Archivio di agosto 2016

LIBBY KOCH – Just Move On

di Paolo Baiotti

29 agosto 2016

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LIBBY KOCH
Just Move On
(Berkalin Records 2016)

Texana purosangue nata a Houston, Libby ha vissuto a lungo in un ranch a Hampstead prima di trasferirsi a Nashville per frequentare la facoltà di legge alla Vanderbilt University, dove ha scoperto le proprie doti canore e lo scarso amore per le professioni forensi. Ha esordito nel 2009 con Redemption, seguito da altri tre dischi e recentemente da Just Move On, prodotto dall’esperto Bill VornDick (Lynn Anderson, Ralph Stanley, Jerry Douglas, Craig Duncan, Jim Horn…) in due giorni di sessioni a Nashville. Libby ha una voce vigorosa e incisiva, suona la chitarra elettrica e acustica, ha scritto tutte le canzoni dell’album ed è stata affiancata in studio da veterani di Nashville tra i quali Bobby Ogdin (Elvis Presley), Sonny Garrish (George Jones), Bruce Dees (Ronnie Milsap), Glenn Worf (Mark Knopfler) e Aubrie Haynie (Dolly Parton). La musica della Koch miscela influenze country e roots con un pizzico di pop e può ricordare Rosanne Cash, Patti Loveless e Mary Chapin Carpenter. Il versante country è rappresentato adeguatamente dalla mossa Bring You Down, dalla rallegrante You Don’t Live Here Anymore e dalla melodia pop di I’ve Been Blind, quello da autrice roots dalle ballate Out Of My Misery, Tell Me No Lies e dalla riflessiva Lady Luck, ma la traccia più significativa è Back To Houston, scritta il giorno successivo alla laurea, nella quella l’autrice riflette sulla decisione di lasciare Nashville per tornare in Texas. Pubblicata nel disco d’esordio come ballata acustica, viene arrangiata in modo più ritmato e accattivante con un azzeccato uso della chitarra elettrica e della lap steel.

ONO – Salsedine

di Ronald Stancanelli

26 agosto 2016

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ONO
Salsedine
Autoprodotto – Sfera Cubica 2015

Se vi piacciono ancora i Kraftwerk, recentemente con fasto esibitisi all’Arena di Verona, se siete passati non solo indenni ma anche soddisfatti tra Can, Tangerine Dream, Neu, Ashra Tempel e Popol Vuh, e soprattutto se accettate uno strano connubio tra queste impervie ma liquide forme musicali con una specie di talk/rap/recitato allora questo Salsedine degli emiliani Ono potrebbe fare per voi, parimenti passare oltre.
Gruppo nato a fine 2013 con Salsedine sono all’album di debutto, ove sei brani sono inediti e cinque tratti da precedenti EP per l’occasione riabbelliti e ri-registrati, alla fine anche una curiosa ghost track oltre a un ulteriore divertente e goliardica altra ghost. Tra le righe del testo della quarta traccia, L’infanzia e la maturità di mio fratello, impavidamente e coraggiosamente nascosto ripetutamente un omaggio a Fabrizio de Andrè.
Cesare Barbieri, voce ed elettronica, Edoardo Gobbi, chitarre, voce e synth, Mattia Santoni, basso, Lorenzo Gobbi, batteria e Michela Puddu splendida voce in due brani i componenti il gruppo.
In definita trattasi di una lunga suite elettronica infarcita qua e la di funk, pop, rap, post rock che ne delimitano i contorni, tappeto di leggeri ma significativi suoni elettronici intersecati a molteplici altre inventive sonore.
Escludiamo quindi dopo vari ascolti che si tratti di un mero album kraut ma di bensì, un tentativo di coniugare detto tema con altrettanti di altro genere costruendo alfine un lavoro certamente non facile, ne tanto meno semplice per creare adepti. Album che però raggiunge lo scopo, per noi ad esempio che solitamente abbiamo lo sguardo indirizzato verso altri settori musicali, di essere lavoro intelligentemente sensato e dotato pure certamente di inventiva e pregno di notevole piacevolezza. Ben vengano quindi album alternativi e meritevoli come l’anno scorso per noi fu More Lovely and More Temperate dei Johann Sebastian Punk. Ci permettiamo di consigliarlo e chiediamo di ascoltarlo con le dovute aperture che il disco necessita. La vostra pazienza sarà sicuramente appagata. Suggestiva la china di Francesco Farabegoli che compone la deliziosa copertina ed azzeccato il titolo che rimembra dolcemente i ricordi.

BIANCA DE LEON – Love, Guns & Money

di Paolo Baiotti

26 agosto 2016

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BIANCA DE LEON
Love, Guns & Money
(Bianca de Leon 2016)

Nata a Corpus Christi nel sud del Texas, Bianca si considera un incrocio tra una zingara americana, una cantastorie texana e una cantautrice. Ha pubblicato quattro dischi, compreso un live ad Helsinki, alternando influenze tex-mex e folk-rock, ma è più conosciuta in Nord Europa che negli Stati Uniti (escluso il Texas). Dotata di un voce melodica e accattivante che si adatta anche ai brani più ritmati e accompagnata da alcuni dei migliori musicisti locali come John Inmon alla chitarra (visto recentemente con Jimmy LaFave), Radoslav Lorkovic alle tastiere e Paul Pearcy alla batteria (Dixie Chicks, Willie Nelson), Bianca ha registrato dal vivo in studio a Austin un disco molto vario e interessante, alternando brani di ispirazione country come il singolo I Sang Patsy Cline e The Bottle’s On The Table, ballate cantautorati quali la dolente Independence Day e Stale Wine And Roses (nella quale la voce ricorda Margo Timmins dei Cowboy Junkies), il tex-mex di Buscando Por Ti e della sofferta This Time con il sax di Donny Silverman e il roots-rock malinconico di Guns & Money impreziosito dalla fisarmonica di Lorkovic. In chiusura c’è un forte richiamo alle radici texane con un pregevole medley di Nothin’ (Townes Van Zandt) e Ramblin’ Man (Hank Williams). Disco interessante di un’artista che potrebbe ottenere buoni riscontri anche dalle nostre parti.

ALLISON DIETZ – Pretty Lies

di Ronald Stancanelli

23 agosto 2016

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ALLISON DIETZ
Pretty Lies
2015 www.allisondietzmusic.com

Esordio per questa giovane cantautrice di Baltimora, Maryland dotata di una voce piacevolissima, quasi celestiale con dieci brani di cui nove a sua firma, alcuni assieme a Scott Smith che nell’album suona chitarre, sia elettrica che acustica, basso, tastiere, percussioni e fisarmonica, e una cover di Lennon-McCartney. Cresciuta nell’ascolto di artisti come Loretta Lynn, Dolly Parton, Patty Griffin, Willie Nelson, Lucinda Williams, Kris Kristofferson che sono tra i suoi favoriti propone un eccellente disco di poco più di mezzora ove la piacevolezza della sua voce è unita a un sapiente e dosato uso della strumentazione che la accompagna. L’impatto che ha avuto su di noi a questo primo ascolto è stato pari a quello avuto all’epoca al primo ascolto di Carrie Rodriguez, alla quale pensiamo favorevolmente di accomunarla. Entrambe con grande personalità e passionalità, dotate di voci intense e travolgenti, autrici di solidi e attuali testi che spaziano a 360 gradi su differenti interessante tematiche, entrambe di bella e travolgente bellezza.

La Allison con questo esordio, aiutata anche da John Thomakos, batteria, Peter Strobl, basso, Chelsea McBee, banjo, Nikia Burns, violino e Buddy Griffin, pedal steel si candida a promessa tra le più interessanti ascoltate negli ultimi tempi. La sua miglior caratteristica è il cantare in modo puro e solare, senza artifizi ne trucchetti alcuni, una voce semplice che colpisce e potrebbe spezzare facilmente i cuori. Sicuramente un’artista da seguire nel suo percorso. Tutti belli i pezzi proposti alcuno escluso, di conseguenza consigliamo l’album nella sua totale interezza anche se Can’t get Away e Pretty Lies sono decisamente straordinarie. Nella conclusiva Still Mad lo sguardo è rivolto verso la Lucinda ed è proprio la Williams più ispirata che ci ricorda questo splendido pezzo della Dietz. Prodotto registrato e mixato da Scott Smith. Bella la foto di copertina dell’artista catturata in uno sguardo dolcemente magnetico.

ELI BARSI – Portrait Of A Cowgirl

di Paolo Baiotti

23 agosto 2016

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ELI BARSI
Portrait Of A Cowgirl
Red Truck 2016

Nata in Canada e cresciuta in una fattoria del Saskatchewan, Eli ha registrato molti dischi a Nashville, compreso quest’ultimo ritratto di una mandriana. Affiancata dal marito John Cunningham al basso, influenzata da un’esperienza di vita campagnola, dal country tradizionale, dal bluegrass e dal gospel, brava anche come yodeller e dotata di una voce pulita e melodica, è giunta al tredicesimo disco, godendo di una discreta popolarità nel circuito western e gospel, oltre ad avere inciso albums religiosi e natalizi. Portrait Of A Cowgirl è un disco gradevole dal tono ottimista nei temi e nei testi, forse troppo leggero per i palati più avvezzi a un suono roots-rock. Tra i brani mossi spiccano Big Hat No Cattle, la title track dedicata alla madre arrangiata con una deliziosa miscela di dobro, mandolino e violino, il western swing di Prairie Skies e la scanzonata Country Music Was Made For Saturday Night. Sul fronte delle ballate segnalerei A Real Partner, duetto con Brett Kissel (emergente cantante country canadese), il raffinato western-walzer God Only Knows, l’eccellente I See You Everywhere e l’intimista Window Of The West. Pubblicato con il supporto del governo del Canada (ci sono paesi che si preoccupano di salvaguardare le tradizioni, anche musicali), Portrait Of A Cowgirl è un disco da grandi spazi, perfetto accompagnamento per un viaggio nelle praterie americane.

MICHAEL McDERMOTT – Willow Springs

di Paolo Crazy Carnevale

23 agosto 2016

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MICHAEL McDERMOTT – Willow Springs (Pauper Sky/Appaloosa 2016)

Devo dire che quando mi è giunto questo disco di Michael McDermott sono rimasto alquanto perplesso: avevo appena terminato di recensire il secondo disco dei Westies, la formazione con cui McDermott suona da un po’ di tempo e che di fatto è il suo gruppo, anche se la moglie Heater Horton si alterna a lui cantando di tanto in tanto. Scorrendo poi Ie note di copertina del disco mi era parso evidente che buona parte dei musicisti coinvolti in questo album da solo fossero quelli che suonavano anche nel disco di gruppo.

Al primo ascolto però ho capito quale fosse la differenza: questo è a tutti gli effetti un disco “solo”, sia per l’approccio più intimo in gran parte dei brani, sia per le tematiche affrontate dalle canzoni che sono molto più personali rispetto alle “storie” con personaggi incontrate nel disco dei Westies. Willow Springs è un gran bel disco, non che l’altro fosse brutto, ma questo ha qualche buona carta in più.

McDermott gioca in casa in tutti i sensi: il disco si intitola come il posto in cui è stato inciso e in cui McDermott vive, Willow Springs, Illinois, ed è pubblicato dalla sua etichetta personale, la Pauper Sky (che ha il nome di un brano dei Westies presente nel disco di qualche mese fa), e per finire è distribuito in Italia dall’Appaloosa che ne ha realizzato una curatissima edizione con un ricco booklet che oltre ai torrenziali testi, contiene anche la traduzione in italiano che aiuta non poco ad entrare nel mondo-McDermott.

Dodici brani che si incanalano nel genere rock d’autore all’americana, suonati bene, senza troppi fronzoli, belle chitarre, tastiere come si deve, qualche percussione, strumenti acustici a corda e quell’urgenza di mettersi a nudo attraverso liriche spesso crude e realistiche che sono il marchio di fabbrica del protagonista, un rocker dalla vita difficile, dal passato burrascoso ma dal presente infinitamente più sereno.

I riferimenti sono chiarissimi, se nei primi due brani si sente molto il Dylan stile Blood On The Tracks (ascoltate in apertura la title track, dal testo lunghissimo e infarcito di immagini che si susseguono suggerendo un’infinità di soluzioni, oppure la successiva These Last Few Days), proseguendo con l’ascolto però salta fuori prepotentemente Bruce Springsteen quello a cavallo tra The River e Nebraska: Getaway Car ne è un esempio lampante, gran canzone, a tutti gli effetti, come la seguente Soldiers Of The Same War con i controcanti azzeccati della Horton. Butterfly è un brano dall’incredibile drammaticità mentre con Half Empty Kinda Guy, con un drumming insistente ed una gran spolverata di simil-hammond, vira verso quel rock anelato in Folksinger (un paio di tracce dopo), nel cui testo il nostro dichiara di non voler essere più un folksinger appunto, e di non voler essere più cristiano, né un becchino, né un soldato, il tutto espresso con quella voce che ondeggia tra quella del boss più rilassato e quella del vetusto rocker Elliott Murphy, sicuramente un altro punto di riferimento incrollabile del suo modo di fare musica.

E se fin qui tutto va bene, il disco va verso la chiusura con quattro brani ancora migliori: Let A little Light In è una botta di positivismo, appena smorzata dalla triste ma bella Shadow In The Window ispirata dalla morte del padre (come la finale What Dreams May Come), seguita dal brano che mi piace maggiormente, quella Willie Rain che è un’autentica dichiarazione d’amore da parte di McDermott per la figlia.

NATHAN – Nebulosa

di Ronald Stancanelli

5 agosto 2016

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NATHAM
NEBULOSA
2016 Ams Records distrib da btf

I Nathan band ligure del savonese nascono come tribute band principalmente dei Genesis anche se non hanno mai disdegnato proporre pezzi sia dei Supertramp che dei Pink Floyd.

Il cd gentilmente inviatoci per recensione non aveva note alcune di accompagnamento quindi un po’ brancolando nel buio cerchiamo di dare luce e visibilità a questo gruppo che con l’ascolto di Nebulosa ci ha letteralmente entusiasmati.

Con l’audizione attenta di questo album possiamo assolutamente dire che il gruppo si sia lasciato alle spalle il lato semioscuro della cover band per passare ad un disco a loro firma, sono 12 brani di solida fattura caratterizzati dalla voce piacevole e limpida del cantante Bruno Lugaro; non sempre nel prog nostrano le voci sono direttamente proporzionali alle note musicali, qua invece si parte benissimo sia in questa direzione che con le note del primi due pezzi, La notte prima/Diluvio ove le tastiere di Piergiorgio Abba, la chitarra di Daniele Ferro e la batteria di Fabio Safilippo si intrecciano in modo profondamente denso e liquido di suoni accattivanti ed avvincenti. La produzione del lavoro è anch’essa a cura del gruppo. Il terzo brano, Nebulosa che da il titolo al cd ci fa capire data la consequenzialità delle vicende che trattasi di un concept, caratteristica consueta negli album degli anni settanta poi divenuta alquanto desueta e ultimamente ritornata piacevolmente in auge. In Io resto qui, quarta traccia, interessantissimo e suggestivo lavoro alle tastiere. Le vicende narrate da questo appassionante ed avvincente album ci parlano della totale migrazione di un popolo da un mondo all’altro alla spasmodica e necessaria ricerca di acqua. Partendo quindi da un pianeta che ha ormai esaurito le sue risorse idriche si viaggia appunto alla ricerca di una soluzione, un pianeta vivibile con tutte le ovvie caratteristiche necessarie e Nebulosa è una specie di cometa/maga/veggente/condottiera, non si capisce bene se immaginaria o effettivamente reale che mostra il percorso alla comunità o popolo. Non è dato sapere quanto numerose siano queste maestranze in viaggio, Tragitto che detti viaggiatori debbono percorrere nel loro affannoso cercare. Nel profondo/La coltre viola possono portare alla memoria, in special modo la seconda, echi del passato genesiano/gabriellano e nel loro incedere sono oltremodo suggestive e cariche di pathos progressivo. Il gruppo si caratterizza rispetto ad altri nostrani dello stesso genere per la pulizia dei suoni, la bellezza della voce e la capacità di lasciarsi ascoltare con attenzione e senza che nulla sia fuori posto potendo quindi fuorviare l’ascoltatore, pregio questo che ci fa deputare questo lavoro non solo degno d’esser ascoltato ma foriero d’esserlo in un contesto idoneo come il prestigioso Premio Tenco che potrebbe in questa occasione aprirsi a soluzioni sia interessantissime che leggermente diverse. A ferro e fuoco è sapientemente e vivacemente dipinta dal piano di Marco Milano e dalla risoluta chitarra di Ferro che dettano tempi splendidi. Volendo ci si possono leggere reminescenze di un progressive passato, qualcosa potrebbe rimandare alle migliori Orme o alle pagine più intense dei New Trolls, ma i Nathan in questo album sono soprattutto se stessi con una forza, una vitalità invidiabili ed incredibili e il loro viaggio e quello dei loro protagonisti marciano in simbiosi perfetta con una comunanza di suoni ed intenti strepitosi. Splendida Il Tempo dei Miracoli, forse la pagina più suggestiva dell’album con tappeti sonori di fulgida bellezza e massimo coinvolgimento per l’ascoltatore. L’Attesa, ricca di tastiere importanti e di un testo decisamente avvincente è ulteriore frammento di sapida bellezza, qua lo stile volendo, potrebbe ricordare i primi Delirium, quelli con Fossati. Nei tre brani conclusivi il Fiume sa/Comandava il Vento/Quando Volo, alquanto genesiana la prima, il viaggio si avvia a giungere al termine e la Nebulosa apportatrice di luce, cooperazione e sostegno ha esaurito il suo compito.

E’ solo inseguendo l’Ignoto che il nostro sangue palpita di vita! Un grande album che esalta certa nostra musica magnificamente ed in modo esaltante.

Tra lo spettrale e l’horrorifico l’eloquente copertina. Disponibile anche in vinile.

WALTER SALAS HUMARA – Explodes And Disappear

di Ronald Stancanelli

5 agosto 2016

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WALTER SALAS – HUMARA
EXPLODES AND DISAPPEARS
Blue Rose 2016

Walter Salas-Humara, musicista e pittore di origine Americana-cubana non è un novellino anche se decisamente poco noto da noi. Al suo attivo 17 album coi Silos, gruppo da lui formato con Bob Rupe nel 1985 a New York. Il primo loro disco appunto del 1985 e l’ultimo nel 2011. Un pool di Rolling Stone li eleggeva nel 1987 Best New American Band dell’anno! All’epoca fu descritta sul New York Times come una band con caratteristiche aggrovigliate tra loro di Velvet Underground, R.E.M. e Gram Parsone. Tredici album a suo nome, il primo nel 1988 e altri 6 di altri artisti da lui prodotti. Abbiamo adesso tra le mani il suo ultimo interessante e gradevole cd, durata 42 minuti come più o meno dovrebbe durare un disco. Voce vellutata e piacevole per dieci canzoni di allegra e solare estrazione. A tratti ritmi latini, qua e la ballate di solida appartenenza a un mondo musicale che sta a cavallo tra California, Florida e Colorado, e via con un disco che se forse non farà gridare al capolavoro ma sicuramente è album piacevole e benemerito per dei lunghi viaggi in automobile dove i suoi ritmi e le sue armonie faranno piacevolmente compagnia. In detto cd non si possono non annotare la splendida Working the Waterfront, gioiellino dell’album, la sincopata Don’t tear me down dal sapore dolceamaro e la ballata folk dal retrogusto british che ricorda moltissimo il miglior David Gray. Prodotto e mixato da lui stesso medesimo il disco scorre veramente in modo piacevole e l’aiuto dei musicisti coinvolti nella tenzone che suonano in punta di dita e piedi in modo quasi minimale regalano un lavoro di piacevole fattura ed estremamente affascinante. Ce ne fossero tutti i santi giorni di dischi così. Molto divertente anche Penelope dal ritmo allegro e vivace, anch’essa debitrice di qualcosa nei confronti del Gray più cadenzato, molto intenso il lavoro al piano di Philipp Knapp. Confezione cartonata con due bellissime foto sia front cover che specialmente back cover e con i testi all’interno della stessa.

Penso questo album possa incuriosire e portare a guardare indietro verso suoi precedenti lavori e anche verso quello che faceva coi Silos, Buone ricerche!