, Ray Wylie Hubbard, Eric Sardinas, Ian Moore ed altri. Album prodotto dal lui e del quale a parte un pezzo tutte le canzoni sono a sua firma. Oltre al lato musicale è notevolmente impegnato come poeta e scrittore avendo redatto in questi anni poesie, poemi, scritti politici e racconti. Per quanto concerne l’aspetto musicale questo è il suo quarto album da solo, uscito il 31 dicembre 2015 mentre uno, Blood & Bones, è stato pubblicato dai Catfish nel 2008. Ogni domenica in una radio texana propone un programma di file scaricabili (podcast) intitolato “Il pellegrino rozzo” che poi è anche il titolo del suo album

CARRINGTON MACDUFFIE – Crush On You

di Ronald Stancanelli

18 gennaio 2017

CARRINGTON MACDUFFIE[162]

CARRINGTON MACDUFFIE
Crush On You
2016 Pointy Head Records

Carrington MacDuffie, artista di New York, più che una cantautrice è una sorta di poeta e narratrice di poesie, racconti, insomma una splendida voce narrante. Curiosamente assomiglia fisicamente in modo notevole a una cantautrice bravissima che conoscemmo anni fa e della quale abbiam da tempo perso le tracce, Suzanne McDermott. LaMac Duffie che pare essersi specializzata in Ep, ma da quel che ci è dato sapere di lei la musica ed il cantautorato non sono la sua ragione di vita, ne propone appunto uno di cinque brani a lei ascritti realizzato in Texas ad Austin. Il suo è un genere che possiamo inserire in uno scomparto tra l’alternative country urbano ed il jazzy/ folk blues notturno, rischiarato da luci al neon forti e intensamente cromatiche e contraddistinto da una voce solida che sta a mezzo tra Lucinda Williams e Shawn Colvin. Non sappiamo se la sua professione sia quella di poeta, artista, cantautrice, lettrice o se faccia altro nella vita considerando questa sua parte meramente un momento hobbistico della sua esistenza fatto sta che in questo breve dischetto la protagonista suona chitarra elettrica ed acustica, ukulele, e pianoforte facendosi aiutare da Rob Halverson ai synt, chitarra, basso, tastiere e percussioni, da Dony Wynn alla batteria, e ancora percussioni e da Paul Klemperer al sax baritono. Il disco nonostante sia stato realizzato ad Austin ha un impronta molto metropolitana con un suono decisamente newyorkese alla P J Harvey. Notturno, scarno ed molto seducente.. Crush on You il titolo del dischetto che nulla a che vedere con Springsteen e vaporosa la foto di copertina

MICHAEL HEARNE & SHAKE RUSSELL – Only As Strong As Your Dreams

di Paolo Crazy Carnevale

17 gennaio 2017

Hearne-Russell+Only++as+Strong+as+Your+Dreams[165]

MICHAEL HEARNE & SHAKE RUSSELL – Only As Strong As Your Dreams (Howlin’ Dog Records/Hemifran 2016)

Un anno prolifico per il cantautore texano Michael Hearne: oltre al suo disco solista uscito per la stessa etichetta, Hearne ha pubblicato questo altro CD condiviso col collega e amico Shake Russell, a sua volta veterano della scena minore della Stella Solitaria.

Per quanto produttori e musicisti coinvolti siano all’incirca gli stessi del disco di Hearne che ho recensito sul sito qualche tempo fa, questo lavoro in duo si distingue abbastanza da quel lavoro. Se lì il songwriting era abbinato ad un sound robusto, qui, oltre a trarre beneficio dall’alternanza vocale (Russell ha una voce più consistente rispetto a Hearne), il CD in questione tende molto di più a sonorità acustiche, non di rado orientate verso elementi che sfiorano volentieri e con successo generi musicali più tradizionali come bluegrass e cajun.

Fin dal primo brano la cosa è evidente, I Got News For You, cantata da Russell è un perfetto connubio tra bluegrass e cantautorato, con ottime chitarre, banjo e mandolino che tessono un sostanzioso e adeguato tappeto sonoro. La successiva I Heart Texas è l’ennesima dichiarazione d’amore alla scuola della canzone d’autore texana da parte di Hearne che qui canta esplicitamente di luoghi come la Greune Hall e di personaggi come Townes Van Zandt a cui ruba addirittura il titolo di una canzone per il refrain. Bella e più intimista, con la pedal steel in evidenza, la title track firmata da Russell, e sullo stesso genere è anche The Girl Just Loves To Dance collaborazione tra i due titolari con pedal steel e piano a caratterizzare il suono.

Loser’s Gumbo, il titolo lo fa supporre largamente, strizza l’occhio – senza entusiasmare più di tanto – alla musica della Louisiana e per l’occasione il produttore e polistrumentista Don Richmond vi suona anche la fisarmonica, sicuramente il duo è più convincente quando gioca con la propria musica che non con quella ripescata in altre tradizioni, così anche la successiva Irish Prayer, pur non essendo un brutto pezzo deve fare i conti con secoli di ballate irish di gran lunga più entusiasmanti e finisce col suonare troppo già sentita. Più interessante You make The Blues Feel Like A Sunny Day, ottimo veicolo per le ambizioni chitarristiche di Hearne, che è molto stimato anche come chitarrista, e per il sottofondo di pedal steel; This Is What Happy Is è una bella canzone ritmata, dal tiro rock dettato dall’elettrica di Richmond, The Angel’s Share è invece una ballata cantata dalla voce zuccherosa di Hearne, So Late So Soon ci riporta alle atmosfere che avevano caratterizzato le prime composizioni del dico, di nuovo con violino, dobro, banjo in pista. La conclusione è affidata alla delicata Ballad Of The Snow Leopard And The Tanqueray Cowboy, presa in prestito dal songbook di David Rodriguez Garza.

WATER AND SAND – Water And Sand

di Paolo Crazy Carnevale

17 gennaio 2017

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WATER AND SAND – Water And Sand
(Blue Rose/IRD 2016)

Parte il primo giro a vuoto di chitarra acustica e il flash immediato è l’impressione di trovarsi alle prese con il Dylan più folk, quello dei primo tre dischi, l’intro di Far And Fallen, brano che apre il disco, è spiazzan te, viene da domandarsi quale brano di Bob sia quello che sta iniziando, la suggestione è tale che ti aspetti davvero che da un momento all’altro partano un giro di armonica o la voce rauca che ben sai. E invece no, è la voce di Todd Thibaud che si innesta su quel giro di chitarra in sincronia con un delizioso mandolino, probabilmente suonato dal produttore del disco Sean Staples.

Già, perché Water And Sand, nome del disco e del duo titolare, è un progetto che vede coinvolto il cantautore del Massachusetts in tandem con la cantautrice Kim Taylor, il tutto sotto l’ala protettiva intelligente di Sean Staples appunto. Un prodotto riuscito e ispirato che potrebbe anche andare lontano con un po’ di fortuna, se non resterà nel limbo sovraffollato delle autoproduzioni – i soldi per registrarlo sono stati messi insieme con uno degli ormai abituali crowdfunding –, con i due titolari complici alla pari ed impegnati a mettere insieme una manciata di belle composizioni che non possono non richiamare alla mente altre operazioni del genere con voce maschile e femminile. Nella più pura tradizione della musica country, e del country-rock a seguire, così come della scuola di cantautorato sudista. La differenza sostanziale è proprio nel budget, una volta c’erano le case discografiche che mettevano a disposizione i soldi per registrare i dischi, oggi le case discografiche vere e proprie non esistono più, ci sono delle piccole label che ti danno un minimo di aiuto nella promozione e nella distribuzione, giusto per non dover usare il tuo nome come nome dell’etichetta, ma per il resto devi fare tutto da solo, o quasi.

Nel caso della Taylor e Thibaud, l’operazione sembra proprio riuscita bene: la produzione è oculata, attenta ai suoni scarni e le voci si combinano bene, ricreando atmosfere che rimandano a Gram e Emmylou, ma anche alle cose più recenti della Harris, nulla di nuovo o innovativo, ma senza dubbio un prodotto all’altezza. Una decina i brani inclusi nel disco, magari un fiato malinconici, ma questo è il genere, con accorate esecuzioni vocali (ascoltate ad esempio Stars Will Guide Us), o con melodie che catturano (Before I Disappear su tutte, ma anche Beauty And Cost, My Amends), spesso caratterizzate da una pedal steel guitar che commuove e tesse le trame nel background come fosse un organo hammond.

Devo dire che non sono mai stato un grande entusiasta di Thibaud, sia da solo che come componente di band estemporanee come gli Hardpan, ma il connubio con la cantautrice (già opening act degli Over The Rhine e di Grace Potter And The Nocturnals) è decisamente riuscito, come suggella anche il delicato brano di chiusura del disco, quello che dà nome al CD e al duo.

JASON ROSENBLATT – Wiseman’s Rag

di Paolo Crazy Carnevale

14 gennaio 2017

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JASON ROSENBLATT – Wiseman’s Rag (JR/Hemifran 2015)

Un po’ il nome, un po’ il volto del titolare disegnato in copertina come se si trattasse di un fumetto intellettuale degli anni sessanta… da subito ho avuto la certezza di avere a che fare con un artista ed un genere musicale legati al mondo ebraico/americano, quasi un personaggio catapultato fuori da un film dei fratelli Coen.

E non sono andato troppo lontano nella mia impressione: Jason Rosenblatt è un ebreo canadese che bazzica da tempo il mondo musicale della sua regione, il Quebec, suonando musica legata alle sue origini e naturalmente anche molto influenzata da quanto si produce nel cosiddetto Nuovo Mondo. Nel suo curriculum c’è addirittura una formazione di nome Shtreimi, più orientata verso il klezmer, con cui si è esibito anche in Europa.

Soprattutto, pur suonando con perizia piano e Hammond B3, Jason Rosenblatt è un armonicista dalle capacità notevoli, e la sua bravura esce da tutte le note che suona nei tredici brani che compongono il CD. In particolare, come si evince dalle note biografiche pubblicate nel suo sito, è uno dei più grandi innovatori nell’utilizzo dell’armonica diatonica con cui fa scintille nel suo miscuglio tra swing, jazz, klezmer e blues che con il suo quartetto ci propone nel disco. Se l’iniziale rag che titola il disco è un tranquillo esercizio di bravura, la successiva Whazza! è già un altro pianeta e con Modern Life Blues scopriamo pure che il nostro è dotato di una voce interessante che si conferma anche in Cold Outside.

La predilezione di Rosenblatt è comunque per gli strumentali e un altro bell’esempio è Fairmount Blues, che oltre alla grande armonica mette in evidenza l’ispirazione del chitarrista Joe Grass, senz’altro uno dei pilastri del quartetto: nei suoi sei minuti il brano è sorretto da una ritmica di indubbia matrice jazz offre ricami e assoli di Grass e Rosenblatt che con la sua diatonica riesce ad emulare di volta in volta strumenti tipici della musica yiddish e klezmer come violino e clarinetto che però non sono in realtà presenti nel disco.

You’ll Miss Me è di nuovo cantata e la tela è sorretta da un piano ragtime e da un tappeto di Hammond che conquista da subito. Le atmosfere si fanno malinconiche con Waltz Querbers, un omaggio totale alla musica mitteleuropea delle sue radici e un ulteriore veicolo per i virtuosismi all’armonica.

Il disco prosegue con i blues Last Plane Out e C Harp Blues, quest’ultima molto jazzata e con la chitarra di nuovo in evidenza, con un bel break centrale ma un po’ stucchevole e risaputa. Il disco si avvia verso il finale con l’intima Hutchison che lascia poi spazio a Pocketful Of Sorrow, di nuovo cantata con enfasi da musical, You’ll Take The Highway, coinvolgente e blues nella sua totalità, ed infine Bay Mir Bist Du Mies, costruita su una ritmica molto jazz a dispetto del titolo yiddish fino al midollo.

LOWLANDS AND FRIENDS – Plays Townes Van Zandt’s last set

di Paolo Baiotti

11 gennaio 2017

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LOWLANDS AND FRIENDS
PLAY TOWNES VAN ZANDT’S LAST SET
Route 61 2016

In un periodo fortemente nostalgico per la musica rock che rivaluta sempre di più il glorioso passato confrontandolo con un incerto presente e con una perdita di centralità innegabile, i tributi sono diventati una normalità, sia quelli a determinati artisti sia quelli a un genere musicale, che si tratti di registrazioni in studio o di concerti organizzati con questo scopo. Nel 2016 il blues è stato omaggiato dai Rolling Stones e da Colin James, Blind Willie Johnson è stato ricordato dall’eccellente raccolta God Don’t Never Change, Bukka White da Rory Block, i Grateful Dead dal monumentale Day Of The Dead, Bob Dylan da Blonde On Blonde Revisited della rivista Mojo, Townes Van Zandt da Days Full Of Rain. Jerry Garcia, Emmylou Harris, Dr. John, The Last Waltz sono stati oggetto di concerti celebrativi…e l’elenco non è esaustivo.

Ma questo disco dei pavesi Lowlands di Edward Abbiati è un’altra cosa: un grande e rispettoso atto d’amore nei confronti di un artista, organizzato con pazienza e registrato con pochi mezzi tra ottobre 2015 e settembre 2016, partendo da un’idea molto particolare, quella di ricreare la scaletta dell’ultimo concerto del cantautore texano. Un concerto scelto non a caso, in quanto Abbiati, che ha trascorso parte degli anni novanta a Londra, era presente il 3 dicembre del ’96 al Borderline, il club vicino a Charing Cross nel quale Townes suonò in una fredda serata, davanti a un pubblico neppure troppo numeroso, lasciando un’impressione indelebile sul futuro leader dei Lowlands. Un mese dopo (esattamente il 1° gennaio ’97) un infarto stroncava la vita ancora giovane del cantautore nato nel ’44 a Fort Worth, precocemente invecchiato e con il fisico fiaccato da abusi di alcool e droghe e da gravi problemi di salute. Ricordo di avere visto Townes dal vivo due anni prima a Torino e a Sesto Calente nell’indimenticabile Only A Hobo Festival (con Joe Ely, Alejandro Escovedo e il trio Danko/Fjeld/Andersen). Già allora impressionava per fragilità e debolezza fisica, ma sul palco era straordinario, un artista che viveva la sua musica fino in fondo, alternando aneddoti divertenti (spesso incomprensibili) a momenti di emotività e di profondità inimmaginabili.

I Lowlands, aiutati da un gruppo di amici provenienti da tutto il mondo, ripercorrono quel set organizzandolo come una sessione radiofonica, con i commenti e le annotazioni del dj e produttore Barry Marshall-Everitt (ex manager del Borderline), per dare una continuità a brani che si differenziano per stile e atmosfera, affrontati allo stesso tempo con rispetto e coraggio.
Dovendo scegliere tra le quattordici interpretazioni, tutte meritevoli di citazione, propendo per Pancho And Lefty eseguita con The Lucky Strikes, Michele Gazich al violino e Sid Griffin al mandolino e armonica, nella quale la fisarmonica di Francesco Bonfiglio disegna una melodia che ricorda anche la No Surrender acustica di Bruce Springsteen, Dollar Bill Blues duetto vocale tra Abbiati e Marco Diamantini con l’aiuto della chitarra distorta di Michele Diamantini (i due fratelli sono la spina dorsale dei pesaresi Cheap Wine), la sofferta Katie Belle Blues con la voce waitsiana dello svedese Richard Lindgren, l’intensa ballata Marie con la voce di Will T. Massey e il piano di Bonfiglio, una ritmata e zingaresca Waiting Around To Die con i fiati, Gazich e Chris Cacavas (voce, piano e chitarra) e la struggente Tecumseh Valley in medley con Dead Flowers (come la eseguiva Townes), in cui Edward è accompagnato dal cantautore Rod Picott, da Mike Brenner alla lap steel e da Bonfiglio alla fisarmonica.

Un disco pregevole, di livello internazionale, molto curato anche nella parte grafica, che i Lowlands dovrebbero presentare in tour nei prossimi mesi con il nuovo chitarrista Maurizio Gnola Gliemo, sostituto di Roberto Diana che ha lasciato la band dopo queste registrazioni per dedicarsi alla carriera solista.

DAVID CROSBY – Lighthouse

di Paolo Crazy Carnevale

3 gennaio 2017

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DAVID CROSBY – Lighthouse (Verve/GroundUp 2016)

Forse vi farà ridere, ma il 2016 sia stato in qualche modo l’anno di CSNY: se la memoria non mi inganna credo sia stata la prima volta che nello stesso anno si siano visti dischi solisti di ciascuno dei quattro signori celati dietro la gloriosa sigla.
Non solo, credo anche che, a conti fatti, escluso il discutibile live di Neil Young, che le quattro prove di studio siano tutte dignitose, anche molto più che dignitose, e che in alcuni casi siano anche venute fuori delle signore canzoni.

La sorpresa più bella è forse questo disco di Crosby, un po’ per la bontà del contenuto, un po’ perché il baffuto canuto non è mai stato molto prolifico ed invece ad appena due anni dal disco precedente ci ha offerto questa nuova raccolta di canzoni che trovo molto più bella di quella del 2014. Non che Croz fosse un brutto disco, ma per i miei gusti era troppo laccato, sovrarrangiato, fastidioso nella sua impeccabilità, con le canzoni scritte in tandem da Crosby con i suoi collaboratori , gente il cui modo di scrivere musica è lontano anni luce da quello del Crosby solista che abbiamo amato in passato.

Stavolta Croz si è affidato alla partnership di un jazzista come Michael League (Snarky Puppy) e, udite udite!, è riuscito a fare un disco molto meno jazz dei precedenti (il disco del 2014 soffriva di quegli eccessi di sofisticazione che si potevano riscontrare ampiamente anche nella discografia dei CPR), atmosfere molto acustiche, soprattutto chitarre, un po’ di basso, qualche misurata intromissione dell’elettrica, organo azzeccatissimo e coriste nel finale.

Posto che il Crosby del primo disco (capolavoro inarrivabile, non si discute) e dei dischi degli anni settanta con Nash e gli altri soci era un’altra cosa, Lighthouse è il suo disco che ci restituisce maggiormente le composizioni ed i suoni di allora, senza esserne in alcun modo una copia a carbone: si tratta di un disco affascinante, avvolgente, dominato dagli arpeggi acustici e dalla sempre eccelsa voce che ben sappiamo. Va detto anche, a onor del vero, che non è un disco senza ombre, ma alla fine sono di più i pregi e questo basta. Quello che manca qui sono i cori e le armonie vocali, d’altronde sappiamo che la frattura tra Crosby e il suo compadre di armonie pare ormai insanabile e quindi il guru della musica californiana deve fare tutto da solo o con Michael League che per quanto ce la metta tutta non è certo Graham Nash; per il resto però c’è davvero quasi tutto, la voce, gli intrecci di chitarre, i testi introspettivi in cui si avverte l’urgenza di Crosby di fare fronte agli anni che ormai passano alla velocità della luce senza lasciare nulla di incompiuto.

League non è l’unico partner a livello compositivo del disco, in un brano le liriche sono opera di Marc Cohn e in uno la musica è di Becca Stevens (a sua volta proveniente dal giro Snarky Puppy), inoltre due canzoni sono a firma del solo Croz, e guarda caso sono tra le cose migliori del disco insieme al brano scritto con la Stevens.

Quaranta minuti, come si faceva una volta, nove brani: Lighthouse si apre con la buona Things We Do For Love, composizione nelle corde del Crosby più recente, The Us Below, che la segue è meglio, caratterizzata dalle belle chitarre e da elaborazioni armoniche molto riuscite, come ci si poteva aspettare dal titolare del disco. Drive Out To the Desert è più scarna, è firmata da Crosby in solitudine e ci sono solo le chitarre acustiche. Look In Their Eyes è il brano che mi piace meno, per via dell’atmosfera bossa nova che è parecchio lontana dai miei gusti, per altro però la performance vocale di David è notevole, forse una delle più interessanti e riuscite di tutto il disco. A chiusura del lato A (il disco è uscito anche in vinile per fortuna) c’è Somebody Other Than You altra canzone riuscita, abbastanza incalzante e con le chitarre in evidenza, peccato che nei cori si avverta decisamente la mancanza di un armonizzatore come Nash.

Voltiamo il disco e troviamo The City, stavolta la musica è tutta di Michael League, Croz è responsabile solo di parte delle liriche, il brano comunque gli calza addosso bene e può contare su un insinuante organo, opera di Cory Henry (anch’egli del giro Snarky Puppy), che si inserisce su armonie vocali più azzeccate di quelle del brano precedente, e poi c’è un break di chitarra elettrica di League che qui sembra voler citare a bella posta lo stile di Stephen Stills. Il brano composto con Marc Cohn è l’apprezzabile Paint You A Picture, una composizione molto intimista con le chitarre in punta di piedi e col piano di Bill Laurance ancor più soffuso; What Makes It So è invece il secondo brano con la firma del solo Croz ed è una delle perle del disco (ma sono molti i picchi alti di questo Lighthouse), ancora con l’organo che s’intrufola sapientemente, cantato da Crosby con voce ispiratissima e un bel lavoro delle chitarre rigorosamente acustiche: a tratti sembra addirittura di essere all’ascolto del primo disco di CSN, quello del divano, tanto il brano è classico nella sua struttura. La chiusura è affidata a By The Light Of Common Day con Crosby che scrive le liriche per una musica della Stevens, un gran brano, con le voci dei due autori supportate da quella di Michelle Willis, cantautrice canadese: il risultato è una canzone molto riuscita, decisamente in odore della west coast più tipica, degno suggello di un disco tanto bello quanto inatteso.